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| << | < | > | >> |IndiceI tagli nella vecchia edizione (r.m.) 6 Un giallista biochimico di Laris Massari 7 I personaggi 14 1. Domenica, 25 maggio 1975 15 2. Lunedì, 26 maggio 1975 (Memorial Day) 88 3. Martedì, 27 maggio 1975 193 4. Mercoledì, 28 maggio 1975 288 Nota speciale 318 |
| << | < | > | >> |Pagina 15Ad Harlan Ellison, il cui splendore della personalità è stato superato solo dal culmine del suo talento 1. Darius Just (narratore) - ore 13:30 Ricostruire la morte violenta di un amico e capire come sia potuta accadere. Una morte che non avrebbe avuto luogo se prima non fosse accaduto A o se B fosse accaduto prima di A e così via, risalendo indietro fino alle primordiali brume del tempo. Nel caso particolare in cui fui coinvolto, tuttavia, possiamo limitare le cause dirette a una specifica e ristretta serie di eventi, i quali si sarebbero dovuti compiere tutti, perché si verificasse una morte violenta. Se uno qualunque di essi non fosse avvenuto, qualcuno ora morto sarebbe vivo; o se morto, almeno non quel giorno, non in quel modo, non assassinato. NOTA DELL'AUTORE: Nonostante il mio modo di scrivere questo libro, tutti i personaggi citati (escluso me, ovviamente) sono immaginari. Qualsiasi rassomiglianza a persone reali, vive o morte, è puramente casuale e può esserci solo malgrado i migliori sforzi che ho compiuto per evitarlo. A questo riguardo, prego di guardare la nota alla fine del libro, ma solo dopo averlo letto. Io mi trovai al centro di molti di quegli eventi. Inconsapevole, naturalmente, ma c'ero. Li ricostruisco partendo da domenica 25 maggio 1975 - primo giorno del 75° convegno annuale dell'American Booksellers Association (ABA) [Associazione dei librai d'America], sparso tra vari alberghi del centro cittadino - e da una donna che quel giorno doveva promuovere il suo libro a una conferenza stampa. Era in programma che incontrasse i membri della stampa alle 16:00 e lei doveva decidere cosa indossare. E a questo proposito, mentre provo a ricostruire le sue motivazioni, mi sembra che si trovasse di fronte a un dilemma. Da un lato, era giovane e bella, dotata di un corpo in cui tutte le parti si combinavano armonicamente, e quindi aveva il naturale desiderio di mostrarlo al mondo. Dall'altro, era femminista, come lo era anche il libro che stava presentando, e c'era la possibilità che usare il fascino del corpo per promuovere il libro non fosse una cosa femminista da fare. Non so se esitò veramente o, se lo fece, per quanto tempo. Non so se provò diversi vestiti o se risolse subito la questione per qualche ragione nella sua mente. Il fatto è che finì col mettersi un abito bianco che, sopra la vita, era composto da generosi spazi aperti di visuale, mentre sotto il vestito e sempre sopra la vita, non c'era altro che il suo splendido corpo. Quando stava composta, i seni rimanevano al sicuro dietro le piccole zone opache poste in punti strategici. Ma quando alzava un braccio, fin dove poteva, il vestito saliva da quel lato e il capezzolo faceva capolino. Tutto ciò sono venuto a saperlo dopo. Io non c'ero quando la cosa accadde, né vi avevo nulla a che fare direttamente. E anche questo fu un anello nella catena di eventi. Quando la nostra amica femminista aveva deciso di dare al mondo la possibilità di sbirciare, aveva posto la prima pietra di cui era lastricato il cammino verso la morte. E il fatto che io non fossi arrivato in tempo nella sala delle interviste, fu un'altra pietra di quel sentiero. Se avesse scelto di arrivare in una veste di rigogliosa modestia, niente sarebbe accaduto (forse), che io fossi stato presente o no. E se fossi stato presente non sarebbe accaduto nulla (forse), anche se fosse arrivata nuda. Ma lei aveva il vestito che aveva, io non ero presente e tutto andò come andò. E dove stavo visto che non ero lì? Ero in strada. Partito alle 13:30, mi stavo dirigendo verso il convegno dell'ABA. Il mio editore riteneva che per me (scrittore, ma non di spropositato successo) sarebbe stata una buona cosa mostrarmi e farmi un po' di pubblicità, magari accennando qualche sorriso ai librai lì riuniti. Non feci obiezioni. Qualunque mia spesa l'avrebbero potuta dedurre come costi di rappresentanza e avevo un'ottima scusa per starmene per qualche giorno lontano dalla macchina da scrivere. | << | < | > | >> |Pagina 26E inoltre volevo dare un'occhiata agli stand degli espositori, molti dei quali (non proprio tutti) erano al secondo piano di questo particolare albergo. Secondo la guida degli espositori c'erano 600 stand occupati da circa 350 espositori. Un record. Con una previsione di presenze al convegno di circca 12.000 persone: un altro record.A me parve meraviglioso che ci fossero così tanti partecipanti, quasi tutti librai. Benché esistano le biblioteche e i club del libro, i librai rimangono la spina dorsale nel settore, l'indispensabile ponte tra gli editori e gli autori, tra chi produce i libri e il pubblico che li legge. Gli editori competono tra loro per catturare l'attenzione dei venditori, desiderosi di scoprire quali libri richiedere che possano andar bene per le vendite. Vendite che a loro volta sono un duro banco di prova sia per gli editori che per gli autori. Ogni editore affolla la sua mostra con esibizioni sgargianti di successi passati o (si spera) imminenti. Non tutti i piccoli espedienti della promozione sono di buon gusto e gli autori non sono ben disposti a collaborare in alcune manifestazioni di kitsch. Ci sono i maglioni su cui viene cucito il nome di un libro e poi indossati da qualche giovane donna con una taglia troppo grande per l'indumento. Il nome di conseguenza curva su collina e valle, e la speranza è che coloro che osservano lo scenario vedano anche il titolo del libro. C'era il tipo che avevo visto di passata, mentre andavo nella sezione degli espositori, che da lontano sembrava indossare una cotta di maglia. Quando mi avvicinai, curioso e stupito, mi accorsi che stava indossando un costume fatto con gli anelli per aprire le lattine di birra. Ovviamente stava pubblicizzando un libro, probabilmente il suo, che si occupava della raccolta e del riutilizzo di tali anelli per divertimento e profitto. Ci pensai un momento e decisi che tutto ciò che teneva gli anelli delle lattine di birra (o di bibite) fuori dalle strade della città e fuori dal verde, ma sui corpi dei consumatori di birra e di bibite non poteva essere del tutto male. C'era anche un altro tizio che vagò senza sosta per il convegno, dal primo all'ultimo giorno, vestito con un costume da angelo per pubblicizzare un libro il cui nome non ho mai afferrato pienamente. Lo vidi un paio di volte di passaggio ma mi accorsi realmente di lui quando finì sul giornale, in prima pagina, seconda sezione: neanche un cenno al libro che stava pubblicizzando. C'erano poi naturalmente le conferenze stampa, in cui avevo recitato una parte così poco gloriosa, e gli incontri per gli autografi, in cui gli autori favoriti firmavano libri per i visitatori. (I libri erano dati in omaggio, dal momento che un libraio non lo si fa pagare, ma gli si sorride.) Decisi quindi di aggirarmi tra gli stand, se non altro per fissare con bramosia alcuni dei successi sicuri dei quali ho parlato e sperare vanamente che il proprio libro possa essere uno di quelli. Il mio quinto libro stava uscendo con la Prism Press e mi auguravo abbastanza seriamente che potesse andar meglio dei primi quattro, sollevandomi così da alcuni obblighi dovuti a necessità primordiali di sopravvivvenza. A dire il vero, i quattro romanzi precedenti erano stati un succès d'estime. Il che significa che ciascuno di essi aveva attirato un livello di consenso della critica corrispondente all'approvazione da parte di una regione esclusiva, abitata da troppe poche persone per alimentare un successo di vendite. È certamente un conforto sapere che i miei libri sopravviveranno a tutto quel trash [ciarpame/mondezza] dei best seller ( trashy è l'epiteto standard usato dagli autori che non fanno parte della lista) e che sarò apprezzato dopo la morte, ma odio dover vedere tale morte affrettata dalla fame. | << | < | > | >> |Pagina 5910. Isaac Asimov - ore 18:45Nella sala più interna, c'erano quattro larghi tavoli del buffet, uno contro ogni parete. Presumo che fossero tutti uguali, ma io ispezionai solo il più vicino. Cena gratis, mi dissi, e mi servii del pollo fritto, due tipi di salsiccia, qualche fettina di lingua, una cucchiaiata d'insalata di patate, cinque o sei olive, più pane e burro in un piatto a parte. Mi trovai un tavolo con ancora nessuna delle sue quattro sedie occupate e mi sedetti con un leggero sospiro. Se fossi stato lasciato solo, se mi fosse stato permesso di mangiare in pace, avrei ancora potuto spazzar via tutti gli eventi implacabilmente umilianti della giornata. Ci sono persone che dissolvono le loro pene nel vino; è probabile, invece, che io tenda ad allieviare la mia tristezza con la salsiccia piccante. Non doveva, però, andare così. Quella domenica nulla andava nel verso giusto. Non avevo, infatti, finito il primo boccone, quando risuonò una voce allegra: «Caro vecchio Dry as Dust, ti dispiace se mi unisco a te?». Devo spiegare riguardo al nome Darius. Mi è stato assegnato da un padre autodidatta. Non ci si può fidare dell'autoeducazione, va troppo lontano, si gonfia troppo, non conosce moderazione. Il nome di mio padre era Alessandro e lui sapeva che Alessandro il Grande aveva sconfitto Dario III di Persia, e questo bastava. Forse pensava che anche se si fosse preoccupato che di farmi avere un'istruzione completa (lo fece) non sarei mai stato in grado di superare lui. Dato che era un metro e settantacinque, suppongo di non averlo mai fatto. Mia madre, una donna molto piccola da cui ho ereditato i geni della statura, era d'accordo. Non aveva scelta. Nessuno ha mai avuto scelta stando vicino a mio padre. Essere il bambino più piccolo in classe non è proprio un passaporto per la felicità. Essere un bambino di nome Darius, circondato dai vari Jim, Tom e Bill, non dà molta gioia. Essere il bambino più piccolo della classe e per giunta chiamarsi Darius, è come stare seduti sotto un'insegna intermittente al neon in cui lampeggia il messaggio: «Prendetemi a calci!». Durò fino al college, prima che il mio nome smettesse di servire da insulto a tutti quelli della mia età che mi capitava d'incontrare: un insulto da vendicare subito e personalmente. All'inizio avevo odiato quel nome, ma lo tenni stretto con tenace ostinazione. Nessuno mi avrebbe obbligato a cambiarlo. Quando riuscii a crearmi un giro di amici abbastanza adulti e còlti per pronunciarlo correttamente e farmici sentire a casa, iniziò a piacermi. Una pronuncia corretta aiuta. Anche tra gli adulti relativamente còlti, non era un nome familiare. Al di fuori di Erodoto, è probabile che lo si trovi solo in una sorta di vecchia filastrocca intitolata Darius Green e la sua macchina volante, di John Townsend Trowbridge, scritta poco più di 100 anni fa. Odiavo quella poesia in cui l'unico Darius della letteratura popolare aveva ovviamente un rilievo comico. Non saprei dire quale proporzione della popolazione generale sappia come pronunciare il mio nome; ma anche negli ambienti più esclusivi nei quali mi aggiro (Dio mi aiuti) lo sento pronunciato più spesso male che bene. Il primo impulso è di pronunciarlo in rima con various, ma non è corretto. L'accento è sulla seconda sillaba, con una lunga «i», così che rimi con pious [paius] e bias [baias]. Vi sono però altri svantaggi perché, dopo aver imparato a pronunciare Darius correttamente, non puoi fare a meno di notare che suona un po' come dry as [secco come]. Poi, se si è un po' scarsi d'intelligenza, può venire in mente di cambiare Just con Dust, e il nome diventa Dry as Dust [secco come la polvere], che non è proprio l'ideale per uno scrittore. Attualmente conosco una sola persona con un senso umoristico così perverso da credere la cosa sia divertente. Sicché, quando sentii dire «Caro vecchio Dry as Dust, ti dispiace se mi unisco a te?», sapevo, senza guardare, che era Isaac Asimov. Fare giochi di parole è la sua idea delle massime vette empiree della saggezza. Non mi scomposi nel sentirlo e risposi soltanto: «Ciao, Ikey. Ovviamente mi dispiace, ma siedi pure». A quanto pare, non c'è nessun nome con cui Asimov possa chiamarmi che io odierei tanto quanto lui odia essere chiamato Ikey. Quindi una di queste volte, quando finalmente si renderà conto che ogni «Dry as Dust» produrrà regolarmente un «Ikey», smetterà. Chiunque altro avrebbe smesso dopo due volte. Per Asimov ci vorranno vent'anni. Dato che questo libro rappresenta una sorta di collaborazione tra noi due, ma col suo nome come unico autore, è meglio che lo descriva nel dettaglio. Alto un metro e settantatré, piuttosto grasso e spesso sogghignante. Porta i capelli lunghi ed è evidente che ciò è dovuto alla pigrizia, più che al desiderio di avere un magnifico aspetto leonino (che è come ho sentito che lo descriveva), anche perché sembra sempre pettinato alla meno peggio. I capelli sono piuttosto grigi e le basette, che scendono fino all'angolo della mascella (e che sono state appropriatamente descritte come quelle di Brillo), sono quasi bianche. Ha il naso a bulbo, gli occhi azzurri, il cravattino di cuoio stile western e occhiali con montatura nera. Deve toglierseli per leggere o per mangiare perché non vuole ammettere la sua età usando le lenti bifocali. Mi assomiglia per certi aspetti. Non fuma o beve più di quanto faccia io. Gli piace anche mangiare, come me, ma io non ingrasso e lui sì. Crede che la differenza sia nel metabolismo, che è comico sentirlo dire da uno che si vanta d'essere un biochimico. Io so che la differenza invece è nell'esercizio fisico. Mi alleno in una palestra vicina, ogni giorno, mentre Asimov, dopo che è riuscito a sollevarsi dal letto al mattino, ha fatto i suoi esercizi per la giornata. Eccetto battere a macchina, ovviamente. Le sue dita sono in ottima forma. Aveva il piatto riempito molto più in alto del mio, ma non riuscì a trattenersi dal dare uno sguardo ansioso a ciò che avevo preso io, come se potessi, forse, aver trovato qualche leccornia che gli era sfuggita. «A quanto sei arrivato al momento, Isaac?». Ora non aveva più senso chiamarlo Ikey, lo facevo solo se provocato. Sapeva a cosa mi riferissi, «Centosessantatré per ora», rispose a bocca piena, «ma chi li conta?». «Solo tu», ribattei. Mandò giù il boccone e disse in tono contrito: «Sono costretto a farlo. È compito mio. Tutti vogliono sapere quanti libri ho pubblicato e se non lo dico rimangono delusi. Inoltre, se mi rifanno la domanda nei due mesi successivi e la cifra non è aumentata almeno di uno, si sentono ingannati. Tu però non hai alcun motivo per risentirti. Da uno dei tuoi libri hanno tratto un film. Dai miei no». Sobbalzai. La vicenda era stata redditizia, ma era senza dubbio il peggior film mai realizzato dal peggior gruppo di idioti che si potesse trovare persino a Hollywood. Continuavo a sperare che nessuno lo vedesse. Centosessantatré non è un record, certamente, ma io non ho mai incontrato nessuno per cui scrivere è così facile come lo è per Asimov. Lui ne è consapevole e il piacere che prova può anche risultare uno spettacolo disgustoso a vedersi. Una volta attraversò la sala, a un pranzo de «il libro con l'autore» e qualcuno mi borbottò all'orecchio: «Ecco Asimov che spinge la sua autostima davanti a sé come una carriola». (Lo stesso si potrebbe dire del suo addome.) Qualcun altro una volta aveva detto che Asimov cammina come se aspettasse che l'aria si aprisse di fronte a lui. In verità la mia teoria è che trascorre così tanto tempo chiuso nella propria testa che non si accorge del mondo esterno, sicché quando sembra così ultrasicuro di sé, è solo perché non si rende conto delle cose che potrebbero disturbarlo. Gli chiesi: «Cosa ci fai qui, Isaac? Come mai non sei a casa a scrivere un libro?». Brontolò: «In un certo senso è ciò che sto facendo qui. La Doubleday vuole che io scriva un romanzo giallo intitolato Murder at the ABA [Delitto all'ABA]. Non so a cosa stessi pensando quando ho firmato il contratto». «Perché hai firmato?». «Cosa ti aspettavi che facessi? Ho firmato così tanti contratti, è un'azione istintiva. E vogliono un manoscritto terminato per agosto. Ho tre mesi di tempo». «Perfetto. Ti ci vorrà solo un fine settimana, giusto?». Asimov si preparò un gigantesco panino a strati e ne demolì metà in un morso. Avendone ingoiato una buona parte, disse: «La cosa peggiore dei miei problemi letterari è che non mi è concesso di aver alcun problema letterario. Se tu dicessi che devi scrivere un libro più veloce di quanto potresti, tutti bagnerebbero la tua giacca con lacrime di compassione. Quando lo dico io, ricevo battute di bassa lega. Sempre le stesse, potrei aggiungere». Queste parole venivano dette da un uomo che considerava «Darius Dust» un'arguzia epigrammatica. Non scoppiai in lacrime. «Ce la farai lo stesso. Hai già scritto romanzi gialli prima, no?». L'ipotesi era abbastanza probabile. L'uomo che ha scritto su ogni argomento immaginabile, se qualcuno non l'avesse capito, è Asimov. Sembra stupido a prima vista. E quando lo senti raccontare barzellette una dietro l'altra, o lo vedi abbracciare ogni ragazza a portata di mano, senza mai dire qualcosa di approfondito, ne sei definitivamente convinto. Ci vuole del tempo per scoprire che lui è così sicuro della propria intelligenza, tanto da non prendersi mai la briga di dimostrarla. Il che mi infastidisce a morte, in realtà. «Naturalmente ho già scritto libri gialli», rispose con sdegno. «Ho scritto gialli ordinari e gialli di fantascienza; romanzi e racconti brevi; per adulti, per adolescenti e per bambini delle elementari». «Allora qual è il problema?». «Devo rendere quest'atmosfera e quindi dovrò gironzolare qui per quattro giorni e vedere cosa succede». «Lo stai facendo, no?». «Ma non posso vedere cosa succede. In tutta la mia vita, non mi sono mai accorto di ciò che accade attorno a me». «Allora come hai scritto centosessantatré libri». «Pubblicati», precisò. «Ne ho undici in stampa... Perché i miei libri sono senza descrizioni. Ho uno stile disadorno». «In tal caso, trova qualcuno che ti aiuti». Fu curioso che lo avessi detto, perché in quel momento non avrei potuto supporre che alla fine lo avrei aiutato io. E dopotutto, è riuscito a terminare il libro in tempo. Lo state leggendo: Delitto all'ABA di Isaac Asimov. | << | < | > | >> |Pagina 100Raccontò una barzelletta del tipo lungo e coinvolgente:«La signora Alexander Chumley-Smythe di Londra chiamò suo marito in città e disse: "Mio caro, c'è un gorilla selvaggio e pauroso sul faggio in giardino, che si spulcia, fa le smorfie e dà spettacolo di se stesso. Non so cosa fare". «"Stai calma, vecchia mia", rispose Chumley-Smythe, "e sarò subito a casa". «Così fu e dopo aver osservato il gorilla, entrò in casa e disse: "Non preoccuparti, cara, ci metteremo in contatto con qualche affidabile associazione per la cattura dei gorilla". «Sfogliando le pagine gialle di Londra, guardò sotto "Cattura dei gorilla" e chiamò la ditta Fortescue e Brown. Ci fu una risposta immediata: "Qui Fortescue". «Chumley-Smythe raccontò la sua storia e allora Fortescue disse: "Ah, sì, sarò subito lì. Tenga duro e non lasci che la bestia scappi". «Arrivò entro mezz'ora, portando con sé una scala, un enorme cane, un fucile e un grosso paio di manette. Disse: "Il mio socio, Brown, è in vacanza e mi chiedo se lei può aiutarmi". "Certamente", rispose Chumley-Smythe. "Cosa vuole che faccia?". «Salirò sull'albero usando la scala. Poi scuoterò vigorosamente il ramo su cui è seduto il gorilla. Così cadrà e non appena toccherà il suolo questo feroce segugio afferrerà immediatamente la bestia per i suoi testicoli. Con l'animale inchiodato in tal modo, non le resta che mettergli queste grosse manette ai polsi e quando scenderò dall'albero saremo tutti a posto". «"Sembra abbastanza semplice", disse Chumley-Smythe, "ma per quale motivo ha portato il fucile?" «Fortescue si schiaffeggiò la fronte indignato. "Oddio, la prossima volta dimenticherò la mia testa. Perché il fucile è la parte più importante. Mentre scuoto il ramo, lei stia lì con il fucile e, se per sbaglio dovessi cadere io dall'albero, allora senza esitare un attimo, spari al cane"». | << | < | > | >> |Pagina 16917. Thomas Valier - ore 18:40Sospetto che in qualsiasi giorno della settimana non c'è un'ora in cui da qualche parte non venga organizzato un party, con tanto di barista, bevande gratuite e ricchi buffet. E con abbastanza ospiti perfettamente sconosciuti ai responsabili, diventa possibile per chiunque entrare, purché mantenga un'aria disinvolta e saluti, di tanto in tanto, le persone dall'altro lato della sala. Sono sicuro che sono in molti a provvedere a gran parte del loro nutrimento per tutto l'anno partecipando ai ricevimenti... ma, ovviamente, a un prezzo. C'è il rumore, il fumo stantio, la folla, il graduale aumento di ebbrezza, il cibo mediocre e il dover guardare, ad nauseam, le persone che si sforzano di mantenere un'immagine, stabilire un contatto o fare una buona impressione, introdurre affari o pugnalare un nemico. In genere il prezzo è troppo alto per me, ma noto che quando partecipo a un party divento pessimo come gli altri. Per quanto ne so, ogni singola persona in situazioni simili è convinta di essere l'unico (o l'unica) vero essere umano perbene, condannando tutti gli altri come falsi o peggio. Non avevo un invito, ma avevo il mio cartellino dell'ABA e, se interrogato, avrei potuto dimostrare il mio status di scrittore, se non di libraio. Comunque, non mi fecero domande e non credo che il fatto che non si vedesse il mio cartellino abbia infastidito qualcuno. Probabilmente la casa editrice Sewall, Broom & Co. stava investendo i suoi soldi nella speranza di ottenere il favore dei librai, e ogni accenno di cattiveria nel tenere fuori qualcuno, anche se giustificato, avrebbe introdotto un disaccordo che li avrebbe delusi tutti. Meglio un po' di sperpero per gli imbucati che un fallimento dell'intero scopo della serata. Le bevande alcoliche, ovviamente, non m'interessavano e le oltrepassai, lanciando una rapida occhiata per vedere se Henrietta fosse in quella zona. Non c'era. Avevo il dubbio che vedendola non l'avrei riconosciuta, perché non riuscivo a ricostruire il suo viso nella mia mente. Se l'avessi sentita parlare però, non avrei avuto problemi. La mia memoria uditiva è migliore di quella visiva. Mi avvicinai al buffet, che consisteva in gran parte in una montagna di pollo fritto e fui sopraffatto da una sensazione di déjà vu, di aver già fatto tutto questo prima. Solo che non era l'illusione che di solito si descrive con quell'espressione francese, ma era reale. Avevo già fatto tutto questo. La sera prima ero entrato in una sala con il bar e mi ero fermato solo per cercare qualcuno, poi ero passato al buffet. La sera prima era Giles che stavo cercando; adesso era Henrietta. E siccome Giles non l'avevo trovato, ora non trovavo neanche lei. Mi concentrai, di malumore, sul pollo fritto. Aveva un bell'aspetto e un buon odore, e mi venne di colpo appetito. (Potrei arrabbiarmi di più per mangiare di tanto in tanto, ma quello stato non dura mai a lungo e lo considero come la prova che sono un essere umano sano.) Mi servii di un cosciotto e un petto perché detesto scegliere tra carne bianca e carne scura, mestolati su due o tre salsicce e delle patatine fritte. Dell'insalata, e più tardi una tazza di caffè e una fettina di torta, è tutto ciò di cui il mio uomo interiore aveva bisogno. Dopodiché, mi sarei dedicato alla ricerca di Henrietta. Muovendomi alla ricerca di un tavolo libero, passai accanto al gruppetto dei redattori più autorevoli della Sewall-Broom, tra cui una donna che dirigeva una casa editrice consociata e che avevo conosciuto quando la casa editrice era ancora indipendente. Li salutai tutti col volto sorridente e le mani piene di cibo, riuscii a baciare la mia amica senza rovesciare nulla ed entrai nell'altra sala. Il bacio mostrava che le mie credenziali per partecipare al party erano in piena regola ed evidenti... non che me ne fossi preoccupato. [...] E come se lo avessi sollevato abbastanza da permettergli di pensare al cibo, disse: «Penso che mi prenderò qualcosa». Tornò pochi minuti dopo con il pollo nel piatto e io nel frattempo avevo avuto modo di riflettere un po'. «Dobbiamo guardare il lato positivo, Tom. Il suo libro andrà meglio che mai. Non tutti gli autori muoiono nel bel mezzo di una campagna di promozione». «Oh no», disse a disagio, «non vogliamo speculare su una cosa del genere». «Perché no? E i libri autografati che stavate per distribuire come premi ai visitatori? Sono andati tutti?». Aggrottò la fronte e sembrò scioccato, come se disapprovasse il mio cattivo gusto. «Oh no. Li abbiamo noi. Non possiamo distribuirli adesso. Non sarebbe appropriato». «Hai ragione», insistetti. «Se attendi finché Via per sempre non sarà un evidente best seller, puoi metterli all'asta. Non mi sorprenderei, considerando che sono gli ultimi libri autografati che chiunque otterrà, se li porteranno a un paio di centinaia l'uno». «No, non voglio nemmeno pensare a niente del genere». (Ma lui ci stava pensando, lo sapevo, e scommisi cinque a due che alla fine l'avrebbe fatto.) «Dai», dissi, «approfitta dei titoli di giornale. È successo al convegno dell'ABA. Significherebbe molto per i librai e promuoveranno il libro. Lo sai: "Morte all'ABA"». Per un minuto mi ricordai del cri de coeur [grido di cuore] di Asimov della sera prima; del suo obbligo di scrivere un libro intitolato Delitto all'ABA. Giuro che ero così disperato nel dare un senso all'intera faccenda che ebbi un lampo passeggero di Asimov che aveva organizzato tutta la cosa per avere la sua trama... o pubblicizzare il suo libro. Tom ammise a malincuore: «Suppongo che le vendite miglioreranno, ma non m'interessa». Gli angoli della mia bocca si corrugarono un po' a quell'affermazione completamente ridicola che nessun editore (certamente nessun Tom) avrebbe potuto dire senza passare subito per bugiardo. | << | < | > | >> |Pagina 2136. Isaac Asimov - ore 10:50Irruppe una nuova voce e alzai di nuovo lo sguardo. Era Asimov che arrivava con dieci minuti di anticipo. «Darius! Sei venuto a sentire il mio pezzo. Sono commosso». Penso che lo fosse veramente. Altrimenti perché si sarebbe trattenuto dal chiamarmi Darius Dust e poi dal soffocare rosso in faccia per la battuta? Ma quel che è giusto è giusto. Visto che aveva rinunciato a Darius Dust almeno per una volta, non gli feci capire che era un altro motivo ad avermi trascinato nella sala. «Confido che sarai interessante, Isaac». Apparentemente bastò a stimolare il suo spirito filantropico (che l'evidente assenza di pubblico non sembrò intaccare) e chiese: «Non vuoi incontrare gli altri relatori?». «Perché no?». Mi volsi verso Strong: «Lei mi perdonerà, vero?». Lui bofonchiò quella che ritenni una risposta affermativa (che altro si sarebbe potuto dire in quelle circostanze?), e mi allontanai. Più tardi, al mio ritorno, non lo vidi più. Doveva essere andato sicuramente a riferire a Marsogliani riguardo a me. Ed io ero vagamente dispiaciuto di averlo dovuto mettere in difficoltà col mio proposito di verificare l'eventuale doppiezza di Sarah Voskovek. In realtà, i relatori erano un gruppo piuttosto imponente. Con un'aria di entusiasta e allegra padronanza, Asimov mi presentò a Carl Sagan, un astronomo della Conell University, alto e magro, con i capelli scuri così come gli occhi, e un modo di parlare rapido. Asimov mi presentò come un «vero scrittore», un'affermazione, presumo, pensata per fornire la garanzia che anch'egli fosse un vero scrittore. Sagan annuì amichevolmente, ma possiedo un ottimo sesto senso per individuare le persone che hanno sentito parlare di me. Sagan non era tra queste. Walter Sullivan del New York Times era il moderatore. Era anche più alto di Sagan e più magro; capelli bianchi, carnagione rossastra, e così desideroso di compiacere che quando fui presentato come scrittore disse, «Ah, sì», come se mi leggesse tutte le notti per addormentarsi. Mi aveva quasi ingannato. Asimov non conosceva personalmente gli altri due, ma non richiedevano presentazioni. Uno era Charles Berlitz - che aveva appena scritto un libro su Il Triangolo delle Bermude - alto, col viso tondo e i capelli grigi. L'altro era Uri Geller, il semimistico israeliano che pare riesca a piegare le chiavi con la telecinesi, leggere nel pensiero e così via. Geller era giovane e molto interessante sia nell'aspetto che nella conversazione. Erano chiaramente Asimov e Sagan contro Berlitz e Geller, con Sullivan che cercava di rimanere imparziale, ma incapace di resistere a schierarsi dalla parte della razionalità. Il dibattito, tuttavia, non fu entusiasmante. Non so se la scarsa affluenza avesse smorzato gli animi dei relatori o se qualche precognizione dell'assenza di scontro avesse tenuto a freno il pubblico. Ad ogni modo, fu un'ora tranquilla. Almeno per la maggior parte del tempo. Verso la fine, dal fondo, qualcuno sfidò Geller a sottoporsi a un pubblico di prestigiatori, facendolo con un linguaggio un po' provocatorio. Geller, che era abituato a questo genere di cose, stava attento a non tradirsi perdendo la pazienza. Affermò semplicemente che non avrebbe mai fatto alcuna dimostrazione davanti ai prestigiatori perché sarebbe stato inutile farlo; non avrebbero mai creduto che tutto ciò che avesse fatto fosse altro che un trucco, a prescindere dalle circostanze. La cosa sembrò interessare Asimov. Si chinò per sussurrare qualcosa a Sullivan e gli fu data la parola. «Non penso che il rifiuto di credere da parte dei prestigiatori sia un problema serio. È pari al problema molto più grande, molto più grande e molto più intenso rappresentato dal rifiuto di diffidare da parte di quasi tutti gli altri. «Non voglio parlare in particolare del signor Geller, anche se di lui qui si tratta, poiché vale per chiunque invada il campo posto al di fuori dei limiti ristretti e obbligati di ciò che gli scienziati non accetterebbero senza una seria argomentazione. «Le frange parascientifiche sono intrinsecamente affascinanti, eccitanti e gradevoli, e attirano consenso. Sono milioni che garantiranno quel consenso e non li distoglierà nulla che gli scienziati possano dire, specialmente perché quegli stessi scienziati non dispongono di null'altro egualmente evocativo, ma possono solo borbottare la frase guastafeste "Non è così!". «In effetti, la gente è così avida di credere ciò che è fondamentalmente incredibile, che respingerà, persino con la violenza, qualsiasi tentativo di addurre le prove a favore del diffidare. Se un mistico, dotato di un séguito ampio e pieno di fervore, dovesse rinnegare tutte le sue affermazioni precedenti, dichiarando frodi i propri miracoli e ciarlatane le proprie teorie, perderebbe a malapena qualche discepolo poiché direbbero tutti che quelle affermazioni le ha fatte perché costretto o colpito da improvvisa pazzia. La gente crederà a qualsiasi cosa dirà il mistico, per quanto insensata, tranne un'ammissione di falsità: rifiuterà attivamente di diffidare. «Si ottiene qualcosa, quindi, polemizzando con i mistici o tentando di analizzare razionalmente le loro affermazioni? Come esercizio salutare per migliorare e rafforzare la propria razionalità, certamente. Come speranza di far rinsavire i pazzi, no di certo. «Ma non importa. Il mio atteggiamento è di dire al mondo: "Credi! Tutti voi... credete! Credete ciò che volete perché così facendo, qualsiasi sciocchezza voi attribuiate a voi stessi o agli altri, non riuscirete mai a cambiare la realtà. Anche se i quattro miliardi di abitanti della Terra [1976 (n.d.t.) ] dovessero giurare e spergiurare che la Terra è piatta, e anche se uccidessero chiunque osasse sospettare che sia uno sferoide schiacciato ai poli con alcune irregolarità minori, ciononostante la Terra continuerebbe ad essere uno sferoide schiacciato ai poli con alcune irregolarità minori».
Ci fu un cortese tentativo di applauso ed era ormai terminata l'ora. Io non
applaudii - anche se ancora una volta dovetti stupirmi della facilità con cui, e
sospetto inconsciamente, Asimov poteva passare dalla sostanziale inadeguatezza
della sua personalità sociale all'intensa intelligenza
della sua personalità professionale, e viceversa - perché il
breve discorso di Asimov aveva scosso duramente tutte le
ipotesi da me raccolte con fatica come certezze.
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