|
|
| << | < | > | >> |IndicePresentazione XI di Marino Sinibaldi Introduzione 3 L'enigma di Bagdad (3). Fra libri distrutti (5). Miti apocalittici (7). L'eliminazione della memoria (10). Le forme del fuoco (12). La cultura della distruzione (13). Postilla del 2004 (13). Parte prima. Il mondo antico 1. Vicino Oriente 17 Tutto comincia a Sumer (17). Ebla e gli scavi archeologici in Siria (20). Babilonia (22). La grande biblioteca di Assurbanipal (24). I libri dei misteriosi ittiti (26). L'incendio di Persepoli (26). 2. Egitto 29 I primi papiri (29). Il Ramesseum (31). Il potere della conoscenza (32). Le Case della Vita (33). Gli scritti proibiti di Thot (33). 3. Grecia 35 Tra rovine e frammenti (35). La distruzione dei poemi di Empedocle (39). La censura contro Protagora (40). Anche Platone bruciò libri? (40). L'incendio del tempio di Artemide (42). Un antico medico greco (43). Due biblioclasti (44). 4. Apogeo e fine della biblioteca di Alessandria 46 5. Pergamo e le antiche biblioteche greche 58 La rivale di Alessandria (58). Le opere perdute di Aristotele (59). Biblioteche in rovina (67). 6. Israele 70 L'Arca e le Tavole della Legge (70). Il Libro di Geremia (71). Il «libro dei libri» (71). I rotoli del Mar Morto (72). I profeti bibliofagi (73). 7. Cina 75 Shi Huangdi, il distruttore (75). La biblioclastia orientale (79). La Grotta dei Canoni Buddisti (82). 8. Roma 84 Censura e persecuzioni nell'Impero (84). Biblioteche pubbliche e private (86). I papiri di Ercolano (90). 9. Le origini radicali del cristianesimo 91 San Paolo contro i libri magici (91). I libri di Porfirio contro i cristiani (91). I testi gnostici (92). L'eterodossia dei primi anni (93). L'assassinio di Ipazia (94). 10. Oblio e fragilità dei libri 95 Quando il disinteresse distrugge (95). La lingua come dominio (97). Parte seconda. Da Bisanzio al secolo XIX 1. I libri perduti di Costantinopoli 101 2. Tra monaci e barbari 106 Quando le biblioteche erano sigillate come sepolcri (106). I manoscritti irlandesi (107). I monasteri (109). Palinsesti e altri paradossi (110). I difensori dei libri (111). 3. Il mondo arabo 112 Guerre, invasioni, conquiste (112). I mongoli contro l'islam (114). Alamut e la biblioteca degli assassini (115). Hulagu e l'assedio di Bagdad (116). 4. Un equivoco fervore medievale 119 I libri proibiti di Abelardo (119). Eriugena, il ribelle (119). Il Talmud e altri libri ebraici (120). La censura contro Maimonide (121). Dante e Savonarola (122). Eresie (122). 5. La Spagna musulmana e altre storie 125 I roghi di Almanzor (125). I versi proibiti di Ibn Hazm (126). La distruzione del Corano nella Spagna della Reconquista (126). 6. In Messico 130 L'eliminazione sistematica delle culture preispaniche (130). «Un tempo di verità» (133). 7. Il Rinascimento 134 La biblioteca di Mattia Corvino (134). La Bibbia di Gutenberg (135). Michele Serveto, l'eretico (136). Gli anabattisti di Müntzer (138). La biblioteca di Pico della Mirandola (140). Persecuzioni e distruzioni (141). Due casi curiosi (143). 8. L'Inquisizione 144 Il Santo Uffizio e la censura sui libri (144). L'Inquisizione nel Nuovo Mondo (148). 9. La condanna degli astrologi 151 Enrique de Villena (151). Un'opera misteriosa: la Steganografia (152). Il libro proibito di Nostradamus (152). La biblioteca segreta di John Dee (153). 10. La censura in Inghilterra 155 I delitti dell'ortodossia (155). Il censore perseguitato (156). Conflitti religiosi (156). 11. Tra incendi e devastazioni 158 Il grande incendio di Londra (158). L'Escorial e il rogo degli antichi manoscritti (159). Isaac Newton (161). La biblioteca di Árni Magnússon (162). Secoli di incidenti e disastri (163). La collezione di Pinelli (172). Naufragi celebri (173). La battaglia contro i libri (174). L'incendio della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti (176). I libri di Sir Robert Cotton (178). La biblioteca del Seminario di Mérida (Venezuela) (179). 12. Rivoluzioni e persecuzioni 180 L'ostilità contro il libero pensiero (180). Attacchi contro gli intellettuali in Francia (181). La Rivoluzione francese (183). Il dispotismo colto e coloniale (184). La Comune di Parigi (185). Guerre d'indipendenza e rivoluzioni in America Latina (187). 13. Alla ricerca della purezza 190 Jakob Frank (190). Nachman di Breslov (191). I misteriosi manoscritti di Richard Francis Burton (192). Roghi di libri immorali (193). Darwin e il suo libro polemico (193). Un inquisitore a New York (194). 14. Alcuni studi sulla distruzione dei libri 15. Libri immaginari Parte terza. Il secolo XX e gli inizi del XXI 1. La guerra civile spagnola 217 2. Il bibliocausto nazista 227 3. La seconda guerra mondiale 244 Gli inizi (244). Francia (244). Italia (245). Inghilterra (246). Germania (246). La fine (248). 4. Censura e autocensura letteraria moderna 250 Gli attacchi contro Joyce (250). Lawrence, Steinbeck e altri scrittori (250). La censura di Stato nell'America del Nord (251). Alcuni casi emblematici (252). Salman Rushdie e il fondamentalismo (253). Autori che si pentono (254). 5. Guerre e catastrofi naturali 259 La Grande Enciclopedia del Mondo (259). La guerra tra Cina e Giappone (260). Quando la memoria è in pericolo (262). L'incendio di Medinaceli (267). Los Angeles e Leningrado (268). 6. I regimi del terrore 270 Censura e roghi in Unione Sovietica (270). Il franchismo in Spagna (274). Dittatura e repressione (277). La rivoluzione culturale in Cina (279). L'Argentina in mano ai militari (281). Fondamentalismi (284). La catastrofe dell'Africa (285). Cuba (286). La Palestina (286). 7. L'odio etnico 288 Il libricidio serbo (288). La Cecenia senza libri (293). 8. Religione, ideologia, sesso 295 Purghe sessuali (295). Purghe culturali (296). L'odio degli studenti per i libri di testo (298). Il caso Harry Potter (299). 9. Nemici naturali e legali 300 Sui nemici naturali dei libri (300). Carta autodistruttiva (302). Esemplari unici (305). Libri al macero (307). Le dogane (308). 10. Il terrorismo e la guerra elettronica 309 Il terrorismo contro le biblioteche (309). L'attacco contro il World Trade Center (310). Il caso dei libri-bomba (310). La cancellazione dei libri elettronici (311). 11. Ancora sull'Iraq 313 Note 331 Ringraziamenti 360 Indice dei nomi 363 |
| << | < | > | >> |Pagina XIPresentazione
di Marino Sinibaldi
Quella che state per leggere è una storia infinita. Comincia qualche migliaio di anni fa (5.000, 6.000, di più?) con i primi libri dell'umanità e le loro immediate, precoci distruzioni. Perché da subito ogni guerra e tutti i conquistatori, mentre si appropriano di terre e massacrano uomini, coltivano l'insopprimibile impulso e la tracotante necessità di cancellare le culture nemiche — la memoria custodita da tavolette, rotoli, papiri, codici, nei supporti e nelle forme che la genialità umana ha via via inventato per registrare, raccontare, lasciare traccia di sé, investigare il proprio destino. Ma quella che state per leggere è una storia infinita per una ragione più inquietante: non finisce mai. I distruttori hanno cambiato strumenti e tecnologie, quello che un tempo faceva il fuoco oggi è prodotto dalle censure della Rete, dal digital divide, dalla distruzione degli archivi elettronici: pratiche che per così dire integrano ma non eliminano le più tradizionali, come raccontano le cronache a noi contemporanee. Il caso della fatwa globale contro I versi satanici di Salman Rushdie è solo il più clamoroso e "mediatico" - e comunque ha lasciato sul terreno almeno una vittima, il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi, che non andrebbe dimenticato.
L'immaginario del fuoco purificatore continua a circolare, se è vero
che in forme per ora grottesche sfiora bestseller come Harry Potter e
Il codice da Vinci.
A parte le polemiche intorno al libro di Ariel Toaff
Pasque di sangue
che hanno portato al suo ritiro dalle librerie, libricidi
veri e propri si commettono ancora in molte parti del mondo. Al fondo c'è
la stessa banale intenzione di ridurre l'area della conoscenza, perseguitare
l'alterità, sopprimere le differenze, cancellare le memorie altrui.
Del resto quella che state per leggere è anche una storia ininterrotta: non c'è stato regime, ideologia e religione immune da questa ossessione distruttiva. Hanno bruciato libri i reazionari e i rivoluzionari, i seguaci delle tradizioni minacciate e gli adepti di nuovi culti ansiosi di cancellare i vecchi, le inquisizioni cattoliche e le ortodossie ebraiche, i califfi islamici e i pastori protestanti, i nazisti e i comunisti ma anche le democrazie liberali, almeno in certe loro periferie ideologiche. Sono stati bruciati i libri degli illuministi e subito dopo quelli dei nemici della Rivoluzione francese. Nel Novecento totalitarismi diversi hanno applicato la stessa radicale cura del fuoco che è affiorata perfino nella più nobile delle lotte, quella contro l' apartheid.
E infine lo sterminato elenco di distruzioni che Fernando Báez ha raccolto
con una sorta di partecipazione dolorosa e maniacale racconta una
storia circolare. Non solo perché inizia e (per ora) finisce là, in Iraq, nella
Mesopotamia dove tutto, anche la scrittura, cominciò e dove oggi guerre
e terrorismo non risparmiano le biblioteche, gli archivi, i quartieri del
libro. Ma perché nei modi reiterati di una disperante coazione a ripetere
sembrano riproporsi gli stessi impulsi e le stesse motivazioni: si distruggono
libri perché non si accettano idee e memorie diverse dalla propria.
In nome della fissazione per l'uniformità che già nella Cina del II secolo
a.C. trasformò l'augusto sovrano Shi Huangdi in uno dei più grandi
distruttori della storia: migliaia di libri "non legalisti" distrutti, oltre
quattrocento letterati sepolti vivi. Secondo il principio lucidamente
rivendicato dal califfo Omar davanti alla biblioteca di Alessandria: «Se i
libri contengono la stessa dottrina del Corano, sono inutili in quanto
ripetizioni; se i libri non sono in accordo con la dottrina del Corano, non è il
caso di conservarli». Parole che potrebbero essere pronunciate da altre migliaia
di burocrati del terrore culturale sparsi in tutte le epoche e religioni. Perché
i libri (i buoni libri, quelli che si conquistano l'onore della distruzione)
non sono mai "in accordo" con la Verità, la Fede, il Progetto, la Missione.
A chi scrive (e a chi legge), le Verità uniche, le Fedi obbligate, i Progetti
sbandierati e le Missioni salvifiche non piacciono o non bastano. Per questo
scrivono o leggono. Questo rende loro e i loro libri dei Nemici.
La prima vittima di una distruzione di libri a seguito di un pubblico decreto tu il sofista Protagora, che nell'Atene del V secolo a.C. «gli dei affermava di non sapere né potere capire quali fossero né se davvero esistessero, mantenendo una posizione misurata e cauta». Protagora pagò «il suo relativismo epistemologico» - accusa che a noi oggi suona sinistramente familiare. Ma bisogna sfuggire simili tentazioni. Non tutte le epoche e le distruzioni sono uguali. Quando un libro non era tecnicamente riproducibile, la sua eliminazione aveva ovviamente effetti fatali. E qualunque democrazia – compresa quella che con facile fiducia definiamo elettronica – per il tanto o poco di pluralismo che comporta, permette ai libri da qualche parte e in qualche modo di sopravvivere.
Del resto gran parte delle distruzioni che Báez racconta hanno cause
naturali: terremoti e inondazioni, incendi e uragani. Ma la distinzione non
risulta in realtà così netta e decisiva. La fragilità dei libri è infatti resa più
vulnerabile dall'indifferenza colpevole che li circonda: come giudicare
l'immobilità delle truppe americane a Bagdad nei giorni del saccheggio
delle biblioteche, degli archivi e dei musei? E come definire la scomparsa della
straordinaria biblioteca del Centro culturale ebraico di Buenos
Aires nell'attentato del luglio del 1994? Solo l'effetto collaterale di una
bomba che ha provocato quasi cento morti? L'indifferenza è più pericolosa del
fuoco, pensava Josif Brodskij: «non leggere i libri è peggio che bruciarli» – e
a me torna in mente l'irrilevanza così peculiare confessata dall'editore
napoletano Tullio Pironti quando in
Libri e cazzotti
racconta degli abili scippatori di piazza Dante costretti a rimettere al loro
posto i volumi che avevano sottratto alla sua libreria, per l'impossibilità di
piazzarli remunerativamente altrove. Ma l'indifferenza ha ben altre dimensioni e
altre colpe. La storia più drammatica e attuale che questo libro contiene è
quella della Vijecnica, la splendida biblioteca di Sarajevo, distrutta in tre
giorni, a partire dalla dieci e mezza di sera del 25 agosto 1992, dai
colpi di 25 obici serbi. Nel cuore d'Europa, in epoca contemporanea, sotto
gli occhi e nel silenzio del mondo, pure già istruito dall'infallibile profezia
di Heinrich Heine («Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli
uomini»). A Sarajevo l'odio per i libri ha consapevolmente sintetizzato
l'intreccio di memorie ferite, rivendicazioni identitarie, disprezzo per le
altrui culture, travestimenti ideologici e religiosi che forma la
terribile miscela dei conflitti contemporanei (e qualche pagina dopo Báez
nelle poche righe dedicate alla
Cecenia senza libri
mostra quanto velocemente questa tragedia sia destinata a ripetersi).
Non so se il libro e la lettura siano antidoto e terapia sufficienti di fronte all'odio. Nell'affascinante immaginario dialogo di due unni davanti alla biblioteca di un monastero in un romanzo ottocentesco che Báez cita, uno dei due barbari irride così i colti: «una mano che ha impugnato il calamo non sarà mai in grado di impugnare una spada». Questo paradossale elogio pecca però di ottimismo. Dalle biblioteche escono anche i massacratori, ci ricordava Bertolt Brecht. Diverse dittature hanno magari retoricamente provato a intrecciare libri e moschetti (dimostrando poi scarsa pratica di entrambi). Accademie zeppe di letterati hanno benedetto le più atroci stragi etniche del nostro tempo. Il culto del libro non può che essere relativo. Leggere è una attività critica ma anche autocritica: già il primo eroe della lettura, il grande Don Chisciotte, mette in scena la più sarcastica ironia verso la propria stessa passione. È per questo infine che ai libri – o meglio: a quello che nella storia dell'umanità finora è stato nei libri – non possiamo rinunciare.
Da questo punto di vista, la storia dell'odio per i libri finisce per
diventare una paradossale, rovesciata storia dell'amore per la lettura. Cosa
combattono infatti i biblioclasti? Quella trama di relazioni che ogni lettore
tesse. Il legame con «lo spirito diabolico del passato», come lo chiamava
Goebbels, e quello altrettanto tenace con altri uomini, sentimenti, esperienze e
sogni che minaccia l'incontestabilità di ogni realtà e autorità presente.
La semplice idea che (quasi) ogni libro contiene l'esistenza di un Altro e
di un Altrove magari immaginati come migliori indebolisce fedeltà e
obbedienze dogmatiche. Leggere è dunque un gesto scismatico, che separa
e mette in discussione il presente nello stesso momento in cui mette in
connessione e avvicina altri uomini, altre epoche, magari lontane e nemiche.
La quantità di spiegazioni che Fernando Báez mette in campo per cercare di capire la furia dei distruttori – dall'indagine sui miti apocalittici alle teorie complottiste di Jacques Bergier, a quelle psicoanalitiche di Gérard Haddad – è suggestiva. Ma al termine della lettura rimane la sensazione che l'ossessione della tabula rasa e della negazione dell'Alterità sia sufficiente a spiegare gran parte delle distruzioni. Forse sarebbe a questo punto più interessante studiare e finalmente rivalutare le ragioni dei pochi o tanti che a Qumran sul Mar Morto, a Mogao nel deserto del Gobi, a Nag Hammadi in Egitto – ma anche a Firenze nel 1966 –, più simili agli Uomini-Libri di Bradbury che a dei bibliotecari veri e propri, hanno salvato qualcosa: un rotolo, una tavoletta, un manoscritto, una storia, una memoria. Coloro che hanno custodito, nascosto, curato quella delicata e vulnerabile fede nel futuro che da qualche migliaia di anni – sì, è davvero una storia infinita – noi uomini affidiamo ai libri. | << | < | > | >> |Pagina 3IntroduzioneL'enigma di Bagdad «La nostra memoria non esiste più. La culla della civiltà, della scrittura e del diritto è stata bruciata. Non rimangono che ceneri». Ho ascoltato queste parole da un professore di storia medievale di Bagdad, che alcuni giorni dopo è stato arrestato in quanto membro del partito Baath. Mentre le pronunciava, stava per lasciare il moderno edificio dell'università, dove erano stati saccheggiati i libri della biblioteca e distrutti laboratori e aule, senza che nulla fosse risparmiato. Era solo, accanto all'entrata, l'espressione perennemente incupita, e forse pensava ad alta voce, o magari non pensava affatto, ma anche la sua voce era parte di quel lungo, interminabile rumore continuo che è a volte il Medio Oriente. Mi guardava e piangeva. Credo che attendesse qualcuno, che però, chiunque fosse, non arrivò mai; e dopo pochi minuti lo vidi allontanarsi senza una direzione precisa, costeggiando un enorme cratere aperto da un missile vicino all'edificio. Alcune ore dopo, tuttavia, uno dei suoi studenti si avvicinò e, rivolgendomi la parola, diede un senso alla frase del professore, con quell'aria di autorità che dà la sofferenza. Indossava una tunica marrone, dei sandali, e portava gli occhiali; malgrado la barba ben curata che avrebbe potuto invecchiarlo, era piuttosto giovane, dimostrava forse venti o ventidue anni, un'età eccellente per lamentarsi. Non guardava davanti a sé, Né verso una direzione precisa, di fatto non so nemmeno se guardasse. Mi chiese perché gli uomini distruggano tanti libri. Espresse le sue ragioni con calma e continuò con una citazione che non sembrava ricordare bene, finché non esaurì le parole: disse che per secoli l'Iraq aveva sofferto spoliazioni e distruzioni del proprio patrimonio culturale. «Non è lei l'esperto?», mi chiese con ironia. Si chiamava Emad, e nella mano sinistra teneva il volume consunto di un poeta persiano, con un ramo di palma secco come segnalibro. Non sapendo cosa dire, me ne andai. C'erano discussioni nei corridoi e preferii evitarle. Ad ogni modo la confusione mi servì per rivedere alcune idee, già nella mia camera d'albergo, e il tempo divenne un solo spazio stretto e necessario, perfino inevitabile. Non so perché mi sentissi tanto impotente e perché ora, passati dei mesi, quel fatto mi sia rimasto nella memoria, il che, in fondo, conferma che forse non avevo capito niente e che ogni sforzo di ragionare di fronte all'orrore è inutile ed equivoco. Però, anche così, credo di dover fornire una giustificazione che, a partire dalla mia esperienza personale, recuperi il senso della domanda dello studente di Bagdad. Questa introduzione non pretende nulla di più. Ma anche nulla di meno. Basterà ricordare che quando arrivai a Bagdad, nel maggio del 2003, feci la conoscenza di una nuova forma, indiretta e obliqua, di distruzione della cultura. Dopo la conquista della città da parte delle truppe americane iniziò un processo, ambiguo e sommario, di annientamento per omesso intervento, che contravveniva alle clausole della Convenzione dell'Aia del 1954 e ai protocolli del 1972 e del 1999. I soldati americani non bruciarono i centri della cultura irachena, ma nemmeno li protessero, dando con la loro indifferenza carta bianca alle bande criminali. A questo vandalismo da parte di professionisti se ne aggiunse un altro più ordinario, quello degli innumerevoli saccheggiatori incoraggiati da una propaganda che seminava l'odio verso i simboli del regime di Saddam Hussein. È bene non dimenticare che i musei e le biblioteche erano identificati con le strutture del potere che controllava la nazione. E, quando furono dati alle fiamme, il silenzio legittimò la catastrofe. Il 12 aprile 2003 tutto il mondo seppe del saccheggio del Museo archeologico di Bagdad. Una trentina di oggetti di enorme valore scomparve. più di quattordicimila reperti minori vennero rubati e le sale distrutte. Il 14 aprile bruciò un milione di libri della Biblioteca nazionale. Fu dato alle fiamme anche l'Archivio di Stato, che conservava più di dieci milioni di documenti del periodo ottomano e repubblicano; nei giorni successivi furono distrutte la biblioteca dell'Università di Bagdad e decine di biblioteche universitarie in tutto il paese. A Bassora venne incendiato il Museo di storia naturale, così come la biblioteca pubblica centrale, la biblioteca universitaria e la biblioteca islamica. A Mossul la biblioteca del museo fu depredata da esperti di manoscritti, che scelsero con cura gli esemplari da portare via. A Tikrit le bombe colpirono l'edificio del museo, provocando la fuga dei custodi e il conseguente saccheggio. Infine, oltre a questa catastrofe tanto inattesa, migliaia di siti archeologici si trovarono in pericolo a causa della mancanza di vigilanza. Il traffico illegale internazionale di reperti archeologici raggiunse un livello senza precedenti. Ancora oggi, malgrado l'impegno delle truppe italiane, non un solo sito archeologico iracheno è al sicuro. Bande armate con AK-47 circolano in luoghi come Hatra, Isin, Kulal Jabr, Ninive, Larsa, Tell el-Dihab, Tell el-Jbeit, Tell el-Zabul, Tell Jokha, Ur, Tell Naml, Umm el-Aqarib... Dopo il passaggio di elicotteri e pattuglie i banditi ritornano, dissotterrano oggetti antichi senza alcuna precauzione e distruggono pitture murali. Alcuni reperti vengono portati in Kuwait o a Damasco e da lì trasferiti a Roma, Berlino, New York e Londra, dove i collezionisti privati li acquistano al prezzo richiesto. Perché questa distruzione della memoria proprio nel luogo dove nacque il libro? | << | < | > | >> |Pagina 10L'eliminazione della memoriaCredo che i libri non vengono distrutti in quanto oggetti fisici, ma in quanto strumenti di memoria. John Milton, nell' Areopagitica (1644), sostiene che a essere distrutta in un libro è la razionalità da esso rappresentata: «chi distrugge un buon libro uccide la Ragione stessa». Il libro conferisce spessore alla memoria umana. Si ricordi che per i greci la memoria, Mnemosyne, era la madre delle nove muse. Si credeva che la memoria fosse madre delle arti. Dal greco al latino la sfumatura del termine si conserva, perché la radice di memoria è la stessa di memor, vale a dire «colui che ricorda». Questo potente legame tra libro e memoria fa sì che un testo debba venire considerato come una componente basilare del patrimonio culturale di una società e, di conseguenza, dell'intera umanità (è interessante osservare a questo proposito come le etimologie di «patrimonio» e «matrimonio» rinviino alle figure del padre e della madre). Quello culturale rappresenta quindi l'aspetto più significativo del patrimonio di ogni popolo. Esso possiede in se stesso la capacità di rinsaldare il senso di affermazione e appartenenza, può rafforzare o stimolare la coscienza dell'identità dei popoli rispetto al loro territorio e proprio come una sorta di carta d'identità, garantisce azioni culturali che favoriscono l'integrazione nella comunità nazionale. Si distrugge un libro nell'intento di annullare la memoria che contiene, cioè il patrimonio di idee di una cultura intera. La distruzione ha per oggetto tutto ciò che si considera una minaccia diretta o indiretta a un valore ritenuto superiore. Non si distrugge un libro perché lo si odia come oggetto. La componente materiale del libro è solo accidentale: in principio è stata una tavoletta presso i numeri, un osso tra i cinesi, poi una pietra, un pezzo di cuoio, una lastra di bronzo o di ferro, un papiro, un codice, un foglio di carta, e ancora un CD o un complicato dispositivo elettronico. Gettando le basi di una psicologia totalitaria, il mito apocalittico stimola in ogni individuo o gruppo l'attrazione per una totalità senza limiti. Ogni cultura della totalità, in effetti, ripudia la totalità di ogni cultura. Tra i segni facilmente identificabili del totalitarismo apocalittico si possono individuare la tentazione collettivista, il classismo, le utopie millenariste e il dispotismo meticoloso, burocratico, servile. Anche le società democratiche possono essere assolutamente totalitarie e incoraggiare tendenze distruttive rafforzando la negazione della propria identità. Curiosamente, i distruttori dispongono di una notevole sensibilità creativa. I biblioclasti (termine con il quale si designano i distruttori dei libri) possiedono il loro libro, che giudicano eterno. Come prescrive l'antico rito di distruzione, l'eliminazione totale sottrae un testo alla sua caducità e lo consegna all'eternità. Ogni volta che un ardore aprioristico ed estremista ha conferito lo status di riferimento immutabile al contenuto di un'opera (sia essa il Corano, la Bibbia, o il programma di un movimento religioso, sociale, artistico o politico), lo ha fatto per legittimarne l'origine divina e la natura immutabile (Dio come autore, o, in sua assenza, un predicatore illuminato, un messia). Verso il 213 a.C. l'imperatore Shi Huangdi ordinò di distruggere tutti i libri che contenessero memorie del passato. Nel suo romanzo 1984 George Orwell descrive uno Stato totalitario in cui un ufficio governativo si dedica a riscoprire e a cancellare tutto il passato. I libri vengono riscritti e gli esemplari originali distrutti. Il distruttore di libri è dogmatico, perché si aggrappa a una visione del mondo univoca, irrefutabile – un assoluto di natura autarchica, autofondante, autosufficiente –, infinita, atemporale, semplice ed espressa come pura e incorruttibile autorità. Questo assoluto implica una realtà assoluta che non si spiega, ma si apprende direttamente attraverso una rivelazione. | << | < | > | >> |Pagina 171. Vicino OrienteTutto comincia a Sumer I primi libri dell'umanità apparvero circa 5.300 anni fa nella remota e semiarida regione di Sumer, nel Vicino Oriente, in Mesopotamia (oggi il sud dell'Iraq), tra le foci del Tigri e dell'Eufrate, al termine di un complesso e audace processo di perfezionamento e astrazione. Tuttavia questi libri cominciarono immediatamente a scomparire, in parte a causa del materiale, l'argilla, in parte a seguito di disastri naturali, come le inondazioni, ma in parte anche in virtù dell'intervento violento dell'uomo. Questo singolare paradosso della civiltà è stato raramente analizzato con attenzione, malgrado sia una delle chiavi di tutta la nostra storia. Al momento la quantità di testi distrutti a Sumer non ci è nota, però, considerate le guerre che afflissero la regione, non è esagerato supporre che superi le centomila unità. Una scoperta archeologica del 1924 portò alla luce i libri più antichi giunti fino a noi: negli scavi condotti nel sito dell'antica città di Uruk furono trovate molte tavolette databili tra il 4100 e il 3300 a.C.; alcune erano intatte, ma altre erano in frantumi, sbriciolate o bruciate. Questa scoperta, che non è definitiva, ci mostra uno dei grandi paradossi dell'Occidente: la prova dell'inizio della civiltà, della scrittura e dei libri e, insieme, anche della loro prima distruzione. Il danno non fu naturale, spontaneo e rapido, ma provocato, premeditato e lento, poiché le guerre tra le città-stato causavano incendi e, nei mezzo del fragore della battaglia, le tavolette cadevano dagli scaffali di legno frantumandosi e diventando illeggibili. L' Inno a Iishbierra cita l'obiettivo di un attacco: «Su ordine di Enlil si riduca in rovina il paese e la città di..., il suo destino sia la distruzione della sua cultura». Un'altra causa di distruzione era la pratica del riciclo; le tavolette danneggiate venivano riutilizzate per fabbricare mattoni o per la pavimentazione cittadina. Un ulteriore elemento profondamente nocivo era l'acqua: gli straripamenti del Tigri e dell'Eufrate sommersero intere città e, di conseguenza, i loro archivi e le loro biblioteche. Forse non è casuale che il mito del diluvio universale sia nato proprio in Mesopotamia, dove l'acqua era considerata una divinità incorruttibile e capricciosa, nemica degli dei della memoria. | << | < | > | >> |Pagina 292. EgittoI primi papiri Il papiro, come supporto dei primi documenti e libri egizi, cominciò ad essere utilizzato a partire dal 3000 a.C., anche se la maggior parte dei testi non sono giunti fino a noi, salvo in quelle regioni in cui il clima ne ha favorito la conservazione. I papiri, che secondo una tradizione prendevano il nome dalla parola egizia Pa-pa-ra («appartenente al re»), venivano ricavati da una pianta della famiglia delle ciperacee, Cyperus papyrus. Si tratta di una pianta acquatica alta da 1 a 6 metri, con stelo triangolare e rizoma serpeggiante e sotterraneo. Le foglie hanno una forma oblunga e lanceolata all'apice del gambo e appaiono più strette alla base. L'inflorescenza ha un aspetto ombrelliforme; i fiori sono raggruppati in piccole spighe che danno origine alla particolare forma a stecche di ombrello. Il colore varia dal verde smeraldo intenso del gambo al giallo del fiore, al rossiccio degli stami. Dalla pianta si estraevano le fibre interne e dopo un lungo processo di essiccazione si ottenevano delle specie di foglie sulle quali era possibile scrivere. Il procedimento doveva essere ben complicato se, dopo che se ne era completamente persa la memoria, si è riusciti a riprodurlo di nuovo solo nel XX secolo. Teofrasto ha illustrato bene le qualità del papiro: «Ben noti agli stranieri sono i rotoli di papiro. Ma il papiro è soprattutto una risorsa alimentare, perché tutti i nativi lo masticano crudo, bollito e arrosto: inghiottono il succo e sputano il resto. Questo è il papiro e questi i suoi usi». Il medico Dioscoride ha studiato le qualità terapeutiche del papiro bruciato: «Ridotto in cenere ha il potere di cicatrizzare le ulcere della bocca e di altre parti del corpo. La carta di papiro bruciata ha i medesimi effetti, ma più intensi». Il più antico papiro conosciuto è stato ritrovato nella tomba di un dignitario di Saqqara, datata 3035 a.C., ma era privo di testo. Il primo papiro scritto oggi conservato risale al 2500 a.C., l'epoca della V dinastia, e contiene la contabilità del Tempio di El-Gebelein durante il regno di Neferirkare Kakai. | << | < | > | >> |Pagina 1448. L'Inquisizione
Il Santo Uffizio e la censura sui libri
L'Inquisizione
Il dogmatismo ha sempre richiesto organi di protezione e intimidazione, e in tal senso l'Inquisizione fu uno strumento fedele del consolidamento della Chiesa cattolica. Alcuni fatti possono servire da esemplificazione. In primo luogo, il fiorire in Europa di una pluralità di movimenti religiosi quasi nel medesimo momento in cui si rafforzavano il potere e l'autorità della Chiesa rese necessario il ricorso a mezzi e strategie di dissuasione, come la scomunica, la tortura, l'impietosa ordalia, o «prova di Dio», il rogo degli eretici o l'attacco contro intere comunità. Queste procedure erano già inquisitorie; successivamente certe tecniche vennero istituzionalizzate, soprattutto in risposta alla Riforma luterana, considerata la sfida più pericolosa al cattolicesimo ufficiale. Nel 1520 una bolla di papa Leone X scomunicò Martin Lutero e proibì pubblicamente la diffusione, la lettura o la citazione dei suoi scritti. Si bruciavano per le strade libri e ritratti di Lutero, il quale a sua volta diede alle fiamme la bolla papale. Preoccupato dall'espansione della dottrina luterana, Carlo V ordinò la distruzione di tutti i suoi libri. L'insuccesso di questi metodi ebbe come conseguenza un decreto del 14 ottobre 1529, che vietava la stampa di qualsiasi testo che non avesse preventivamente ricevuto l'imprimatur ecclesiastico. Il 29 aprile 1550 una nuova ordinanza ribadì la norma e stabilì la pena di morte per gli autori e gli editori di libri eretici. Vale la pena ricordare che tre secoli prima Federico II, dopo la sua incoronazione a Roma nel 1210, aveva promulgato una legge che autorizzava la confisca di tutti i beni degli eretici, legge di cui si servì Gregorio IX per legittimare, nel 1231, il rogo per gli eretici impenitenti. Da parte sua, Innocenzo IV aveva promulgato nel 1252 la bolla Ad extirpanda e incaricato gli ordini domenicano e francescano di agire come difensori della Chiesa e persecutori degli eretici. Pochi decenni dopo, nel 1323, la necessità di organizzare la lotta alle eresie portò alla redazione del primo manuale di istruzioni precise per condurre un'istruttoria: l'autore, Bernardo Gui, era un domenicano fanatico che durante la sua carriera di inquisitore a Tolosa fu responsabile di 930 condanne, 42 delle quali a morte e almeno 307 all'esilio. Erano le conseguenze sociali del protestantesimo più che le sue proposizioni a mettere in allarme il clero romano e, nel 1542, il papa Paolo III costituì la Sacra Congregatio Romanae Universalis Inquisicionis seu Sancti Officii, la Congregazione dell'Inquisizione meglio nota come Sant'Uffizio. È interessante osservare che l'inquisizione medievale fu dura soprattutto contro le eresie che tendevano a causare problemi politici, mentre il Sant'Uffizio si interessò a sacerdoti e teologi, perseguitando ogni libera opinione per mezzo di spie e di informatori prezzolati. Papa Paolo IV ordinò alla Congregazione di redigere una lista con i titoli dei libri più pericolosi per la fede; nel 1559 venne pubblicato il temibile Indice dei Libri Proibiti, il cui titolo completo in latino era Index seu catalogus librorum qui prohibentur mandato Ferd. De Valdez Hispal. Archiep. Inquisitoris Generalis Hispaniae (Indice o catalogo dei libri proibiti per ordine di Ferdinando Valdés, arcivescovo di Siviglia e Inquisitore generale di Spagna). In realtà, indici di questo tipo esistevano già alla Sorbona (1544 e 1547), a Lovanio (1546 e 1550), a Lucca (1545), a Siena (1548) e a Venezia, dove nel 1543 era stato istituito l' Index generalis scriptorurn interdictorum. | << | < | > | >> |Pagina 2272. Il bibliocausto nazistaI. La tragedia dell'Olocausto, ovvero la sistematica eliminazione di milioni di ebrei da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale, è stata preceduta dal Bibliocausto, in cui milioni di libri sono stati distrutti dallo stesso regime. Questo orrore dà ragione a Heinrich Heine quando nel suo Almansor (1821) profeticamente scriveva: «Dove si bruciano i libri, si finisce per bruciare anche gli uomini». La distruzione dei libri del 1933 fu il prologo dello sterminio che seguì. I roghi dei libri ispirarono i forni crematori. Già prima del 1933 i militanti nazisti avevano cominciato a perseguitare gli intellettuali: nel 1930, ad esempio, avevano inveito contro Thomas Mann mentre teneva un discorso; opere di Erich Maria Remarque erano state sottratte dalle librerie e distrutte; scritte minacciose erano comparse sulle abitazioni di alcuni scrittori, fatte oggetto, in alcuni casi, anche di azioni violente. Tra gli scrittori molestati con particolare protervia c'erano Thomas Mann, Arnold Zweig, Lion Feuchtwanger, Cari von Ossietzky e Fritz von Unruh. Gli autori di ascendenza ebraica venivano pubblicamente offesi. Nel 1932, la rivista «Völkischer Beobachter» pubblicò una lettera firmata da 24 docenti che esprimevano il proprio sdegno nei confronti degli scrittori comunisti e invocavano la necessità di tornare alla purezza dei simboli culturali tedeschi. La barbarie iniziò il 30 gennaio 1933, quando il presidente della Repubblica di Weimar, Paul von Hindenburg, nominò cancelliere Adolf Hitler, ex caporale dell'esercito, pittore frustrato, organizzatore del fallito colpo di Stato del 1923, che concepì rapidamente una strategia di intimidazione contro gli ebrei, i sindacati e gli altri partiti politici. L'emanazione della Legge per la protezione del popolo tedesco, il 4 febbraio, ridusse la libertà di stampa e definì le modalità di sequestro di qualsiasi tipo di materiale ritenuto pericoloso. Il giorno seguente le sedi comuniste vennero attaccate selvaggiamente e le loro biblioteche devastate. Il 27 febbraio il Reichstag fu incendiato con tutti i suoi archivi. Il 28 una riforma della Legge per la protezione del popolo tedesco e dello Stato legittimò il ricorso a misure eccezionali in tutto il paese: la libertà di riunione, di stampa e di opinione subirono gravi restrizioni. Nuove elezioni controllate dal governo attribuirono ai nazisti la maggioranza parlamentare. Era nato il Terzo Reich. Dopo la terribile disfatta della prima guerra mondiale, la Germania stava attraversando una fase di profonda trasformazione, anche istituzionale. Hitler, che non era tedesco, ma austriaco, fu considerato lo statista idoneo per risollevare l'autostima collettiva. Lo sostenevano efficacemente vari collaboratori, fra i quali Hermann Göring e Joseph Goebbels. Entrambi erano fanatici, ma fu il secondo a convincere Hitler della necessità di portare alle estreme conseguenze le misure già in atto, ottenendo la nomina al vertice di un nuovo organo dello Stato, il Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda (ministero della Cultura e della propaganda). Hitler diede carta bianca a Goebbels, nel quale riponeva una fiducia assoluta. Goebbels, che era stato riformato dall'esercito perché claudicante, si era laureato in filologia nel 1922 a Heidelberg, l'università dove aveva insegnato Hegel. Era un lettore appassionato dei classici greci e, quanto al pensiero politico, preferiva lo studio dei testi marxisti e, in generale, di ogni tipo di opera antiborghese. Ammirava Friedrich Nietzsche, recitava poesie a memoria e scriveva drammi. Quando si unì a Hitler, come ebbe modo di ribadire in numerose occasioni, riconobbe la sua vera vocazione e in qualità di ministro redasse nel 1933 la Legge sul governo dello Stato, emanata il 7 aprile dello stesso anno. A quel punto deteneva un potere assoluto sul sistema educativo e impresse una svolta all'organizzazione del sistema scolastico e universitario. Organi polizieschi e politici quali SS, SA e Gestapo avviarono una campagna di intimidazione così efficace da spingere alcune persone a bruciare i propri libri prima ancora di esservi costrette dalle autorità. È noto il caso di una certa signora Lewinsohn, che il 24 marzo, dopo aver ricevuto minacce, diede fuoco ai libri del marito, un ex comunista, per timore di eventuali sanzioni. Episodi simili si ripetevano in tutta la nazione. Il 26 marzo erano stati bruciati alcuni libri nella Schillerplatz di Kaiserslautern; il 1° di aprile si ebbero saccheggi e falò di libri a Wuppertal. Il libraio Wolfgang Hermann aveva dedicato intere giornate alla preparazione di una lista nera con i nomi degli autori che avrebbero dovuto essere vietati.
Una sorta di inusitato fervore, limitato solo dalle pressioni europee,
s'impadronì di studenti e intellettuali. In aprile furono rese pubbliche le
Tesi contro lo spirito antitedesco.
La quarta delle dodici tesi affermava:
«Il nostro avversario più pericoloso è l'ebreo». In quei giorni furono emanate
anche le prime leggi discriminatorie, che escludevano gli ebrei dai
pubblici uffici e dalla professione medica e legale. L'11 aprile si distrussero
libri a Düsseldorf. Alcuni dei più importanti filosofi, tra i quali
Martin Heidegger,
aderirono alle idee di Goebbels. In aprile, Heidegger fu nominato rettore
dell'Università di Friburgo e il 1° maggio si iscrisse al partito nazista.
Quando
Karl Jaspers,
nel mese di maggio di quell'anno, rimproverò a Heidegger di sostenere un uomo di
scarsa cultura come Hitler, l'autore di
Essere e Tempo
rispose che «l'educazione è assolutamente irrilevante».
II. Il 2 maggio lo spettacolo della distruzione dei libri si trasferì al Gewerkschaftshaus di Lipsia, ma la vera esplosione di violenza cominciò tre giorni dopo. Gli studenti dell'Università di Colonia invasero la biblioteca, prelevarono i libri degli autori ebrei e poche ore dopo li diedero alle fiamme. Gli studenti irrompevano nelle abitazioni e nelle case editrici alla ricerca di libri da requisire. Tra le loro vittime ci fu la Schutzverband Deutscher Schriftseller, un'associazione di scrittori che contava 500 membri. Nelle università e nelle scuole i professori e i maestri contribuivano ai disordini indottrinando gli alunni al nuovo credo della purificazione della nazione. Il 6 dello stesso mese le associazioni giovanili naziste portarono via un'enorme quantità di libri e opuscoli dall'istituto di ricerca sulla sessualità di Berlino, fondato nel 1918 da Magnus Hirschfeld. È stato stimato che nell'azione siano stati sottratti 10.000 libri, oltre a lettere, rapporti e documenti confidenziali. A pochi passi dalla cattedrale di Münster vennero appesi a un albero i «libri della vergogna». Goebbels organizzava riunioni tutte le sere nell'intento di intraprendere una grande azione di riparazione in favore della cultura tedesca. Come data possibile propose il 10 maggio. L'8 ci furono dei disordini a Friburgo, con distruzioni di libri alle quali partecipò anche Martin Heidegger. Il 9, al Kaiserhof, Goebbels si rivolse al sindacato degli attori e li ammonì: «Protesto contro il concetto che fa dell'artista l'unico essere apolitico [...]. L'artista non può chiamarsi fuori, ma deve sollevare la bandiera e marciare in testa». Circondato dai migliori interpreti del teatro di Goethe e Schiller, non perse tempo e lanciò la proposta di eliminare ogni traccia di influenza ebraica dalla cultura tedesca. Il 10 maggio alcuni membri dell'Associazione degli studenti tedeschi si impadronirono della biblioteca dell'Università Wilhelm von Humboldt e cominciarono ad ammassare i libri proibiti. C'era un'euforia inattesa e contagiosa. I libri vennero trasportati a Opernplatz insieme a quelli che erano stati prelevati da altri centri come l'Istituto di ricerca sulla sessualità o da biblioteche private di ebrei arrestati. In totale il numero di opere superava le 25.000. Subito si radunò una moltitudine intorno agli studenti. Questi cominciarono a cantare un inno che destò una grande impressione fra gli spettatori. La prima frase era fulminante: Contro la classe materialista e utilitarista, per una comunità del popolo e una forma ideale di vita: Marx, Kautsky. Il fuoco era già acceso. Joseph Goebbels levò alta la voce e dopo un solenne Heil! spiegò i motivi del rogo. L'epoca estremista dell'intellettualismo giudaico è giunta al termine e la rivoluzione tedesca ha spalancato le porte a un nuovo modo di vita che permetterà di raggiungere la vera essenza dell'essere tedesco. Questa rivoluzione non inizia dall'alto, ma dal basso, e sale verso la cima. Ed è per questa ragione, nel miglior senso della parola, l'espressione genuina della volontà del Popolo [...]. Durante i passati quattordici anni voi studenti avete dovuto sopportare in silenzio le umiliazioni della Repubblica di Novembre, e le vostre biblioteche sono state sommerse dalla lordura e dalla corruzione dei giudei. Mentre le scienze e la cultura erano isolate dalla vita reale, la gioventù tedesca ha ristabilito ora nuove condizioni nel nostro sistema legale e ha restituito la normalità alla nostra vita [...]. Le rivoluzioni genuine non si fermano davanti a nulla. Nessuna area deve ritenersi intoccabile [...]. Pertanto poi state facendo la cosa giusta consegnando al fuoco, a mezzanotte, lo spirito diabolico del passato [...]. Il passato perisce tra le fiamme; i tempi nuovi rinascono da queste fiamme che ardono nei nostri cuori [...]. Alla fine di ogni strofa dell'inno cantato dagli studenti venivano lanciati nel fuoco i libri degli autori citati. Contro la decadenza morale, per la disciplina, per la decenza nella famiglia e nella proprietà: Heinrich Mann, Ernst Glaeser, E. Kaestner. Contro il pensiero privo di principi e la politica sleale. Per la dedizione al Popolo e allo Stato: F.W. Foerster. Contro la distruzione dell'anima e l'eccesso negli istinti sessuali. Per la nobiltà dell'animo umano: la scuola di Freud. Contro la distorsione della nostra storia e lo svilimento delle grandi figure storiche. Per il rispetto del nostro passato: Emil Ludwig, Werner Hagemann. Contro i giornalisti giudei democratici, nemici del popolo. Per una cooperazione responsabile e per la ricostruzione della nazione: Theodor Wolff, Georg Bernhard. Contro la slealtà letteraria perpetrata nei confronti dei soldati della Guerra Mondiale. Per l'educazione della nazione nello spirito del potere militare: Eric Maria Remarque. Contro l'arroganza che rovina l'idioma tedesco. Per la conservazione del bene più prezioso del popolo: Alfred Kerr. Contro l'impudicizia e la presunzione. Per il rispetto e la reverenza dovuta all'eterna mentalità tedesca: Tucholsky, Ossietzky. Questa operazione, le cui caratteristiche fino a quel momento erano state tenute segrete, svelò subito la sua vera natura, perché quello stesso giorno vennero bruciati libri contemporaneamente in numerose città tedesche: Bonn, Braunschweig, Brema, Breslavia, Dortmund, Dresda, Francoforte sul Meno, Gottinga, Greifswald, Hannover, Hannoversch Münden, Kiel, Königsberg, Marburgo, Monaco, Münster, Norimberga, Rostock, Worms e Würzburg, dove centinaia di libri arsero sul Residentplatz. | << | < | > | >> |Pagina 2443. La seconda guerra mondiale
[...]
Italia Sulla base di stime ottimistiche è stato calcolato che, durante la seconda guerra mondiale, solo in Italia andarono perduti 2 milioni di libri e 39.000 manoscritti. Il dato è verosimile alla luce di alcuni esempi agghiaccianti. Vale la pena cominciare con quanto avvenne nel 1938 a Torino, dove i fascisti penetrarono nella biblioteca della comunità ebraica, requisirono migliaia di titoli e li usarono come combustibile per un grande rogo innalzato in piazza San Carlo. Nella squadraccia non c'erano solo analfabeti, ma anche studenti. La Biblioteca Trivulziana di Milano perse 200.000 libri sotto i bombardamenti. Nel 1943, a Napoli, i funzionari dell'Archivio di Stato trasferirono 30.000 volumi e 50.000 documenti nella villa Montesano presso San Paolo Belsito con l'intento di proteggerli. Invece, il 30 settembre, un reparto tedesco, dopo aver esaminato il materiale, decise di allestire un rogo pubblico. Il danno fu enorme, perché i depositi includevano 378 registri di epoca angioina e aragonese, antichi manoscritti, documenti del Regno di Napoli, archivi delle case Borbone e Farnese, della Camera Reale di Santa Chiara, dell'Ordine di Malta e dei primi uffici notarili. La Biblioteca Palatina di Parma venne bombardata e decine di antichi volumi furono distrutti. Nel 1942 andò perduta parte delle raccolte librarie della Biblioteca nazionale di Torino. Nel 1944 fu colpita la biblioteca dell'Accademia toscana di scienze e lettere «La Colombaria»: i 534 manoscritti che vi erano conservati si ridussero a 185. Sempre nel 1944 un incendio doloso incenerì 70.000 volumi della Biblioteca comunale Manfrediana di Faenza. | << | < | > | >> |Pagina 31311. Ancora sull'IraqI. Il 10 maggio 2003 ho visitato le rovine della Biblioteca nazionale di Bagdad, in arabo Dar al-Kutub Wal-Watha'q. Curiosamente quel giorno ricorreva il settantesimo anniversario del grande rogo dei libri nella Germania nazista, una data fatale per la cultura. Ero stato prevenuto dai miei colleghi, ma quello che vidi e scoprii mi tolse il sonno nelle notti seguenti. Forse sarebbe stato meglio dimenticarlo, ma ho scoperto che ci si dimentica solo affinché tutto, di nuovo, torni a sorprenderci. Gli inganni della ragione sono i più raffinati. La Biblioteca nazionale che ancora rimane in piedi è un edificio del 1977 su tre piani, ciascuno di 10.240 metri quadrati, con persiane arabe. Quando vi arrivai c'era ancora una statua di Saddam Hussein con la mano sinistra in posizione di saluto e la destra che stringeva al petto un libro (per quanto difficile da credere, Saddam Hussein era un lettore vorace). Successivamente la statua venne abbattuta, come tutte le altre. Anche da lontano si notava che al centro la facciata era stata danneggiata dal fuoco. Le finestre erano state divelte con tale forza che l'edificio aveva assunto un aspetto malinconico. L'entrata, protetta dal sole da una sporgenza il cui bordo reca scritto il nome della biblioteca, lasciava intravedere all'interno decine di operai e di esperti al lavoro. La luce che filtrava dalle finestre permetteva di vedere migliaia di carte sparse al suolo. La sala di lettura, lo schedario con il catalogo di tutti i volumi e gli scaffali erano stati letteralmente sbriciolati.
La struttura era danneggaita tanto seriamente che la giudicai precaria:
avrebbe difficilmente sopportato l'impatto di un urto o di una scossa. Un
impiegato, con voce bassa e inspiegabili esitazioni, mi disse che la biblioteca
aveva subito due attacchi, non uno, e due saccheggi, il che mi stupì
in quanto non avevo letto questa informazione da nessuna parte. Sul pavimento
c'era ancora la cenere. Gli armadi metallici degli archivi erano bruciati,
aperti e vuoti.
II. Il saccheggio della biblioteca era stato preceduto da fatti sconcertanti. Il primo fu l'attacco a Bagdad con bombe Moab e missili, che distrusse più di 200 edifici pubblici, decine di mercati e attività commerciali. L'operazione andò avanti per diversi giorni alla fine di marzo. Il 3 aprile cominciarono gli scontri all'aeroporto Saddam Hussein, a dieci chilometri dal centro della città. Il 7 c'erano carri armati per le strade. L'8 le truppe statunitensi controllavano alcuni quartieri. Quel giorno, in corrispondenza di una delle anse del Tigri, tra i ponti Al Jumhuriya e 14 Luglio, l'offensiva si fece più feroce. Lungo una sponda avanzava, da sud, la terza divisione di fanteria, mentre gli iracheni in fuga verso nord cercavano di minare il ponte Al Jumhuriya. Alla fine i combattimenti furono scarsi e nel giro di un paio d'ore, tra le 7.30 e le 9.30, le strade vennero presidiate dai carri armati Abrams M1. Contemporaneamente furono occupati i due più importanti palazzi presidenziali e vari ministeri, come quelli degli Esteri e dell'Informazione. Decine di soldati furono posti a guardia del ministero del Petrolio, dal quale certamente non venne portata via nemmeno una matita. Alcuni focolai di resistenza permanevano nella zona meridionale della città, dove i fedayin si battevano con vigore. A un dato momento l'artiglieria alleata fece saltare in aria un deposito di armi e munizioni che era stato nascosto sotto dei terrapieni in riva al Tigri. Gli attacchi, insieme alla notizia che il regime era caduto e il presidente era scappato con i suoi figli, provocarono la confusione generale. Non c'era più un servizio di polizia e i soldati statunitensi avevano l'ordine di non sparare sui civili. Mercoledì 9 la statua di Saddam Hussein posta nella piazza centrale di Bagdad venne abbattuta. Un soldato si spinse ad avvolgerne la faccia in una bandiera a stelle e strisce, anche se poco dopo si corresse e la rimpiazzò con un vessillo iracheno. Quando queste immagini presero a circolare e le voci trovarono finalmente conferma, una marea umana repressa da dieci anni di blocco economico e da una dittatura implacabilesi riversò priva di controllo nelle vie di Bagdad. Il saccheggio riguardò inizialmente i palazzi e le case dei dirigenti politici. Poi rubarono perfino i letti dagli ospedali. I proprietari di negozi montavano la guardia armati di pistole, fucili e sbarre di ferro e mettevano in fuga i ladri, molti dei quali erano donne, ragazzi e bambini. Non furono pochi i luoghi-simbolo del regime devastati durante le violenze del 9 e del 10 aprile 2003. Il giorno 10 la moltitudine penetrò nella biblioteca, sprovvista di ogni protezione. In principio prevalsero la cautela e la fretta, poi si passò al saccheggio. Bambini e donne, giovani e anziani si impadronirono di tutto quello che poterono, in modo selettivo, come se stessero facendo la spesa. Il primo gruppo di saccheggiatori sapeva dove erano custoditi i manoscritti più preziosi e si affrettò a depredarli. Altri, esaltati e infuriati con il deposto regime, li seguirono e provocarono il disastro successivo. La folla scorrazzava ovunque portando via i libri più costosi, ma anche fotocopiatrici, risme di carta, attrezzature informatiche, stampanti e mobilio. Sulle pareti spogliate apparvero scritte come «Morte a Saddam» o «Saddam apostata». Incredibilmente, un cineoperatore filmò tutto tranquillamente, e poi scomparve senza lasciare traccia di sé. I saccheggi si ripeterono una settimana dopo. Il giorno 13 arrivò un gruppo a bordo di autobus azzurri senza insegne ufficiali e, incoraggiato dalla passività dei militari, cosparse di combustibile gli scaffali e appiccò il fuoco. Fecero ovviamente anche dei roghi per distruggere i libri. Secondo un'altra versione fu utilizzato del fosforo bianco di provenienza militare, ed è probabile che possa davvero essere andata così. Qualche ora dopo una colonna di fumo era ben visibile anche a quattro chilometri di distanza. In questo incendio vorace scomparvero innumerevoli libri. Tra gli altri danni, bruciarono vecchi macchinari e molti giornali. Al terzo piano, dove si conservavano gli archivi dei microfilm, non rimase niente. Il calore fu talmente intenso che danneggiò il pavimento di marmo e deteriorò le scale di cemento armato e il tetto. Nel medesimo attacco venne distrutto l'Archivio nazionale dell'Iraq, sito nel secondo edificio della biblioteca, e che contava 85 dipendenti. Andarono perduti dieci milioni di documenti, compresi atti e decreti del periodo ottomano. Il giornalista Robert Fisk è stato testimone dei fatti, che ha così descritto in un articolo diventato famoso: Ieri è avvenuto il rogo dei libri. Prima sono venuti i saccheggiatori, poi gli incendiari. È stato l'ultimo capitolo del sacco di Bagdad. La Biblioteca Nazionale e l'Archivio Nazionale, un tesoro di documenti storici ottomani dal valore incalcolabile — che comprendeva gli antichi archivi reali dell'Iraq — è stato ridotto in cenere a 3.000 gradi di temperatura [...]. Ho visto i saccheggiatori all'opera. Uno di loro mi ha maledetto quando ho reclamato un libro sulle leggi islamiche di cui si era impossessato un bambino di circa dieci anni. In mezzo alle ceneri della storia dell'Iraq mi sono imbattuto in un documento d'archivio che svolazzava nell'aria: pagine di lettere scritte a mano alla corte di Sharif Hussein della Mecca — colui che diede inizio alla rivolta araba contro i turchi — per Lawrence di Arabia e i governanti ottomani di Bagdad. Le truppe statunitensi non si sono opposte in alcun modo. Sopra il cortile sudicio volava di tutto, e i soldati americani non facevano niente. Lettere di raccomandazione per le corti arabe, richieste di munizioni per le truppe, notizie intorno a furti di cammelli e attacchi ai pellegrini, il tutto redatto in calligrafia raffinata. Tenevo in mano le ultime vestigia della storia irachena. Ma per l'Iraq questo è l'anno zero. Con la distruzione, sabato scorso, dei reperti del Museo Archeologico e l'incendio dell'Archivio Nazionale e della Biblioteca Coranica, l'identità culturale dell'Iraq è stata cancellata. Perché? Chi ha deciso di appiccare il fuoco? Quale folle finalità giustifica la distruzione di questa eredità culturale?
Terminato il disastroso saccheggio, non rimaneva letteralmente più
nulla che si potesse fare. Il commento del ministro della Difesa degli Stati
Uniti fu: «La gente è libera di commettere sciocchezze e non glielo si può
impedire». Il precedente direttore della biblioteca si lamentò nostalgicamente:
«Non si ha memoria di una simile barbarie dai tempi dei Mongoli».
Alludeva alle devastazioni del 1258, quando i cavalieri di Hulagu Khan,
discendente di Gengiz Khan, erano entrati a Bagdad e avevano gettato tutti
i libri nelle acque del Tigri. Un altro impiegato della biblioteca dichiarò:
«Cesare se la prende di nuovo con i libri». Le sue parole mi hanno ricordato un
passo di
Cesare e Cleopatra
di George Bernard Shaw:
Rufio. Cos'è successo? Teodoto. (scendendo di corsa nel vestibolo) Il fuoco si è diffuso dalle vostre barche. Muore la prima delle sette meraviglie del mondo. La Biblioteca di Alessandria è in fiamme. Rufio. Bah! (sale al tempietto e contempla i preparativi delle truppe). Cesare. È tutto? Teodoto. (che non crede alle sue orecchie) Tutto? Cesare, vuoi essere ricordato dai posteri come un barbaro, troppo ignorante per apprezzare il valore dei libri? Cesare. Teodoto, io stesso sono un autore, e ti dico che è meglio che gli Egizi vivano la loro vita, invece di sognarla con l'aiuto dei libri. Teodoto. (con genuina emozione letteraria, con la passione del pedante) Cesare, una volta ogni dieci generazioni di uomini appare un libro immortale. Cesare. (inflessibile) Se questo libro non piace all'umanità, lo brucerà il boia. Teodoto. Senza storia la morte ti porrà al medesimo livello del più umile dei tuoi soldati. Cesure. La morte lo farà comunque. Non chiedo una sorte diversa. Teodoto. Ciò che laggiù brucia è la memoria dell'umanità.
Cesare. Una memoria infame. Che bruci [...].
Quanto alle perdite, bruciarono più o meno 100.000 volumi, ai quali si deve aggiungere un numero imprecisato di testi trafugati. La biblioteca, oltre a occuparsi del deposito legale, era suddivisa in tre sezioni: stampati, giornali e archivi. Il deposito legale prevedeva l'obbligo di consegnare cinque esemplari di ogni testo pubblicato, benché la situazione economica avesse ridotto considerevolmente questa pratica. Migliaia di donazioni avevano arricchito per anni l'istituto. L'ingresso dell'Archivio nazionale mostra i terribili segni lasciati dalle fiamme (somiglia alla porta di un ascensore in rovina), e il disastro di tutto ciò che si conservava all'interno. La cosa più dolorosa è la certezza della perdita di antiche edizioni delle Mille e una notte, dei trattati matematici di Ornar Khayyam, delle opere filosofiche di Avicenna (in particolare del Canone), Averroè, al-Kindi e al-Farabi, delle lettere di Sharif Hussein della Mecca, di testi di autori universali come Tolstoj, Borges, Sàbato, Paul Auster, di manuali di storia della civiltà sumera... Per le strade, nelle librerie, si possono acquistare a prezzi irrisori volumi provenienti dalla Biblioteca nazionale. Il venerdì queste opere sono in vendita al mercato di via al-Mutanabbi. Ho visto con i miei occhi un tomo di un'enciclopedia araba con il timbro ufficiale della Biblioteca sul frontespizio, e si intuiva che il tentativo di cancellarlo era stato infruttuoso. Ho notato anche un volume intitolato Mishkaf Resh (Libro Nero), un testo sulla cultura degli yazidi, una setta religiosa del nord del paese, i cui membri sono conosciuti come adoratori del diavolo a causa della loro fede in Melek Taus. Gli yazidi credono che Dio abbia già perdonato il demonio, il quale ora si trova al suo fianco. Per ragioni simboliche detestano il colore azzurro, costruiscono templi nei luoghi di pellegrinaggio e non si recano alla Mecca, ma alla tomba di Cheij Adi, presso Mossul. | << | < | > | >> |Pagina 328X. Chi sono i responsabili della distruzione culturale dell'Iraq? Credo che la maggior parte della colpa vada attribuita all'attuale amministrazione americana, che ha sottovalutato tutti gli avvertimenti ricevuti e ha violato la Convenzione dell'Aia del 1954 non proteggendo i centri culturali e favorendo i saccheggi con la propaganda dell'odio. Sono stati commessi anche crimini contro il patrimonio culturale previsti dal Protocollo del 1999. Forse per questo l'amministrazione Bush ha preteso l'immunità per ufficiali e soldati davanti ai tribunali penali internazionali. E forse è anche per questo che il presidente ha deciso di rientrare nell'Unesco, inviando sua moglie a negoziare incarichi esecutivi all'interno dell'organizzazione, licenziare i funzionari più scomodi e zittire ogni critica.Allo stesso modo va messo sotto accusa il regime di Saddam Hussein. La presenza di esponenti del partito Baath nei centri culturali ha certamente incoraggiato l'attacco di migliaia di manifestanti, che li identificavano con il dispotismo di Saddam. Dopo la sua ascesa, nel 1968, questo partito politico aveva avviato programmi culturali che nella maggior parte dei casi non rispondevano alle tradizioni storiche irachene. La megalomania di Saddam aveva imposto pratiche assurde: a Babilonia, per esempio, i mattoni originali erano stati rimossi e sostituiti con altri in cui compariva il nome del presidente. Saddam Hussein era scrittore, lettore, archeologo, pittore, poeta, drammaturgo, esperto di musei, guaritore, e in ogni attività esigeva illimitate adulazioni. Quando fuggì da Bagdad, era sul punto di pubblicare il suo terzo romanzo. Gli impiegati delle biblioteche e dei musei, in particolare i dirigenti, pur con luminose eccezioni, erano naturalmente membri dei comitati di difesa della rivoluzione. Non appartenere al partito significava perdere il diritto a un conto corrente bancario, al lavoro o alla possibilità di pubblicare un libro, una recensione su una rivista o a ottenere il materiale per dipingere, disegnare o scolpire. Nessun regista poteva girare un film senza la previa autorizzazione del Baath. Nel caso dei direttori dei musei, la loro acquiescenza al partito li spinse a permettere di installare depositi di munizioni e di piazzare cecchini nei punti strategici, mettendo così a rischio il patrimonio culturale.
Ci sono, dunque, almeno due grandi responsabili; tuttavia, non è
stato avviato alcun processo penale internazionale. Questa impunità è
scandalosa.
XI. Leggiamo con attenzione queste righe: «I comunicati provenienti da Bagdad sono inadeguati, falsi e incompleti. La realtà è molto peggiore di quanto ci era stato riferito. Siamo prossimi al disastro». Questo testo non è parte del rapporto di un funzionario americano e non porta la data del 2003; è un brano di una lettera inviata ai suoi superiori nel 1920 dall'uomo noto come Lawrence d'Arabia. È curioso comunque che le sue parole siano ancora tanto attuali, a causa delle menzogne e delle contraddizioni che accompagnano questa funesta occupazione. La guerra contro il terrorismo ha ceduto il passo al terrorismo della guerra. L'Iraq è ora una nazione araba occupata dalle truppe straniere più odiate nel Medio Oriente, una nazione impoverita da decenni di guerre, assediata dai conflitti religiosi e dagli attentati terroristici, piegata dalla crisi economica e dai razionamenti alimentari, nei cui ospedali mancano i medicinali e, come se non bastasse, la cui memoria storica è stata cancellata, spogliata e sottomessa. In Iraq è stato commesso il primo memoricidio del XXI secolo.
Si poteva immaginare un destino peggiore per la terra dove è nata la
nostra civiltà?
|