Copertina
Autore Eliette Abécassis
Titolo Lieto evento
EdizioneMarsilio, Venezia, 2006 , pag. 168, cop.ril.sov., dim. 145x220x20 mm , Isbn 978-88-317-8969-1
OriginaleUn heureux événement
EdizioneAlbin Michel, Paris, 2005
TraduttoreMaria Laura Vanorio
LettoreGiorgia Pezzali, 2006
Classe narrativa francese
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Pagina 7

Quel giorno, aprendo gli occhi, mi sentivo strana. Ero sdraiata sulla schiena e, sollevando il capo, notai una strana protuberanza davanti a me. Mi faceva male ovunque. Dopo dieci ore di sonno, ero stanca e avevo ancora bisogno di dormire. Sentivo un prurito alla bocca dello stomaco. Feci uno sforzo notevole per alzarmi e tentare di individuarne l'origine, ma era impossibile: la pancia mi ostruiva la vista. Sollevando la coperta, vidi l'addome: ai lati giacevano braccia e gambe, come degli stecchi.

«Cosa mi è successo?» mi dissi dandomi un pizzicotto: ma non era un sogno, mi trovavo proprio a casa mia, tra quattro pareti bianche. Sul comodino, la lampada e il mio libro preferito: Il secondo sesso di Simone de Beauvoir. Per terra, tele e fotografie di ogni genere che il mio ragazzo accatastava lì prima di portarle nella sua galleria.

«E se tornassi a dormire senza pensarci più?» mi dissi.

Ma era impossibile. Come una tartaruga capovolta, ero incapace di muovermi e di girarmi sul fianco per addormentarmi. Provai a spostarmi sul lato sinistro, ma il peso mi fece ricadere bruscamente sulla schiena.

Mi sforzai di sollevare la testa per guardare la sveglia elettronica, che segnava le 8:45. Alle 9:30 avevo appuntamento con il mio direttore di ricerca. Se anche ce l'avessi fatta ad alzarmi, come potevo presentarmi in quelle condizioni? Già mi era stato difficile riuscire ad avere un rapporto paritario con lui. Quale bugia avrei potuto raccontargli per giustificare la mia trasformazione?

Mentre ero immersa in questi pensieri, squillò il telefono: il numero apparso era quello di mia madre. Sollevai il ricevitore. Un piccolo tremito all'angolo dell'occhio sinistro tradì un'emotività eccessiva. Senza dire una parola, posai il telefono sul comodino, mentre mia madre continuava a parlare nel vuoto, come se niente fosse, rimproverandomi di non averla chiamata e di non andare mai a trovarla.

Con rabbia gonfiai il ventre, inarcai la schiena, gettai via la coperta e feci un nuovo tentativo. Impossibile. Avevo bisogno che qualcuno mi sollevasse. Peccato che Nicolas fosse già andato al lavoro! Avrebbe potuto aiutarmi. Ma no: ero sola. Dovevo cavarmela da me. Cominciai a girare prudentemente la testa sperando che il resto avrebbe seguito. Questa tecnica diede i suoi frutti e finalmente il corpo, a dispetto delle dimensioni e del peso, segui lentamente la rotazione del capo. Ma quando, dopo ulteriori sforzi, appoggiandomi su un braccio, riuscii a trascinare il ventre fuori dal letto, mi ritrovai in equilibrio su una gamba sola, come un airone. C'era un'unica soluzione, fare contrappeso per mettermi in piedi. Avevo paura di cadere. Guardai la sveglia e mi accorsi che erano già le nove. Pazienza! Dovevo correre il rischio.

Presi lo slancio, contando uno, due, tre, mi gettai fuori dal letto e caddi a terra. Il rumore del mio corpo risuonò sul parquet.

Emisi un sospiro di sollievo. Adesso dovevo alzarmi di là, ma era più facile perché potevo appoggiarmi al letto.

Prima di provarci, feci una pausa.

Fu allora che mi vidi, riflessa nello specchio: a quattro zampe, le guance cascanti, lo sguardo spento, le narici dilatate. O ero diventata un cane o ero incinta.

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Pagina 22

Quella mattina, mi svegliai stordita come dopo una festa. Alzandomi fui invasa da un senso di pesantezza. Avevo la nausea. Ero lì a sbadigliare e salivare, nel dormiveglia. Finii per andare in cucina, rallegrandomi all'idea di preparare un benefico caffè. Ma il suo sapore sensuale si era trasformato in un odore acre, nauseante, che invece dell'atteso piacere vellutato mi provocò un disgusto così profondo da costringermi a posare la tazza, uscire in tutta fretta e chiudere la porta della cucina per evitare che l'aroma invadesse anche il salotto.

Mi turai il naso, aprii la finestra per respirare un po' d'aria e assicurami di essere veramente sulla terraferma e non su una nave. Nessun dubbio: i ragazzi che scaricavano scatole di ceci, i clacson delle auto ferme dietro di loro, i camion della spazzatura, i pedoni frettolosi con le barbe arruffate erano la prova che mi trovavo veramente in rue des Rosiers.

Dall'altro lato della strada, due cuochi srilankesi discutevano fumando una sigaretta che mi fece quasi soffocare. Chiusi la finestra, perplessa. Passai tutto il giorno a vagare per l'appartamento in preda ai sentimenti più contraddittori, incerta tra l'idea di andare dal medico e la paura di trovarmi di fronte a un verdetto definitivo. Guardai lo specchio e articolai «Barbara Dray» per convincermi che quei capelli neri, quegli occhi scuri, quella bocca dalle labbra accese e quelle lentiggini erano proprio i miei, che ero io nello specchio e non un'altra giovane donna sulla trentina venuta a sostituirsi a me durante la notte.

La sera fu ancora più strano: io che di solito mangio solo vegetariano e macrobiotico, fui presa improvvisamente da una furiosa voglia di carne. Nicolas, entusiasta della novità, mi propose di andare a cena fuori. O forse fui io a portarlo. Entrando da Mivami in rue des Rosiers, fui assalita da una quantità di odori che mi fece girare la testa. Sotto gli occhi increduli del mio compagno, divorai una bistecca intera, dopo averci versato sopra mezzo vasetto di senape. Assaporai il gusto delle patatine fritte impregnate di olio d'arachidi. Fiutai gli odori mescolati di cumino, chiodi di garofano, pepe e curcuma, riuscendo a scomporne gli aromi. Quel ristorante era una festa dei sensi. Avvertivo anche gli odori degli uomini: il sudore dei camerieri, i profumi di cui riuscivo a riconoscere la marca. Alcune fragranze mi piacevano altre mi disgustavano.

Il giorno seguente decisi di acquistare un test di gravidanza alla grande farmacia di rue des Archives. Entrando nel negozio, mi prese il panico. Al bancone, c'erano un uomo e una donna: non sapevo verso chi dirigermi. Se mi fossi rivolta alla donna, avrei trovato complicità, ma non era quel che desideravo.

E tuttavia rivolgermi all'uomo era un po' imbarazzante, mi sembrava innaturale. Tra l'altro lo conoscevo, l'avevo incontrato qualche sera prima in un bar del quartiere. Non sapevo cosa dire. Alla fine optai per una cura di vitamine e uscii imprecando contro me stessa, che come al solito mi perdevo in un bicchiere d'acqua.

Entrai in una seconda farmacia un po' più distante, un negozietto di rue Vieille-du-Temple dove c'era solo una donna sulla quarantina, quindi nessuna esitazione possibile. Per scaramanzia, comprai due test. Sempre per scaramanzia, quella sera avevo un appuntamento, ma non con Nicolas. E poi quale scaramanzia? Non sapevo bene cosa volevo. A dire il vero, non lo sapevo più.

Ma ecco: il test era inequivocabile, ero incinta. Formulai questa frase senza crederci troppo. Con le mani che tremavano, contemplai il risultato, immobile, sbalordita. Rimasi per un attimo senza fare nulla, volevo approfittare del mio ultimo momento di solitudine. Mi rendevo conto che veniva girata una pagina della mia esistenza, anche se non sospettavo ancora che la mia intera esistenza sarebbe stata sconvolta. Per tutto il pomeriggio rimasi davanti al computer, incapace di lavorare all'articolo che avrei dovuto scrivere sulla "questione dell'altro da Husserl a Merleau-Ponty".

Incapace di concentrarmi sulla tesi di dottorato, come su qualsiasi altro argomento, in preda a un'intensa eccitazione scaturita dal più profondo di me stessa, scioccata da ciò che stava succedendo, e anestetizzata più dall'enormità dell'avvenimento che dalla gioia della notizia. Sola con me stessa, sola di fronte a questa vita nuova. Con la strana sensazione che stesse per accadere qualcosa di irreversibile e immenso, qualcosa di cui non potevo nemmeno cominciare a immaginare tutte le conseguenze, anche se già ne avevo un vago presentimento.

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Pagina 46

Sono preoccupata per un'idea assurda: si parla molto delle sofferenze di Gesù ma per niente di quelle di Maria. Durante l'insonnia, mi è capitato di vedere un documentario su un parto in un paese africano. La donna non ha emesso un grido, neanche un suono è uscito dalle sue labbra, né da quelle del neonato, che è stato necessario rianimare con la respirazione bocca a bocca. Forse è così che Maria ha partorito. Ma come facevano le donne prima della peridurale?

E come ha fatto mia madre? Perché non mi ha detto nulla? Perché nessuno mi ha spiegato?

Le donne incinte hanno varie decisioni da prendere: peridurale o no, allattamento o biberon, farsi dire o meno il sesso del bambino, amniocentesi o no. Sono i grandi dubbi delle donne incinte. Si riassumono in un'unica domanda: maledizione o no? Interrompere o no? Alcune donne, come gli uomini, si tuffano nel lavoro senza sapere che è una maledizione. Ma le donne, dopo la liberazione, oltre alla propria si sono addossate anche la maledizione dell'uomo: non soltanto partoriscono, ma lavorano. Noi donne siamo punite, maledette naturalmente e culturalmente.

In seguito, come per magia, tutto si è cancellato dalla mia memoria. Razionalmente so di aver provato molto dolore, ma psicologicamente è come se non avessi sentito nulla. Come se tutto ciò non fosse capitato al mio corpo, ma mi fosse stato raccontato da qualcun altro. Secondo me, è per questo che le donne non ne parlano o provano imbarazzo, ed è il motivo per cui riescono ad avere più figli, ipotesi che, al momento del parto, sembrerebbe impossibile. Si cancella tutto! Nel cervello dev'esserci un programma che elimina il ricordo del dolore del parto. Ogni volta che tento di rammentare quello che ho provato, la memoria resiste. Le tracce si dissolvono quando cerco di evocarle. Peggio ancora: man mano che passa il tempo, ci penso sempre più come a una sofferenza gradevole. Come a un momento difficile, ma piacevole. Ho una certa nostalgia delle contrazioni che precedono la nascita. Razionalmente so che è stata dura. Psicologicamente ne conservo un ricordo commosso.

Sto partorendo. Sento un passo dietro di me, un respiro. Nicolas. È così: si comincia con l'amore e si finisce con i piedi bloccati dalle cinghie. Abbiamo paura di starnutire davanti all'altro, e ci ritroviamo lì, davanti a lui, a gambe divaricate, col sangue che scorre, il sesso aperto nel gran trauma della nascita. Un errore madornale, mi dico, sto commettendo un errore madornale.

Era stato Nicolas a scegliere l'ospedale Notre-Dame-du-Bon-Secours (forse è questo nome a farmi pensare sempre alla povera Maria) perché il suo amico Marc lavora lì come anestesista.

Marc è lì, accanto a Nicolas. Sentendo i miei lamenti, ha azionato la famosa pompa, tanto che la parte inferiore del mio corpo è diventata completamente insensibile. La peridurale è un grandissimo progresso dell'umanità. È uno sberleffo a Dio che ha punito Eva. In un minuto passo dall'inferno al paradiso.


Improvvisamente il mio compagno esce dalla stanza correndo. Poi un fracasso: è crollato, svenuto. L'équipe medica mi abbandona per occuparsi di lui. Più tardi, saprò che mi avevano praticato un'episiotomia per lasciar passare la bambina.

Che è lì, sulla mia pancia, di schiena.

Il ginecologo dice all'ostetrica di far ritornare il padre. Compare, stravolto. È scioccato. A dispetto di quanto afferma Laurence Pernoud edizione 2000, non è una buona idea far assistere gli uomini al parto, proprio come sostiene il Laurence Pernoud del 1967. Io non ho visto nulla perché c'era una tenda a nascondere tutto. Ma lui ha l'aria stravolta, come se avesse appena finito di vedere un film dell'orrore con sua moglie per protagonista. È inebetito. Gli uomini sono creature fragili. Sono troppo sensibili. Non hanno conosciuto le mestruazioni, le nausee, la gravidanza, il parto, l'episiotomia. Gli uomini sono donne felici.

Nicolas guarda il bebè sulla mia pancia. Solo allora sorride. Io continuo a non vedere il viso dell'angioletto — che lungi dall'essere il neonato roseo e sorridente che mi aspettavo ha tutte le caratteristiche della scimmia: peloso, sporco, gocciolante grasso e secrezioni, rosso e violaceo, poco attraente.

Lo portano via, ho visto soltanto un sederino peloso adagiato sulla mia pancia.

Sono sola, nella sala parto da più di due ore. Voglio vedere la bimba. È impossibile perché ho la febbre. Nicolas ha seguito il sederino e le ostetriche indaffaratissime.

Ciascuno di noi ha vissuto quei momenti per conto suo e ciascuno ne è uscito solo, separato. So già che c'è un prima e un dopo. Lui, perché ha visto ciò che non avrebbe dovuto vedere. Io, perché l'ho visto non riuscire a sopportare quello spettacolo. Io, nella vergogna della nudità assoluta del parto. Lui, nell'orrore della rivelazione del mistero della vita. La vita è un caos in cui alcuni si sforzano di mettere un po' d'ordine: gli unici che non hanno paura del corpo, che non sono terrorizzati dalla vita, si chiamano medici. Gli altri mortali si rifugiano nell'illusione che la vita sia spirituale e che la nascita sia amore.

Marc aveva suggerito a Nicolas di assistere all'episiotomia, ma per fortuna lui ha avuto la saggezza di perdere i sensi.

Marc ha insistito con me perché ammirassi nello specchio il lavoro di cucitura sulla mia vagina.

Durante il parto vi lacerano dentro e vi ricuciono con ago e filo.

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Pagina 98

Nonostante il lavoro, Nicolas si occupava sempre più della bambina. Appena rincasava, si precipitava verso di lei, salutandomi a stento. Poi la cambiava, l'addormentava cantandole delle canzoni, la portava a spasso nella piazzetta, le faceva il bagno, giocava con lei. Mi guardava con gelosia mentre l'allattavo. Un giorno confessò di essere invidioso della relazione che avevo con la bambina; anche lui avrebbe voluto allattarla per sentire quella vicinanza. Quando la sera tornava molto tardi, si soffermava a guardarla a lungo. Se dormiva, sperava si svegliasse per poterla vedere, abbracciare, cambiare. Mi era difficile riconoscere in questo padre perfetto l'uomo con il giubbotto di pelle che rifiutava il matrimonio.

Quando facemmo richiesta di un posto al nido, ci risposero freddamente che avremmo dovuto iscrivere la bambina molto prima del concepimento o conoscere qualcuno in municipio. Allora decidemmo di ricorrere a una tata, che costava cara, e quindi Nicolas diventò ancora più nervoso e preoccupato per il suo lavoro.

Pretese di essere presente per la scelta della tata e si prese addirittura un giorno di ferie.

Nei forum il suo nome in codice è "bs". Baby-sitter.

Da lei ci aspettiamo: che sia professionale, dolce e calma, che ami i bambini, che abbia esperienza, che si adatti agli orari, che non imponga i suoi e soprattutto che non chieda troppo, nonostante la situazione sia critica.

Per sceglierla, organizzammo un vero e proprio casting di tate.

A prima vista non ci piacciono. È chiaro, non ci piacciono. A loro dobbiamo affidare ciò che abbiamo di più caro, di piu bello, la carne della nostra carne.

In un pomeriggio vedemmo: una polacca che non parlava francese, un colombiano scappato per la guerra civile, una marocchina senza permesso di soggiorno, una srilankese che si era rifugiata qui dopo essere stata perseguitata dalle Tigri tamil, una ivoriana venuta in Francia per garantire la sopravvivenza dei suoi figli rimasti lì... Tutta la miseria dell'umanità sfilò in un pomeriggio nel nostro appartamento.

Da quando avevo partorito, ero eccessivamente sensibile e vulnerabile, come se avessi portato sulle spalle tutto il dolore del mondo. Diventando madre, ero diventata madre universale.

Ero ossessionata dai bambini. Prima non mi interessavo affatto agli angioletti. Dopo, mi sembrava che tutte le donne fossero incinte o madri e le guardavo con attenzione, per strada, in televisione. Soffrivo quando un bambino soffriva. Ecco perché avrei voluto assumerle tutte. Soprattutto non sopportavo l'idea che l'ivoriana avesse lasciato i figli per venire a lavorare qui e provvedere ai loro bisogni. Tuttavia Nicolas attirò la mia attenzione sul fatto che il criterio della scelta non doveva essere la povertà o la sfortuna, ma la capacità di occuparsi della nostra progenie. Alla fine, dopo un'aspra discussione, optammo per Paco. Paco era l'uomo che faceva le pulizie più veloce del vento. Gli occhi neri, i capelli lunghi, arrivava al mattino, si metteva a torso nudo, scoprendo i suoi pettorali glabri prima di infilare una canottiera. Poi si metteva al lavoro, passava l'aspirapolvere, stirava, inchiodava, avvitava, svitava e lavava i piatti contemporaneamente. Ma la cosa in cui Paco sfiorava la perfezione era il bricolage. Con lui non c'era più bisogno dell'addetto di Darty. Paco riparava tutto ed era un punto importante per la pace della nostra coppia.

Ma c'era un problema: non gli piaceva cambiare la piccola. Per il biberon, le canzoni, le passeggiate era perfetto. Ma per farle il bagnetto e cambiarla, era una vera catastrofe. Da buon sudamericano maschilista, rivendicava un'assoluta incompetenza in questo campo.

A malincuore, fui costretta a separarmi da Paco. Nell'attesa di un altro candidato, mi occupavo della bambina dalla mattina alla sera. Quando Nicolas tornava dal lavoro, lo aspettavo sul piede di guerra, in agguato dietro la porta. Spettinata, sporca, svestita, con la bambina tra le braccia, come la bisbetica domata.

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