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| << | < | > | >> |IndicePREFAZIONE di Margherita Hack 7 INTRODUZIONE 15 I primi della classe 19 Aristarco di Samo 21 Claudio Tolomeo 25 Niccolò Copernico 29 Tycho Brahe 34 Giovanni Keplero 37 Galileo Galilei 41 Giovanni Domenico Cassini 45 Isaac Newton 49 Edmond Halley 53 James Bradley 57 William Herschel 61 Joseph von Fraunhofer 65 Henrietta Leavitt 69 Henry Norris Russell 72 Albert Einstein 76 Arthur Eddington 82 Harlow Shapley 86 Alexander Friedman 90 Edwin Hubble 94 Georges Lemaξtre 99 Cecilia Payne-Gaposchkin 103 Karl Jansky 107 Jan Oort 111 Subramanyan Chandrasekhar 115 George Gamow 119 Vera Rubin 123 Fred Hoyle 126 Arno Penzias e Robert Wilson 130 Jocelyn Bell 136 Gli spiegoni 141 Il sistema di Tolomeo 143 Il sistema di Copernico 147 Il sistema di Tycho 149 Le leggi di Keplero 151 La legge di gravitazione universale 155 I pianeti del sistema solare 158 La luce 162 La vita delle stelle 166 La misura delle distanze 171 La Via Lattea e le galassie 177 La teoria della relatività 181 L'espansione dell'universo 188 La materia oscura 193 Il big bang 196 USCIAMO A BERCI UNA BIRRA? di Alessandro Bonino 203 RINGRAZIAMENTI 207 |
| << | < | > | >> |Pagina 7PREFAZIONE
di Margherita Hack
Questo libro ci racconta in modo leggero e scherzoso le vite dei maggiori astronomi dall'antichità fino a oggi. La prima parte consiste di una trentina di biografie divertenti, senza quel tono serioso che uno si sente in dovere di assumere quando si tratta di grandi cervelloni. Di solito, poi, ci si limita ai morti. Qui, invece, ce ne sono ancora tre o quattro viventi. I nomi scelti per raccontare le grandi tappe dell'astronomia dal III secolo a.C. fino all'inizio del XX secolo sono i più rappresentativi della loro epoca; più difficile invece è la scelta dei personaggi che hanno contribuito allo sviluppo esponenziale dell'astrofisica nell'ultimo mezzo secolo, perché sono stati tali e tanti i progressi della conoscenza e dei mezzi di osservazione e al singolo individuo si sostituisce sempre più spesso un gruppo di ricercatori con competenze diverse e complementari che ci vorrebbe un altro intero volume per raccontarli tutti. In una paginetta o poco più si capisce quanto lungimirante sia stato quell'Aristarco di Samo che contro l'inganno dei sensi si rese conto che era la Terra, e non la volta celeste, a girare intorno a se stessa, che erano la Terra e gli altri pianeti a girare attorno al Sole, e che, usando la semplice geometria dei triangoli (quella che si impara già alle elementari) era riuscito a misurare la distanza della Luna ottenendo un valore molto prossimo a quello dato dalle nostre precisissime misure moderne, e anche la distanza del Sole. Nel caso specifico, il metodo era concettualmente corretto, ma la precisione nella determinazione dell'istante esatto in cui la Luna era al primo o all'ultimo quarto risultò troppo bassa: perciò Aristarco ottenne un valore della distanza venti volte più piccolo del reale, che tuttavia fu sufficiente per capire quanto il Sole fosse più grande e luminoso della Terra e di tutti gli altri pianeti noti Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno e quindi per pensare che doveva essere lui al centro dell'universo e non la piccola Terra. I dogmi aristotelici e il complicato sistema inventato da Tolomeo per spiegare i moti dei pianeti ebbero tuttavia la meglio sulle osservazioni razionali di Aristarco e bisogna arrivare addirittura a Copernico perché si riproponga l'idea che sia il Sole a star fermo e la Terra a girargli intorno. Ma Copernico era prudente, contraddire la Bibbia era pericoloso (e Galileo lo sperimentò sulla sua pelle), perciò presentò il suo sistema del mondo non come necessariamente vero, ma come un modo diverso di spiegare i moti dei pianeti. Comunque ebbe la buona idea di morire proprio negli stessi giorni in cui il suo De revolutionibus orbium coelestium veniva pubblicato. Keplero e Galileo, quasi coetanei il primo del 1571 e l'altro del 1564 rappresentano veramente la nascita della scienza moderna, che si disfa dei condizionamenti filosofici e religiosi e si basa sulle osservazioni e l'esperimento. Keplero, utilizzando le accurate misure delle posizioni dei pianeti fatte dal suo maestro Tycho Brahe, accetta il fatto che le orbite sono delle ellissi e non dei circoli come voleva per forza Aristotele (perché, diceva lui, solo circoli e sfere sono figure geometriche perfette e perciò i corpi celesti, anch'essi perfetti e immutabili, devono muoversi su circoli). Galileo fu non solo il primo grande astronomo moderno, ma anche un fisico sperimentale e, si potrebbe dire, un divulgatore scientifico. Ad alcuni dei suoi contemporanei che proprio non ne volevano sapere che la Terra girasse perché, dicevano, «se io faccio un salto, mentre sono in aria la Terra mi gira sotto e io dovrei ricadere in un punto diverso da quello in cui ho spiccato il salto» lui portò l'esempio dei viaggiatori chiusi nella stiva di una nave in moto uniforme: se faccio un salto sia verso poppa che verso prua copro sempre la stessa distanza, e molti altri ovvi esempi. Galileo però non aveva la stoffa di un Giordano Bruno, che preferì farsi arrostire piuttosto che rinunciare alle proprie idee. Così si rassegnò ad abiurare e, addirittura, si impegnò a denunciare chiunque avesse seguitato a divulgare false idee, contrarie agli insegnamenti della Bibbia, finendo la sua vita agli arresti domiciliari, nella villa sulla collina di Arcetri, detta Il Gioiello (dove oggi si trova l'Osservatorio astrofisico fiorentino), invece che sul rogo. Nel 1642 muore Galileo e nel 1643 nasce Newton, l'uomo che capisce che la stessa forza che fa cadere la mela a terra fa ruotare la Luna attorno alla Terra e la Terra attorno al Sole; «una forza che agisce istantaneamente a distanza, senza nessun contatto materiale fra i corpi», una forza che lascia parecchio perplesso Newton, il quale comunque afferma: questa legge spiega i moti dei corpi celesti, spiega le maree, e io non faccio ipotesi, accetto i fatti. Le perplessità vengono poi cancellate dalla nuova rappresentazione della forza di gravità che dà Einstein nella teoria della relatività generale: una massa deforma lo spazio-tempo, così come una palla di ferro posata su un tappeto di gomma lo deforma, e questa deformazione, questo imbuto che il Sole crea, obbliga i pianeti a ruotargli attorno. Tra la fine del Settecento e inizio dell'Ottocento ci si comincia a occupare di un universo un po' più grande del solo sistema solare. Herschel si domanda quanto estesa sia la Via Lattea, che forma abbia, e lui e Kapteyn, all'inizio del XX secolo, stimano che la posizione del Sole sia circa al centro della Via Lattea, ignorando la presenza di un'importante componente del mezzo interstellare: le polveri, minuscole particelle solide scoperte solo verso il 1930 dallo svizzero Trumpler. Soprattutto per merito del fisico Fraunhofer all'inizio dell'Ottocento era nata la spettroscopia, la più potente tecnica di cui disponiamo per conoscere la natura fisica e la composizione chimica dei corpi celesti. Si susseguono le scoperte in quella nuova branca dell'astronomia che è l'astrofisica. Nel XX secolo si scopre la natura delle "nebulose", l'espansione dell'universo (da cui i modelli sull'universo evolutivo e l'universo stazionario), la struttura e evoluzione stellare, le fonti dell'energia irraggiata dalle stelle. Nascono nuove tecniche di osservazione, la radioastronomia nel 1932, nuovi oggetti le pulsar e le quasar , la cosmologia osservativa con la radiazione fossile. Con l'era spaziale si scopre l'universo a raggi gamma e a raggi x, nell'ultravioletto e nell'infrarosso. Infine, ecco i pianeti extrasolari e l'astrobiologia. Tanti progressi e tanti interrogativi. Che cos'è la materia oscura? E cos'è l'energia oscura? La seconda, più breve parte del libro tratta alcuni argomenti fondamentali per la miglior comprensione delle scoperte e dei progressi fatti dagli astronomi: il sistema tolemaico e quello copernicano, quello misto di Tycho Brahe, le leggi empiriche di Keplero e la legge di gravitazione universale newtoniana, i pianeti, la natura della luce, la vita delle stelle, il complesso problema della misura delle distanze, le galassie, la relatività, e la cosmologia, vengono trattati in brevi semplici capitoletti. In conclusione, si tratta di un libro di piacevole e divertente lettura, con un breve compendio di astronomia e astrofisica, che può rispondere alle tante meraviglie e incredulità di molte persone, anche colte, ma digiune di astronomia. | << | < | > | >> |Pagina 12Aristarco di Samo
(310 circa - 230 circa a.C.)
Immaginiamo, come in un film di fantascienza, che esistano universi paralleli al nostro, universi in cui la storia segue un corso diverso. In uno di questi universi, le idee di Aristarco di Samo attecchiscono tra la gente del suo tempo, le sue opere vengono lette, tradotte e diffuse ovunque, e Aristarco è considerato uno dei più grandi pensatori dell'antichità. In quell'universo, la storia dell'astronomia parte col piede giusto e con un anticipo di circa diciassette secoli rispetto al nostro. Qui, il mio sforzo di fantasia si ferma: non riesco più a immaginare quale piega possa prendere la trama alternativa. In ogni caso a scuola mi hanno insegnato che barba che la storia non si fa con i se. Nel nostro universo, invece, tutte le opere di Aristarco sono andate perdute, tranne una, e della sua vita si sa poco o niente. Un vero peccato, perché per quel poco che sappiamo deve essere stato un tipo proprio in gamba. Si sa che era un seguace della scuola di Pitagora: quella era gente che credeva che tutto ciò che avviene nell'universo sia governato da leggi matematiche e che quindi lo si possa comprendere usando i numeri. Pensa che bellezza se avessero avuto i calcolatori! Si sa anche ed è tutto quello che conosciamo "di prima mano", avendolo Aristarco scritto in un libretto sopravvissuto fino a noi che era riuscito a mettere a punto un metodo per misurare la distanza del Sole e della Luna, oltre che la loro grandezza. Non solo le tecniche geometriche escogitate erano molto scaltre, ma anche le misure che deve aver fatto per applicarle erano estremamente accurate, per i mezzi dell'epoca. Da ciò deduciamo che Aristarco è stato un formidabile matematico e osservatore, uno scienziato senza nulla da invidiare a quelli nati molti secoli dopo. Ma la cosa che, se accettata dai suoi contemporanei, avrebbe completamente cambiato il corso degli eventi, è un'altra. Di quella, purtroppo, ci è giunta voce solo per sentito dire. Archimede, un altro cervello niente male, sostiene infatti che Aristarco aveva immaginato un modello planetario con il Sole al centro e i pianeti che gli giravano intorno. Aveva anche azzeccato l'ordine giusto dei pianeti, e non tirando a caso, ma osservando per esempio che Mercurio e Venere apparivano sempre vicini al Sole, e quindi dovevano occupare orbite più interne, e così via. Aveva capito che la Terra girava sul proprio asse (che fosse sferica i filosofi dell'epoca lo sapevano già). Aveva concluso che le stelle che erano fisse e sembravano muoversi nel cielo solo perché la Terra ruotava su se stessa dovevano essere incredibilmente lontane, ché altrimenti avrebbero cambiato posizione tra loro a causa dell'orbita della Terra intorno al Sole. Insomma, Aristarco aveva individuato correttamente tutti i punti fermi di quello che oggi chiamiamo sistema copernicano. Solo, quasi duemila anni prima. Chissà, forse Aristarco non era bravo a far proseliti. Forse era troppo preso dagli studi e aveva poco tempo per andare a dirlo in giro e farsi pubblicità. Forse il suo editore non credeva fino in fondo in lui e aveva stampato poche copie del suo libro, tanto gli scaffali erano invasi dal poema Sei cubiti sopra il cielo e da una raccolta di barzellette di un atleta olimpico. Come che sia, dopo un po' arrivarono quei due chiacchieroni di Platone e Aristotele: uno, con la fissazione per le forme perfette e il rifiuto dell'esperienza diretta; l'altro, naturalista meticoloso, ma con un'idea solo sua della fisica. Tutti e due autori di bestseller. E addio Aristarco. La Terra finì al centro del cosmo, e ci rimase per un sacco di tempo. | << | < | > | >> |Pagina 37Giovanni Keplero
(1571 - 1630)
Nevrotico, ipocondriaco, paranoico e ossessivo. E molto prima che la psicologia da rotocalco riconoscesse nelle manie depressive il tratto distintivo del genio. Aggiungiamoci, a completare il quadro, malanni fisici assortiti tra cui una paradossale stiamo parlando di un astronomo debolezza di vista. Il piccolo Keplero viene su in una famiglia che definire squinternata è un eufemismo. Il padre fa il mercenario e lo abbandona a quattro anni per andare a spezzare colli in giro per l'Europa. La madre campa spacciando "miracolosi" intrugli alle erbe, manco fosse Vanna Marchi, ed eviterà per un pelo di finire bruciata con l'accusa di stregoneria. Come Tycho, anche Keplero si butta sull'astronomia folgorato da un'eclissi: di luna, non di sole, a sancire spettacolarmente e definitivamente la specularità tra i due personaggi. Nota per i fan di Watchmen: se Tycho Brahe è Ozymandias, Keplero è senza ombra di dubbio Rorschach. Oltre alla fissa per le stelle, Giovannino mostra presto una straordinaria abilità matematica, piovuta da chissà dove. Così, da grande, invece di diventare ministro luterano come aveva inizialmente sognato, finisce prima per accettare qualche supplenza (dimostrandosi un pessimo insegnante, si dice), poi fa da assistente a Tycho, sfornando nel frattempo oroscopi per arrotondare. Esatto, oroscopi. All'epoca non si andava tanto per il sottile: astrologia, astronomia, i confini erano sfumati. Ecco: se tracciate una linea nella storia di qua il moderno, la ragione, il metodo, di là l'antico, il mistico, l'irrazionale vedrete che la linea passa proprio sul corpo malaticcio e irrequieto di Keplero. La divisione immaginaria che separa l'epoca della magia da quella della scienza spacca il nostro astronomo miope in due, come il visconte dimezzato di Calvino. Solo che le due metà restano irrimediabilmente appiccicate, prendendo il sopravvento a fasi alterne. Così, da un lato c'è il visionario che, incastrando tra loro solidi platonici e sfere la geometria è il riflesso mondano della mente divina crede di poter spiegare come mai ci sono soltanto sei pianeti nel sistema solare (oggi sappiamo che sono nove, anzi otto: sorry, pianetino Plutone). O che inseguendo una musica celeste codificata nelle orbite dei pianeti il moto dei corpi celesti deve riflettere l'armonia intrinseca della creazione inciampa nella legge che lega il periodo orbitale dei pianeti alla loro distanza dal Sole. Dall'altro lato c'è lo scienziato che per primo riesce a spiegare le osservazioni di Marte ottenute da Tycho, cosa impossibile sia per il modello tolemaico sia per quello copernicano, entrambi attaccati all'idea che solo il cerchio abbia dignità di comparire in una descrizione matematica del cosmo. Keplero capisce che bisogna rinunciare a inseguire la perfezione delle orbite circolari, e sporca l'opera divina facendo correre i pianeti lungo le ellissi. Un salto concettuale non meno coraggioso di quello che Einstein farà tre secoli dopo, distruggendo lo spazio e il tempo immutabili di Newton. Un'intuizione che sembrerebbe avere tutte le caratteristiche del colpo di genio romantico, se non fosse che Beethoven non è ancora nato e Keplero ci arriva dopo otto anni di sudata fatica, migliaia di pagine di calcoli e l'analisi d'una pignoleria a dir poco maniacale dei dati di Tycho. Così, altalenando tra lucidità e vaneggiamenti, il nostro fonda l'astronomia moderna. Nel frattempo, per divulgare la nuova visione eliocentrica del cosmo, scrive il Somnium, la storia di uno studente di Tycho che si ritrova trasportato sulla Luna: in pratica, il primo libro di fantascienza. Vista dalla Luna, la Terra appare agli occhi del viaggiatore spaziale per quello che è: non il centro dell'universo, ma un sasso umido che gira attorno al Sole. E, nel coniugare immaginazione poetica e fatti scientifici, le due metà di Keplero si ritrovano finalmente alleate. | << | < | > | >> |Pagina 41Galileo Galilei
(1564 - 1642)
Sì, vabbene, Galileo il padre del metodo scientifico, Galileo il (quasi) martire della ragione, Galileo il campione dell'anti-oscurantismo. Ma io non riesco a evitare di pensare che, in fondo, quello che di tragico e orribile gli è capitato l'inquisizione, il processo, l'abiuro-maledico-e-detesto, il confino gli sia capitato anche perché il pisano era un appassionato di gadget, un patito delle nuove tecnologie. In poche parole, come diremmo oggi, un geek. Dopotutto, lui se ne stava a Padova a insegnare matematica e a fare esperimenti di meccanica, e di impelagarsi in dispute astruse su cosa girasse intorno a cosa non aveva poi tanta voglia, essendo già abbastanza impegnato a ridicolizzare i colleghi che risolvevano ogni dubbio andando a scartabellare Aristotele. Mentre si divertiva con bilancette, piani inclinati, pendoli e altre diavolerie, venne a sapere che in Olanda un occhialaio aveva infilato un paio di lenti dentro un tubo e, bingo!, aveva acquistato la supervista. Galileo non era uno da farsi scappare l'ultima novità in fatto di tecnologie. Si chiuse in laboratorio come Steve Jobs nel garage e, tempo qualche mese, con un po' di sano reverse engineering, si costruì da solo una copia del cannocchiale. Era il 1609, su per giù quattro secoli fa. Le conseguenze non mancarono. Intanto, Galileo si beccò un aumento e un posto fisso all'università (il governo veneto aveva molto apprezzato i possibili impieghi militari della "sua" invenzione). Il botto vero avvenne però quando, invece di limitarsi a guardare al livello dell'orizzonte, pensò di alzare il cannocchiale verso il cielo. Oggi può sembrarci assurdo che un accrocco potente quanto un giocattolo da bancarella possa aver aperto la strada all'astronomia moderna e cambiato radicalmente la posizione dell'uomo nell'universo. Eppure. Nel giro di un annetto Galileo osserva che la Luna è disseminata di montagne e crateri, capisce che la Via Lattea è fatta di stelle, e scopre per la prima volta quattro satelliti di Giove. Queste cose le racconta di corsa, quasi in diretta, nel Sidereus nuncius. Leggetelo: è emozionante. Θ il mondo che riacquista i colori in Pleasantville. Θ Neo che esce da Matrix. Θ Bowman che esclama: «Mio Dio, è pieno di stelle!». Θ un uomo cieco che acquista la vista. Volente o nolente, lo smanettone è diventato un astronomo. Da quel momento, non si ferma più. Osserva le fasi di Venere e di Mercurio, gli anelli di Saturno, scopre le macchie solari, e insomma fa quello che ogni persona sensata farebbe quando gli danno la possibilità di guardare più lontano degli altri: guarda. E così, capisce che aveva ragione Copernico. Eppure ci sono sempre quelli che, pur avendo le fette di salame sugli occhi, invece di toglierle ci mettono sopra anche il pane. Per convincerli a usare i sensi invece di appellarsi all'autorità, Galileo si illude di avere due armi infallibili: la sua retorica convincente e le maree. Ora, mentre sulla prima resta poco da dire se pensate che Michele Serra ci sappia fare non avete mai letto Galileo sulla seconda, oggi lo sappiamo fin troppo bene, le speranze erano mal riposte. In breve, la prova inconfutabile che Galileo pensava di aver trovato per imporre la visione copernicana sarebbe questa: la Terra si muove intorno al Sole, l'acqua dei mari sciaborda, ed ecco spiegate le maree. Lui è talmente sicuro del fatto suo che il libro con cui comunica al mondo le ragioni del nuovo ordine celeste lo scrive in italiano, invece che in latino, come usa. Lo intitola, sciaguratamente, Del flusso e del reflusso del mare. Per fortuna, in un'epoca in cui gli editor devono ancora nascere, ci pensa un revisore incaricato di concedere l' imprimatur a imporre un titolo più azzeccato: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Maree a parte, il Dialogo è non solo una delle opere scientifiche più importanti di tutti i tempi ma, a mio avviso, uno dei più bei libri mai scritti in lingua italiana. Il resto dai mastini di Bellarmino all'eppur-si-muove è noto. | << | < | > | >> |Pagina 119George Gamow
(1904 1968)
Una Cadillac decappottabile rosa: l'auto che uno si aspetta di vedere a un matrimonio pacchiano o a un raduno di nostalgici di Elvis, non certo nel parcheggio di un'università. A meno che l'università non sia la George Washington, dove, nella prima metà del Novecento, trova riparo un fisico eccentrico e brillante, George Gamow. Gamow nasce a Odessa, i genitori sono entrambi insegnanti. Ha solo sei anni quando osserva il passaggio della cometa di Halley dal tetto di casa. Più o meno in quel periodo, dopo aver letto Verne, sogna di andare sulla Luna e si fa regalare un telescopio. All'università, le lezioni di Friedman sulla relatività di Einstein lo appassionano e diviene un fan del modello di universo in espansione. Da quel momento in poi, senza mai essere un astronomo in senso stretto, l'astrofisica e la cosmologia guideranno il cammino della sua ricerca. Georgiy Antonovich è uno spirito libero, fatalmente insofferente ai dettami del socialismo reale. Nel 1932 carica su una canoa una scorta di provviste per cinque giorni, più due bottiglie di brandy, e insieme alla moglie prova a coprire a colpi di pagaia i 270 chilometri di Mar Nero che separano la Crimea dalla Turchia. In tasca ha cinque dollari e una patente inglese rimediata da un conoscente. Il piano, piuttosto sconclusionato, prevede di raggiungere l'ambasciata danese in Turchia e chiedere aiuto al fisico Niels Bohr. Dopo due giorni di navigazione il signore e la signora Gamow vengono sorpresi da una bufera e rischiano di lasciarci le penne. Il progetto di fuga e la canoa finiscono spiaggiati sulla costa russa, a pochi chilometri dal punto di partenza. Ma nel 1933 il governo sovietico commette due errori madornali: non solo decide di spedire Gamow come rappresentante al congresso di fisica Solvay che si tiene a Bruxelles, ma autorizza anche la moglie ad accompagnarlo. I due prendono la palla al balzo e ne approfittano per lasciare l'Unione Sovietica, chiedendo asilo politico. Ironicamente, Gamow continuerà per il resto della vita a riferirsi alla sua fuga come a una prolungata vacanza all'estero. Stabilitosi negli Usa, si fa notare per essere uno fuori dagli schemi e dalle idee per niente stupide, peraltro sfornate a getto continuo. Diventa il principale artefice e sostenitore del modello del big bang, come verrà chiamato in seguito. Insieme a un paio di studenti, Ralph Alpher e Robert Herman, ipotizza che gli elementi chimici più leggeri siano stati cucinati nell'universo primordiale «in meno tempo di quello che ci vuole per farsi un'anatra al forno» dentro una zuppa calda di protoni, neutroni ed elettroni, che lui battezza fantasiosamente "Ylem". Il talento non gli fa difetto, e nemmeno la voglia di scherzare. Per celebrare la nuova teoria, compra una bottiglia di Cointreau un debole per l'alcool è un altro tratto saliente del personaggio , ci appiccica l'etichetta Ylem e crea un fotomontaggio in cui lui esce dalla bottiglia come il genio della lampada. Quando decide di pubblicare il risultato degli studi insieme ad Alpher, Gamow include tra gli autori anche il premio Nobel Hans Bethe, solo per fare in modo che la lista degli autori assomigli alle prime tre lettere dell'alfabeto greco. L'articolo esce il 1° aprile, concomitanza che non contribuisce molto a farlo prendere sul serio. Nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta, Gamow è uno dei pochi scienziati a sostenere il modello del big bang. I suoi calcoli indicano che lo spaventoso calore di quell'evento iniziale dovrebbe essere ancora avvertibile come un residuo tiepido che pervade lo spazio vuoto. Lì per lì, nessuno si dà pena di andare a controllare. Ma il tempo gli darà ragione, anche se lo stravagante russo non otterrà mai un riconoscimento ufficiale per aver azzeccato la previsione. L'atteggiamento scanzonato forse lo penalizzò un poco nell'ambiente inamidato dell'accademia, ma di certo contribuì all'incredibile successo delle sue opere divulgative. La serie in cui lo svagato personaggio Mr Tompkins impara la fisica in sogno è ancora oggi uno dei più riusciti tentativi di raccontare la scienza al grande pubblico. | << | < | > | >> |Pagina 123Vera Rubin
(1928)
Quando Vera Rubin prova a iscriversi al dottorato in astronomia dell'università di Princeton, si sente rispondere che, no, le donne lì non sono ammesse. Θ il 1950, ma le cose non sono molto cambiate dai tempi di Henrietta Leavitt. Una donna deve ancora faticare un bel po' per essere accettata in un ambiente largamente dominato dagli uomini. La tenacia non le manca. A soli ventidue anni, ha appena presentato i risultati della sua tesi di laurea al congresso dell'American Astronomical Society. Sono conclusioni controverse, che sembrano discostarsi dalla legge ricavata da Hubble qualche decennio prima e ormai scolpita nel marmo delle accademie. Il pubblico di astronomi professionisti reagisce con sussiego. Vera Rubin decide di buttarsi sullo studio e di lavorare ancora di più. Alla fine, riesce a trovare un college che offra un dottorato in astronomia a una donna e sia abbastanza vicino a quello in cui lavora il marito come fisico. Il suo supervisore sarà George Gamow, che evidentemente non ha i paraocchi e sa riconoscere una mente brillante, indipendentemente dalla presenza di una M o di una F sul certificato di nascita. Quando si incontrano per discutere i dettagli del lavoro di tesi, la conversazione si svolge nei corridoi perché, di nuovo, non è bene che una donna si faccia vedere nei laboratori. Conciliare ricerca e famiglia è un'impresa funambolica. Se Vera ha lezione, di sera, i bambini restano dai nonni mentre il marito aspetta in auto. Finisce il dottorato, ma ancora una volta i suoi risultati sembrano mettere in dubbio i modelli più popolari tra gli astronomi, e non sono bene accetti dalla comunità. Forse a quel punto ci si aspetta che molli tutto per tirar su i figli. La donna che si è innamorata dell'astronomia a dieci anni, guardando le stelle ruotare nel cielo dal tetto di casa, ha però ben altri progetti. Comincia a studiare il modo in cui ruotano le galassie e, dopo qualche anno, fa poker, arriva alla scoperta grossa, quella che ogni scienziato sogna di fare, ma quasi nessuno agguanta mai per davvero. Si accorge che le stelle più periferiche nelle galassie ruotano troppo velocemente rispetto al previsto. A quella velocità, la forza centrifuga dovrebbe spazzarle via, farle schizzare lontano nello spazio come il martello gettato da un lanciatore olimpico. Se le stelle restano lì significa che da quelle parti deve esserci tanta materia che le tiene legate attraverso la forza di gravità. Eppure tutta questa materia non si vede con i telescopi. Θ il 1970, e Vera Rubin ha scoperchiato il vaso di Pandora, facendone uscire uno dei più grandi misteri dell'astronomia e della fisica moderne, quello dell'esistenza della materia oscura. Un mistero tuttora irrisolto. Nota a margine: le donne sono state ammesse ai corsi di astronomia di Princeton nel 1975. | << | < | > | >> |Pagina 126Fred Hoyle
(1915-2001)
Non tutti gli scienziati passano alla storia per una scoperta memorabile. Talvolta qualcuno è ricordato soprattutto per aver giocato il ruolo dell'antagonista, di quello che pensava fosse tutto sbagliato. Nella scienza, criticare fa parte delle regole, anche se alla lunga le obiezioni possono finire in soffitta. (E poi, sai che noia Sherlock Holmes senza un professor Moriarty?). Θ per questo che oggi, ogni volta che parliamo del big bang, salta fuori il nome di Fred Hoyle: un bastian contrario per natura, ma prima di ogni cosa l'acerrimo avversario della teoria del big bang. Si racconta che la tesi alternativa, di cui Hoyle diventò l'indiscusso profeta, saltò fuori dopo che lui e due suoi colleghi, Hermann Bondi e Tommy Gold, erano stati in un cinemaccio di Cambridge a vedere un horror di serie B, Dead of the night. Il film aveva una struttura circolare, ben prima di Lost: sembrava che tutto cambiasse ma alla fine non cambiava niente (e volete spiegarlo a noi italiani?). Gold la buttò lì: «Vuoi vedere che l'universo è fatto nello stesso modo?». Non è difficile immaginare che nella formula magica della serata comparissero anche un pub e una pinta di birra. Fatto sta che così nacque il modello dello "stato stazionario": l'universo si espande, è vero, ma ogni tanto spunta dal nulla un atomo qua, un atomo là, e tutto resta uguale a prima. Niente inizio, niente fine. Il fatto è che, a Hoyle, un universo che avesse origine con un'esplosione non andava proprio giù. Un giorno, durante una trasmissione radiofonica della BBC, ridicolizzò persino l'avversario: «Un botto, ma ve lo immaginate, dovremmo credere che tutto è cominciato con un "grande botto"; ah-ah, non siamo ridicoli». L'ufficio marketing della concorrenza si diede una manata in fronte: «Big bang! Ecco il nome che cercavamo! Suona benissimo, perché non ci abbiamo pensato prima? Correte a stampare le magliette!». Più che Moriarty, qui siamo dalle parti di Dick Dastardly. Il modello stazionario di Bondi, Gold e Hoyle ebbe vita breve ma cadde con onore, spazzato via da evidenze e osservazioni contrarie. Con quella faccia un po' da Sartre, Hoyle si era ormai calato fin troppo nella parte di voce critica dell'establishment. Continuò ad aggrapparsi a un modello spacciato, escogitando mezzi sempre più astrusi e disperati per salvare il salvabile. Ogni ortodossia scientifica, anche fuori dall'astronomia, diventò un bersaglio da attaccare. Se la prese con i paleontologi che avevano scoperto un fossile di archaeopteryx, a suo dire falso; sostenne che la teoria dell'evoluzione non poteva spiegare l'origine della vita e immaginò che i virus arrivassero dallo spazio. Certe sue dichiarazioni lo fecero diventare uno dei numi tutelari del movimento pseudo-scientifico sul progetto intelligente, una sorta di creazionismo in salsa moderna. L'immaginazione a briglia sciolta finì per isolare Hoyle dal mondo scientifico, ma lo aiutò a scrivere qualche buon libro di fantascienza. E, forse anche per la fama di ribelle, il suo vero grande contributo al progresso della scienza (il meccanismo di produzione dei nuclei atomici nelle stelle) rimase ignorato dal comitato del Nobel, che nel 1983 assegnò il premio al suo collaboratore William Fowler. Comportarsi da Pierino non paga, a Stoccolma. | << | < | > | >> |Pagina 155LA LEGGE DI GRAVITAZIONE UNIVERSALELa legge di gravitazione universale, formulata da Newton nei Principia del 1687, stabilisce che ogni corpo presente nell'universo subisce l'attrazione di qualunque altro corpo; la forza di attrazione, inoltre, è direttamente proporzionale al prodotto delle masse dei due corpi, e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. La forza di gravità è la più debole esistente in natura, perciò è molto difficile accorgersi della sua presenza quando si prendono in esame oggetti di dimensioni ordinarie. Questo può dare un'idea del motivo per cui non ci si rese conto a lungo che l'azione di una forza del genere potesse spiegare la tendenza dei corpi a cadere verso la Terra e allo stesso tempo la tendenza dei pianeti a orbitare attorno al Sole. L'intuizione vincente di Newton fu proprio questa: ipotizzare un'azione a distanza tra tutti i corpi materiali e dimostrare che tale ipotesi riusciva a spiegare fisicamente tanto il moto dei pianeti quanto le traiettorie dei corpi sulla Terra, a patto di descrivere la forza con la corretta legge matematica. Per la verità, l'ipotesi dell'azione a distanza tra i corpi qualche grattacapo lo dava. In una lettera del 1692 Newton scrisse: «Che un corpo possa agire a distanza su un altro, attraverso il vuoto, senza la mediazione di qualcos'altro che possa trasferire l'azione e la forza tra i due, mi sembra un'assurdità tale che nessuna persona competente, in grado di ragionare di materie filosofiche, potrebbe mai caderne vittima». In seguito, quando capì che l'ipotesi produceva un'interpretazione corretta dei fatti fisici, optò per un atteggiamento pragmatico. Nella seconda edizione dei Principia, del 1713, scrisse: «Non sono stato in grado di scoprire la causa di queste proprietà della gravità, e non avanzo ipotesi al riguardo. Θ sufficiente che la gravità esista e agisca secondo le leggi che ho illustrato, e che ciò serva a spiegare tutti i moti dei corpi celesti». Come a dire: basta che funzioni. Dalla legge di gravitazione universale discendono automaticamente, per deduzione matematica, le tre leggi di Keplero dei moti planetari. Per esempio, che i pianeti percorrano orbite ellittiche, con il Sole in uno dei due fuochi, è una delle possibili soluzioni delle equazioni che governano il moto di due corpi sferici (di cui uno molto più massiccio dell'altro), soggetti alla loro attrazione gravitazionale. Le altre due leggi sono una conseguenza del fatto che la forza attrattiva che lega i pianeti al Sole deve bilanciare la tendenza dei pianeti ad allontanarsi nello spazio a causa della loro velocità. La velocità dei pianeti è esattamente quella per cui la forza gravitazionale esercitata dal Sole compensa la forza centrifuga. Quanto più il pianeta è lontano dal Sole, tanto minore è la forza di gravità, e la velocità deve diminuire di conseguenza. | << | < | > | >> |Pagina 166LA VITA DELLE STELLELa formazione di una stella prende il via quando una nube di gas e polvere comincia a condensarsi sotto l'azione della forza di gravità. Un globulo centrale pressappoco sferico diventa con il passare del tempo sempre più denso, riscaldandosi fino a raggiungere temperature di oltre 10 milioni di gradi e formando un abbozzo di stella: una protostella, ladies and gentlemen. A queste temperature, il materiale della protostella per lo più idrogeno, l'elemento più abbondante dell'universo è pronto per subire una trasformazione radicale. Grazie all'attivazione di una serie di reazioni nucleari, quattro nuclei di idrogeno possono fondersi, trasformandosi in un atomo di elio. L'atomo di elio ha una massa minore dei quattro atomi di idrogeno di partenza; la differenza di massa viene convertita completamente in energia, secondo quanto scoperto da Einstein. L'idrogeno da bruciare nel nucleo della stella appena nata è tantissimo, e l'enorme energia prodotta in questo modo ha due effetti. Il primo: fa brillare la stella. Il secondo: ferma il collasso gravitazionale, che fino a lì sembrava inarrestabile. L'energia interna tiene in piedi la stella, stabilizzandone la struttura, e mantenendola temporaneamente in equilibrio. Durante questa fase, la stella si trova nella sequenza principale del diagramma di Hertzsprung-Russell. La stretta relazione tra colore e luminosità, nelle stelle della sequenza principale, è dovuta proprio al fatto che il meccanismo di produzione di energia è ben definito, per cui i parametri fisici della stella non possono essere arbitrari. Il colore di una stella è un'indicazione della sua temperatura superficiale. Più è alta la temperatura, maggiore è l'energia media della luce emessa: il colore varia quindi dal rosso verso il blu. La temperatura superficiale di una stella in sequenza principale può andare da circa 3000 gradi fino a circa 50 000 gradi. Nel nucleo, si raggiungono temperature molto più alte, di diversi milioni di gradi. La luminosità di una stella, invece, è legata alla sua grandezza, che a sua volta è legata alla massa, che a sua volta determina la temperatura che essa raggiunge contraendosi sotto la spinta della gravità. La massa di una stella ne stabilisce anche la durata della vita e il destino finale. Quando le reazioni nucleari non riescono più a produrre energia, la gravità riprende il sopravvento. Stelle meno massicce bruciano meno rapidamente, e riescono a restare nella sequenza principale per diversi miliardi di anni. Quelle più massicce, invece, esauriscono il combustibile in pochi milioni di anni. Il Sole, una stella media, esiste da cinque miliardi di anni circa, e durerà altrettanto. Se la massa di una stella non supera il cosiddetto limite di Chandrasekhar (pari a 1,4 volte la massa del Sole), una volta esaurito l'idrogeno, il nucleo inizia a contrarsi, mentre gli strati esterni si espandono. La stella diventa gigantesca e rossa, mentre nel nucleo si inizia a bruciare elio. Quando anche l'elio finisce, il nucleo si contrae ulteriormente, diventando una nana bianca, e finisce i suoi giorni in miseria, raffreddandosi inesorabilmente; gli strati esterni, invece, espulsi nello spazio, danno vita a una meravigliosa nebulosa planetaria. Le stelle con masse più grandi, invece, fanno una fine assai più spettacolare. Inizialmente diventano supergiganti rosse, bruciando elio nel nucleo. Dal momento che, per stelle così massicce, le temperature raggiunte nel nucleo possono essere molto alte, le reazioni nucleari riescono ad andare avanti anche dopo che è finito l'elio, formando via via elementi sempre più pesanti. Arrivati al ferro, non si guadagnerebbe altra energia a produrre elementi ancora più pesanti, e il giocattolo si rompe. A quel punto, il nucleo collassa catastroficamente, esplode con violenza e forma una supernova. Auguratevi di non capitare da quelle parti, perché in pochi secondi una supernova può produrre più energia dell'intera galassia che la ospita. Se siete lontani, invece, potete vedere accendersi improvvisamente una stella brillante dove prima non c'era niente, come successe a Tycho nel 1572. L'onda d'urto causata dall'esplosione sparge a distanze enormi tutti gli elementi che erano stati creati nella stella. Θ in questo modo che l'universo si è lentamente riempito degli elementi chimici che occorrono per formare diverse altre cose, oltre alle stelle, come per esempio i pianeti e gli astronomi.
Ciò che resta dopo un'esplosione di supernova
dipende ancora una volta dalla massa iniziale. Se
la stella non è molto massiccia tra una volta e
mezzo e tre volte la massa del Sole il collasso
gravitazionale si arresta con la formazione di una
stella di neutroni.
Se la massa è più grande, niente
riesce ad arrestare il collasso. La materia diventa
talmente densa da formare un
buco nero,
una zona dell'universo in cui la gravità è così forte da riuscire a intrappolare
nella sua morsa persino la luce.
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