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| << | < | > | >> |IndiceLO SCHERMO DEI SOGNI 9 Introduzione 15 Cinema e psicoanalisi 16 La teoria 32 L'interpretazione 37 Le forme dell'identificazione 37 Come in uno specchio Nick's Movie, Crepuscolo di gloria 50 Lo spettatore onnipotente e il déjà vu L'ultimo dei Moicani, Indocina, Gli spietati 60 Ombra di immagine riflessa Sfida infernale, So che mi ucciderai 77 L'illusione 77 A profitto dell'immaginario Eugenia Grandet, Bellissima 91 L'onirismo e lo spazio del sogno 95 Lo schermo del sogno Io ti salverò 109 Un ordine proprio Hiroshima mon amour, L'anno scorso a Marienbad, Muriel 120 Lo «stadio dello specchio», il legame edipico e la figura del doppio 120 L'intreccio perpetuo Strategia del ragno, Gli uccelli 137 Il voyeurismo e la scena primaria 137 L'essenziale è invisibile agli occhi Il sospetto 145 Non al di là della soglia Sentieri selvaggi 165 Il feticcio, l'erotismo e l'invenzione della bellezza 165 Il feticcio propriamente detto Film Blu, Partie de campagne, Cilda, L'Eva futura 176 Al momento immediatamente precedente Marnie, Ho sposato una strega, Bella di giorno 183 Note al testo |
| << | < | > | >> |Pagina 9IntroduzioneLe pagine che seguono intendono essere un apporto e un arricchimento al processo interpretativo che riguarda il cinema e all'analisi testuale dei film. Dopo un approfondimento teorico intorno al rapporto tra cinema e psicoanalisi, cercherò infatti di offrire degli esempi di lettura che abbiano come oggetto dei film interpretati ed interpretabili da un punto di vista psicoanalitico, sebbene ciò non escluda altre metodologie, da quella filologico-stilistica - che dovrebbe essere alla base di ogni discorso testuale, poiché il rispetto, la conoscenza e la comprensione della lettera del testo e della realtà del contesto sono imprescindibili rispetto alla correttezza di qualsiasi analisi - a quelle basate sulla semiotica del testo, sulla narratologia, sugli studi di tipo iconografico e iconologico, sull'ermeneutica o sulle descrizioni neo-formaliste. Può avvenire che queste diverse letture convergano armoniosamente insieme nell'individuare quello che viene chiamato il sistema testuale di un film. | << | < | > | >> |Pagina 19[...] Al cinema vige quindi un regime di «segregazione degli spazi», di separazione e di opposizione tra la «serie visiva» che passa sullo schermo e le «sensazioni propriocettive» che appartengono alla soggettività dello spettatore. Come aveva scritto anche lo psicoanalista Cesare Musatti, concordando con Michotte, lo spettatore vive «un radicale distacco fra l'ambiente fittizio della proiezione sullo schermo e l'ambiente reale dell'esperienza». Ed è proprio l'incompatibilità tra questi due spazi, tra lo spazio della sala buia e quello dello schermo luminoso, il quale attrae completamente l'attenzione dello spettatore, a obbligarlo a «sacrificare una serie all'altra», la serie propriocettiva a favore di quella visiva e a permettergli quell'oblio di sé e quella situazione di regressione e di passività grazie alle quali si instaurano i profondi fenomeni di identificazione e di proiezione studiati, in particolare, dalla teoria psicoanalitica del cinema. «Non sono più nella mia vita, sono nel film che è proiettato davanti a me» scrive Wallon.Dal momento in cui nella sala cinematografica si spengono le luci e inizia il film, lo spettatore si trova in una situazione di isolamento e di abbandono e passa, secondo Erich Feldmann, da una «situazione reale» a una «situazione irreale», del tutto illusoria. Michotte - al quale si devono gli importanti esperimenti sull'impressione di realtà, il cui fattore essenziale è il movimento, che conferisce rilievo e corporeità agli oggetti filmati - sostiene, a sua volta, che l'esperienza cinematografica è una singolare congiunzione di reale e di artificiale in cui lo spettatore vive la contraddizione tra ciò che «sente» (la percezione quasi «sensoriale» di ciò che vediamo e le reali emozioni e sentimenti che il film provoca) e ciò che «sa» (il fatto che ciò che vediamo non è reale). È un'esperienza quindi che giustifica la formazione del concetto di illusione, molto vicino a quel processo di scissione dell'Io, di dialettica tra «sapere» e «credere», tra presenza vissuta e assenza reale (dell'oggetto filmato), che sta alla base del feticismo dello spettatore, analizzato più tardi da Metz. Tra gli anni quaranta e cinquanta, sulla «Revue internationale de filmologie», sono apparsi alcuni articoli significativi sul rapporto tra cinema e psicoanalisi, in particolare quelli di due psicoanalisti, Serge Lebovici e Cesare Musatti, ambedue dedicati all'analogia tra film e sogno e tra spettatore e sognatore, analogia che era stata rilevata in diversi interventi già negli anni dieci e venti (e nelle dichiarazioni di famosi registi come Jean Epstein e René Clair). Soffermiamoci su Psychanalyse et Cinéma, apparso nel numero 5 del 1949. L'autore, Lebovici, afferma che solo il cinema si serve dei mezzi di espressione del pensiero onirico e che il linguaggio cinematografico può essere compreso meglio alla luce delle nostre conoscenze sul sogno. Come il sogno infatti il film si basa sulla raffigurabilità, sull'esigenza di raccontare attraverso delle immagini in movimento; come il sogno è più suggestivo che propositivo; come nel sogno vi è un'assenza di legami causali e spazio-temporali, che permette al film passaggi non logici ed estremamente mobili e arbitrari. Inoltre certi procedimenti linguistici (Lebovici accenna alla dissolvenza e al carrello) sono analoghi a quelli del sogno e paragonabili ai meccanismi tipici attraverso cui la censura trasforma gli elementi onirici latenti nel sogno manifesto, grazie a un dispositivo associativo che collega - secondo la logica di un senso segreto o ignorato - una rappresentazione ad un'altra. E ciò avviene, ricorda Lebovici, per condensazione (quando più catene associative si condensano in una rappresentazione unica) e per spostamento (quando una rappresentazione marginale e periferica prende il posto della rappresentazione centrale). Anche le condizioni della proiezione - e questo sarà un tema sviluppato in seguito soprattutto da Baudry - con le caratteristiche di oscurità, isolamento, immobilità, regressione ed irrealtà, apparentano lo spettatore al sognatore, permettendogli di vivere potenti processi di identificazione e di proiezione. Successivamente Metz sottolineerà affinità e scarti tra film e sogno, mettendo in evidenza l'esistenza di un punto, di un momento - là dove lo spettatore vive il film con particolare intensità e minore vigilanza (si dimentica che sta vedendo un film) e nel sognatore si aprono incrinature e interstizi («sto sognando», «non è che un sogno») - in cui le due situazioni, stato onirico e condizione spettatoriale, «tendono a raggiungersi». L'insieme delle somiglianze e delle differenze esistenti tra il film e il sogno ruota, secondo Metz, attorno a tre punti: la consapevolezza o meno del soggetto (per il sogno si può parlare di «illusione di realtà» mentre per il film di «impressione di realtà»), la normalità o artificialità della percezione allucinatoria (per il film si tratta di immagini reali e per il sogno di immagini mentali) e infine la maggiore o minore comprensibilità e logicità del racconto testuale (si passa dall'incoerenza e assurdità del sogno alla costruzione logica e coerente del film). A queste considerazioni se ne possono aggiungere anche delle altre: il fatto che sia il sogno che il film si basano su immagini che scorrono, che svaniscono, l'una dopo l'altra, e che sia durante il sogno che nella visione di un film entriamo dentro un mondo con proprie regole, che non ci stupiscono mai e dove «tutto è possibile e reale». Sono quindi immagini che presentano un duplice tratto, quello di «coniugare intensità e fugacità». | << | < | > | >> |Pagina 51Se ne deve quindi dedurre che sono votati a una mancanza di senso e di necessità i film che cercano di ripercorrere o rifare generi desueti? Che la figura dell'eroe è morta per sempre e che si può, al massimo, raccontare l'antieroe? Che per quanto godimento possano dare la visione o la ri-visione dei film d'avventura o dei western, non possiamo non sapere - perché siamo moderni, come diceva Roland Barthes, riferendosi all'impossibilità di riscrivere Stendhal o Dumas - che non si possono ri-raccontare o ri-girare dei film come quelli di Ford, di Hawks o di Michael Curtiz e forse nemmeno di Peckinpah? Che non si può insomma ricominciare qualcosa che è finito, che non si può resuscitare qualcosa che è morto, che ha già mostrato il massimo e quindi la fine delle sue possibilità.Ma i teoremi servono anche per essere smentiti e ciò che è valido per la letteratura, ad esempio, può non esserlo per il cinema. Indochine infatti non è un caso isolato; altri film pongono sul tappeto la stessa questione: è ancora possibile l'Avventura? È ancora possibile fare un cinema di genere «avventuroso» senza cadere nel ridicolo, nel superato o nella mancanza di identità? E ancora possibile raccontare la figura dell'eroe assoluto? In questi ultimi anni a cavallo tra i due secoli, alcuni film di grande successo, ad esempio L'ultimo dei Moicani, Il gladiatore o la saga de Il signore degli anelli, hanno risposto positivamente a questa domanda, mentre altri hanno percorso sentieri meno battuti, come Unforgiven (Gli spietati, 1992) di e con Clint Eastwood. Unforgiven si situa infatti in quel territorio di frontiera che sta tra il cinema d'autore e la rivisitazione del genere, in questo caso il western e mette in scena un personaggio che ne chiude in sé entrambe le anime: quella classica, con l'eroe fuorilegge e quella moderna con il personaggio dell'antieroe, del misfit, già praticato e rivisitato da Huston, da Peckinpah, da Altman e da Jarmush con Dead Man. Da quando il cinema è cinema una cosa che gli eroi cinematografici devono saper fare meglio di tutto è uccidere, come dimostra anche Clint Eastwood, facendoci apprezzare ancora di più la «bellezza» cinematografica della violenza e della morte, avendocene mostrate, nella prima parte del film, proprio la tragicità e assurdità, la difficoltà e impossibilità. Questo tema nel film di Eastwood è presente dalla prima immagine all'ultima e quando il suo personaggio di «anti-eroe» - cioè di qualcuno che non sa più usare la pistola, che alleva maiali, che è vedovo e che non ha più neppure interesse per il sesso - ritorna ad essere l'eroe di una volta, anche se in senso negativo, perché fuorilegge, assassino, ladro e alcolizzato, il suo marchio di eroe sta proprio nella facilità e precisione con cui uccide, nel sangue freddo, nella mira infallibile e veloce e, cosa non meno importante, nella motivazione che lo porta ad uccidere: vendicare l'assassinio di un amico, causa sempre nobile e giusta nel codice del genere western. Quando il nostro «eroe», con la determinazione del western classico, entra nel famoso saloon e ne uccide una quindicina tutti in una volta, tra cui il temibile sceriffo, improvvisamente il film cambia, anche se non cambia affatto registro e l'unitarietà di stile e di racconto rimangono intatti, senza enfasi o retorica. Prima tutto è faticoso, difficile, tanto l'accudire i maiali, quanto il salire a cavallo o il riuscire a colpire a morte un uomo, dopo tutti gli stessi gesti sono risolti con modi veloci e sicuri. Unforgiven vuole forse cogliere la contaminazione continua tra il documentario realistico e la finzione spettacolare, tra l'effetto di reale (la verità e la fatica dei corpi) e l'effetto di realtà (l'immagine convenzionale e stereotipata dell'eroe che sale a cavallo e spara veloce nel cinema western): ci chiediamo infatti, dove terminano, nella finzione, la sicurezza e la facilità della seconda parte e dove cominciano, nella realtà, la difficoltà e la goffaggine della prima? Se Indochine ha un problema d'identità e di genere, se Unforgiven, bello, lento e solenne come una cerimonia giapponese è un alto esempio di western moderno che «rinnova» quindi il cinema d'avventura, The Last of the Mohicans di Michael Mann (1992) e The Gladiator di Ridley Scott (2000), sebbene di generi diversi, sono entrambi dei veri film d'avventura, avvincenti ed emozionanti, dove ognuno gioca il proprio ruolo fino in fondo e dove dei giovani attori (Daniel Day-Lewis e Russell Crowe) si misurano efficacemente con il modello dell'eroe, entrambi mescolando insieme quello epico e quello tragico. Nell' Ultimo dei Moicani Nathaniel o meglio Hawkeye (Occhio di Falco) è, come ci hanno insegnato gli esegeti del romanzo di James Fenimore Cooper, l'archetipo dell'eroe americano, la figura fondatrice dell'eroe puro, forte e coraggioso. Daniel Day-Lewis, attore inglese, incarna perfettamente - per bellezza fisica e talento - questo personaggio impegnativo e che non condivide nessuna delle caratteristiche degli «anti» eroi di film precedenti. Il suo corpo agile e asciutto fa tutt'uno con la lunga carabina e con la terra su cui corre, la sua mira è infallibile, sa sempre cosa fare e cosa dire, è l'eroe che salva e che salvifica: siamo nel dominio della finzione assoluta, dell'illusione e del mito epico-romantico. | << | < | > | >> |Pagina 1205. Lo «stadio dello specchio», il legame edipico e la figura del doppioL'INTRECCIO PERPETUO
Strategia del ragno, Gli uccelli
"Testo" vuol dire "Tessuto"; ma laddove fin qui si è sempre preso questo tessuto per un prodotto, un velo già fatto dietro al quale, più o meno nascosto, sta il senso (la verità), adesso accentuiamo, nel tessuto, l'idea generativa per cui il testo si fa, si lavora attraverso un intreccio perpetuo; sperduto in questo tessuto - questa tessitura - il soggetto vi si disfa, simile a un ragno che si dissolva da sé nelle secrezioni costruttive della sua tela. Se amiamo i neologismi, potremmo definire la teoria del testo come una "ifologia" (hyphos, è il tessuto e la tela del ragno). ROLAND BARTHES, Il piacere del testo Il soggetto da cui parte Bernardo Bertolucci per il suo quarto film, girato nel 1969, è il Tema del traditore e dell'eroe di Borges, un breve racconto scritto nel 1944. In Borges l'azione si svolge nel passato e «in un paese oppresso e tenace» che lo scrittore indica nell'Irlanda. Un cospiratore viene assassinato in circostanze misteriose e l'enigma del delitto rimane insoluto. Dopo molti anni il nipote indaga su questo delitto per scoprire la verità e gli si rivelano poco a poco tracce inquietanti di «eleganti misteri» e il disegno occulto di un'«armonia prestabilita»: non solo la vicenda ricalca e imita la storia (l'assassimo di Giulio Cesare) ma, fatto ancora più sconcertante, copia la letteratura (il Macbeth di Shakespeare). Il protagonista del racconto accerta inoltre che un compagno dell'eroe aveva tradotto i due drammi shakespeariani (il Giulio Cesare e il Macbeth) e un manoscritto sui Festspiele svizzeri (ampie rappresentazioni teatrali a cui partecipava la popolazione di un intero paese). Gli viene infine rivelato che il cospiratore-eroe, prima di morire, aveva firmato la sentenza di morte di un traditore il cui nome era stato cancellato. A questo punto il racconto di Borges opera un vero e proprio salto narrativo, il nipote riesce a decifrare l'enigma del delitto, ma non vengono riportati gli elementi dell'indagine e il lavoro di deduzione attraverso cui viene scoperta la verità. Anche perché la verità è in qualche modo indicibile: il cospiratore infatti era stato ucciso dai suoi compagni essendo lui stesso il traditore, e il delitto era stato costruito nei minimi particolari, con il suo accordo e la sua partecipazione, perché la sua morte si scolpisse nell'«immaginazione popolare» come il martirio di un eroe della patria. Nel film, oltre a spostare la storia in Italia durante il fascismo, a situare il luogo dell'azione nella splendida Sabbioneta, ribattezzata col nome di Tara (evidente omaggio a Via col vento), a inventare il personaggio femminile di Draifa (interpretato da Alida Valli), l'antica amante dell'eroe-traditore, a scindere il compagno dell'eroe in tre amici, e soprattutto a trasformare il rapporto di parentela tra bisnonno-nipote in quello tra padre-figlio, Bertolucci deve costruire anche i passaggi narrativi e psicologici che porteranno il figlio alla scoperta della verità. Athos (Giulio Brogi), il figlio che trent'anni dopo va alla ricerca della verità e quindi della verità del padre, scopre che colui che credeva un eroe alla «resa dei conti» si è dimostrato un traditore, ambiguamente diviso tra un'apparenza pubblica (di eroe) e una realtà soggettiva (di traditore), ambiguità sottolineata da una vita privata anch'essa divisa tra il rapporto con la moglie (sottinteso) e quello con l'amante (messo in scena). Sviluppando alle estreme conseguenze il tema di Borges, nel film di Bertolucci i due volti cangianti e opposti dell'eroe e del traditore arrivano a congiungersi in un unico volto: in qualsiasi momento l'eroe può essere un traditore e, viceversa, il traditore un eroe. Ogni sequenza che mette in scena il padre può avere un doppio significato e una duplice interpretazione: un uomo diverso che sente il disagio e il peso di una situazione politica e morale difficilmente vivibile, oppure un ipocrita? Un uomo che vive nella speranza di un futuro migliore, oppure un vigliacco che elude i problemi, nel flash-back con Draifa? Una personalità forte che sovrasta e si distanzia da tutti quelli che lo circondano, oppure un semplice farceur, nella sequenza del canto del gallo e in quella della balera? Un cospiratore che organizza un attentato e che si accorge, proprio mentre lo sta organizzando, del suo inevitabile fallimento, oppure un delatore che tradisce i compagni: nella sequenza in cui Athos e i tre amici si incontrano, in riva al Po, dentro una baracca abbandonata? Oppure infine un autentico eroe che sacrificando se stesso si fa uccidere per creare la leggenda del martire antifascista? «Qual era la vera trama di Athos Magnani?». Questo interrogativo, che nel film viene formulato, ma a cui il film non dà, né si pone il problema di dare una risposta, introduce non solo il tema della doppiezza del padre, che è il tema del racconto di Borges, ma anche quello, molto più importante nel film di Bertolucci, del figlio come doppio del padre. In Strategia del ragno infatti ciò che svela il mistero e risolve l'indagine è uno specchio, così come per tutto il film Athos si è metaforicamente guardato allo specchio, quello specchio rappresentato dal padre, che è identico al figlio. Nell'inconscia ricerca della propria identità attraverso la consapevole ricerca dell'identità del padre, Athos è costretto, rimanendo a Tara - un paese abbandonato e dimenticato, cristallizzato nel ricordo di una lotta antifascista forse mai combattuta o non combattuta abbastanza - a guardarsi dentro, a ricercare un'identità di cui è privo perché identico a qualcun altro la cui identità, a sua volta, è fittizia, fallace. Nel momento in cui Athos figlio perde il proprio doppio, quando scopre nel padre il traditore, l'immagine allo specchio sbiadisce, si annulla, muore. Athos si guarda allo specchio, ma non vede più nessuna immagine, neppure quella simile e doppia del padre, così come alla stazione, nel finale del film, non ci sono più treni, il binario muore tra l'erba incolta e devastatrice. Quello che Athos compie è un viaggio che lo condurrà a una sconfitta, due topoi sintetizzabili dalla prima immagine del film che continua nell'ultima: una lenta panoramica che parte, in alto, da una macchia di alberi verdi e si ferma sulla stazione di Tara, in totale, mentre arriva un treno da cui scenderà Athos; panoramica che potremmo continuare con il carrello finale che scopre, in basso, l'erba incolta che cancella i binari, che esclude la possibilità stessa di un ritorno nel mondo della realtà. Due inquadrature che stabiliscono il senso di un viaggio che inizia con una speranza e si perde in una sconfitta impotente. | << | < | > | >> |Pagina 1376. Il voyeurismo e la scena primariaL'ESSENZIALE È INVISIBILE AGLI OCCHI
Il sospetto
[...] Sull'onda di queste riflessioni en auteur possiamo rintracciare, nel «ventaglio delle possibilità di questo particolare modo di guardare, in una specie di catalogo di possibili scene primarie» almeno due modelli mediante i quali il cinema rinnova il piacere proibito (insieme al turbamento e all'angoscia) del voyeurismo. Può esserci un personaggio che guarda, inosservato, una scena proibita, quasi sempre di tipo erotico e lo spettatore spia questa scena insieme e dal punto di vista del personaggio con cui si identifica; oppure è direttamente la macchina da presa che si muove alla scoperta di qualcosa di proibito, intimo, pericoloso o sconosciuto, grazie anche a movimenti di gru o di dolly particolarmente spericolati e virtuosistici: non possono non venire alla mente gli incipit di Citizen Kane (Quarto potere), di Written on the Wind (Come le foglie al vento) o di Psycho, gli esempi potrebbero essere tanti, più o meno evidenti, più o meno scoperti. Un modello ancora più astratto e formale di quel «particolare modo di guardare» che si chiama voyeurismo - non un semplice guardare, non una visione qualsiasi - può essere trovato nella schematizzazione proposta da Freud riguardo ai frammenti del famoso «sogno dei lupi» ed interpretato - dopo molti anni di analisi di un paziente chiamato, per l'appunto, l'Uomo dei lupi - come una riattivazione del ricordo della scena primaria: «Un avvenimento reale - che risale a un'epoca assai remota - guardare - immobilità - problemi sessuali - evirazione - il padre - qualcosa di terribile». Tale modello collega sia qualcosa che riguarda la visione in sé, sia le condizioni di fruizione dello spettatore. Sia il film quindi, che il cinema. Un avvenimento reale - che risale a un'epoca assai remota evoca quell'«illusione referenziale» «fondamento di ogni "impressione di realtà": lo spettatore ritiene che le diverse immagini siano state prelevate su un vasto e unico blocco di realtà dotato di un'esistenza anteriore»; guardare - immobilità è la condizione di sovrapercezione visiva e di sottomotricità tipica dello spettatore; problemi sessuali - evirazione - il padre - qualcosa di terribile allude sia ai possibili contenuti sia al meccanismi che lo schermo induce nello spettatore: scena di seduzione, angoscia di castrazione (feticismo), scena primaria (voyeurismo) e complesso edipico. Lo vedremo meglio parlando di due film che, in modo latente e secondo le sue infinite varianti e possibilità, ripropongono il modello formale appena citato, mi riferisco a Suspicion (Il sospetto, 1941) di Alfred Hitchcock e a The Searchers (Sentieri selvaggi, 1956) di John Ford, il film al centro di questo capitolo. Il film di Hitchcock presenta una breve successione di inquadrature che mi sembra particolarmente indicativa ed estremamente originale di una messa in scena mascherata o inconscia oppure, secondo un'ipotesi rovesciata, argutamente allusiva della scena primaria (non è così importante né pertinente - se mai fosse possibile - inseguire le cosiddette intenzioni dell'autore, quanto cogliere i risultati estetici raggiunti). Un accenno alla trama, per permettere al lettore una migliore comprensione: il protagonista, un affascinante playboy dalla dubbia fama, Johnny (Cary Grant), conosce e corteggia la timida e impacciata Lina (Joan Fontaine). La giovane, appartenendo ad una famiglia di rigidi costumi che non avrebbe mai approvato il suo matrimonio con Johnny, fugge con lui e lo sposa. Ma la felicità del loro matrimonio sarà oscurata dai continui sospetti di Lina verso Johnny e verso i suoi comportamenti, apparentemente ambigui, fino a crederlo un assassino e a sentirsi direttamente minacciata. Ogni gesto, ogni azione che lui compie saranno interpretati da Lina come un attentato alla sua vita. Ma quando alla fine, in un turbolento viaggio in macchina, Lina si confronta con Johnny, scopre la sua innocenza.
La successione di inquadrature presenti all'interno della terza sequenza del
film e di cui tratterò ha inizio nel momento in cui Johnny convince Lina a non
andare in chiesa insieme a tre amiche, ma ad allontanarsi con lui; ed è composta
di quattro piani, montati tra loro per stacchi successivi.
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