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| << | < | > | >> |Pagina 5Capitolo primoPrinceton, d'estate, non aveva odore, e anche se a Ifemelu piacevano la verde tranquillità dei tanti alberi, le strade pulite e i palazzi imponenti, i negozi un filo troppo cari e la quieta, persistente aria di meritata grazia, era proprio questo, l'assenza di odore, ad attirarla di piú, forse perché le altre città americane che conosceva bene avevano tutte un odore ben distinto. Philadelphia aveva l'aroma muffito della storia. New Haven sapeva di abbandono. Baltimora puzzava di salamoia e Brooklyn d'immondizia scaldata dal sole. Ma Princeton non aveva odore. Lí le piaceva respirare a pieni polmoni. Le piaceva osservare la gente del posto che guidava con ostentata cortesia e parcheggiava le auto ultimo modello davanti al negozio di prodotti biologici in Nassau Street, davanti ai ristoranti di sushi o di fronte alla gelateria dai cinquanta gusti diversi, peperoncino incluso, o fuori dall'ufficio postale, dove gli impiegati espansivi balzavano incontro ai clienti per salutarli. Le piaceva il campus, grave di conoscenza, i palazzi gotici coi muri adorni di tralci di vite e il modo in cui tutto si trasformava, nella fioca luce notturna, in una scena spettrale. Le piaceva, piú di ogni altra cosa, il fatto che in quel luogo di agio e benessere poteva fingere di essere un'altra, una che per concessione speciale era stata ammessa a un sacro circolo americano, una ammantata di certezze. Ma non le piaceva il fatto di dovere andare fino a Trenton per farsi le treccine. Era assurdo aspettarsi un salone afro a Princeton — i pochi neri che aveva visto sul posto avevano la pelle cosí chiara e i capelli cosí lisci che non riusciva proprio a immaginarseli con le treccine — eppure, aspettando il treno a Princeton Junction in un pomeriggio avvampante di calore, si domandò perché mai non ci fosse un posto dove farsi le treccine. La barretta di cioccolato che aveva in borsa si era squagliata. In attesa sul binario c'erano altre persone, tutte bianche e magre, con vestiti corti e leggeri. L'uomo piú vicino a lei mangiava un cono gelato; a lei gli adulti americani che mangiavano il gelato nel cono erano sempre sembrati un po' irresponsabili, soprattutto quelli che lo mangiavano in pubblico. Quando infine il treno entrò sferragliando in stazione, il tizio le si rivolse dicendo: - Era ora! - con la familiarità degli sconosciuti che condividono il disappunto verso un servizio pubblico. Gli sorrise. Aveva i capelli grigi pettinati in avanti in un comico riporto che gli nascondeva la pelata. Doveva essere un professore universitario, ma non di materie umanistiche, altrimenti sarebbe stato piú impacciato. Forse insegnava una scienza esatta, come la chimica. Una volta lei avrebbe risposto: «Eh, lo so», la tipica espressione americana che esprimeva accordo piuttosto che conoscenza, e poi avrebbe iniziato una conversazione con lui per vedere se le diceva qualcosa da usare nel blog. Molti erano lusingati da quell'attenzione e se lei non replicava erano indotti a continuare. Dovevano per forza riempire i silenzi. Se le chiedevano cosa faceva, lei restava sul vago: - Scrivo un blog di costume, - perché se avesse detto: «Ho un blog anonimo chiamato Razzabuglio, o varie osservazioni sui Neri Americani (un tempo noti come negri) da parte di una Nera Non Americana», li avrebbe messi a disagio. In certi casi lo aveva detto, comunque. Una volta, a un bianco coi rasta che le sedeva accanto sul treno, i capelli come vecchie funi con le punte di bionda lanugine, la camicia logora indossata con un tale pathos da convincerla che fosse un guerriero sociale e che sarebbe stato un ottimo ospite del suo blog. - Al giorno d'oggi si parla di razza fin troppo, i neri dovrebbero andare oltre se stessi, è tutta questione di classe sociale, ormai, di avere o non avere, - le aveva detto in tono pacato, e lei aveva usato quella frase come inizio di un post dal titolo «Non tutti i rasta americani bianchi sono depressi». Poi c'era stato quel tizio dell'Ohio, strizzato accanto a lei su un aereo. Doveva essere un manager di medio livello, a giudicare dal completo troppo largo e dal colletto a contrasto. Voleva sapere cosa intendesse per «blog di costume» e lei glielo aveva detto, aspettandosi una reazione di chiusura o che lui mettesse fine alla conversazione con una banalità difensiva del tipo: «La sola razza che conta è quella umana». Invece le aveva risposto: - Ha mai affrontato il tema dell'adozione? Nessuno vuole bambini neri in questo paese, e non dico bambini birazziali, dico proprio neri. Neppure le famiglie di neri li vogliono. Le raccontò che lui e la moglie avevano adottato un bambino nero e che i vicini li guardavano come se avessero scelto di immolarsi per una dubbia causa. Il suo post su di lui, «Un quadro intermedio malvestito dell'Ohio non è sempre quel che si pensa», aveva ricevuto il maggior numero di commenti per quel mese. Si chiedeva ancora se lui lo avesse letto. Sperava di sí. Spesso, seduta nei caffè, negli aeroporti o nelle stazioni, guardava gli estranei, immaginando la loro vita e chiedendosi chi di loro avrebbe potuto leggere il suo blog. Il suo ex blog, ormai. Aveva scritto l'ultimo post solo qualche giorno prima, seguito da duecentosettantaquattro commenti. Tutti quei lettori, che crescevano mese dopo mese, che linkavano e condividevano i suoi scritti, che ne sapevano tanto piú di lei, l'avevano sempre spaventata ed entusiasmata. SapphicDerrida, una delle commentatrici piú assidue, aveva scritto: «Mi sorprende un po' prenderla cosí tanto sul personale. In bocca al lupo per il tuo non meglio identificato "cambiamento di vita", ma per favore torna presto alla blogosfera. Con la tua voce irriverente, minacciosa, comica e provocatoria hai creato uno spazio di conversazioni vere su un tema importante». Lettori come SapphicDerrida, che snocciolavano statistiche e usavano nei commenti termini come «reificare», le avevano sempre messo l'ansia, la smania di rinnovarsi e far colpo. Cosí, nel corso degli anni, aveva cominciato a sentirsi un avvoltoio che spolpava le carcasse delle storie personali per trovare qualcosa da sfruttare. A volte i riferimenti alla razza erano labili, altre volte non ci credeva neppure lei. Piú scriveva, piú diventava insicura. A ogni post grattava via un'altra scaglia di sé, finché non si ritrovò nuda e falsa. Sul treno il tizio del gelato le si sedette accanto e lei, per scoraggiare la conversazione, fissò una macchia marrone di Frappuccino ai suoi piedi finché non arrivarono a Trenton. Il binario era pieno di neri, molti dei quali grassi, con vestiti corti e leggeri. La stupiva ancora quanta differenza facessero pochi minuti di treno. Durante il suo primo anno in America, quando prendeva la New Jersey Transit fino alla Penn Station e poi la metropolitana per andare a trovare zia Uju a Flatlands, si stupiva di come alle fermate di Manhattan scendessero soprattutto bianchi magri e, man mano che il treno si addentrava in Brooklyn, rimanessero perlopiú viaggiatori neri e grassi. Ma al tempo non li avrebbe definiti «grassi». Avrebbe pensato piuttosto che fossero «grossi», perché una delle prime cose che le aveva detto l'amica Ginika era che in America «grasso» era una brutta parola, carica di giudizio morale quanto «stupido» o «bastardo», e non una semplice descrizione, come «basso» o «alto». E perciò aveva bandito «grasso» dal suo vocabolario. Ma la parola le si era ripresentata l'inverno prima, dopo quasi tredici anni, quando un uomo in fila dietro di lei alla cassa del supermercato aveva borbottato: - I grassi non dovrebbero mangiare quella merda, - mentre lei pagava un pacco gigante di tortilla chips. Gli aveva lanciato uno sguardo stupito e vagamente offeso, e si era detta che il fatto che quel tizio avesse deciso che lei era grassa poteva essere un perfetto articolo per il blog. Avrebbe archiviato il post con il tag «razza, gender e taglia». Ma una volta a casa, affrontando lo specchio e le sue verità, aveva capito di avere ignorato per troppo tempo che i vestiti le erano diventati stretti, che le cosce sfregavano tra loro e che le parti piú morbide e tonde del suo corpo sobbalzavano a ogni movimento. Era proprio grassa. | << | < | > | >> |Pagina 60Lei appoggiò la testa alla sua e provò per la prima volta quello che avrebbe spesso provato con lui: l'amore di sé. Attraverso lui apprezzava se stessa. Con lui si sentiva a proprio agio; si sentiva la pelle della taglia giusta. Gli disse che avrebbe voluto tanto che Dio esistesse ma che temeva non ci fosse, che avrebbe desiderato sapere cosa fare nella vita ma che non sapeva neppure cosa studiare all'università. Pareva cosí naturale parlare con lui di questo e di quello. Non le era mai successo prima. La fiducia, cosí improvvisa eppure completa, e il senso di intimità la spaventavano. Appena poche ore prima non sapevano nulla l'uno dell'altra, eppure già prima che ballassero c'era confidenza, e ora lei riusciva a pensare solo a tutte le cose che voleva ancora raccontargli, che voleva fare con lui. Le somiglianze tra le loro vite diventarono segni positivi: erano entrambi figli unici, nati a due giorni di distanza e in città dello Stato di Anambra. Lui era di Abba e lei di Umunnachi, a pochi minuti l'una dall'altra.- Ah-ha! Uno dei miei zii va spesso al tuo villaggio! - le disse. - Ci sono stato qualche volta con lui. Le vostre strade sono terribili. - Conosco Abba. Lí sono peggio. - Ogni quanto torni al villaggio? - Ogni Natale. - Solo una volta l'anno! Io ci vado spesso con mia madre, almeno cinque volte l'anno. - Ma scommetto che parlo l'igbo meglio di te. - Impossibile, - disse lui, e si mise a parlare in igbo. - Ama m atu inu. Conosco perfino i proverbi. - Sí. I piú comuni che sanno tutti. Una rana non corre di pomeriggio per nulla. - No. So anche quelli seri. Akota ife ka ubi, e lee oba. Se viene alla luce qualcosa di piú grosso della fattoria, si vende il fienile. - Ah, vuoi mettermi alla prova? - domandò lei, ridendo. - Acho afu adi ako n'akpa dibia. Nella borsa dell'uomo della medicina ci sono cose di ogni tipo. - Non male, - disse lui. - E gbuo dike n'ogu uno, e luo na ogu agu, e lote ya. Se ammazzi un guerriero in una rissa locale, te lo ricorderai combattendo i nemici. Si scambiarono proverbi. Lei riuscí a dirne altri due e poi si arrese, mentre lui era ancora impaziente di spararne altri. - Come fai a saperne cosí tanti? - domandò, impressionata. - Molti ragazzi non parlano neppure igbo, figuriamoci se sanno tutti questi proverbi. - Mi basta ascoltare quando parlano i miei zii. Credo che mio padre avrebbe approvato. Rimasero in silenzio. Dall'ingresso della dépendance, dove si erano riuniti alcuni ragazzi, arrivava fumo di sigaretta. I rumori della festa indugiavano nell'aria: musica ad alto volume, voci eccitate e risate fragorose di ragazzi e ragazze, tutti quanti piú rilassati e liberi di quanto sarebbero stati l'indomani. - Non ci baciamo? - chiese lei. Lui sembrò stupito; - E questa da dove viene fuori? - Ho solo chiesto. È un pezzo che siamo qui seduti. - Non voglio che tu pensi che è l'unica cosa che voglio. - E quello che voglio io? - Cosa vuoi? - Tu cosa pensi che voglia? - La mia giacca? - Sí, la tua famosa giacca, - rise lei. - Divento timido con te. - Scherzi? Sono io che divento timida con te. - Non credo ci sia qualcosa che possa farti diventare timida, - ribatté lui. Si baciarono, fronte contro fronte, mano nella mano. Il bacio fu piacevole, quasi inebriante; niente a che vedere con quelli del suo ex ragazzo, Mofe, che le parevano bavosi. Lo disse a Obinze qualche settimana dopo. - Dove hai imparato a baciare cosí? - gli chiese. - Non c'è paragone rispetto agli armeggi bavosi del mio ex ragazzo, - al che lui scoppiò a ridere ripetendo «armeggi bavosi» e le spiegò che non era questione di tecnica, ma di emozione. Che aveva fatto le stesse cose del suo ex ragazzo, ma la differenza, nel loro caso, era l'amore. - Lo sai che è stato amore a prima vista per tutti e due, - disse. - Per tutti e due? Dev'esserlo per forza? Perché parli per me? - Mi limito a riportare un fatto. Smettila di stare sulla difensiva. Sedevano fianco a fianco sul banco in fondo alla classe di Obinze, quasi vuota. La campanella di fine intervallo cominciò a squillare, stridula e stonata. - Sí, è un fatto, - rispose lei. - Che cosa? - Che ti amo -. Come uscirono facili quelle parole, come uscirono forti. Voleva che sentisse, voleva che sentisse lui e il diligente ragazzo occhialuto seduto di fronte e pure il gruppo di ragazze in corridoio. - Un fatto, - disse Obinze, sfoderando un gran sorriso. Per lei, lui si era iscritto al gruppo di discussione e, dopo ogni suo intervento, applaudiva cosí forte e cosí a lungo che le sue amiche gli dicevano: - Obinze, per favore, basta cosí -. Per lui, lei si era iscritta al gruppo sportivo e andava a vederlo giocare a calcio, seduta a bordo campo con la borraccia. Ma ad appassionarlo davvero era il ping pong: giocando sudava, urlava, grondava energia e schiacciava la pallina bianca cosí forte che lei si stupiva di quanto fosse bravo, di come pur lontanissimo dal tavolo riuscisse a colpire quella palla. Era già l'imbattibile campione della scuola, cosí come lo era stato, le disse, anche nella scuola precedente. Quando giocava con lei, le diceva ridendo: - Per vincere non occorre colpire con rabbia, eh! - Per lei, i suoi amici gli avevano dato il nomignolo di «zerbino». Una volta, mentre lui e i suoi amici parlavano di incontrarsi dopo la scuola per giocare a calcio, uno gli domandò: - Ma Ifemelu ti ha dato il permesso di venire? - e Obinze ribatté pronto: - Sí, ma ha detto che posso stare solo un'ora -. A lei piaceva che lui indossasse la loro relazione con spavalderia, come una camicia dai colori sgargianti. A volte tutta quella felicità la preoccupava. Allora sprofondava nella malinconia e trattava male Obinze, o lo teneva a distanza. E la sua gioia diventava una cosa inquieta, che le sbatteva le ali dentro come se cercasse un'uscita per volar via. | << | < | > | >> |Pagina 63Capitolo quintoDopo la festa di Kayode, Ginika era impacciata; uno strano imbarazzo era cresciuto tra loro. - Lo sai che non pensavo che andasse cosí, - le disse Ifemelu. - Ifem, lui guardava te sin dall'inizio, - disse Ginika e poi, per mostrarle che non se l'era presa, l'accusò scherzando di averle rubato il ragazzo senza nemmeno provarci. La sua spensieratezza era forzata, pesantemente costruita, e Ifemelu si sentiva oppressa dal senso di colpa e dal desiderio di riparare. Non le pareva giusto che la sua cara amica Ginika, la graziosa, attraente e popolare Ginika con cui non aveva mai litigato, fosse costretta a far finta che non le importasse nulla, sebbene un senso di malinconia le tingesse la voce ogni volta che parlava di Obinze. - Ifem, avrai un po' di tempo per noi, oggi, o c'è solo Obinze? - chiedeva. Perciò quando Ginika arrivò a scuola una mattina, gli occhi rossi e cerchiati, e disse a Ifemelu: - Papà dice che il mese prossimo andremo in America, - Ifemelu si senti quasi sollevata. L'amica le sarebbe mancata, certo, ma la partenza di Ginika le avrebbe costrette a strizzare la loro amicizia e a metterla, rinnovata, al sole ad asciugare, per tornare al punto in cui erano prima. Era un pezzo che i genitori di Ginika parlavano di dimettersi dall'università e di rifarsi una vita in America. Una volta, quando era andata a trovarli, Ifemelu aveva sentito il padre di Ginika dire: - Non siamo pecore. Questo regime ci tratta da pecore, e noi cominciamo a comportarci come tali. Sono anni che non faccio vera ricerca, perché ogni giorno organizzo scioperi e parlo di stipendi non pagati, e non c'è nemmeno il gesso nelle classi -. Era un ometto piccolo e molto scuro, che sembrava ancora piú piccolo e scuro accanto alla madre di Ginika, grossa e dai capelli color cenere. Aveva l'aria indecisa, come se stesse sempre ponderando diverse scelte. Quando Ifemelu raccontò ai suoi genitori che la famiglia di Ginika stava finalmente partendo, il padre sospirò e disse: - Almeno hanno la fortuna di avere quella opzione, - e la madre aggiunse: - Beati loro. Ma Ginika piangeva e si lamentava, prefigurando immagini di una vita triste e senza amici in un'America ostile. - Vorrei venire a vivere da voi e lasciare andar via loro, - disse a Ifemelu. Si erano riunite a casa di Ginika, Ifemelu, Ranyinudo, Prive e Tochi, ed erano in camera sua a vedere se c'era qualcosa che volevano tra i vestiti che lei non si sarebbe portata dietro. - Ginika, l'importante è che quando torni a casa tu sia ancora in grado di parlarci, - disse Priye. - Tornerà e sarà un'autentica americanah come Bisi, - aggiunse Ranyinudo. Scoppiarono tutte a ridere, a quella parola, «americanah», rivestita di allegria, con la quarta sillaba allungata, e al pensiero di Bisi, una ragazza piú giovane di un anno tornata da un breve viaggio in America con una strana affettazione: fingeva di non capire piú lo yoruba e metteva una r strascicata in fondo a ogni parola inglese. | << | < | > | >> |Pagina 65La teneva per mano adesso, e stringeva dolcemente. L'ammirava per la franchezza e per il suo essere diversa, ma non sembrava capace di vedere oltre. Essere lí, tra persone che erano andate all'estero, era naturale per lui. Sapeva un sacco di cose sul resto del mondo, in particolare sull'America. Tutti guardavano i film americani e tutti si scambiavano sbiadite riviste americane, ma lui sapeva tutto sui presidenti americani degli ultimi cento anni. Tutti guardavano i telefilm americani, ma lui sapeva che Lisa Bonet aveva lasciato I Robinson per andare a fare Angel Heart, e sapeva degli enormi debiti che aveva Will Smith prima di essere scritturato per Il principe di Bel Air. «Sembri un'afroamericana» era il suo massimo complimento, che pronunciava quando lei si metteva un bel vestito, o quando si acconciava i capelli in larghe treccine. Manhattan era per lui il non plus ultra. Diceva spesso: «Non siamo mica a Manhattan» oppure «Va' a Manhattan per sapere come stanno le cose». Le aveva dato la sua copia di Huckleberry Finn, sgualcita a forza di sfogliarla, e lei aveva iniziato a leggerla sull'autobus che la riportava a casa, ma dopo qualche capitolo l'aveva abbandonata. La mattina seguente gliela aveva sbattuta con decisione sul banco. - Sciocchezze illeggibili, - aveva detto.- È scritto in diversi dialetti americani, - aveva obiettato Obinze. - E allora? Continuo a non capirlo. - Ci vuole pazienza, Ifem. Una volta che ci sei entrata dentro, è molto interessante e non vorrai piú smettere di leggere. - Ho già smesso di leggere. Per favore, tieniti i tuoi libri veri e lasciami leggere quelli che mi piacciono. Tanto, quando giochiamo a Scrabble, vinco ancora io, signor Leggolibriveri. Mentre tornavano in classe, Ifemelu sfilò la mano da quella di Obinze. Ogni volta che si sentiva cosí, bastava un nonnulla a gettarla nel panico e fatti banali diventavano segni del destino. Stavolta, la causa scatenante fu Ginika, ferma in piedi vicino alle scale, lo zaino in spalla e il viso attraversato da striature di luce solare: vedendola, all'improvviso Ifemelu pensò a quanto avessero in comune lei e Obinze. La casa di Ginika all'università di Lagos, la tranquilla villetta, il cortile circondato da siepi di buganvillea, doveva essere simile alla casa di Obinze a Nsukka, e si immaginò Obinze che capiva quanto Ginika fosse piú adatta a lui, e allora questa gioia, questa cosa fragile e splendente tra loro, sarebbe scomparsa. | << | < | > | >> |Pagina 116Capitolo dodicesimoAd attendere Ifemelu nella piccola e affollata stazione degli autobus, pronta a raccoglierla e gettarla nella vera America, c'era Ginika, con la minigonna e un top a fascia che le copriva il busto ma non la pancia. Era molto piú magra, la metà di prima, e pareva avesse la testa piú grande, in bilico su un lungo collo da non meglio identificato animale esotico. Allungò le braccia, come a invitare un bimbo a farsi abbracciare, ridendo, chiamandola: - Ifemsco! Ifemsco! - e per un attimo Ifemelu si ritrovò al tempo delle superiori: l'immagine di ragazzine che spettegolano, accalcate nei corridoi della scuola, in uniforme bianca e blu, i berretti di feltro appollaiati sulla testa. Abbracciò Ginika. La teatralità del loro stringersi, del distaccarsi e riavvicinarsi, le riempi gli occhi di lacrime, per sua lieve sorpresa. - Ma guardati! - disse Ginika, gesticolando e facendo tintinnare i numerosi bracciali d'argento che aveva al polso. - Sei davvero tu? - Tu, piuttosto, quand'è che hai smesso di mangiare e sei diventata un baccalà? Ginika scoppiò a ridere, prese la valigia e si voltò verso l'uscita. - Andiamo, vieni. Ho l'auto in divieto di sosta. La Volvo verde era parcheggiata all'angolo di una stradina. Una donna accigliata in uniforme, col libretto delle multe in mano, si avvicinava con passo deciso quando Ginika saltò in macchina e mise in moto. - C'è mancato poco! - disse ridendo. Un barbone con la maglietta lurida che spingeva un carrello pieno di fagotti si era fermato vicino alla macchina e fissava il vuoto come a riposarsi un attimo; Ginika gli lanciò un'occhiata immettendosi con cautela nella carreggiata. Viaggiavano con i finestrini abbassati. Philadelphia aveva l'odore del sole d'estate, dell'asfalto bruciato, della carne sfrigolante dei carretti di cibo piazzati agli angoli delle strade con, ricurvi sopra, uomini e donne scuri e stranieri. Ifemelu avrebbe finito per amare il gyros di quei carretti, pita e agnello e salse gocciolanti, e avrebbe finito per amare la stessa Philadelphia. Non suscitava spettrali timori come Manhattan; era intima ma non provinciale, una città che riusciva ancora a essere gentile. Ifemelu notò che le donne sui marciapiedi, in pausa pranzo, portavano le scarpe da ginnastica, a prova della predilezione tutta americana per la comodità anziché per l'eleganza, e vide giovani coppie avvinghiate baciarsi di tanto in tanto quasi per paura che, se avessero mollato la presa, il loro amore si sarebbe squagliato, disciolto nel nulla. - Ho preso l'auto del padrone di casa. Non volevo venirti a prendere con la mia macchina di merda. Non ci posso credere, Ifemsco. Sei in America! - disse Ginika. C'era un fascino metallico e insolito nella sua estrema magrezza, nella pelle olivastra, nella minigonna che si era sollevata, e che a malapena le copriva l'inguine, e nei capelli lisci lisci che continuava a infilarsi dietro le orecchie, con le mèches bionde che scintillavano al sole. - Stiamo entrando nella città universitaria, il Campus Wellson è lí. Possiamo prima fare un salto a vedere la scuola e poi andare da me, nei sobborghi, e stasera possiamo andare a casa di una mia amica. Ha organizzato una festicciola -. Ginika era scivolata nell'inglese nigeriano, una versione datata e stravecchia, per la voglia di dimostrare di non essere affatto cambiata. Con strenua lealtà, aveva continuato a tenersi in contatto durante gli anni: telefonate, lettere, libri e pantaloni informi che definiva casual. E ora diceva «festicciola», e Ifemelu non aveva il cuore di dirle che non lo diceva piú nessuno. Ginika le raccontò aneddoti sulle sue prime esperienze in America, come se fossero pieni di quella sottile saggezza che avrebbe fatto comodo a Ifemelu. - Dovevi vedere come ridevano a scuola quando ho detto che avevo fatto un «bocchino». Perché qui bocchino vuol dire sesso orale! Poi ho dovuto spiegare a tutti che in Nigeria vuol dire fare una smorfia. E, ci credi?, «mulatto» è una parolaccia. Al primo anno di università ho raccontato a un bel po' di amici che a casa avevo vinto il titolo di ragazza piú carina della scuola. Te ne ricordi? Non avrei mai dovuto vincere io. Piuttosto Zainab. Era solo perché ero mulatta. Ma qui va persino peggio. Ti becchi certa merda dai bianchi di questo paese che non te lo immagini nemmeno. Insomma, stavo raccontando che a casa tutti i ragazzi mi venivano dietro perché ero mulatta e mi hanno detto che mancavo di rispetto a me stessa. Quindi adesso dico «birazziale», e in teoria dovrei offendermi se mi chiamano mulatta. Qui ho incontrato un sacco di gente con la madre bianca che ha un mucchio di problemi, eh. Io non sapevo nemmeno di doverne avere, di problemi, finché non sono arrivata in America. Sinceramente, se si deve crescere un figlio mulatto, meglio farlo in Nigeria. - Certo. Dove tutti i ragazzi vanno dietro alle mulatte. - Non tutti, comunque -. Ginika fece una smorfia. - Sarà meglio che Obinze si dia una mossa a venire negli Stati Uniti, prima che qualcuno ti porti via. Lo sai di avere il tipo di corpo che piace da queste parti? - In che senso? - Sei magra e hai le tette grandi. - Non sono magra. Sono snella, prego. - Gli americani dicono «magra». Qui «magra» è una bella parola. - È per questo che hai smesso di mangiare? Ti è sparito il culo. Avrei tanto voluto avere un culo come il tuo, - disse Ifemelu. - Lo sai che ho iniziato a perdere peso praticamente subito, quando sono arrivata? Ero sull'orlo dell'anoressia. E pensare che alle superiori i ragazzi mi chiamavano Porchetta. Come ben sai, se a casa qualcuno ti dice che sei dimagrita, non fa un bell'effetto. Ma qui, se qualcuno ti dice che hai perso peso, lo ringrazi. Qui è tutto diverso, - disse Ginika, un po' nostalgica, come se anche lei fosse nuova in America. Piú tardi, a casa dell'amica Stephanie, Ifemelu osservò Ginika, la bottiglia di birra posata sulle labbra, e le parole dall'accento americano che le uscivano rapide di bocca, e restò colpita da quanto fosse diventata simile alle sue amiche americane. Jessica, la giapponese americana, bella e vivace, che giocherellava con la chiave sagomata della Mercedes. La pallida Teresa, con la risata rumorosa, brillantini alle orecchie e scarpe consunte e scalcagnate. Stephanie, la cinese americana, coi capelli incurvati verso il mento in un perfetto caschetto tondo, che di tanto in tanto frugava nella borsa griffata per cercare le sigarette e usciva a fumare. Hari, con la pelle color caffè, i capelli neri e una maglietta attillata, che disse: - Sono indiana, ma non d'America, - quando Ginika le presentò Ifemelu. Tutte ridevano per le stesse cose e dicevano «che orrore!» delle stesse cose: erano ben sincronizzate. Stephanie annunciò che aveva della birra artigianale in frigo e tutte risposero in coro: - Fantastico! - Poi Teresa chiese: - Posso avere della birra normale, Steph? - con la vocina di chi ha paura di offendere. Ifemelu, seduta su una poltrona singola in fondo alla stanza, beveva succo d'arancia e le ascoltava. «Quell'azienda è il male. Oh mio Dio, non posso credere che c'è tutto quello zucchero in questa roba. Internet cambierà completamente il mondo». Senti Ginika domandare: - Lo sapete che in quelle mentine ci mettono della roba presa dalle ossa animali? - e le altre rispondere un verso schifato. C'erano dei codici che Ginika conosceva, modi di essere che ormai padroneggiava. A differenza di zia Uju, Ginika era venuta in America con la flessibilità e la fluidità della giovinezza, e la cultura del posto le era penetrata sotto pelle, e ora andava al bowling, sapeva chi era Tobey Maguire e considerava un orrore intingere lo stesso taco nella salsa per due volte. Le bottiglie e le lattine di birra si accumulavano e loro si abbandonarono tutte sul divano e sul tappeto con fascinosa languidezza, mentre dal lettore CD usciva musica heavy rock che a Ifemelu pareva un fracasso disarmonico. La piú veloce a bere era Teresa, che faceva rotolare le lattine di birra vuote sul parquet, mentre le altre ridevano con un entusiasmo che lasciava Ifemelu perplessa perché non c'era nulla di buffo. Come facevano a sapere quando ridere e di cosa ridere? | << | < | > | >> |Pagina 124Capitolo tredicesimoAll'inizio Ifemelu si era dimenticata di essere un'altra. In un appartamento di South Philadelphia una donna dal viso stanco le aveva aperto la porta e l'aveva guidata attraverso un forte tanfo di urina. Il salotto era buio, con l'aria stantia, e Ifemelu si immaginò l'intero edificio immerso in mesi, persino anni di urina accumulata e lei a lavorare ogni giorno in quella nube. Dentro l'appartamento gemeva un uomo, con suoni profondi e angosciosi: erano i gemiti di una persona che non aveva altra scelta che gemere, e la spaventavano. - È mio padre, - disse la donna, guardandola con occhi acuti e giudicanti. - Sei forte? L'annuncio sul «City Paper» sottolineava l'aggettivo «forte». «Cercasi persona forte per aiuto sanitario a domicilio. Pagamento in contanti». - Sono abbastanza forte per il lavoro, - disse Ifemelu, e combatté l'impulso di uscire dalla casa e darsela a gambe. - Che accento simpatico. Da dove vieni? - Dalla Nigeria. - Nigeria. Ma non c'è una guerra da quelle parti? - No. - Posso vedere i tuoi documenti? - chiese la donna e poi, osservando la tessera, aggiunse: - Come hai detto che pronunci il tuo nome? - Ifemelu. - Come? Ifemelu per poco non si strozzò: - Ngozi. La N non si sente. - Davvero? - La donna, con la sua aria di stanchezza infinita, pareva troppo stremata per farsi domande sulle due diverse pronunce. - Puoi vivere qui? - Vivere qui? - Sí. Vivere qui con mio padre. C'è una stanza libera. Dovresti fare tre notti a settimana. E dovresti pulirlo la mattina -. Fece una pausa. - Per la verità sei un po' esile. Guarda, ho altre due persone da sentire, poi ti saprò dire. - Ok, grazie -. Ifemelu sapeva che non avrebbe avuto il lavoro, e ne era grata. Ripeté «Sono Ngozi Okonkwo» di fronte allo specchio prima del colloquio successivo, al ristorante Seaview. - Posso chiamarti Goz? - le chiese il direttore dopo averle dato la mano, e lei rispose di sí, ma prima fece una pausa, brevissima e lieve, ma pur sempre una pausa. E si chiedeva se fosse quello il motivo per cui non aveva avuto il lavoro. Piú tardi Ginika le disse: - Bastava dire che Ngozi è il tuo nome tribale e Ifemelu il tuo nome della giungla e magari buttarne li un altro come nome spirituale. Credono a qualsiasi cazzata sull'Africa.
Ginika rise, una risata convinta e gutturale. Anche Ifemelu
rise, benché non avesse capito fino in fondo la battuta. Ed ebbe
all'improvviso la sensazione di trovarsi immersa nella nebbia, invischiata in
una ragnatela lattiginosa. Era iniziato un autunno di
semicecità, l'autunno dello sconcerto, di esperienze fatte sapendo
che c'erano scivolosi strati di significato che le sfuggivano.
Il mondo era come avvolto nella garza. Riusciva a vedere la forma delle cose, ma non erano nitide, non erano mai abbastanza nitide. Disse a Obinze che c'erano cose che avrebbe dovuto saper fare ma non sapeva fare, dettagli di cui avrebbe dovuto impadronirsi ma non si impadroniva. E lui le ricordò che invece si stava adattando rapidamente, con un tono di voce sempre calmo, sempre consolatorio. Si era proposta come cameriera, direttrice di sala, barista, cassiera, e aveva atteso offerte di lavoro che non erano mai arrivate, e se ne faceva una colpa. Magari faceva qualcosa di sbagliato, ma non aveva ancora capito cosa. L'autunno era arrivato, umido e grigiastro. Il suo misero conto in banca era quasi asciutto. Da Ross anche i maglioni meno cari avevano un costo spaventoso, in piú c'erano i biglietti del treno e dell'autobus, e fare la spesa scavava crateri nel suo bilancio, anche se alla cassa rimaneva vigile, osservava il display elettronico e diceva: - Per favore basta fin qui. Il resto lo lascio, - appena arrivava a trenta dollari. Ogni giorno pareva esserci una lettera per lei sul tavolo della cucina, e dentro la busta c'era il conto delle tasse universitarie, e le parole tutte in maiuscolo IN CASO DI RITARDO NEL PAGAMENTO LA SUA ISCRIZIONE VERRÀ SOSPESA. Piú delle parole, era l'assertività del maiuscolo a spaventarla. Era preoccupata per le possibili conseguenze, una preoccupazione vaga ma costante. Non riusciva a immaginare che la polizia arrestasse qualcuno per non avere pagato le tasse universitarie ma, allora, cosa succedeva se in America non pagavi le tasse? Obinze le disse che non le sarebbe successo nulla e le suggerí di parlare con la tesoreria per studiare un piano di pagamento, almeno avrebbe fatto qualcosa. Lo chiamava spesso, con carte telefoniche a buon mercato che comprava nell'affollato negozio di un benzinaio di Lancaster Avenue, e anche solo grattare via la polverina metallica, per svelare il numero stampato sotto, la inondava di aspettativa: avrebbe sentito ancora la voce di Obinze. Lui la calmava. Con lui si permetteva di avere qualunque stato d'animo, e non doveva sforzarsi di avere la voce allegra, come faceva con i genitori, quando diceva che andava tutto bene, che sperava di trovare lavoro come cameriera e che a lezione si era ambientata senza problemi. Il momento migliore della giornata era parlare con Dike. La sua voce acuta al telefono che le riferiva cosa era successo nei suoi programmi preferiti alla Tv, o le diceva di aver appena raggiunto un nuovo livello al Game Boy, la riscaldava. - Quando vieni a trovarci, cugi? - le chiedeva spesso. - Vorrei che ci fossi tu a prenderti cura di me. Non mi piace andare da Miss Brown. Il suo bagno puzza. Le mancava. A volte gli diceva cose che lui non capiva, ma gliele diceva lo stesso. Gli raccontò del professore che a pranzo mangiava un sandwich seduto sul prato, di quello che le aveva detto di chiamarlo per nome, Al, di quello che aveva una giacca di pelle borchiata e la moto. Il giorno in cui ricevette la sua prima pubblicità per posta gli disse: - Indovina? Oggi mi è arrivata una lettera -. Quei formulari prestampati per la carta di credito, con il nome scritto senza errori in un corsivo elegante, le avevano sollevato lo spirito, l'avevano resa meno invisibile, e un po' piú reale. Qualcuno la conosceva. | << | < | > | >> |Pagina 127Capitolo quattordicesimoE poi c'era Cristina Tomas. Cristina Tomas col suo aspetto slavato, gli occhi azzurro scolorito, i capelli sbiaditi e la carnagione pallida, Cristina Tomas che sorrideva dietro il bancone della reception, Cristina Tomas dalla calzamaglia biancastra che le rendeva cadaveriche le gambe. Era una giornata calda, Ifemelu era passata accanto a studenti spaparanzati su prati verdi; degli allegri palloncini erano ammassati sotto un cartello con su scritto BENVENUTE MATRICOLE. - Buon pomeriggio. È qui che ci si immatricola? - chiese Ifemelu a Cristina Tomas, di cui all'epoca non conosceva il nome. - Sí. Allora. Sei. Una. Studentessa. Straniera? - Sí. - Devi. Prima. Farti. Fare. Una. Lettera. Dall'Ufficio. Studenti. Esteri. Ifemelu abbozzò un sorriso di compatimento, perché Cristina Tomas doveva essere affetta da una malattia che la faceva parlare lentamente, le labbra che si stiravano e s'increspavano, mentre le dava indicazioni su come arrivare all'Ufficio Studenti Esteri. Ma quando tornò con la lettera e si senti dire: - Devi. Riempire. Un. Paio. Di. Moduli. Capisci. Come. Si. Fa? - capi che Cristina Tomas parlava cosí proprio per lei, per via del suo accento straniero, e per un attimo si senti come un bimbo piccolo, torpido e bavoso. - Io parlo inglese, - disse. - Ma certo, - rispose Cristina Tomas. - Solo che non so quanto bene lo parli. Ifemelu si fece piccola piccola. Nell'attimo, forzato e immobile, in cui prima di prendere i moduli incrociò lo sguardo di Cristina Tomas, si fece piccola piccola. Come una foglia rinsecchita. Aveva parlato inglese per tutta la vita, al liceo era stata coordinatrice del gruppo dibattiti e aveva sempre considerato rozza la calata americana; non avrebbe dovuto indietreggiare e rimpicciolire, ma era successo. E nelle settimane successive, mentre il fresco dell'autunno scendeva, si mise a esercitare l'accento americano. In America la scuola era facile, i compiti si inviavano per mail, le aule avevano l'aria condizionata, i professori erano sempre disposti a concedere prove di recupero. Ma Ifemelu non era a suo agio con quella che i professori definivano «partecipazione», e non capiva perché dovesse contribuire al voto finale; era solo un modo di far parlare e parlare gli studenti, e di sprecare ore di lezione in parole ovvie, vuote, a volte senza alcun significato. Doveva essere perché, sin dalla scuola elementare, agli americani veniva insegnato che a lezione dovevano dire qualcosa, qualsiasi cosa. Quindi sedeva con la lingua irrigidita, circondata da studenti comodamente ripiegati sulle sedie, tutti imbevuti di conoscenza, non sulla materia oggetto delle lezioni, ma su come stare a lezione. Non dicevano mai «non lo so». Piuttosto dicevano «non sono sicuro», frase che non dava alcuna informazione, ma suggeriva la possibilità di una conoscenza. E caracollavano, quegli americani, camminavano senza alcun ritmo. Evitavano di dare indicazioni dirette: non dicevano «chiedi a qualcuno di sopra», dicevano «magari potresti rivolgerti a qualcuno di sopra». Se inciampavi e cadevi, se ti strozzavi, se la sfortuna suonava alla tua porta, non dicevano «mi dispiace», chiedevano «va tutto bene?» anche se era ovvio che non andava bene per nulla. E se dicevi «mi dispiace» quando si strozzavano o inciampavano e cadevano o si scontravano con la sfortuna, ribattevano con gli occhi sbarrati per la sorpresa: «Oh, non è colpa tua». E poi abusavano della parola «eccitato», un professore eccitato per un nuovo libro, uno studente eccitato per una lezione, un politico in TV eccitato per una legge; c'era sempre troppa eccitazione. Alcune delle espressioni che sentiva ogni giorno la lasciavano attonita, la frastornavano, e si domandava cosa ne avrebbe pensato la madre di Obinze. «Se non lo avresti fatto era meglio. C'è tre cose. Il pneumatico. Un due giorni. Mi sono slegata una caviglia». - Questi americani non sanno parlare inglese, - disse a Obinze. Il primo giorno di lezione era andata all'ambulatorio e aveva fissato un po' troppo a lungo la cesta nell'angolo, piena di preservativi gratuiti. Dopo la visita, l'infermiera le aveva detto: - A posto cosí! - e lei, sbiancando, si era chiesta cosa volesse dire «a posto cosí» finché non aveva capito che doveva significare che aveva fatto tutto quello di cui c'era bisogno. Ogni giorno si svegliava preoccupata per i soldi. Se avesse comprato tutti i libri di cui aveva bisogno, non avrebbe avuto abbastanza soldi per l'affitto, perciò li chiedeva in prestito a lezione e prendeva febbrilmente appunti che a volte, quando li rileggeva, la confondevano. Una nuova compagna di classe, Samantha, una donna magra che evitava il sole e diceva spesso «mi brucio facilmente», a volte le lasciava portare a casa qualcuno dei suoi libri. - Tienilo fino a domani e fatti degli appunti se ne hai bisogno, - diceva. - Lo so che è dura, è per questo che anni fa ho dovuto lasciare lo studio e andare a lavorare -. Samantha era piú grande, ed era un sollievo esserle amica, perché non era una delle tante diciottenni stordite che frequentavano il corso di scienze della comunicazione. Comunque, Ifemelu non teneva mai i libri per piú di un giorno e a volte rifiutava di portarli a casa. La feriva dover chiedere l'elemosina. A volte, dopo le lezioni, si sedeva su una panchina e guardava gli studenti che passavano accanto alla grande scultura grigia al centro del cortile: sembravano tutti fare la vita che desideravano, potevano trovare un lavoro se volevano, e sulla loro testa le bandierine fissate ai lampioni sventolavano serene. Desiderava moltissimo capire tutto dell'America, indossare subito una nuova pelle che sapesse nell'ordine: tifare per una certa squadra al Super Bowl, capire cosa fosse un Twinkie e cosa significasse, in certi sport, la parola «blocco», prendere le misure in once e piedi quadrati, ordinare un muffin senza pensare che in realtà era un dolce e dire «ho messo a segno un affare» senza sentirsi idiota. Obinze le consigliò di leggere libri americani, romanzi, testi di storia e biografie. Nella sua prima mail - a Nsukka avevano appena aperto un internet café - le forni una lista di libri. In cima c'era La prossima volta, il fuoco. In piedi accanto allo scaffale della biblioteca sfogliò veloce il primo capitolo, pronta ad annoiarsi, ma lentamente si spostò verso un divano, si sedette e prosegui la lettura finché tre quarti del libro non se ne furono andati, poi si fermò e prese dallo scaffale ogni singolo titolo di James Baldwin. Passava tutto il tempo libero in biblioteca, cosí meravigliosamente ben illuminata; i computer ovunque, gli ampi spazi di lettura, ariosi, puliti, la luminosità accogliente del tutto, le sembravano di una decadenza peccaminosa. In fin dei conti era abituata a leggere libri con pagine mancanti, sparite nel passaggio fra troppe mani. E ora, questa sfilza di libri coi dorsi perfetti. Scriveva a Obinze dei libri che leggeva, lettere caute e sontuose, che crearono tra loro una nuova intimità; aveva finalmente iniziato a comprendere il fascino che i libri esercitavano su di lui. Il suo amore per Ibadan per via dell'omonima poesia l'aveva sconcertata: come poteva una sequenza di parole far provare a una persona nostalgia per un luogo che non conosceva affatto? Ma in quelle settimane in cui scopriva le file e file di libri con il loro odore di cuoio e la promessa di piaceri sconosciuti, in cui sedeva, accoccolata su una poltrona del piano terra o a un tavolo al piano superiore, con le luci fluorescenti che si riflettevano sulle pagine di un libro, finalmente aveva capito. Lesse i libri della lista di Obinze, ma scelse anche, a casaccio, tirando fuori un libro dopo l'altro, leggendone un capitolo prima di decidere cosa scorrere rapidamente in biblioteca e cosa prendere in prestito. E man mano che leggeva, le mitologie americane iniziarono ad assumere significato. I tribalismi americani - razza, ideologia, area geografica - divennero chiari. E questa nuova consapevolezza la rincuorava. | << | < | > | >> |Pagina 196Capitolo ventesimoIfemelu sarebbe arrivata ad amare Baltimora - per il suo fascino scombinato, le sue strade di gloria decadente, i mercatini agricoli che nei fine settimana spuntavano sotto il ponte, zeppi di verdure, frutta turgida e anime virtuose - anche se di un amore mai cosí intenso come quello per Philadelphia, la città che nella sua presa gentile teneva la storia. Ma quando arrivò a Baltimora sapendo che era per viverci, e non solo per fare visita a Curt, la trovò desolata e impossibile da amare. Gli edifici erano uniti in file sbiadite e declinanti, e alle scialbe cantonate la gente aspettava l'autobus infagottata nelle giacche a vento, gente nera e cupa, avvolta da una tetra foschia. Molti degli autisti fuori dalla stazione ferroviaria erano etiopi o del Punjab. Il suo tassista etiope disse: - Non riesco a identificare il suo accento. Di dov'è? - Nigeria. - Nigeria? Non sembra affatto africana. - Perché non sembro africana? - Perché ha la camicia troppo stretta. - Non è troppo stretta. - Pensavo venisse da Trinidad o da un posto del genere -. Guardava nel retrovisore con occhio disapprovante e preoccupato. - Stia molto attenta, o l'America la corromperà -. Quando, anni dopo, avrebbe scritto il post «Sulle divisioni tra le categorie di Neri Non Americani in America», avrebbe parlato di quel tassista, ma come se quell'esperienza l'avesse fatta un'altra, attenta a non rivelare se lei fosse africana o caraibica, perché i suoi lettori non lo sapevano. Disse a Curt del tassista, di come la sua sincerità l'avesse fatta infuriare e di come fosse andata alla toilette della stazione per vedere se la camicetta rosa a maniche lunghe fosse davvero troppo stretta. Curt si sbellicò dalle risate. Diventò una delle tante storie che amava raccontare agli amici. È andata sul serio in bagno a guardarsi la camicia! Gli amici erano come lui, persone ricche e solari che vivevano sulla scintillante superficie delle cose. A lei piacevano, e sentiva di piacere a loro. Per loro era interessante, insolita per il modo in cui diceva senza remore ciò che pensava. Si aspettavano da lei certe cose, e gliene perdonavano altre, perché era straniera. Una volta, seduta insieme a loro in un caffè, senti Curt che, parlando con Brad, diceva «ranger». Fu colpita dalla parola, da quanto fosse inequivocabilmente americana. Ranger. Parola che a lei non sarebbe mai venuta in mente. Capire questa cosa significava ammettere che Curt e i suoi amici, a qualche livello, non le sarebbero mai stati del tutto familiari. Prese un appartamento a Charles Village, un monolocale con un vecchio pavimento in legno, anche se avrebbe potuto benissimo stare da Curt; gran parte dei suoi vestiti erano nella sua cabina armadio rivestita di specchi. Ora che lo vedeva tutti i giorni e non piú solo nei fine settimana, notava nuovi aspetti del suo carattere: come fosse difficile per lui stare fermo, senza pensare a cosa fare dopo; come avesse l'abitudine di togliersi i pantaloni e lasciarli sul pavimento per giorni, finché non arrivava la donna delle pulizie. La loro vita era piena dei progetti che faceva - andare a Cozumel per una notte, a Londra per un weekend lungo - e a volte lei, il venerdí sera dopo il lavoro, prendeva un taxi e lo raggiungeva all'aeroporto. - Non è fantastico? - chiedeva lui e lei rispondeva che sí, era fantastico. Era sempre li a pensare cos'altro fare e lei gli diceva che le sembrava strano perché era stata educata a essere e non a fare. Aggiungeva subito, comunque, che le piaceva molto, perché in effetti le piaceva molto e capiva quanto fosse importante per lui sentirselo dire. A letto, poi, era ansioso. - Ti piace? Stai bene con me? - chiedeva spesso. E lei diceva di sí, il che era vero, ma sentiva che non sempre le credeva, o che il suo crederle durava solo fino al momento in cui aveva di nuovo bisogno di rassicurazione. C'era qualcosa in lui, piú chiaro dell'ego, ma piú scuro dell'insicurezza, che richiedeva costantemente una lucidatura, una strofinata, un'inceratura. | << | < | > | >> |Pagina 209Cari Neri Non Americani, quando fate la scelta di venire in America, diventate neri. Chiusa la discussione. Smettetela di dire sono giamaicano o ghanese. All'America non interessa. Che importa se nel vostro paese non eravate «neri»? Ora siete in America. Abbiamo tutti i nostri momenti di iniziazione nella società degli ex negri. La mia è avvenuta in una classe al college quando mi hanno chiesto di dare il punto di vista nero, solo che non avevo idea di cosa fosse. Quindi mi sono inventata qualcosa. E ammettetelo, voi dite «non siamo neri» solo perché sapete che i neri stanno in fondo alla scala razziale americana. E questo non vi va. Inutile negarlo adesso. Come sarebbe se i neri avessero tutti i privilegi dei bianchi? Direste lo stesso: «Non chiamarmi nero, sono di Trinidad»? Non credo proprio. Allora siete neri, cari miei. E visto che siete neri, siete tenuti ad agire di conseguenza: dovete far capire che vi offendete quando espressioni come «mangiacocomero» o «bambino di pece» vengono usate nelle battute, anche se non sapete neppure di cosa cavolo si stia parlando, e dato che siete Neri Non Americani, ci sono molte possibilità che non ne abbiate idea. (Alla triennale un mio compagno bianco mi chiede se mi piace il cocomero, io gli rispondo di sí e un altro compagno gli dice: — Oh mio Dio, ma questa è davvero razzista, — e io, confusa: — Aspetta, in che senso? —) Quando un nero vi fa un cenno del capo in un'area abitata prevalentemente da bianchi, dovete rispondere allo stesso modo. Quel gesto si chiama «cenno nero». È un modo che i neri hanno per dire: «Non sei da solo qui, ci sono anch'io». Nel descrivere le donne nere che ammirate, usate sempre la parola «FORTE» perché è ciò che le nere dovrebbero essere in America. Se siete donne, per favore non esprimete la vostra opinione come siete solite fare nel vostro paese. Perché in America le donne nere determinate sono TERRIBILI. E se siete uomini, siate pacatissimi, non vi agitate troppo, altrimenti qualcuno si preoccuperà, convinto che siate sul punto di estrarre una pistola. Quando guardate la televisione e sentite che è stata fatta un'«allusione razzista», dovete offendervi subito. Anche se pensate: «Perché non mi dicono esattamente cos'hanno detto?» Anche se vorreste poter decidere da soli quanto siete offesi, o se lo siete davvero, dovrete in ogni caso sentirvi molto offesi. Se si dà notizia di un crimine, pregate che non l'abbia commesso un nero, e se viene fuori che è stato commesso da un nero, state lontani dal luogo del delitto per settimane, altrimenti potrebbero fermarvi perché corrispondete all'identikit. Se una cassiera nera è poco cortese con il tizio non nero di fronte a voi, fategli i complimenti per le scarpe, o qualcosa del genere, in modo da compensare, perché anche voi siete responsabili dei misfatti della cassiera. Se siete in un college prestigioso e il tipico giovane repubblicano vi dice che siete entrati solo grazie alle «azioni positive», non sfoderate la vostra bellissima pagella delle superiori. Fate cortesemente presente, invece, che le maggiori beneficiarie delle «azioni positive» sono le donne bianche. Se andate a mangiare in un ristorante, per favore lasciate mance generose. Altrimenti il prossimo nero avrà un servizio pessimo, perché i camerieri si lamentano quando devono servire un tavolo di neri. Dovete capire che i neri hanno un gene che impedisce di dare mance quindi, per favore, siate superiori a quel gene. Se raccontate a una persona non nera un incidente razzista che vi ha coinvolti, assicuratevi di non essere acidi. Non vi lamentate. Perdonate. Trasformate il tutto, se possibile, in una battuta. Soprattutto non vi arrabbiate. Dai neri ci si aspetta che non si arrabbino per il razzismo. Altrimenti non otterrete comprensione. Quanto detto vale solo con i bianchi progressisti, comunque. Ai bianchi conservatori rinunciate proprio a raccontarlo, l'episodio di razzismo, perché quelli vi diranno che i veri razzisti siete VOI, lasciandovi a bocca aperta per la confusione. | << | < | > | >> |Pagina 322- Finalmente hai una copertina che ti soddisfa? - domandò Ashanti a Shan.- «Soddisfa» è una parola grossa, - disse Shan. - Allora, state a sentire. Questo libro è un'autobiografia, giusto? C'è dentro un quintale di roba, come il fatto di crescere in una città tutta di bianchi, di essere l'unica ragazza nera alla prep school, la morte di mia mamma, eccetera eccetera. Il mio editor legge il manoscritto e dice: «Capisco che la razza qui è importante, ma dobbiamo fare in modo che il libro la trascenda, che non tratti solo di questioni razziali». Ma io dico, perché dovrei trascendere la razza? Come se la razza fosse una bevanda da annacquare, da diluire con altri liquidi, altrimenti i bianchi non se la bevono. - Che buffo, - disse Blaine. - Non faceva che segnare i dialoghi nel manoscritto e scrivere sui margini: «La gente parla davvero cosí?» e io penso, ehi, ma quanti neri conosci? Cioè, conoscerli da pari, da amici. Mica l'addetta alla reception dell'ufficio o magari l'unica coppia nera i cui figli sono nella stessa classe di tuo figlio e che saluti appena. Voglio dire conoscere davvero. Nessuno. Allora come fai a dirmi come parlano i neri? - Non è colpa sua. È che non ci sono abbastanza neri con cui andare in giro, - disse Bill. - Ci sono tanti bianchi progressisti che vanno in cerca di amici neri. Trovarli è difficile quasi quanto trovare a Harvard una donatrice di ovuli alta, bionda e diciottenne. Risero tutti. - Ho scritto un brano su una cosa successa a una del Gambia che conoscevo ai tempi della specialistica, - continuò Shan. - Una che andava matta per la cioccolata da cucina. Ne aveva sempre un pacchetto in borsa. A ogni modo, viveva a Londra ed era innamorata di un ragazzo inglese bianco che stava lasciando la moglie per lei. Una volta stavamo in un bar e lei ci raccontava la sua storia, eravamo io e un'altra ragazza e un tipo di nome Peter. Uno bassino, del Wisconsin. E sapete questo Peter cosa le dice? Le dice: «Sua moglie starà malissimo sapendo che sei nera». Cosí, come se fosse un'ovvietà. La moglie non doveva star male perché c'era un'altra donna, punto: doveva star male perché l'altra donna era nera. Dunque metto la storia nel libro e l'editor vuole cambiarla perché dice che non è sottile. Come se questa cazzo di vita fosse sempre sottile. E poi scrivo di mia mamma e di quanto fosse amareggiata al lavoro perché sentiva di avere sbattuto contro un soffitto e di non poter sfondare il tetto dato che era nera, e il mio editor dice: «Non possiamo metterci qualche sfumatura? Forse tua mamma aveva un brutto rapporto con qualcuno? O le avevano già diagnosticato il cancro?» Lui pensa che dovremmo rendere tutto piú complicato, in modo che non sia solo questione di razza. E io dico, ma di fatto era questione di razza. Era amareggiata perché pensava che, a parità di condizioni, razza esclusa, l'avrebbero fatta vicepresidente. E ne ha parlato e riparlato finché non è morta. Ma, a un tratto, ora sembra che l'esperienza di mia mamma sia senza sfumature. «Sfumatura» significa fare stare tranquilla la gente in modo che tutti siano liberi di credersi unici e di pensare che sono arrivati dove sono grazie al merito. - Forse dovresti trasformarlo in un romanzo, - disse Maribelle. - Stai scherzando? - chiese Shan, un po' brilla, un po' teatrale, adesso seduta stile yoga sul pavimento. - Non si può scrivere un romanzo onesto sulla razza in questo paese. Se scrivi su come la gente è condizionata dalla razza, è troppo ovvio. I pochi scrittori neri che fanno narrativa di qualità in questo paese, e sono tre, non i diecimila che scrivono quelle cazzate di libri sui ghetti con le copertine sgargianti, hanno due scelte: o fare i preziosi o fare i pretenziosi. Quando non sei né l'uno né l'altro, nessuno sa cosa fare di te. Quindi, se vuoi scrivere di razza, devi cercare di farlo in modo lirico e sottile cosí che il lettore che non legge tra le righe non si accorge neppure che si parla di questioni razziali. Avete presente, una meditazione proustiana, tutta acquosa e sfocata, che alla fine vi fa sentire acquosi e sfocati. - Oppure trova uno scrittore bianco. Gli scrittori bianchi si possono permettere di parlare di razza senza filtri e di diventare militanti perché la loro rabbia non fa paura, - disse Grace. - Che ne pensate di quel libro uscito da poco, Memorie di un monaco? - domandò Maribelle. - È un libro vigliacco e disonesto. Tu l'hai letto? - chiese Shan. - Ho letto una recensione, - disse Maribelle. - Sai qual è il tuo problema? Leggi piú cose sui libri che libri in sé. Maribelle arrossi. Un'osservazione del genere, pensò Ifemelu, l'avrebbe presa senza replicare solo da Shan. - Siamo molto ideologici riguardo ai romanzi in questo paese. Se un personaggio non è familiare, allora diventa incredibile, - disse Shan. - Non si può nemmeno leggere narrativa per farsi un'idea di come si viva realmente oggigiorno. Si leggono i romanzi americani per conoscere gente bianca disfunzionale che fa cose che risultano strane anche ai bianchi normali. Risero tutti. Shan pareva soddisfatta, come una ragazzina che canta davanti a importanti amici dei genitori. - Il mondo non è come questa stanza, - disse Grace. - Ma può esserlo, - disse Blaine. - Noi siamo la prova che il mondo può essere come questa stanza. Uno spazio sicuro ed equo per tutti. Dobbiamo solo smantellare le pareti del privilegio e dell'oppressione. - Ha parlato quel figlio dei fiori di mio fratello, - disse Shan. Altre risate. - Dovresti scriverne sul blog, Ifemelu, - disse Grace. - A proposito, sapete perché Ifemelu può scrivere quel blog? - disse Shan. - Perché è africana. Scrive dall'esterno. Non prova realmente le cose di cui parla. Per lei è tutto bizzarro e curioso. Può scrivere quello che vuole e prendersi tutti gli elogi ed essere invitata a fare conferenze. Se fosse un'afroamericana, direbbero che è arrabbiata e la emarginerebbero. La stanza, per un momento, fu gravida di silenzio. - Tutto sommato penso che sia giusto, - ammise Ifemelu, detestando Shan, e anche se stessa, per aver ceduto all'incantesimo di Shan. Era vero che la razza non era ricamata nel tessuto della sua storia; non era scolpita nella sua anima. Eppure, avrebbe preferito che Shan glielo avesse detto in separata sede anziché in quel momento, trionfalmente, di fronte agli amici, lasciandola con un nodo di amarezza, un senso di perdita, nel petto. - Molte di queste cose sono relativamente recenti. Le identità nera e panafricana erano in realtà forti all'inizio del diciannovesimo secolo. La guerra fredda ha costretto la gente a scegliere: o si diventava internazionalisti, che per gli americani equivaleva ovviamente a comunisti, o si entrava a far parte del capitalismo americano, che fu l'opzione preferita dall'élite afroamericana, - disse Blaine, e avrebbe dovuto essere una difesa di Ifemelu, ma a lei parve troppo astratta, blanda, tardiva. Shan lanciò un'occhiata a Ifemelu e sorrise, e in quel sorriso c'era, in potenza, una grande crudeltà. Quando, mesi piú tardi, Ifemelu litigò con Blaine, si chiese se Shan avesse contribuito ad alimentare la rabbia del fratello, una rabbia che lei non aveva mai capito del tutto. | << | < | > | >> |Pagina 325Tantissime persone — soprattutto non nere — sostengono che Obama non sia nero, ma birazziale, multirazziale, bianco e nero, tutto tranne che nero e basta. Perché sua madre era bianca. Ma la razza non è biologia: è sociologia. La razza non è genotipo: è fenotipo. La razza conta perché c'è il razzismo. E il razzismo è assurdo perché ha a che fare con l'aspetto fisico. Non è questione di sangue. Ha a che fare con la tonalità della pelle, la forma del naso e il crespo nei capelli. Booker T. Washington e Frederick Douglass avevano padri bianchi. Non si sarebbero mai sognati di dire che non erano neri.
Immaginatevi Obama, pelle del colore della mandorla tostata, capelli crespi,
dire a un'addetta al censimento: «Sono una specie di bianco». Ma
certo, come no, direbbe quella. Molti neri americani hanno un bianco tra
i loro antenati, perché i padroni bianchi avevano l'abitudine di andare a
stuprare le donne negli alloggi degli schiavi. Ma se vieni fuori scuro, è
fatta. (Quindi se sei la tipa bionda con gli occhi azzurri che dice: «Mio
nonno era un pellerossa, perciò vengo discriminata anch'io», quando
i neri parlano della merda che devono sopportare, per favore piantala
subito.) In America, non puoi decidere a quale razza appartenere.
È già deciso per te. Barack Obama, con il suo aspetto, cinquant'anni fa si
sarebbe dovuto sedere sul retro di un autobus. Se un tizio nero a caso oggi
commette un reato, Barack Obama potrebbe essere fermato e interrogato perché
corrisponde all'identikit. Quale identikit? «Maschio nero».
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