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| << | < | > | >> |Indice9 Storia di una menzogna di Giancarlo Bosetti UNGHERIA 1956. LA RIVOLUZIONE CALUNNIATA 35 Premessa 39 Introduzione 46 Cronologia essenziale 55 Il comunismo occidentale e la rivoluzione ungherese 74 Coerenza di Togliatti 92 Il revisionismo comunista all'Est e all'Ovest 108 Le interpretazioni storiche 133 Appendice 171 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 461953 - 5 marzo: morte di Stalin. - 16-18 giugno: sollevazione di Berlino Est e di altre città tedesco-orientali, prontamente repressa dalle truppe sovietiche.
- 4 luglio: discorso d'insediamento del governo Nagy.
1954
- nel corso dell'anno, liberazione di molti prigionieri
politici vittime delle "purghe" di Rákosi, accompagnata da
misure di liberalizzazione in campo economico, politico e
culturale.
1955 - 25 marzo: fondazione del Circolo Petofi da parte dell'organizzazione giovanile comunista. - 14-18 aprile: espulsione di Nagy dagli organismi dirigenti del partito e sua sostituzione a capo del governo con Hegedüs. - 14 maggio: nascita del Patto di Varsavia. - 26 maggio: Chruscëv si reca a Belgrado per riallacciare i rapporti con Tito. - 8 giugno: un documento interno del partito ungherese riconosce la non colpevolezza di Rajk, impiccato nel 1949 per "titoismo". - 17 luglio: il cardinale Mindszenty viene trasferito dal carcere al domicilio coatto.
- 3 dicembre: Nagy viene espulso dal partito.
1956 - 14-25 febbraio: XX congresso del PCUS a Mosca, al termine del quale Chruscëv pronuncia il "discorso segreto" sui crimini di Stalin. Il testo, diffuso in forma riservata tra i partiti comunisti, viene passato dalla Polonia agli occidentali: il 4 giugno viene pubblicato sul «New Yórk Times». - marzo-giugno: crescente attivismo del Circolo Petofi con una serie di pubblici dibattiti che attirano un numero crescente di persone. - 28 giugno: tumulti operai a Poznan, in Polonia, duramente repressi dalle forze di polizia. - 18 luglio: Rákosi sostituito da Gero alla testa del partito. - 6 ottobre: funerale di Rajk. - 13 ottobre: Nagy viene riammesso nel partito. - 19-21 ottobre: a Varsavia, in seguito a una dura prova di forza coi dirigenti sovietici, il revisionista Gomulka è eletto alla testa del POUP. Nel suo discorso di insediamento afferma tra l'altro che i tumulti di Poznan non sono stati una sedizione controrivoluzionaria, ma l'espressione del legittimo malcontento dei lavoratori. - 22 ottobre: assemblee studentesche presso le università di Budapest, Miskolc, Szeged, Pécs e Sopron. Ovunque la grande maggioranza vota per uscire dalla Gioventù comunista e ricostituire l'organizzazione autonoma degli studenti. Il Politecnico di Budapest e la direzione del Circolo Petofi avanzano richieste che, dopo una discussione animata, formeranno la piattaforma in 16 punti alla base della manifestazione convocata il giorno dopo nella capitale in solidarietà con la Polonia. Punti principali: eguaglianza nei rapporti con URSS e Iugoslavia, ritiro delle truppe sovietiche, processo pubblico a Rákosi e Farkas, piena reintegrazione di Nagy nella direzione del paese, ripristino dello stemma repubblicano di Kossuth in luogo di quello comunista. Poco dopo viene aggiunta la richiesta di elezioni pluripartitiche. - 23 ottobre: il ministero degli Interni dapprima proibisce, poi autorizza la manifestazione, che inizia alle 15 sotto la statua di Petofi a Pest. Nagy, reclamato dalla folla, pronuncia poche parole dal Parlamento. La radio trasmette un messaggio minaccioso e insultante di Gero. I manifestanti distruggono l'immensa statua di Stalin e le librerie sovietiche di Budapest. Pressioni sulla radio affinché trasmetta gli slogan della manifestazione: in seguito al rifiuto dei responsabili, la sede dell'emittente viene assediata. L'ÁVH spara e ha inizio una furiosa battaglia. Manifestazioni nei principali centri del paese: spesso l'ÁVH spara sulla folla disarmata che reagisce assaltando le caserme. Riunito in serata, il CC del partito stabilisce di chiamare in aiuto le truppe sovietiche «in caso di necessità», elegge un Comitato militare, nomina Nagy a capo del governo e coopta i suoi collaboratori Donàth e Losonczy: verso mezzanotte, si decide che la «necessità» esiste, e i sovietici intervengono. - 24 ottobre: in seguito alla comparsa dei blindati sovietici, l'insurrezione si estende, i depositi di armi vengono saccheggiati e gruppi armati cominciano a insediarsi nei punti strategici della capitale. In quasi tutte le fabbriche e negli altri luoghi di lavoro si formano Consigli operai e rivoluzionari che proclamano lo sciopero generale. Suslov e Mikojan, inviati speciali del Presidium sovietico, arrivano a Budapest. - 25 ottobre: formazione del governo Nagy, in cui non sono presenti stalinisti e che comprende tra gli altri il filosofo Lukàcs e i moderati Kovàcs e Tildy. In mattinata, l'ÁVH dai tetti del ministero dell'Agricoltura spara sulla folla che manifesta pacificamente in piazza Kossuth, facendo un centinaio di morti. Kádár eletto segretario del partito al posto di Gero. - 26 ottobre: in tutto il paese nascono emittenti libere che trasmettono in sintonia con gli insorti. A Mosonmagyaróvár, vicino alla frontiera austriaca, l'ÁVH spara su una manifestazione pacifica, facendo circa 120 morti. Da tutti i Consigli provengono due richieste principali: ritiro dei sovietici e libere elezioni. - 27 ottobre: la contea di Borsod e quella di Gyor-Sopron annunciano che il potere è in mano ai Consigli, che l'ÁVH locale è stata disciolta e che le truppe sovietiche non sono intervenute. Nel resto del paese continuano accaniti i combattimenti armati. - 28 ottobre: Nagy riconosce il carattere nazionale e democratico dell'insurrezione, annuncia il cessate il fuoco e l'avvio di negoziati con gli insorti, l'imminente ritiro delle truppe sovietiche e lo scioglimento dell'ÁVH; il CC del partito informa di aver deciso il proprio scioglimento e la fondazione di un nuovo organismo politico. Gero e gli altri stalinisti raggiungono Rákosi in esilio nell'URSS. - 29 ottobre: rinascono sindacati, giornali e associazioni aboliti sotto Rákosi. Casi di linciaggio contro esponenti dell'ÁVH. Trattative per formare una Guardia nazionale con la partecipazione degli insorti. A Roma, 101 intellettuali comunisti firmano un appello di solidarietà con la rivoluzione ungherese. - 30 ottobre: Mikojan e Suslov tornano a Budapest con una risoluzione del Presidium sovietico che annuncia rapporti paritari tra l'URSS e i paesi del campo socialista. Viene formato il nuovo governo quadripartito, comprendente comunisti, socialdemocratici, nazionalcontadini e piccoli proprietari, che decreta la liberazione di Mindszenty ricondotto a Budapest. L'assedio da parte di alcuni gruppi di insorti della federazione budapestina del partito comunista, provocato dagli agenti ÁVH ivi asserragliati, si conclude con la capitolazione e l'uccisione di una ventina di essi. L'aviazione anglo-franco-israeliana attacca in forze l'Egitto, che a luglio ha decretato la nazionalizzazione del canale di Suez. Togliatti scrive una lettera riservata al Presidium del PCUS definendo «reazionario» il governo Nagy e denunciando il tentativo di sostituirlo alla testa del PCI con Di Vittorio. - 31 ottobre: a Mosca il Presidium decide l'intervento armato. - 1° novembre: in seguito alla conferma delle notizie circa una nuova invasione sovietica, il governo proclama il ritiro dell'Ungheria dal Patto di Varsavia e chiede all'ONU la garanzia della neutralità e l'iscrizione della questione ungherese all'ordine del giorno. Kádár annuncia la formazione di un nuovo partito non stalinista ed esalta la rivoluzione: in serata, su pressione di Münnich (un dirigente non compromesso con Rákosi ma molto legato ai sovietici) si trasferisce a Mosca, dove Chruscëv attraverso Liu-Shaoqi ottiene l'assenso di Mao all'invasione. Il segretario del PCUS si reca poi a Brest-Litovsk, dove incontra Gomulka che non si oppone all'intervento. - 2 novembre: il Consiglio di sicurezza dell'ONU mette all'ordine del giorno la questione ungherese. Formazione di un nuovo governo Nagy sempre in base alla coalizione quadripartita. Maléter, un colonnello passato con gli insorti, è promosso generale e ministro della Difesa. Si moltiplicano in tutta l'Ungheria gli appelli per la ripresa del lavoro, l'ordine viene gradualmente ristabilito sotto l'egida della Guardia nazionale. Chruscëv vola a Bucarest e poi a Brioni, dove ottiene l'assenso al piano d'invasione sia dai "partiti fratelli" che da Tito. L'ambasciata sovietica a Roma informa il PCI che l'intervento è imminente. A Mosca, Kádár parla davanti al Presidium e dice tra l'altro che «un intervento armato ridurrebbe a zero la credibilità morale dei comunisti». - 3 novembre: la delegazione ungherese, guidata da Maléter, che negoziava il ritiro delle truppe sovietiche viene arrestata dal KGB. A Budapest e in tutto il paese i Consigli approvano mozioni per tornare al lavoro il lunedì 5 novembre. Assieme al Presidium moscovita, Kádár discute le modalità di formazione di un controgoverno. - 4 novembre: l'Armata rossa attacca Budapest in forze, incontrando resistenza soprattutto nei centri operai. Si ingaggiano combattimenti durissimi ma di breve durata a causa della sproporzione delle forze in campo. Kádár annuncia dalla città di Szolnok la formazione di un governo quisling denominato «rivoluzionario, operaio e contadino». Nagy e diversi suoi compagni con le famiglie si rifugiano presso l'ambasciata iugoslava. Bibó, tra i pochissimi ministri a non abbandonare il Parlamento, denuncia a nome del governo l'illegalità dell'invasione. - 14 novembre: nasce il Consiglio operaio centrale di Budapest e sobborghi che proclama lo sciopero generale contro il nuovo governo, chiede il ritiro dei sovietici e il ritorno di Nagy alla guida del paese. - 22 novembre: Nagy e gli altri rifugiati, protetti da un salvacondotto di Kádár, escono dalla sede diplomatica iugoslava per recarsi a casa ma vengono sequestrati da militari sovietici. In seguito al rifiuto di schierarsi con il nuovo governo, vengono deportati a Snagov, in Romania. - 7 dicembre: le ricostituite forze di sicurezza sparano sulla folla inerme a Salgótarjàn uccidendo varie decine di persone. - 8 dicembre: a Roma l'VIII congresso del PCI approva l'intervento sovietico e isola le voci dissenzienti. - 11 dicembre: un decreto del Consiglio presidenziale introduce la condanna per direttissima in caso di possesso non autorizzato di armi. Vengono eseguite le prime condanne a morte sommarie. I dirigenti del Consiglio operaio centrale sono arrestati mentre si recano a negoziare con Kádár.
- 28 dicembre: in una seduta a porte chiuse, l'Associazione scrittori
ungheresi condanna l'intervento sovietico a schiacciante maggioranza.
1957 - 19 gennaio: l'annuncio dell'esecuzione di Dudás e Szabó segna l'inizio di una repressione durissima che porterà sulla forca oltre duecento persone, molte delle quali giovani operai.
- novembre: incontro Togliatti-Kádár a Mosca, durante il quale il segretario
del PCI denuncia le richieste di Lukács di solidarietà con gli scrittori
ungheresi, esprime assenso alla condanna di Nagy e chiede che essa avvenga
dopo le elezioni italiane.
1958 - 25 maggio: elezioni politiche in Italia, in cui il PCI guadagna voti. - 9-15 giugno: al termine di un processo-farsa in condizioni di assoluta segretezza, Nagy, Maléter e il giornalista Gimes sono condannati a morte. - 16 giugno: esecuzione dei tre condannati.
- 2 agosto: Istvàn Bibó condannato all'ergastolo.
1959
- 21 marzo: viene impiccato il diciottenne apprendista tornitore Péter
Mansfeld.
1960
- 4 aprile: amnistia parziale del regime di Kádár.
1961 - 26 agosto: ultime impiccagioni di insorti del 1956.
- 17-31 ottobre: si svolge a Mosca il XXII congresso del PCUS.
1962
- autunno: in seguito a trattative segrete Usa-Ungheria,
la questione ungherese viene depennata dall'ordine del
giorno dell'ONU.
1963
- 22 marzo: altra amnistia parziale di Kádár, più ampia
della precedente ma non totale.
1968
- 21 agosto: intervento delle truppe di cinque paesi del
Patto di Varsavia in Cecoslovacchia, per arrestare il corso
riformatore iniziato nel mese di gennaio sotto la guida di
Dubcek. Il PCI esprime «riprovazione».
1981
- 13 dicembre: il colpo di Stato del generale Jaruzelski
arresta il movimento democratizzatore polacco guidato dal
sindacato
Solidarnosc. Berlinguer, segretario del PCI, afferma che «la spinta propulsiva
della rivoluzione d'ottobre si è esaurita».
1985
- 13 marzo: elezione di Gorbacëv alla testa del PCUS.
1986
- ottobre: il segretario del PCI Natta compie una parziale e limitata
autocritica delle posizioni assunte nel 1956.
1988 - 22 maggio: destituzione di Kádár.
- 16 giugno: a Parigi, esponenti dell'emigrazione ungherese inaugurano una
tomba simbolica a Nagy e compagni, cui è tuttora negata degna sepoltura in
patria. Per il PCI partecipa Fassino.
1989 - gennaio: il dirigente ungherese Pozsgay afferma che nel 1956 non vi fu controrivoluzione ma una legittima insurrezione nazionale. - 2 maggio: viene abbattuta la cortina di ferro tra Austria e Ungheria. - 16 giugno: funerali solenni di Nagy e compagni a Budapest, cui partecipa Occhetto, unico segretario di un partito comunista. - 10 settembre: il governo ungherese autorizza l'esodo in massa verso Ovest dei rifugiati tedesco-orientali. - 18 ottobre: il partito fondato da Kádár si trasforma in Partito socialista. - 23 ottobre: proclamazione della Repubblica ungherese. - 9 novembre: cade il muro di Berlino.
- 13 novembre: Occhetto annuncia l'intenzione di trasformare il PCI in una
nuova formazione politica.
1990
- 25 marzo-8 aprile: libere elezioni in Ungheria.
1991 - febbraio: nascono il PDS e Rifondazione comunista. - 19-23 agosto: tentativo fallito di colpo di Stato in URSS.
- 25 dicembre: il Cremlino ammaina la bandiera rossa.
1992 - 11-12 novembre: il presidente russo El'cin, in visita ufficiale a Budapest, porge omaggio ai caduti della rivoluzione e in un discorso davanti al Parlamento presenta le proprie scuse per l'invasione del 1956. | << | < | > | >> |Pagina 70L'attuale primo ministro ungherese E. Gyuresányi, leader del partito socialista vittorioso alle elezioni dell'aprile 2006, fu militante nei ranghi della gioventù comunista sotto Kádár, ma ha rivendicato a più riprese e con orgoglio, all'avvicinarsi del cinquantesimo anniversario della rivoluzione, l'eredità socialista e democratica di Nagy e dei suoi compagni, mettendo in scacco il teorema "sinistra uguale dittatura" del candidato di centro-destra Orbán: così facendo, ha oltretutto avviato un processo estremamente interessante di ridefinizione dell'identità storica di un partito ex comunista, che trasferisce i punti di riferimento dai vincitori (Kádár e i sovietici) agli sconfitti (Nagy e il popolo ungherese), traendo le logiche conseguenze dal fatto che, alla fine, sono stati questi ultimi a trionfare.In Italia, invece, un processo del genere si fa ancora desiderare – più per responsabilità degli intellettuali che non dei politici – e si è complessivamente ancora lungi, per quanto riguarda l'area ex pci, dall'aver acquisito una visione critica e obiettiva del comunismo e delle vicende del 1956: come si illustrerà nel prossimo capitolo, dominano ancora reticenze e difese ideologiche d'ufficio, certamente spiegabili con l'esistenza di solidi interessi costituiti di tipo accademico-culturale, ma assai dannose dal punto di vista del progresso civile, oltre che storiografico. Né si può dichiarare ancora conclusa l'epoca delle affermazioni tendenziose, tese a raffigurare una realtà di comodo per poter trovare conferma ai propri pregiudizi. Le due accuse più frequenti nei confronti di Nagy, ad esempio, erano di aver "aperto la strada al terrore bianco" e di aver dato prova di scarso realismo, se non d'irresponsabilità, nel decretare l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia: entrambe erano calunniose, ed entrambe si trovano in almeno due studi recenti, opera di illustri accademici gravitanti attorno all'ex pci. Poiché i documenti d'archivio e la storiografia del dopo 1989 hanno fatto piena luce su entrambi gli eventi – e poiché "la calunnia è un venticello" – è opportuno tentare di analizzarli alla luce dei fatti. Fermo restando quanto detto in precedenza sul presunto "terrore bianco", per rispondere alla domanda sull'esistenza o meno di una responsabilità di Nagy è opportuno spostare l'attenzione sul pulpito da cui proviene la predica. Sarebbe accettabile sul piano etico e storiografico giudicare la Resistenza italiana solo in base alle migliaia e migliaia di uomini e donne trucidati – talvolta in modo indiscriminato, barbaro e vile – nel giro di un mese o poco più dopo la Liberazione, o in base alle terribili immagini di piazzale Loreto? Ovviamente no, infatti da diversi anni non lo fa neanche l'onorevole Fini, il cui riconoscimento schietto del valore storico dell'antifascismo fu un passo avanti fondamentale per il progresso civile. E se la responsabilità politica di tali eccidi fosse attribuita alla "debolezza" o all'"incapacità" di Bonomi o Parri nei confronti del "terrore rosso", la cosa avrebbe forse un senso? Ovviamente no. La prevedibile obiezione a questo ragionamento si fonda principalmente sul rifiuto di mettere sullo stesso piano nazi-fascismo e comunismo: ma con il passare del tempo e il progredire della ricerca, le differenze tra i due sfumano sempre più. È legittimo, a questo proposito, fare un paragone tra la Repubblica di Salò e i regimi comunisti est europei del dopoguerra? Le analogie sono assai numerose: partito unico, emanazione di una potenza straniera occupante e sfruttatrice, controllo poliziesco asfissiante sulla società civile, militarizzazione dell'economia, miseria, terrore e deportazioni eccetera. Si dirà che il nazifascismo ha scatenato la guerra mondiale e il comunismo no: è vero, ma i documenti ci dicono che non è accaduto soprattutto a causa del divario nucleare tra USA e URSS, che per fortuna fu colmato solo dopo la morte di Stalin. Vi è un'altra obiezione, che pochi avrebbero il coraggio di formulare apertamente, ma che alcuni probabilmente ritengono ancora fondata: la vita di un comunista vale più di quella di un fascista, dunque l'uccisione di alcune decine di persone da parte dei rivoluzionari ungheresi del 1956 (i quali, sia chiaro, col fascismo c'entravano poco o nulla) fu molto più grave di quella di diverse migliaia di fascisti (veri o presunti) nell'Italia del dopo 25 aprile. In realtà, l'unica differenza importante tra l'uno e l'altro caso è che la Resistenza italiana vinse (anche grazie al sostanziale contributo degli alleati), dunque gli eccessi furono passati sotto silenzio, mentre la rivoluzione ungherese perse e gli eccessi (pochi) servirono da giustificazione all'invasione straniera: la logica dei vincitori spiega sia il trattamento riservato all'importante libro di G. Pansa Il sangue dei vinti, che il persistere delle visioni distorte su Nagy. A proposito della dichiarazione di neutralità del primo novembre 1956, vanno semplicemente ricordate due cose, già nitidamente esposte quarant'anni fa da G. Heltai, viceministro degli Esteri, e totalmente suffragate dai documenti resisi disponibili nei primi anni novanta. Primo, essa avvenne in seguito alla notizia, e ai chiari indizi, di una nuova invasione sovietica, decisa il 31 ottobre; secondo, la decisione di uscire dal Patto di Varsavia fu presa a maggioranza dal Comitato direttivo provvisorio del Partito operaio socialista ungherese, con cinque voti a favore (tra cui quello di Kádár) e due contrari (Lukàcs e Szántó), e all'unanimità dal governo, di cui faceva parte anche Kádár stesso. Il generale Maléter, con buona pace del professor Canfora che lo addita severo come responsabile dell'azione «provocatoria o suicida», non c'entrava assolutamente nulla, per il semplice motivo che non era ancora ministro: quand'anche la dichiarazione di neutralità l'avesse fatta lui, essa sarebbe comunque rimasta l'effetto, e non la causa, dell'intervento militare deciso il giorno prima. Ma a che pro discutere? Quando sono le idee a determinare i fatti, e non viceversa, è fatica sprecata. Le calunnie e le distorsioni contro la rivoluzione ungherese hanno avuto una caratteristica, quella di essere sempre state estremamente facili. Ma il tempo, nel lungo andare, sa distribuire le ragioni e i torti. | << | < | > | >> |Pagina 111Tra coloro che seppero cogliere immediatamente l'importanza e il significato della rivoluzione ungherese, un posto di riguardo va senz'altro attribuito al giurista e politologo István Bibó (1911-1979), allievo del grande storico italiano Guglielmo Ferrero, del quale aveva frequentato i corsi negli anni trenta a Ginevra. Costretto al silenzio fin dall'instaurazione della dittatura stalinista di Rákosi, Bibó — com'era sua abitudine — avviò le proprie riflessioni quasi contestualmente allo svolgersi degli avvenimenti. Sostenitore del Partito nazionale contadino — un'organizzazione relativamente piccola, composta per lo più da intellettuali di orientamento populista — nelle cui file aveva partecipato attivamente alla vita politica del paese tra il 1945 e il 1948, Bibó contribuì alla sua rinascita, avvenuta negli ultimi giorni dell'ottobre 1956 con il nome di Partito Petófi, e fu nominato ministro senza portafoglio nel governo formato il 3 novembre da Nagy. Rimasto solo in Parlamento dopo il 4 novembre, si adoperò instancabilmente dapprima per trovare una soluzione di compromesso che potesse dare garanzie di sicurezza all'URSS salvando le conquiste rivoluzionarie, con la mediazione del governo indiano; quindi, per abbozzare una qualche forma costituzionale delle conquiste stesse, che trovò il pieno accordo dei partiti, dei Consigli operai, degli intellettuali e delle altre organizzazioni di categoria, almeno finché la restaurazione di Kádár non ebbe messo a tacere ogni voce di dissenso. Arrestato nel maggio 1957, fu processato assieme ai suoi "complici", tra cui Arpád Göncz (presidente della Repubblica dal 1990 al 2000) e condannato all'ergastolo.Tra l'autunno del 1956 e la primavera del 1957, Bibó era dunque nella posizione ideale per dare un senso compiuto a tutto ciò che era accaduto: purtroppo, diversi ostacoli — non ultimo quello linguistico — impedirono che i suoi scritti avessero adeguata diffusione all'estero. I due cardini delle sue riflessioni sul 1956 riguardavano l'essenza contraddittoria dei regimi comunisti, senza intendere la quale non ci si poteva spiegare la potenza dell'esplosione, e il problema fondamentale dei rapporti tra pluralismo dei partiti e organi di democrazia diretta. «I mezzi politici dello stalinismo, nella loro sostanza, non si differenziano da quelli del fascismo» scriveva Bibó nel bel mezzo della rivoluzione, solo che il fascismo ai mezzi disumani aggiungeva pure scopi disumani: il totale annientamento dell'individualità umana e la sua sottomissione ad interessi, reali o supposti, di una qualche comunità. Proprio il differente valore dei fini ha fatto sì che nella cerchia di giovani cresciuti nel marxismo-leninismo scaturisse un fermento intellettuale inimmaginabile all'interno del fascismo, provocato dalla indicibile contraddizione tra gli obiettivi propagandati e i mezzi intrinsecamente ingannevoli messi in atto per realizzarli. Innanzitutto, quindi, non è vero che il fine giustifica i mezzi. È ingannevole ogni programma d'azione che, per il conseguimento dei propri obiettivi, s'inebria di slogan come "senza riguardi per nessuno", "con ogni mezzo", "ad ogni costo"; il mezzo immorale disonora anche il fine giusto. Più oltre, Bibó sottolineava l'importanza di mantenere il carattere libertario, multiforme e pluralistico dei moti ungheresi, individuando il rischio che corrono tutte le rivoluzioni: Neanche la rivoluzione può essere un fine in sé, e se diventa permanente annulla il suo stesso significato. L'unico senso possibile di una rivoluzione per la libertà è che essa, in mancanza di meglio, elimini con momentanea violenza un sistema di potere sopravvissuto a se stesso, il cui credito presso le masse sia talmente infimo da non potersi ripristinare una volta cessate le violenze. Se però una rivoluzione, poggiando sulla sua forza momentanea, comincia a brutalizzare la coscienza comune delle masse attraverso concetti non maturi e arbitrari, che possono essere mantenuti solo con la stabilizzazione della violenza stessa, allora annulla il suo stesso significato, non rappresenta più una crescita, ma una riduzione della libertà, legittima retroattivamente quel potere sopravvissuto da essa eliminato e in casi sfortunati può anche provocarne la restaurazione. Una rivoluzione trionfa solo se non cade in un errore simile. A sostegno di ciò vi è la rivoluzione francese, evento di straordinaria importanza ma dall'esito sfortunato: uscita ben presto dai suoi binari, sprofondando con i suoi avversari in un terrore superfluo, ha finito col provocare la dittatura controrivoluzionaria; le rivoluzioni bolsceviche, che sono partite fin dall'inizio con una dittatura e l'hanno intensificata all'estremo, hanno fallito i loro obiettivi: si tratta di rivoluzioni che discreditano la causa della libertà. Se non ci abbandoneremo all'ebbrezza della violenza, noi ungheresi abbiamo in questo momento fra le mani la possibilità di far trionfare la prima rivoluzione positiva del XX secolo. Le riflessioni di Bibó sul carattere degli avvenimenti riprendevano nel mese di dicembre 1956 – probabilmente dopo l'imposizione del coprifuoco e della legge marziale imposti da Kádár – con due brevi dattiloscritti rimasti inediti fino al 1990, entrambi ancora dotati di grande efficacia e attualità, in cui l'autore prendeva risolutamente posizione a favore della complementarietà tra partiti e Consigli: Nei primi giorni della rivoluzione, così come era accaduto nel 1945, sull'onda dei ricordi del lungo regime a partito unico oppressivo e liberticida, il regime multipartitico si è manifestato, a ragione, come il simbolo e la garanzia della libera attività politica. [...] Tuttavia, se escludiamo l'atto — peraltro non irrilevante — di comporre il governo di unità nazionale di Imre Nagy, i partiti, nel corso della rivoluzione e nella resistenza alla seconda azione sovietica non hanno rivestito un ruolo decisivo, o almeno la loro attività è passata in secondo piano rispetto a quella dei Consigli operai e di altre organizzazioni di massa.
Ciò ha favorito il diffondersi dell'idea che per la fondazione in Ungheria
di un'attività e di una struttura politica libere non sia incondizionatamente
necessario ed auspicabile costituire dei partiti [...]. I vari difetti del
sistema partitico sono ben noti: gli elettori perlopiù non votano dei
rappresentanti che conoscono personalmente, ma liste preparate centralmente o
persone designate dall'alto; nasce la figura del "politico", come professione
e come soggetto umano; talora anche l'amministrazione statale e la vita
economica diventano terreno di rivalità fra i partiti. Si tratta senza dubbio di
svantaggi che però, in un'atmosfera in cui la politica e la stampa siano
veramente libere, non possono degenerare oltre certi limiti [...]. L'argomento
più convincente a favore del sistema dei partiti consiste, comunque, nel fatto
che dove si sia cercato di ovviare ai danni creati dai partiti con la loro
soppressione, si sono fatti danni maggiori di quelli precedenti [...]. La
possibilità di esprimere opinioni così come si realizza nei partiti non può
essere surrogata nemmeno da un'entità statale fondata su organizzazioni di massa
o su rappresentanze di interessi di altro genere. Organizzazioni di questo tipo
sanno essere molto potenti in momenti storici critici, data la loro capacità di
mettere in movimento grandi masse. Ma nella pacifica vita politica quotidiana si
restringono inevitabilmente nelle loro cerchie, con il risultato che i loro
membri si disabituano a prendere direttamente posizione nella vita politica del
paese. Se una volta il cosiddetto "uomo della strada" non sceglie più i suoi
rappresentanti tra gli organismi che discutono della politica nazionale, ma tra
le proprie organizzazioni sociali o di categoria, la vita politica del paese —
che non risponde direttamente alle masse, ma nasce dalla cooperazione dei loro
organismi di vertice — si allontanerà dalle masse assai più facilmente che in
qualsiasi altro sistema politico basato sul sistema partitico, e prima o poi
giungerà al punto di considerare "immaturo", quasi un elemento di disturbo,
l'intervento delle masse nella vita politica nazionale [...]. Un'idea simile
sulla "immaturità" politica delle masse si è formata nei moderni sistemi a
partito unico: nei circoli del partito che sa tutto e pensa per tutti, tale
opinione, non manifestata in pubblico, è apertamente ammessa a quattr'occhi. Un
governo frutto di posizioni di questo tipo, seppure originariamente privo di
carattere dittatoriale, ma rappresentativo di interessi, corporativo o
partitocratico, sarà prima o poi facile preda di qualsiasi tentativo di
dittatura personale od oligarchica [...].
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