Copertina
Autore Elisabetta Ambrosi
CoautoreMaurizio Ferraris, Ingrid Salvatore, Alessandro Ferrara, Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti, Salvatore Veca, Stefano Petrucciani, Enzo Di Nuoscio, Richard Rorty, Franca D'Agostini, Martha C. Nussbaum, Judith Butler, Roberta De Monticelli
Titolo Il bello del relativismo
SottotitoloQuel che resta della filosofia del XXI secolo
EdizioneMarsilio, Venezia, 2005, I libri di Reset , pag. 192, cop.fle., dim. 120x170x15 mm , Isbn 978-88-317-8831-1
CuratoreElisabetta Ambrosi
LettoreRenato di Stefano, 2006
Classe filosofia , politica , diritto , relativismo-assolutismo
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Indice


    IL BELLO DEL RELATIVISMO.
    QUEL CHE RESTA DELLA FILOSOFIA NEL XXI SECOLO

  7 Introduzione. La filosofia dopo l'11 settembre
    di Elisabetta Ambrosi

 47 Prima parte. L'«accusa»

 49 Il pensiero debole e i suoi rischi
    di Maurizio Ferraris
 58 Quando il post-modernismo diventa un tic etnocentrico
    di Ingrid Salvatore

 63 Seconda parte. La «difesa»

 65 Per il pensiero debole nessuna capitolazione
    intervista a Richard Rorty di Giancarlo Bosetti
 71 Ma dopo Wittgenstein non si torna indietro
    di Alessandro Ferrara
 80 Le ragioni etico-politiche dell'ermeneutica
    di Gianni Vattimo
 85 Ci vuole più pensiero, ma non metafisico
    di Pier Aldo Rovatti
 91 Riconoscere la contingenza ma difendere l'Illuminismo
    di Salvatore Veca
100 Il post-modernismo è in buona salute (teoretica)
    di Stefano Petrucciani
105 Elogio del relativismo
    di Enzo Di Nuoscio

115 Terza parte. Politica e filosofia: il caso Rorty

117 Per la politica la filosofia è diventata inutile
    di Richard Rorty
127 «Mr. Rorty», cattiva filosofia senza compiti pubblici
    di Franca D'Agostini

137 Quarta parte. L'universalista contro la post-modernista

139 Così si manda in fumo la ragione
    di Martha C. Nussbaum
156 Invece la critica di Foucault è preziosa
    di Judith Butler

173 Quinta parte. Come un epilogo

175 Importante non nominare il nome di Dio invano
    di Roberta De Monticelli

185 Gli autori

 

 

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Pagina 7

Introduzione. La filosofia dopo l'11 settembre

di Elisabetta Ambrosi




Il post-modernismo è morto, definitivamente distrutto dopo anni di agonia a causa delle ferite mortali ricevute l'11 settembre 2001. In quel giorno, il «mondo reale» ha messo il suo segno sulla coscienza collettiva dell'Occidente. Ha dimostrato ciò che era stato precedentemente argomentato dai critici del post-modernismo: che negare l'esistenza di una realtà oggettiva e celebrare quella negazione è politicamente pericoloso e intellettualmente infingardo.

Così scriveva, nel settembre 2002, Julian Baggini, il giovane direttore della rivista «Philosopher's magazine». Su questa provocazione, che ipotizzerebbe un legame tra un evento scioccante di portata globale e la crisi definitiva del pensiero debole, «Reset» ha aperto una discussione a cui hanno preso parte significative voci del dibattito filosofico italiano e anglo-americano; e lo ha fatto non tanto per prendere tout court le difese di un'argomentazione che appare agli occhi degli addetti ai lavori piuttosto sbrigativa, né per rispolverare vecchie discussioni tra moderni e post-moderni, al centro del dibattito filosofico italiano degli anni ottanta e ben prima nel contesto francese. Diverse sono le motivazioni che ci hanno spinto a far circolare una simile tesi: in primo luogo, il tentativo di capire se la provocazione un po' rozza che stabiliva un nesso tra 11 settembre e fine del debolismo racchiudesse almeno un'intuizione su cui valesse la pena riflettere; questa intuizione è a parer nostro riscontrabile nell'idea secondo cui nel mondo globalizzato e attraversato da nuove tensioni e conflitti ci sia più utile una filosofia normativa, seppure non in senso forte, che non un approccio scettico, che rinunci a dire in che modo la realtà in cui viviamo potrebbe essere migliore.

La seconda ragione, legata alla prima, ma di segno opposto, è invece costituita dal desiderio di analizzare le critiche al relativismo post-modernista in maniera attenta, per denunciarne la parziale infondatezza teorica: ciò infatti ci ha consentito indirettamente di rispondere a una serie di polemiche nostrane, non certo più raffinate di quelle di Baggini, che vedono nel relativismo la causa della decadenza dei nostri tempi e si fanno fautrici di una strana commistione di conservatorismo politico e realismo cristianeggiante, assai poco attrezzato filosoficamente e pure tanto in voga tra i politici di casa nostra, in cerca di argomentazioni «prét-à-porter» con cui ammantare operazioni strumentali volte spesso al consenso del mondo cattolico.

Il volume è diviso in cinque sezioni: nella prima, sono raggruppate le posizioni più critiche verso le filosofie deboliste; nella seconda, più «popolata», prendono la parola gli autori che difendono le intuizioni centrali del pensiero post-moderno; la terza è dedicata, a partire da un saggio di Rorty, al tema specifico del rapporto tra filosofia e politica, che costituisce una declinazione del tema della «sostenibilità» delle filosofie deboli oggi; nella quarta, appaiono due interventi di segno contrario di due tra le più note filosofe statunitensi, Martha C. Nussbaum e Judith Butler: l'una, seppure in maniera assai peculiare, «paladina» dell'universalismo, la seconda attestata su posizioni foucaultiane e decostruttiviste; nella quinta, infine, troverete un intervento della filosofa Roberta De Monticelli con il quale abbiamo deciso di concludere il volume. Qui l'autrice ricorda la novella di Boccaccio su Nathan il saggio e i tre anelli, che a parer nostro contiene una delle immagini più felicemente in grado di esprimere come si possa mantenere la passione nelle proprie convinzioni, rispettando al tempo stesso quelle, diverse, altrui.

[...]

La discussione pubblica sul relativismo

Nelle polemiche sul rapporto tra filosofie deboli e terrorismo, il punto centrale è comunque, in maniera non sorprendente, quello – antico – del rapporto tra verità e interpretazione, riletto sullo sfondo dei nuovi scenari mondiali. Le diverse posizioni sono ormai note da tempo: da una parte, coloro che si inscrivono nella tradizione post-moderna, o, come vedremo, semplicemente ermeneutica, rivendicano l'impossibilità di isolare una realtà «esterna» e oggettiva, valorialmente neutra, e nella difesa del carattere situato e relativo di ogni verità trovano l'argomentazione per criticare ogni forma di crociata culturale.

Dall'altra, i realisti, o forse sarebbe più corretto dire gli «oggettivisti», o ancora meglio, «naturalisti», se usiamo la celebre immagine di Rorty della filosofia come specchio della natura, si appellano a una realtà che sarebbe non solo indipendente dalle nostre interpretazioni ma che anzi costituirebbe il criterio di verità attraverso cui giudicare la correttezza e la bontà di azioni individuali e collettive.

Di questa antica disputa, sulla quale molto, forse fin troppo, si è già detto, esiste anzitutto oggi una lettura tutta politica, contingente. Si tratta di una battaglia strumentale, legata ad un preciso momento della scena politica che ben poco ha a che fare con le riflessioni filosofiche. La descrive efficacemente Ingrid Salvatore in apertura del suo articolo:

È da un po' che circola la tesi secondo cui — trovandoci di fronte a una sfida che mette in discussione i fondamenti stessi del nostro stile di vita liberale — non possiamo più permetterci alcun lusso teorico. Che si ponga fine, dunque, alle incertezze sulla Ragione, alla tolleranza di coloro che sono con noi intolleranti, alle mollezze sul pluralismo, alla proliferazione di identità che sfidano la compattezza dei nostri valori: religiose, sessuali, estetiche. Non ci possiamo più permettere questa decadenza.

Il sentimento di impasse che deriva da questo tipo di argomentazione è ben spiegato da Rovatti nell'intervento che pubblichiamo, in cui il filosofo triestino denuncia come la stigmatizzazione del relativismo e l'esaltazione di un pensiero del fondamento «ci facciano più che altro girare a vuoto e ci spostino all'indietro, in una scena già molto usata, come se nulla fosse accaduto in filosofia e nel pensiero in generale durante gli ultimi due decenni». In realtà, prosegue Rovatti,

forze, per dir così, allo stato puro, blocca con tutta evidenza la possibilità di comprendere le cose. Le battaglie per il realismo o per le ontologie oggettive sono chiaramente indizi di un grande disagio e anche di un certo smarrimento. Basta un minimo di criticità debole per rendersi conto che sono battaglie reattive.

[...]

Post-modernista, una caricatura troppo semplice?

Lasciando in secondo piano la polemica politica, è possibile rivolgersi alle critiche più strettamente filosofiche rivolte al pensiero debole, che sono di due tipi, l'una legata all'altra. La prima riguarda il relativismo paralizzante delle filosofie di derivazione post-modernista, che scaturisce dalla rinuncia all'idea di verità che il rifiuto di una qualche forma di fondazione normativa porterebbe con sé. La seconda ha a che fare con le conseguenze di tale rinuncia nello spazio pubblico, che genererebbe l'impossibilità di una critica sociale e politica e pertanto la visualizzazione di un mondo migliore, idea regolativa attraverso cui migliorare l'esistente.

Il relativismo, dunque, appare come attributo negativo del pensiero post-moderno (anche se, come vedremo, quest'ultimo non sta esattamente al realismo naturalista come il relativismo sta all'universalismo). «Fuori di metafore sataniche, una volta che si è detto che tutto, ma proprio tutto, compresa la luna e le stelle, è relativo, frutto di volontà di potenza, che la ragione è violenta e la filosofia nel migliore dei casi futile, allora il filosofo post-modernista non sa proprio più cosa fare o, per restare in tema, non sa a che santo votarsi», scrive Maurizio Ferraris nell'intervento qui pubblicato.

Altrettanto caricaturale è la descrizione che del relativista fa, nel volumetto Contro il relativismo, Giovanni Jervis, che tende a presentare il relativista come uno scettico radicale, fautore di un grottesco antirealismo, contrario ad emettere qualsiasi giudizio di valore sulle culture, sofisticato parolaio, svalutatore di ogni statistica ed esperimento, infine detrattore di «tutto ciò che si presenta con pretese di oggettività e universalità»; al contrario, il realista empirista viene descritto da Jervis come un individuo di buon senso, convinto che alcune società siano migliori di altre, per cui — aggiunge l'autore in maniera un poco curiosa — «ritiene che il liberalismo in economia, l'indipendenza della magistratura, la democrazia parlamentare, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell'insieme, assetti sociali superiori a tutti gli altri finora escogitati dall'uomo» (come è facile vedere, occorrerebbe anche intendersi sui termini. In effetti, ciascuno tende a dipingere il relativista e il suo contrario a seconda delle proprie convinzioni!).

L'immagine caricaturale del relativista non è tuttavia forse di quelle che più aiutano alla comprensione delle reali opposizioni in campo. Leggendo gli interventi di Ferrara, Petrucciani, D'Agostini e altri, è facile vedere come l'ironico sostenitore di una incommensurabilità radicale venga comunque stigmatizzato perché di fatto considerato una figura concettualmente ed esistenzialmente impossibile. Ha scritto in proposito Seyla Benhabib, la quale mette pure in guardia i fautori della commensurabilità totale:

Quelli di incommensurabilità e intraducibilità radicale sono concetti incoerenti, perché per poter individuare un modello di pensiero, un linguaggio — e, si potrebbe aggiungere, una cultura — in quanto complessi e significanti sistemi umani di azione e significazione, quali in realtà sono, occorre prima di tutto che si sia almeno riconosciuto che concetti, parole, rituali e simboli di sistemi diversi hanno significati e riferimenti che è possibile selezionare e descrivere in modo intelligibile.

Le fa eco Di Nuoscio, che nell'intervento qui pubblicato sostiene che «parlare di linguaggi intraducibili è un po' come parlare di colori invisibili».

Contro una immagine grottesca del relativista si scaglia anche Gianni Vattimo, che nei suoi volumi ha spesso ricordato come l'ermeneutica, per non rischiare di essere «accettabile, urbana, innocua», ma anche soprattutto per non riproporsi come una «metafisica» delle culture, debba riconoscersi essa stessa radicalmente storica e contingente: «Il passo ulteriore che si tratta di compiere è quello di domandarsi se tale metateoria non debba riconoscere più radicalmente la propria storicità, il proprio statuto di interpretazione, eliminando l'ultimo equivoco metafisico che la minaccia e che tende a farne una pura filosofia relativistica della molteplicità delle culture». Nelle parole del filosofo Giacomo Marramao, occorre evitare di sostituire «alla metafisica dell'Uno quella del Molteplice».

Altrettanto duro con un'immagine paradossale del relativismo è anche un post-modernista sui generis come Massimo Cacciari che — in un'intervista rilasciata a «la Repubblica» nel giugno 2005 — dava un'accezione inedita e suggestiva del termine: «Relativismo non vuol dire di per sé essere indifferente ai valori. Il relativismo non ha nessun significato di semplice equivalenza o equidistanza rispetto alle diverse posizioni. Relativismo vuol dire che tutte le diverse posizioni stanno in relazione, [...] che i valori sono tali soltanto nella misura in cui si riconoscono in relazione». E aggiungeva, riferendosi alle critiche provenienti dalla Chiesa cattolica: «Fin tanto che si parlerà della cultura contemporanea in questa chiave relativistica la Chiesa si condanna a non comprendere l'essenza alta, anche nobile, certamente tragica, della cultura contemporanea».

[...]

Le ragioni dell'ermeneutica

Queste riflessioni ci permettono di arrivare all'aspetto centrale della discussione del volume, che scaturisce dalla riflessione sul relativismo. Infatti, oltre a un problema di «tono» (ironico), il vero punto debole degli attacchi ai risvolti relativisti dell'ermeneutica debole consiste nel fatto che talvolta i loro critici dimenticano, più o meno volutamente, che la tesi relativistica non è che una delle conseguenze di un paradigma teorico più ampio, quello ermeneutico, definibile secondo Vattimo come «la filosofia che si sviluppa lungo l'asse Heidegger-Gadamer».

Nelle riflessioni ermeneutiche di Heidegger (almeno dell'Heidegger «di sinistra», come lo definisce Vattimo), Gadamer, Wittgenstein, Pareyson, Ricoeur, il relativismo – mai assoluto perché, come già detto, un tale relativismo a detta di tutti si auto-confuterebbe – appare soprattutto come il risultato di una analitica dell'esistenza umana, da cui secondariamente scaturisce la tesi sulla natura interpretativa e opaca della verità. Questa analitica, di cui il paradigma si trova in Essere e tempo di Heidegger, rivendica la tesi per cui «la constatazione della secondarietà della verità come corrispondenza» così come il «riconoscimento [...] della finitezza – e cioè storicità, eventualità – della verità primaria» sono corollari del fatto che «il soggetto non è il portatore dell'apriori kantiano, ma l'erede di un linguaggio storico-finito che rende possibile e condiziona il suo accesso a se stesso e al mondo». Come sottolinea con forza Zygmunt Bauman, «data la struttura originaria dell'essere-insieme umano, una morale non ambivalente è impossibile sul piano esistenziale».

In questa prospettiva, la rivendicazione del pluralismo interpretativo appare non come un pregiudizio anti-scientifico (che pure ha caratterizzato alcuni autori del filone ermeneutico) né come un vezzo immotivato, quanto come una conseguenza non aggirabile di una descrizione dell'esistenza. Quest'ultima, «all'ideale di scientificità inteso come giustificazione ultima, oppone l'esperienza prima di appartenenza del soggetto conoscente, agente e sofferente, ad un mondo, di cui prova la presenza in primo luogo in maniera passiva e recettiva». E, parallelamente, «all'esigenza husserliana del ritorno all'intuizione, oppone la necessità per ogni comprensione di essere mediata da una interpretazione che ne esibisce la insormontabile plurivocità».

A loro volta, il carattere intrinsecamente linguistico, e dunque storico, di ogni asserzione, l'impossibilità di fornire una dimostrazione conclusiva delle teorie filosofiche (di cui si continua a difendere, seppure in forme nuove, la diversità rispetto alle verità scientifiche), la fuoriuscita da logiche ideologiche o da filosofie della storia deterministiche, l'accettazione del ruolo della contingenza nella vita morale, sono tutti elementi che appaiono agli occhi degli autori della seconda parte del volume come un'eredità filosofica complessa, che nasce da una riflessione sulla crisi delle certezze metafisiche, epistemologiche ed etiche che ha origine tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

Questa eredità fa sì che, come sottolinea Petrucciani, il post-modernismo sia, volenti o nolenti, tuttora «in salute» perché «viviamo ancora in un mondo che potremmo definire post-nietzschiano», per uscire dal quale occorrono operazioni filosofiche più complesse di quelle messe in atto attraverso facili caricature di Vattimo, Rorty o Lyotard. La vera posta in gioco è un'altra, ed è illustrata in un efficace crescendo retorico da Alessandro Ferrara:

Avete voi un modo per affermare, contro Wittgenstein, che possiamo pensare il mondo, con un qualche grado di differenziazione e non solo con reazioni a stimoli elementari, fuori dai quadri semantici di un linguaggio? Avete voi modo di riaffermare, contro Wittgenstein, che stabilire se una regola sia stata seguita è indipendente dal riferirsi a una prassi a sua volta inclusa in una forma di vita? Avete voi modo, contro Quine, di ri-tracciare con precisione la linea che separa ciò che è vero in virtù di uno stato del mondo e ciò che è vero in virtù del significato dei termini? Avete voi modo, contro Weber, di negare che ogni operazione conoscitiva comporti un momento di selezione in cui si isola ciò che riteniamo importante conoscere in un oggetto, e che tale attribuzione di importanza conoscitiva dipende da valori spesso rivali non riconducibili a una gerarchia unica e incontestabile? Non avete risposta esauriente e conclusiva a queste domande? E allora l'orizzonte post-moderno è ancora tutto davanti a voi, insuperato.

[...]

Politica, basta la decostruzione del potere?

Prima di arrivare alla conclusione, è opportuno introdurre una seconda declinazione della critica sul rapporto fondazione e normatività nel pensiero debole, spiegata in maniera ironica da Maurizio Ferraris nel suo intervento: «La tolleranza non basta, ci vuole la realtà, anche per i filosofi, e la fuga nello spirito, come sempre avviene, è il ripiego di filosofi magari anche grandi (Plotino lo era), ma rassegnati a stare sotto il tacco di qualche grande potere imperiale».

In altre parole, questa critica ammette che la ricerca della verità possa anche apparire come sofferta e mai definita ricerca interiore, ma sottolinea come tale immagine della ricerca filosofica debba restare confinata al piano privato, perché l'urgenza dei problemi scaturiti dalla convivenza umana e dalle diversità culturali richiede invece un universalismo che non receda né transiga, ad esempio, sulla difesa dei diritti umani. In questa prospettiva, il relativismo debole viene accusato di essere fiancheggiatore delle tirannie, poiché privo di un bagaglio teorico-normativo per criticare le violazioni dei diritti umani, e la tolleranza di essere un biglietto da visita delle democrazie liberali insufficiente e, sovente, comodo nascondiglio ad un inattivismo colpevole.

Si tratta certamente dell'accusa più ricorrente nel dibattito pubblico odierno, che nel rifiuto di argomentare un dover essere forte da parte delle filosofie post-moderne associa una supina accettazione delle pratiche e delle modalità di governo esistenti, anche le più efferate o in cui fioriscono attività terroristiche. «Ogni atteggiamento intellettuale "relativistico" o "post" viene considerato un punto debole nella battaglia contro il terrorismo, se non addirittura suo complice», scrive la filosofa statunitense Judith Butler.

Per rispondere all'accusa che associa debolismo e difesa dell'autoritarismo, gli autori di provenienza ermeneutica hanno, per la verità, una significativa cartuccia a disposizione: esse risiede, com'è noto, soprattutto nell'argomentazione che assegna alla rivendicazione del carattere interpretativo-relativo di ogni verità non solo una valenza di tipo teorico, ma anche e soprattutto etico-pratico. Lo spiega con chiarezza Vattimo: «Che non ci siano fatti, ma solo interpretazioni (Nietzsche) non è una tesi descrittivo-metafisica che pretenda di essere più vera; è solo, a propria volta, una interpretazione che si raccomanda come più ragionevole, in fondo più per motivi etici che con ragioni descrittive». La difesa del carattere ermeneutico della verità ha conseguenze politiche cruciali, e certamente non in direzione della conservazione, nella misura in cui porta con sé una critica costante ad ogni forma di autoritarismo derivante dal connubio, analizzato con chiarezza da Foucault, tra sapere e potere; connubio che consente a chi rivendica il possesso di un'oggettività ultima di auspicare misure paternalistico-coercitive per convincere chi non condivide il carattere oggettivo di quella verità.

Inoltre, proprio l'idea debolista del confronto, del negoziato, del dialogo tra posizioni diverse è quella che più sembrerebbe avvicinarsi ai principi strutturali della democrazia, piuttosto che a forme di governo tiranniche, come ricorda sempre Vattimo: «Si tratta di ri-fondare, nei limiti e con i mezzi a disposizione, e in modi da non contraddire allo scopo finale, tutte le regole della vita collettiva sul principio della negoziazione e del consenso».

Il pensiero debole, sottolinea a sua volta Rovatti, presuppone un'attività di un continuo indebolimento dell'alleanza tra verità e potere, che implica una continua vigilanza e che possiede un carattere emancipativo forte. In questo percorso, ci ricorda Rovatti, Derrida può essere un utile alleato: «Alleandosi con Derrida qualunque pratica indebolente del pensiero guadagna un prezioso tratto decostruttivo con cui si possono trivellare le metafisiche e scoprire la trama di paradossi in cui siamo e che abbiamo il compito di portare dalla nostra parte».

[...]

Veri dilemmi e nuovi percorsi

Ed è in conclusione, allora, che arriviamo a focalizzare qual è il vero ambito problematico che impegna la filosofia da qualche decennio a questa parte, e che le attuali dispute politiche sul relativismo dimenticano. La situazione complessiva viene illustrata da Alessandro Ferrara in un libro di qualche anno fa, in cui l'autore, parlando della nostra situazione come di quella di una «carovana ferma in mezzo ad un guado», ricorda come essa assomigli «al periodo tra il Rinascimento e l'Illuminismo, quando la concezione ontologica classica della validità era già screditata ma non esisteva la consapevolezza compiuta dell'operare in un nuovo paradigma. [...] Le sponde sicure della concezione primo moderna della validità, che la collegava alla nozione di soggettività autonoma e razionale, sono ormai alle nostre spalle, ma non siamo ancora approdati all'altra sponda, dove ci attende un nuovo modo di giustificare la validità di norme e affermazioni». Al tempo stesso, ricorda Ferrara, occorre evitare le seduzioni di coloro che vorrebbero farci tornare indietro verso la sponda della ragione «formato Large», coloro secondo cui non avremmo mai dovuto abbandonare «le grandi pianure del Logos».

In questa prospettiva, la sfida è quella di mostrare come le riflessioni teoriche uscite dal paradigma moderno non solo siano coerentemente coniugabili con una forma di liberalismo tollerante e aperto alle diversità, ma sappiano anche argomentare e difendere una filosofia politica intransigente sulla difesa illuministica dei diritti umani, capace di garantire la convivenza politica pacifica a livello mondiale e infine – valore oggi negletto più di altri – di costruire società più giuste («Esiste un modo di concepire ciò che intendiamo per giustizia che sia coerente con le intuizioni pluraliste collegate alla svolta linguistica e che tuttavia continui ad essere caratterizzato da quella portata universalistica che di solito associamo alla giustizia?»).

Così, garantire universalmente diritti umani (libertà) e pari opportunità (giustizia) per ogni individuo, in un'epoca post-metafisica, appaiono le due grandi questioni su cui la filosofia contemporanea si interroga, singolarmente su ciascuna, come sul loro legame. E si tratta, non a caso, anche delle due grandi questioni sullo sfondo delle quali campeggia la figura del filosofo statunitense John Rawls. È con le sue parole allora che possiamo esprimere il dilemma centrale con cui ci tocca confrontarci: «Come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali e profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili, benché ragionevoli?».

È questo, certamente, il perimetro concettuale, problematico, all'interno del quale si muovono le posizioni del dibattito filosofico contemporaneo. Una versione simile del dilemma è espressa efficacemente da Seyla Benhabib, la quale si chiede come si possa «separare l'universalismo giuridico dall'essenzialismo, nel tentativo di dimostrare come l'universalismo, al pari della giustizia, possa essere politico senza essere metafisico».

Le risposte a questi interrogativi, molti dei quali proprio nelle riflessioni rawlsiane trovano una via d'uscita, sono tante, ed è impossibile richiamarle tutte.

[...]

Coniugare finitezza e normatività, come già sottolineato in precedenza, è anche il tentativo al centro della riflessione di Salvatore Veca, il quale esplicitamente ammette che «il riconoscimento della contingenza va anche insieme all'inevitabilità di certi impegni». Per Veca la convergenza tra visioni diverse del mondo è possibile in virtù del fatto che si rinuncia a una esplicita visione comune del bene, focalizzandosi sulla rimozione di ciò che è male, sulla cui definizione l'accordo è più agevolmente raggiungibile.

Sul piano politico, questo tentativo si traduce nel tenere insieme realismo politico e prospettiva cosmopolitica: «Sostengo che il realismo politico ha l'importante funzione intellettuale di fissare i vincoli, entro cui sono per noi via via accessibili mondi possibili. Non prendere sul serio tali vincoli sarebbe solo segno di irresponsabilità intellettuale». Così, riconoscere che l'eredità illuministica è contingente non significa rifiutarne la validità. Il nucleo dell'Illuminismo dovrebbe valere per «un noi che includa chiunque, quale che sia la contingente vicenda che è alle sue spalle, quali che siano la sua immagine di sé e il suo autoritratto, quali che siano le migrazioni di idee che modellano contingentemente il suo sguardo sul mondo. È questa risposta che chiama in causa l'impegno all'universalismo o, se si vuole, al cosmopolitismo della Lumière, in tempi tanto mutati e difficili».

Rilanciare l'universalismo illuminista, che si rivolge alla rimozione del male, all'interno di una visione di razionalità debole e di riconoscimento della contingenza, come possibile strada da percorrere? Oppure riproporre una eudaimonia universalistica post-metafisica, sulla scia della teoria delle capacità di Nussbaum e Sen? Come già detto, le risposte sono molteplici e in questo libro abbiamo tentato di tracciarne lo sfondo complessivo, senza entrare nel merito delle singole risposte.

Ma questo volume sarà stato tuttavia di una certa utilità nella misura in cui avrà contribuito a indebolire vecchi e inutili dicotomie, come quella tra relativisti e universalisti, moderni e post-moderni, mostrando come le contrapposizioni iperboliche che il dibattito politico, spesso ideologico e riduttivista, ci presenta, si attenuino nella profondità dell'analisi filosofica.

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Pagina 49

Il pensiero debole e i suoi rischi
di Maurizio Ferraris



Una barzelletta che circola tra ecclesiastici narra che un giorno vengono ritrovati i resti di Cristo. Imbarazzo, poi si studiano le contromisure. I Francescani propongono di adoperarli per cavarne reliquie da vendersi nei giorni di festa; i Domenicani suggeriscono nuove ermeneutiche della Scrittura volte a far quadrare i conti; e i Gesuiti, stupefatti, esclamano: «Ma allora esisteva davvero!». I tre ordini manifestano i tre ingredienti fondamentali del post-moderno: la Secolarizzazione (i Francescani), l'Ermeneutica (i Domenicani), il Nichilismo (i Gesuiti).

Il sincero disappunto di Gianni Vattimo, alcuni anni or sono, quando il Papa ricevette D'Alema e Benigni e non lui, era dimostrazione di genuino e motivato stupore, così come sorprendenti, in ultima analisi, risultano i ricorrenti attacchi di dotti monsignori nei confronti di Eco e di Vattimo e del loro nichilismo post-moderno, del ridurre i fatti a interpretazioni, del vedere nel mondo nulla più che un testo e un intrico di segni. Magari i monsignori non sono aggiornatissimi, perché in effetti, almeno da Kant e l'ornitorinco (1997), ma già con I limiti dell'interpretazione (1992), Eco aveva volto le spalle alla infinità delle interpretazioni che era già caratteristica del maestro suo e di Vattimo, Luigi Pareyson (Verità e interpretazione, 1971), per orientarsi verso un realismo sempre più netto. Ma il punto resta: quella tra i monsignori e i post-moderni è una guerra fratricida. I primi potrebbero dire dei secondi, come Carlo V di Francesco I, «Io e mio cugino vogliamo la stessa cosa», cioè il Ducato di Milano.

Se ne era già accorto, sin dal lontano 1985, Carlo Augusto Viano in Va' pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea. Ma vale la pena di notare che l'ecumene post-moderna è, in larghissima parte, una ecclesia spiritualista, anche fuori d'Italia, tra Deleuze che non ha mai fatto mistero del proprio bergsonismo e Gadamer cultore delle scienze dello spirito (di passaggio, uno dei motivi più forti per non includere Derrida nella schiera dei post-moderni è il suo attacco allo spiritualismo heideggeriano in Dello spirito, 1987). Il caso indubbiamente più interessante, da cui prende avvio il dibattito avviato da «Reset», è tuttavia quello di Rorty, un tranquillo liberal schiettamente nichilista che, nel momento in cui afferma di leggere e seguire in privato Derrida (che interpreta riduttivamente come un funambolo della filosofia), e in pubblico Habermas, fornisce una versione aggiornata della teoria della doppia verità, che è stata sistematicamente il pezzo forte dello spiritualismo (se si sta male si va dal medico e non dallo sciamano, ma resta che si può pilotare un jet e credere nella immacolata concezione).

Questo mi sembra il punto più importante, ed è comunque quello che conto di svolgere: il post-moderno ha un cuore antico, la rivolta dello spirito contro la scienza e la tecnica, lo scetticismo nei confronti delle conquiste della ragione autonoma, della «boria delle nazioni», come diceva Vico non a torto incluso tra i grandi vecchi del movimento. E, in questo quadro, Rorty è l'Averroè del post-modernismo, perché sostiene che spiritualità privata e filosofia pubblica hanno funzioni e destinatari differenti. Vattimo invece ne è il San Bonaventura, riassumendo anche l'orizzonte pubblico e razionale all'interno del suo discorso di fede, in ultima analisi una religione privata, visto che credere di credere vuol dire credere, credere e credere. Ed è per questo che mi riferirò principalmente a loro in questo discorso, che vuole illustrare la dialettica del post-moderno in tre fasi: fase I: il Relativismo; fase II, lo Stallo; fase III, la Resurrezione. Seguirà un finale non troppo a sorpresa.

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Pagina 58

Quando il post-modernismo
diventa un tic etnocentrico
di Ingrid Salvatore



È da un po' che circola la tesi secondo cui – trovandoci di fronte a una sfida che mette in discussione i fondamenti stessi del nostro stile di vita liberale – non possiamo più permetterci alcun lusso teorico. Che si ponga fine, dunque, alle incertezze sulla Ragione, alla tolleranza di coloro che sono con noi intolleranti, alle mollezze sul pluralismo, alla proliferazione di identità che sfidano la compattezza dei nostri valori: religiose, sessuali, estetiche. Non ci possiamo più permettere questa decadenza. Siamo chiamati alle armi e nessuno, all'interno, può sfidare l'integrità dell'identità condivisa, perché la sfida che viene dall'esterno mette a rischio la sua stessa possibilità di dissenso. Se noi saremo deboli loro se ne approfitteranno. Loro ci odiano, noi dobbiamo difenderci. I nostri valori sono minacciati e la minaccia sono loro.

La base teorica da cui promanano questi appelli accorati all'unità identitaria, contro la differenziazione interna, è quella che chiamerò «occidentalismo muscolare». Il mio scopo è sfidare questa visione. Intendo farlo, tuttavia, non, come più comunemente accade, in difesa di una visione multiculturalista e differenzialista, post-moderna, se vogliamo, ma da un punto di vista liberale. Sostengo, infatti, che l'occidentalismo muscolare non è, come pure pretende di essere, una tesi liberale. Per quanto pericoloso esso possa essere considerato da un punto di vista politico, si tratta, in realtà, soltanto di cattiva filosofia. Un pasticcio di localismo e universalismo generato dal non aver chiaro cosa sia il liberalismo. Ma quello che è più interessante è che la tesi muscolare si basa esattamente sulle stesse premesse delle concezioni che più intende avversare: le visioni multiculturaliste o differenzialiste, tutte quelle teorie cioè che sostengono la natura essenzialmente locale e culturale dei valori morali e avversano ogni pretesa di dimostrare un primato filosofico di certe concezioni su certe altre. Il mio intervento, dunque, è volto a mostrare che, in quanto basate sulle stesse premesse teoriche, la tesi muscolare e le concezioni identitarie sono entrambe incompatibili con il liberalismo. Chi vede il mondo in termini di noi e loro è antiliberale, non importa poi se alla distinzione noi/loro si associ conflitto o concordia. Nel liberalismo, infatti, ci sono solo individui: nessun noi e nessun loro.

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Per il pensiero debole nessuna capitolazione
Intervista a Richard Rorty di Giancarlo Bosetti



Prof. Rorty, le sembra plausibile l'idea che con l'11 settembre, e in generale con la diffusione del terrorismo globale, sia accaduto qualcosa di rilevante anche per la filosofia?

L'11 settembre ha costretto le persone a ripensare alla questione di cosa fosse necessario per l'ordine del mondo e per la cooperazione internazionale. Ha sollevato domande, per esempio, su come cambiare la legge internazionale in modo da prendere in considerazione il fatto che non ci sono più solo nazioni-stati, ma anche gruppi criminali, in grado di sviluppare armi di distruzione di massa. Tuttavia, io non credo che questo ripensamento abbia delle conseguenze sulla filosofia. Penso che dovremmo guardarci da quella che il filosofo francese Vincent Descombes ha chiamato the philosophy of current events, la tentazione di affermare che la cristianità sia impossibile dopo i papati dei Borgia, o che la poesia sia impossibile dopo Auschwitz, o che l'esistenza dei gulag renda impossibile l'essere socialisti, o che, infine, una certa visione filosofica non possa essere più sostenuta dopo l'11 settembre.

[...]

Una delle tesi principali a favore dell'anti-fondazionalismo è che ogni principio di fondazione è in genere accompagnato da pretese autoritarie, e dai pericoli conseguenti. Tuttavia, adesso l'approccio liberale rilassato deve vedersela non solo con un nemico tradizionale (come la Chiesa, il fondamentalismo religioso, e i vari «possessori della Verità») ma anche con i sostenitori di un approccio liberale non rilassato, come i neoconservatori. Come si può reagire a questi rischi senza nessuna argomentazione filosofica?

Perché dovremmo pensare agli imam che incitano all'odio per l'Occidente come a un fenomeno differente dal modo in cui la Chiesa cattolica era solita agire? La Chiesa è stata violenta come i terroristi, fino a che ha potuto. Basta considerare le crociate. Non sono state le argomentazioni filosofiche ad ammansire la Chiesa cattolica e a farla smettere di ricorrere all'uso della violenza. E non saranno argomentazioni filosofiche a fermare gli imam assetati di sangue. Se l'illuminismo islamico ci sarà, non sarà certo perché i filosofi hanno trovato nuove e magnifiche argomentazioni; sarà piuttosto perché la borghesia dei paesi musulmani ha affrontato lo stesso cambiamento graduale di pensiero e di prospettiva che aveva affrontato la borghesia cristiana tra il 1650 e il 1850. La filosofia non farà molto per portare questo cambiamento.


In sostanza, lei non pensa che la posizione del post-modernismo sia sotto tiro e abbia bisogno di argomenti a sostegno?

Se con «post-modernismo» intendiamo le idee che io condivido con Vattimo, allora ritengo che il post-modernismo sia già piuttosto forte. Vattimo e io pensiamo che non esista un'autorità da interpellare aldilà del libero consenso, che la secolarizzazione sia l'esito naturale dell'etica cristiana dell'amore. Se questa posizione venisse accettata come universale allora persino l'ex cardinale Ratzinger e attuale papa rimarrebbe senza lavoro. Credo che il post-modernismo sia una continuazione della reazione, avviata dall'Illuminismo, alle regole imposte dal clero e dai sovrani. L'unica differenza tra il post-modernismo e il razionalismo illuminista (per esempio quello di Kant) è che i post-modernisti sono d'accordo con Hume (altro ottimo pensatore illuminista, anche se non razionalista): abbandonano cioè l'idea che esista una forza chiamata «ragione» che assicuri che la ricerca del libero consenso ci garantisca il contatto con la realtà. La visione post-modernista è che si può benissimo tralasciare la discussione sulla ragione e sulla realtà e semplicemente discutere di politica – di come aumentare la libertà umana, di come assicurare che le voci degli oppressi siano ascoltate. Secondo la visione post-modernista, la posizione di Ratzinger è solo una voce in più nella conversazione. Il fatto che parli a nome di un'istituzione autoritaria non dovrebbe farci smettere di ascoltarlo, ma dovrebbe farcelo ascoltare con un minimo di diffidenza. È nell'interesse di istituzioni simili descrivere l'anti-autoritarismo come «relativismo».

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Pagina 71

Ma dopo Wittgenstein non si torna indietro
di Alessandro Ferrara



[...]

Fatta questa premessa, non vorrei dare l'impressione di voler sfuggire al tema di questo volume. Anzi dico la mia nel modo più tranchant possibile: l'idea di un tramonto delle premesse di fondo del post-modernismo filosofico mi sembra una colossale ingenuità.

Visto che non è proprio quella che si chiama un'affermazione «sfumata», alcune precisazioni sono d'obbligo. Non potrebbe importarmi di meno delle vicissitudini di singole declinazioni del post-modernismo offerte da singoli filosofi, rispondano ai nomi di Lyotard, Rorty, Vattimo o chiunque altro.

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È importante capire che l'orizzonte post-moderno non si apre né con Lyotard, né con Rorty, né con Vattimo, i quali non sono che ripetitori in una pluralità di lessici di una serie di formulazioni filosofiche che hanno cambiato il volto della filosofia moderna. Il post-modernismo è solo uno dei modi di trarre le conseguenze dell'accedere a un orizzonte definito da queste formulazioni filosofiche, come il modernismo estetico è solo un modo di declinare alcune potenzialità della modernità; ma il post-modernismo non esaurisce l'orizzonte post-moderno più di quanto il modernismo estetico di Baudelaire esaurisca l'orizzonte della modernità.


Quella proposizione del «Tractatus»...

E quali sono queste proposizioni post-moderne ma non post-moderniste che tuttavia ci hanno sospinto fuori dall'orizzonte moderno? L'orizzonte di un certo universalismo moderno è gia messo in questione quando Wittgenstein, nella proposizione 5.6 del Tractatus, scrive che «i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo». In quel passo sta dicendo che non possiamo pensare il mondo fuori da un linguaggio: poiché la pluralità dei linguaggi esiste dal tempo di Babele, non vi è modo di sfuggire alla conseguenza che i diversi limiti dei mondi pensabili hanno a che fare con la diversità dei linguaggi in cui li pensiamo.

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Nessun ritorno al neo-naturalismo

Allora, agli amici che oggi si chiedono se sia venuto il momento di archiviare il post-modernismo come superato e di rivolgersi verso filosofie più «realisticamente orientate» io replicherei così: avete voi un modo per affermare, contro Wittgenstein, che possiamo pensare il mondo, con un qualche grado di differenziazione e non solo con reazioni a stimoli elementari, fuori dai quadri semantici di un linguaggio? Avete voi modo di riaffermare, contro Wittgenstein, che stabilire se una regola sia stata seguita è indipendente dal riferirsi a una prassi a sua volta inclusa in una forma di vita? Avete voi modo, contro Quine, di ritracciare con precisione la linea che separa ciò che è vero in virtù di uno stato del mondo e ciò che è vero in virtù del significato dei termini? Avete voi modo, contro Weber, di negare che ogni operazione conoscitiva comporti un momento di selezione in cui si isola ciò che riteniamo importante conoscere in un oggetto, e che tale attribuzione di importanza conoscitiva dipende da valori spesso rivali non riconducibili a una gerarchia unica e incontestabile?

Non avete risposta esauriente e conclusiva a queste domande? E allora l'orizzonte post-moderno è ancora tutto davanti a voi, insuperato, e lo rimarrà finché non risponderete – quali che siano le evoluzioni interne o le difficoltà del pensiero di alcuni autori che hanno trasformato questo orizzonte in un logo filosofico, e quale che sia il clima attuale del mondo, foriero di speranze o carico di delusioni, pregno di aspri conflitti o promettente paci più o meno perpetue.

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Pagina 80

Le ragioni etico-politiche dell'ermeneutica
di Gianni Vattimo



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Addio alla mente come «specchio della natura»

Sgombrare il campo da quella caricatura e da questa assurdità è la prima mossa per capire le buone ragioni del post-modernismo. Che, almeno nella lettura che ne do, muove da Heidegger e da Nietzsche e approda a una sorta di hegelismo moderato. Non c'è il mondo là fuori e noi che, da punti di vista diversi, lo interpretiamo, salvo poi metterci d'accordo quando vediamo finalmente i fatti in sé. Questo è il punto di vista metafisico che non è più, «di fatto», e cioè socio-culturalmente, psicologicamente, politicamente, praticabile. L'idea di una mente come specchio della natura — secondo il titolo del bel libro di Rorty — si è consumata; non a favore di un rispecchiamento più reale: che non ci siano fatti, solo interpretazioni (Nietzsche) non è una tesi descrittivo-metafisica che pretenda di essere più vera; è solo, a propria volta, una interpretazione che si raccomanda come più ragionevole, in fondo più per motivi etici che con ragioni descrittive. I fatti sono un insieme inestricabile di interpretazioni e di datità che non si danno mai se non entro orizzonti interpretativi. Quando cito un «fatto» come tale in genere cito la testimonianza di uno o più interpreti, siano essi testimoni oculari o protagonisti di azioni. Domandiamoci piuttosto perché una simile idea appaia così scandalosa. Credo che si dovrebbe riconoscere che essa è tale per chi vuole che si «fissi» un «punto fermo»; per chi vuole legittimare una norma che si impone. Ma, a parte la legge di Hume (illegittimo ricavare norme da fatti), questa esigenza è a sua volta etico-politica più che teorico-razionale. È giusto dunque analizzarla nei termini della critica nietzschiana – c'è qualcuno che in nome della verità mi vuole far fare ciò che non voglio.

All'esigenza, così riconosciuta, si risponde solo in termini pratico-politici: e cioè attraverso una decisa scelta a favore di una società non autoritaria, che cerca di fondare ogni «certezza» pratica sul consenso informato e sul dibattito pubblico. Si dirà che da sempre la filosofia ha voluto proporre, in questo dibattito, le ragioni del «vero»: la verità della natura umana, la verità delle strutture oggettive del mondo. Proprio questo è ciò che Heidegger ha chiamato metafisica e di cui ha preconizzato la dissoluzione nel mondo tardo-moderno. In fondo, il contrattualismo non ha mai detto niente di diverso, anche se non si è mai proposto di far rinegoziare le costituzioni a ogni nuovo nato in società già esistenti e funzionanti. E se si parte da qui, si capisce anche benissimo quale possa essere l'impegno politico ispirato a una posizione filosofica post-modernista. Si tratta di ri-fondare, nei limiti e con i mezzi a disposizione, e in modi da non contraddire allo scopo finale, tutte le regole della vita collettiva sul principio della negoziazione e del consenso. Campa cavallo, sembra di sentir dire ai fondazionalisti; meglio sarebbe, secondo loro, riuscire a ottenere che i reggitori e i legislatori si decidessero a riconoscere certe verità di base (leggi di natura, leggi divine autorevolmente rivelate, regole «oggettive» dell'economia ecc.) e fondassero su di esse codici e politiche. Plato redivivus, dunque; ontologi sperimentali della politica che dovrebbero finalmente garantirci felicità e benessere. E se si guarda a coloro che sostengono, esplicitamente o implicitamente, questa tesi, si trovano i professionisti di una filosofia «seria», specialistica, scientifica: ordinatamente collocati nelle università e nelle fondazioni, che tengono il loro posto di specialisti lasciando ai politici e ai manager il compito di utilizzare (e pagare) i loro servigi.

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Pagina 105

Elogio del relativismo
di Enzo Di Nuoscio



Al pari della natura, anche lo spazio pubblico aborre il vuoto. Così, dopo il crollo delle ideologie abbiamo assistito ad una battaglia condotta, spesso senza il senso del limite, da politici, giornalisti, intellettuali neo-assolutisti, non solo credenti, ma anche atei devoti, per i quali l'unica salvezza dell'Occidente è quella di ristabilire una egemonia dell'etica cattolica, combattendo quello spettro che si aggira per l'Europa chiamato relativismo. E, nonostante si ritenga che dalla sconfitta del relativismo dipendano le sorti della civiltà occidentale, di questo pericoloso nemico ognuno sembra farsene una rappresentazione di comodo, e verrebbe da dare ragione a John Ladd quando dice che «tutte le comuni definizioni di relativismo vengono formulate dai suoi avversari e sono definizioni assolutiste». Contro tale vulgata neo-fondamentalista, questa vuole essere una modesta difesa del relativismo, dimostrando che, se correttamente inteso, «relativismo» si oppone tanto ad «assolutismo» e «dogmatismo» quanto a «nichilismo» e «irrazionalismo», e che la vera forza dell'Occidente è stata proprio quella di essere stato (nella scienza, nell'etica e nel campo della fede) né dogmatico e assolutista, né nichilista o irrazionalista, ma semplicemente relativista.

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