Copertina
Autore Anna Baldini
Titolo Il comunista
SottotitoloUna storia letteraria dalla Resistenza agli anni Settanta
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2008 , pag. 222, cop.fle., dim. 15x23x2 cm , Isbn 978-88-02-07906-6
LettoreGiorgia Pezzali, 2008
Classe storia letteraria
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Indice

VII Ringraziamenti
IX  Introduzione

3   Capitolo 1 - Neorealismo o realismo socialista?

    - 1.1 Monadi e masse, p. 3
    - 1.2 Eva, la tentazione borghese, p. 11
    - 1.3 Il corso progressivo della storia, p. 15

19  Capitolo 2 - Il Bildungsroman del proletario

    - 2.1 La fiumana, p. 19
    - 2.2 Storie di quartiere, p. 24
    - 2.3 Il Bildungsroman velleitario, p. 34

41  Capitolo 3 - 1956

    - 3.1 Un insolito silenzio, p. 41
    - 3.2 Il campo letterario italiano dagli anni Trenta al 1968, p. 43
    - 3.3 Vecchi temi, nuove gerarchie, p. 57

65  Capitolo 4 - Italo Calvino: un percorso esemplare

    - 4.1 Pin e l'Agnese, p. 65
    - 4.2 La Grande Marcia si arresta, p. 74
    - 4.3 Le secche degli anni Sessanta, p. 75

83  Capitolo 5 - La trilogia della disillusione di Arpino

    - 5.1 Gli spazi dell'utopia, p. 83
    - 5.2 Le maschere dell'intellettuale, p. 87
    - 5.3 Narratrici e narratori, p. 89

93  Capitolo 6 - Dopo la Resistenza

    - 6.1 Alla ricerca del tempo immoto, p. 93
    - 6.2 Lo stagno della storia, p. 99
    - 6.3 Tempo e campo, p. 106

109 Capitolo 7 - Verso un nuovo canone della Resistenza

    - 7.1 Gli isolati, p. 109
    - 7.2 Stirpi sociali, p. 119
    - 7.3 Lo sguardo dalle alte colline, p. 131

137 Capitolo 8 - Lo scrittore postumo

    - 8.1 Morselli e Calvino, p. 137
    - 8.2 Sul materialismo, p. 144
    - 8.3 Nascita di un romanziere, p. 149
    - 8.4 Il dominio maschile proletario, p. 159

165 Capitolo 9 - I triangoli della politica

    - 9.1 La virilizzazione dell'eroe proletario, p. 165
    - 9.2 Le emarginazioni parallele, p. 175
    - 9.3 Voci dall'alterità, p. 182

195 Conclusioni

197 Un'appendice per non concludere: dopo il 1968

207 Bibliografia

217 Indice dei nomi

 

 

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Pagina IX

Introduzione


Uno spettro si aggira per l'Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa — il papa e lo zar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e i poliziotti tedeschi — si sono unite nella santa persecuzione di questo spettro. [...] Il comunismo viene già riconosciuto come una potenza da tutte le potenze europee.


Alla vigilia della rivoluzione europea del 1848 l' incipit del Manifesto di Marx ed Engels proclama con memorabile metafora una nuova «potenza»: «lo spettro del comunismo». Più di centocinquant'anni dopo, l'Italia sembra essere rimasta l'ultima nazione d'Europa infestata dal fantasma: dopo l'implosione dell'impero del socialismo reale, seguita a breve dal suicidio del più grande dei Partiti comunisti d'Occidente, il comunismo è divenuto davvero un revenant, ancora capace, ciò nonostante, di ossessionare le pratiche discorsive della politica italiana.

Già nella prosa di Marx ed Engels lo «spettro» è, prima che un'entità concreta operante nella storia, una proiezione immaginaria, l'incarnazione del terrore suscitato nelle potenze europee dallo scricchiolio delle strutture restaurate dell' Ancien Régime. Anche l'immaginario degli odierni anticomunisti è radicato in un timore antico, generato all'alba di una Repubblica nata al tempo della guerra fredda, tenace al punto da sopravvivere alla perdita del suo concreto referente storico. Sventolata come il drappo di un torero, la bandiera rossa è divenuta il simbolo di ogni politica abiezione, mentre perdura quello che uno dei protagonisti della storia repubblicana, Vittorio Foa, ha chiamato il «silenzio dei comunisti»:

Cara Miriam, caro Alfredo,

erano milioni in tutto il mondo, e anche in Italia, gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti. In Italia pochi anni fa più di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in gran parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria. Sento acutamente, quasi come un'ossessione, questo silenzio. Tendono a scomparire i testimoni di un'esperienza, quella dei comunisti italiani, che fu indubbiamente originale. E insieme si oscura un pezzo della nostra storia. Ma c'è qualcosa di ancor più importante del silenzio. Il comunismo è finito e l'anticomunismo continua a imperversare non come tentativo di ragione ma come insulto, non come ricerca ma come aggressione. Perché tutto questo? L'anticomunismo a vuoto non è forse paura? Perché si ha paura? Di che cosa?

Eppure, scorrendo gli scaffali delle librerie, il silenzio denunciato da Foa non appare così compatto. Anzi, prima di scomparire, i testimoni sembrano intenzionati a raccontare la propria storia: l'ondata di memorie scritte da dirigenti o militanti del Pci, già cominciata sul finire degli anni Settanta, si fa ancora più imponente dopo il 1989-1991, smettendo i panni dell'agiografia e mettendo in luce anche i lati oppressivi dell'esperienza della militanza comunista. Accanto alle memorie si moltiplicano gli studi degli storici, sollecitati dall'apertura degli archivi e dal tramonto di un'interpretazione bipolare del mondo e della storia, ansiosi di catturare la voce e l'esperienza della vita quotidiana dei militanti attraverso ricerche di storia orale. E spesso, insieme ai fondi d'archivio e alle interviste, nei loro studi vengono citati a documento dell'epoca anche testi letterari: romanzi e poesie, spesso in contiguità con film e canzoni.

Dunque: parlano, anzi, scrivono, gli ex-comunisti – ex perché espulsi da tempo, ex perché il Partito non c'è più; gli storici documentano, interpretano e dibattono; imponente è la testimonianza che sul comunismo italiano è sedimentata nella nostra storia letteraria più recente. Da dove viene, allora, quell'impressione di silenzio di cui parla Foa?

Un indizio può venire proprio dalla letteratura, e in particolare da una riflessione sui generi adottati per raccontare l'esperienza del comunismo italiano. Dopo il 1989-1991 è raro che il Partito o i suoi militanti siano oggetto di un romanzo o di un racconto di invenzione. Un libro complesso come Mistero napoletano di Ermanno Rea (1995), sorretto dall'ambizione di tracciare un affresco del Partito comunista napoletano negli anni Cinquanta attraverso l'intreccio di storia politica e vicende private, si avvale di una mistione di generi non-finzionali: l'autobiografia, l'inchiesta giornalistica se non già storica, il memoriale, come se la fiction romanzesca non bastasse all'impegnativo compito che lo scrittore si propone.

Anche Il gioco dei regni di Clara Sereni (1993) poggia su un lavoro di ricerca storica. L'epilogo del libro, significativamente intitolato Dopo la storia, narra le vicende che hanno portato la scrittrice all'indagine sul passato franto, rimosso e negato della propria famiglia. Prima di dare inizio al racconto Sereni esibisce le fonti che le hanno permesso il recupero memoriale, e che entrano a far parte della struttura del libro: «I brani fra virgolette (« ») sono tratti da materiali originali dei protagonisti reali di questa storia. Ho ritrovato memorie, riflessioni, epistolari in archivi pubblici e privati, e nelle seguenti pubblicazioni». Non solo l'indagine d'archivio e il ritrovamento di fonti apparentano la genesi del Gioco dei regni alle forme della storiografia, ma si accompagnano anche all'operazione, propria dello storico, di vaglio critico e comparativo delle tracce del passato. Clara scopre i trascorsi sionisti del padre Emilio, espunti per fedeltà al Partito non solo dall'immagine pubblica del dirigente politico, ma anche da quella privata e interiore. L'affiato rivoluzionario dell'ideologia sionista diventa un doppio sepolto della fede comunista e si incarna nella figura del fratello Enzo: Clara ne ricostruisce la biografia – l'emigrazione in Palestina, la vita in un kibbutz, il ritorno in Italia durante la seconda guerra mondiale e la scomparsa in un campo di concentramento – solo dopo la morte del padre, riprendendo i contatti con il ramo israeliano della famiglia.

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Pagina XXIV

Il Pci ricomparso sulla scena politica italiana nel 1943 assume per gli scrittori italiani che militano tra le sue file questo ruolo di mediazione verso un nuovo pubblico. Nel più vasto quadro di una proposta di rinnovamento radicale della società, dopo il 1945 i giovani scrittori, scesi nell'agone letterario con ancora addosso lo sten partigiano, spingono per una ridefinizione anche nel proprio campo della gerarchia delle posizioni e dei criteri che la strutturano: il nuovo imperativo cui dopo la guerra si sentono chiamati a rispondere, un «impegno» che si specifica nell'aspirazione al realismo, si appoggia a criteri di valutazione etici e politici, di cui il Partito comunista si fa portavoce. Ma perché gli intellettuali si affidano proprio al Pci, un'entità politica che usciva da vent'anni di clandestinità circondata da un'aura di minaccia e di mistero? Come ha potuto il comunismo italiano giungere a incarnare le loro aspirazioni utopiche, divenendo, in parole che ne costituiscono forse il più alto epicedio, l'«essenza stessa della speranza»?

Perché la spinta avanguardistica dei giovani emergenti si volga verso l'«impegno», e perché un Partito non certo radicato nel tessuto sociale italiano, al punto da essere definito «nuovo» dal suo stesso leader, abbia potuto vedersi attribuire dagli intellettuali italiani una tale forza legittimante, non è comprensibile al di fuori del contesto storico specifico, al di fuori cioè di una somma di esperienze biografiche particolari unificate dalla comune partecipazione all'evento moralmente e idealmente fondativo della Repubblica, la Resistenza. Nell'interregno che va dal 25 luglio 1943 all'8 settembre, con la costituzione delle bande partigiane comuniste e la nascita del Partito di massa, il Pci si impone da protagonista sulla ribalta della storia nazionale, e acquisisce i titoli per poter legittimamente rivendicare l'eredità degli impulsi etici e di rinnovamento civile che avevano animato la Resistenza. Oltre ad aver sopportato il peso maggiore della guerra partigiana, il Partito comunista, grazie alla propria solidità ideologica e organizzativa, al proprio realismo politico, al rapido radicamento tra le masse popolari italiane — tratti che lo distinguono nettamente dal Partito d'Azione, che pure intendeva fondare la Repubblica sui valori resistenziali — si mostra l'agente politico che offre maggiori garanzie di realizzare il rinnovamento auspicato dalla compagine intellettuale italiana, e che esibisce inoltre, per esplicita volontà di Togliatti, un impegno programmatico volto al reclutamento degli intellettuali nelle sue file.

Anche la convinzione che la letteratura possa agire efficacemente sulla realtà è un'eredità dell'esperienza resistenziale. L'esito vittorioso della lotta riverbera sulla fiducia nell'efficacia performativa dell'impegno politico e letterario, come testimonia uno dei protagonisti di quella stagione, Italo Calvino:

L'esplosione letteraria di quegli anni in Italia fu, prima che un fatto d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale, collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più giovani — che avevamo fatto appena in tempo a fare il partigiano — non ce ne sentivamo vinti, «bruciati», ma vincitori, spinti dalla carica propulsiva della battaglia appena conclusa, depositari esclusivi d'una sua eredità.

La scoperta delle virtù del popolo, il desiderio di raccontare la tragedia scampata e l'eroismo dei caduti costituiscono lo sfondo psicologico ed emotivo che accomuna le opere aggregate sotto la discussa etichetta di «neorealismo», ben prima delle esortazioni dei funzionari culturali del Pci a intraprendere una descrizione realistica delle condizioni di vita delle classi subalterne. La Resistenza ha favorito

l'incontro, sui monti e tra le pallottole, di «borghesi» e «proletari», che non c'era stato nel Risorgimento. L'antifascismo clandestino, le carceri eguali e i medesimi luoghi di confino prima, la guerra poi e la Resistenza avevano avvicinato uomini delle diverse classi sociali, e tanti intellettuali erano usciti dai loro studi e dai loro caffè per accostarsi al «popolo», e dialogare con lui e, qualche volta, viverci e morirci assieme, gomito a gomito.

Per gli intellettuali italiani degli anni Quaranta, quasi tutti di estrazione borghese o piccolo-borghese, spesso studenti liceali o universitari e perciò separati fin dall'adolescenza dal contatto con le classi subalterne, l'incontro con proletari e contadini, in circostanze insieme tragiche e avventurose, ha significato un'esperienza intensissima di alterità, che si è poi tradotta narrativamente in personaggi e intrecci, figure di relazioni sociali reali o fantasmatiche. Proiettando sull'«altro» caratteri opposti a quelli della propria natura, percepita come degradata in quanto borghese e portatrice del negativo della modernità, gli intellettuali forgiano il mito di bontà e sanità del popolo, il cui «naturale» patrimonio di valori — giustizia, eguaglianza e solidarietà — dovrebbe porsi a fondamento della rigenerazione della nazione: il populismo che ne risulta equivale a una fuga da sé, che conduce all'identificazione, perlomeno tentata, con ciò che è diverso, e perciò stesso presupposto come positivo.

Ma la sincerità delle motivazioni psicologiche o delle intenzioni etico-civili non costituisce una garanzia di riuscita artistica, anzi, più facilmente la ostacola, poiché i criteri di giudizio nei campi artistici contemporanei tendono a rispondere a logiche svincolate dalla morale e dall'etica. Eppure, secondo un'opinione diffusa,

il neorealismo [...] non aveva nulla a che fare con l'oleografica eroicizzazione della classe lavoratrice, con l'esaltata fede nell'immancabile trionfo del proletariato, con la visione manichea di un mondo nettamente diviso in bene e male e regolato dalla lotta di classe, in breve con la retorica e con lo schematismo che caratterizzavano la cinematografia sovietica.

Anche nel campo delle arti figurative, in Italia [...] non si videro gli enfatici operai col pugno chiuso, i didascalici metallurgici dai bicipiti d'acciaio e le contadine beatificate dalle poetiche fatiche del colcos.

Mentre in Unione Sovietica la natura totalitaria del regime staliniano non solo imponeva una produzione artistica kitsch e conformista, ma anche perseguitava gli artisti che rifiutavano di sacrificare la propria autonomia alle ragioni della politica, in Italia non si sarebbero avute neppure quelle cadute di stile, quelle concessioni a un'immagine semplificata e retorica della realtà in cui è riconoscibile l'impronta dello zdanovismo.

Ma è stato davvero così? Oppure questo giudizio è frutto di quella miopia sul passato che porta a considerare espressione di un'epoca solo le opere degli artisti entrati nel canone? Non è forse il caso di considerare anche ciò che veniva prodotto nella meno prestigiosa periferia dei campi artistici, da autori oggi sostanzialmente sconosciuti, e che tali sono rimasti perché privi delle risorse necessarie per acquisire quel prestigio letterario che consente di essere tramandati ai posteri?

«È attraverso i dominati», scrive Bourdieu, «che si insinua l'eteronomia»: «i produttori culturali sono tanto più inclini a sottomettersi alle sollecitazioni dei poteri esterni (che si tratti dello Stato, dei partiti, dei poteri economici o, come oggigiorno, del giornalismo), e ad avvalersi delle risorse importate dall'esterno per dirimere conflitti interni, quanto più sono basse le posizioni che essi occupano nelle gerarchie interne del campo». Nel dimenticatoio della nostra letteratura più recente potremo forse trovare le tracce di un «realismo socialista» all'italiana.

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Pagina 65

4. Italo Calvino: un percorso esemplare


L'evoluzione delle strutture tematiche della letteratura «impegnata» – rappresentazione della Resistenza, immagine della storia progressiva, coppia tipica intellettuale-proletario – forse in nessun'altra opera è così visibile come in quella di Italo Calvino, lo scrittore che oggi occupa una posizione centrale nel canone del secondo Novecento italiano. Nella sua parabola letteraria sono sempre rintracciabili le coordinate dominanti, i temi di più accanito dibattimento e i nodi problematici della cultura nazionale.

Il suo romanzo d'esordio, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), se confrontato con quello di Renata Viganò L'Agnese va a morire (1949) consente di illustrare come su uno scrittore dotato di scarso prestigio letterario come Viganò la pressione dell'eteronomia politica si manifesti con maggior evidenza che su uno scrittore come Calvino, precocemente orientato alla conquista di un riconoscimento letterario «puro». Il confronto tra i temi comuni ai due romanzi consente di mostrare come la differente posizione dei loro autori nella gerarchia letteraria riverberi sulla struttura (in questo caso tematica e narrativa) delle opere.

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Pagina 72

In questa strategia narrativa possiamo leggere anche il distacco di chi attribuisce un valore esistenziale primario alla letteratura nei confronti dell'importanza che la politica vi ha acquisito, paradossalmente grazie alla propria stessa opera: questa ambiguità e questo dissidio, infatti, non sono il risultato di un'istanza repressiva esterna, ma scaturiscono dall'adesione esistenziale — in una sorta di doppio legame — a due spinte compresenti e contraddittorie ma ancora in equilibrio, che producono la doppia focalizzazione del Sentiero. Mentre il punto di vista narrativo preponderante di Pin esprime la distanza dello scrittore dalla politica, che non si può palesare però che in forma obliqua, come ritorno del rimosso, la coppia Kim-Ferriera incarna il dover-essere dell'intellettuale: «Kim non pensa questo perché si creda superiore a Ferriera: il suo punto d'arrivo è poter ragionare come Ferriera, non aver altra realtà all'infuori di quella di Ferriera, tutto il resto non serve». Kim vorrebbe diventare come Ferriera, e sogna di cancellare tutte le abitudini e i sentimenti che lo rendono diverso; l'intellettuale trasforma l'operaio in una sorta di Super-io, in relazione al quale si colloca in una posizione di inferiorità.

Le tappe successive della traiettoria letteraria di Calvino mostrano un distacco dalle direttive politiche sempre più consapevole man mano che il prestigio letterario dello scrittore si consolida. Dopo aver abbandonato diversi tentativi di scrivere un romanzo impegnato conforme alle direttive della critica comunista, Calvino comincia a esplorare possibilità alternative cimentandosi nelle narrazioni fantastiche della «trilogia degli antenati» (Il visconte dimezzato, 1952; Il barone rampante, 1957; Il cavaliere inesistente, 1959). Ma è solo nel 1963, con La giornata d'uno scrutatore, in cui ritroviamo significativamente gli stessi temi del Sentiero, che Calvino si congeda definitivamente dalla speranza di conciliare ricerca letteraria e impegno politico. A questo approdo giunge attraverso una lunga elaborazione, che ha un punto di condensazione nel 1956.

La crisi della politica comunista nazionale e internazionale porta all'esasperazione mutamenti del campo intellettuale già avvertibili, in germe, negli anni precedenti. L'erosione dei temi della letteratura impegnata del dopoguerra, in cui si palesa la sovversione delle gerarchie fino allora vigenti, ne è un indicatore: non è un caso, per esempio, che una rappresentazione del tempo alternativa allo storicismo progressista sia introdotta da un «nuovo entrante» come l'editore Feltrinelli: nel 1957 esce Il dottor Zivago e nel 1958 Il gattopardo, due romanzi nei confronti dei quali si scatenò l'avversione della critica comunista ortodossa, e che erano accomunati da un'immagine di stasi, se non di riflusso, della storia.

Calvino propone un'analoga visione della storia in uno scritto minore, nato come strumento di battaglia politica piuttosto che come testo letterario: La grande bonaccia delle Antille, una trasparente allegoria della situazione politica contemporanea pubblicata nel luglio 1957 in «Città aperta», la rivista dei fuoriusciti dal Pci. L'apologo denuncia lo stallo in cui è piombato il comunismo italiano, incapace di uscire dalle dinamiche della guerra fredda; il vento della storia è calato, una sfibrante bonaccia impedisce ogni progressione e — cosa tanto più grave — i dirigenti si compiacciono della perdurante immobilità.

Come spiega Calvino,

erano anni d'una tensione sociale dura, di lotte rischiose, di discriminazioni, di drammi collettivi e individuali. La parola «bonaccia» [...] ha a che fare con l'atmosfera greve, minacciosa, snervante delle bonacce oceaniche per i bastimenti a vela [...] È l'impasse in una situazione di lotta, d'antagonismo inconciliabile, a cui corrisponde un immobilismo all'interno dei due campi: immobilismo connaturato al campo «spagnolo» [democristiano], in quanto coincide con i loro programmi e i loro fini; mentre in campo «pirata» [comunista] c'è la contraddizione tra la vocazione per la «guerra di corsa» [...] e una situazione in cui ricorrere a cannoneggiamenti e abbordaggi oltre che impossibile sarebbe controproducente, suicida... .

La grande bonaccia delle Antille è l'ultima parola del Calvino comunista: è lo strumento di una battaglia politica che lo scrittore abbandona meno di un mese dopo, rassegnando il 1 agosto 1957 le dimissioni dal Partito. Ma la fine di quella stagione di impegno continua a imporsi alla sua meditazione fino al 1963, quando pubblica La giornata d'uno scrutatore, «libro di riepilogo», «libro-rendiconto».


4.2 La Grande Marcia si arresta

Un altro comunista deluso, Milan Kundera, la cui disillusione ha assunto le forme tanto più drammatiche della persecuzione e dell'esilio, sintetizza in un'immagine allegorica la concezione della storia che ha ripudiato:

Dai tempi della Rivoluzione francese una metà dell'Europa viene chiamata sinistra, mentre l'altra metà riceve l'appellativo di destra. È quasi impossibile definire l'una o l'altra parte sulla base dei princìpi teorici sui quali esse si appoggiano. Non c'è motivo di stupirsi: i movimenti politici non si fondano su posizioni razionali ma su idee, immagini, parole, archetipi che tutti insieme vanno a costituire questo o quel Kitsch politico. L'idea della Grande Marcia che tanto inebriava Franz è un Kitsch politico che unisce la gente di sinistra di tutte le epoche e di tutte le tendenze. La Grande Marcia è questa meravigliosa avanzata, questo cammino verso la fratellanza, l'uguaglianza, la giustizia, la felicità, e ancora più lontano, oltre tutti gli ostacoli, perché devono esserci ostacoli, se la marcia deve essere la Grande Marcia.

Kundera iscrive la «Grande Marcia in avanti» nella categoria estetica del Kitsch, che affonda le sue radici in terreno metafisico: il Kitsch è l'«ideale estetico dell' accordo categorico con l'essere», che «elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell'esistenza umana è essenzialmente inaccettabile». L'inaccettabile metafisico è ciò che impedisce all'uomo di pronunciare un «sì» convinto all'esistenza così come è data, la macchia che ne turba la pienezza, la frattura tra io e mondo che rivela l'incommensurabilità dell'uno all'altro. È la merda, secondo Kundera, metafora e sineddoche dell'inaccettabile metafisico: sineddoche, poiché rappresenta una parte, sia pure la più esteticamente scandalosa, dell'inaccettabile biologico; metafora, poiché non è che segno del vero, essenziale inaccettabile della vita umana: la sua finitezza, la morte. «Il Kitsch è un paravento che nasconde la morte».

Questa angoscia metafisica, l'impossibilità di un accordo pieno con l'essere a causa dei limiti biologici dell'uomo, emerge nel momento in cui crolla l'illusione della «Grande Marcia in avanti». Quando il corso degli eventi contraddice la fede in una storia naturalmente apportatrice di progresso, lo storicismo entra in crisi, ma non per questo emerge una diversa visione del tempo, che contempli la possibilità di una storia non evolutiva, di strappi e riflussi. Emerge invece in primo piano un tempo altro rispetto a quello storico, espressione di una temporalità che non è quella, finita, dell'uomo: il tempo della natura, ciclico e non progressivo, tempo lungo della persistenza (relativamente alla durata della vita umana) invece che del mutamento. Se la storia è progresso, non è concepibile che le lancette dell'orologio storico arretrino; lo scacco della concezione progressiva della storia rivela che esse non si sono mai mosse se non nel miraggio e nell'illusione, e che l'unico tempo esistente è quello immobile della perpetuità naturale.

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Pagina 137

8. Lo scrittore postumo


8.1 Morselli e Calvino

Nell'ottobre 1965, dopo un'attesa durata qualche mese, Guido Morselli riceve una lunga lettera con la quale Italo Calvino respinge per conto di Einaudi il suo romanzo Il comunista.

Non è il primo né l'ultimo rifiuto editoriale che lo scrittore dovrà subire, sia in relazione a questo che a tutti gli altri romanzi scritti tra il 1961 e l'anno della morte (1973). Oltre alla lettera di Calvino, negli apparati della più recente edizione possiamo leggere la giustificazione del rifiuto di Il comunista da parte di Garzanti, ma a respingere il libro saranno anche Longanesi, Mursia e Mondadori. L'accordo con Rizzoli, che sembrava poter sfociare nella pubblicazione, naufraga nell'aprile del 1968.

A rendere degna di nota la lettera di Calvino sono la qualità e insieme la minuzia dell'analisi. La lettera è suddivisa in due parti: nella prima viene dichiarato e argomentato un «a-priori» teorico:

Credo [...] che si può fare opera di letteratura creativa con tutto, politica compresa, ma bisogna trovare forme di discorso più duttili, più vere, meno organicamente false di quello che è il romanzo oggi. Trattando i problemi che stanno a cuore si possono scrivere saggi che siano opere letterarie di gran valore, valore poetico dico, con non solo idee e notizie, ma figure e paesi e sentimenti. Delle cose serie bisogna imparare a scrivere così, e in nessun altro modo.

Nonostante il pregiudizio, Calvino ammette che il romanzo l'ha attratto, coinvolto, e spinto a un gioco di smontaggio della materia: fa dunque seguire una «perizia di verosimiglianza» con la quale vengono valutati i diversi elementi del plot, e giustifica l'uso di questo criterio critico, a suo dire ormai desueto, attribuendo il libro al genere del «romanzo di rappresentazione quasi fotografica di ambienti diversi, il romanzo storico-privato», genere che «punt[a] tutto sulla credibilità, sulla riconoscibilità delle situazioni e dei personaggi».

Ben poco viene salvato dall'indagine documentaria: la figura del personaggio protagonista e la sua formazione, la descrizione della sua vita attuale di deputato comunista di provincia nella Roma parlamentare. Tutto il resto – la discussione ideologica, la materia americana, la descrizione dall'interno del Partito Comunista, la vita amorosa del protagonista e i personaggi femminili – rimangono, a parere di Calvino, freddi, danno l'impressione di essere frutto di una documentazione indiretta e non rendono il senso di una vita vissuta.

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Pagina 141

Il nocciolo filosofico di Il comunista si concentra sul medesimo problema su cui si affanna Amerigo Ormea in La giornata di uno scrutatore. La distanza tra Morselli e Calvino, che induce il secondo a rifiutare il romanzo del primo, non è dunque ideologica ma formale e letteraria; rivela una disparità sul concetto di letteratura, e di romanzo, ben più profonda di una divergenza sul realismo degli ambienti, comunisti o americani, descritti da Morselli. Il tema di Il comunista è «una cosa seria», tanto seria che si trova al centro di un libro che funge da cerniera nella carriera letteraria dello stesso Calvino, ed è proprio l'importanza del tema che induce Calvino a scrivere a Morselli che «la favola lo serve male». Delle cose serie non si può scrivere in forma di romanzo, e infatti Calvino rifiuta tale denominazione alla Giornata di uno scrutatore, per definire la quale ricorre a un elenco plurimo, a cavallo tra generi tutti rigorosamente non finzionali:

È un racconto ma nello stesso tempo una specie di reportage sulle elezioni al Cottolengo, e di pamphlet contro uno degli aspetti più assurdi della nostra democrazia, e anche di meditazione filosofica su che cosa significa il far votare í deficienti e i paralitici, su quanto in ciò si rifletta la sfida alla storia d'ogni concezione del mondo che tiene la storia per cosa vana; e anche un'immagine inconsueta dell'Italia, e un incubo del futuro atomico del genere umano; ma, soprattutto, è una meditazione su se stesso del protagonista, (un intellettuale comunista), una specie di «Pilgrim's Progress» d'uno storicista che vede a un tratto il mondo trasformato in un immenso «Cottolengo» e che vuole salvare le ragioni dell'operare storico insieme ad altre ragioni, appena intuite in quella sua giornata, del fondo segreto della persona umana...

La crisi che segna il passaggio da una fase all'altra della storia letteraria di Calvino si incentra sul genere romanzesco, che era stato al centro degli attacchi della Neoavanguardia e delle proposte sperimentali della rivista «Officina». In questa fase di passaggio, in cui Calvino deve ridefinire le proprie posizioni letterarie sotto la spinta di questi nuovi entranti nel campo, lo scrittore accusa ripetutamente una «massiccia stanchezza per la letteratura, e per i romanzi in particolare». Nei suoi saggi Calvino moltiplica le testimonianze di sfiducia nelle possibilità di sopravvivenza del genere, che gli sembra superato da altre forme artistiche o mediatiche:

C'è ancora bisogno di scrivere romanzi? Al bisogno di raccontare storie che esemplifichino i casi della nostra società, che segnino i mutamenti di costume, e mettano in linee i problemi sociali, bastano e avanzano il cinema, il giornalismo, la saggistica sociologica.

La traiettoria letteraria di Morselli si era sviluppata lungo linee opposte a quelle che Calvino gli suggeriva di intraprendere abbandonando il genere romanzesco. La stagione unicamente dedita alla scrittura di romanzi non era iniziata per Morselli che nel 1961, con la redazione di Un dramma borghese; negli anni precedenti la sua attività intellettuale si era concentrata sul versante saggistico, dove troviamo anticipati i nuclei concettuali dei futuri romanzi. Il tema filosofico di Il comunista era già stato svolto, oltre che nelle pagine del Diario, in diversi saggi: in Appunti sul marxismo, redatto nel 1947 e pubblicato da «La Prealpina» nel 1949, Morselli sviluppa le proprie obiezioni all'edificio filosofico del marxismo, mentre nel trattato Fede e critica affronta il problema della teodicea usando come strumenti euristici la filosofia e l'esegesi biblica.

L'opposizione tra i percorsi biografico-letterari di Calvino e Morselli non potrebbe essere più netta: le ragioni che fanno di Calvino un'icona della letteratura italiana contemporanea, il suo essere continuamente al passo con i tempi oltre che capace di dare una direzione a tale passo, sono le medesime che fanno di Morselli uno scrittore perennemente rifiutato dagli editori. Morselli sembra possedere il dono di produrre opere letterarie che giungono sempre al momento sbagliato: inizia a scrivere i suoi grandi romanzi negli anni Sessanta, quando la cultura letteraria italiana à la page discetta sulla morte del genere; e già si era rivelato «fuori tempo» durante «l'esplosione letteraria» del neorealismo, quando traduceva la stessa materia bruciante e dolorosa lasciata in eredità dalla guerra in un saggismo filosofico e teologico piuttosto che in opere narrative.

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9.3 Voci dall'alterità

I romanzi e racconti fin qui esaminati sono accomunati da una fusione di tematica sessuale e allegoria sociale che passa attraverso il sistema dei personaggi. Incontro col comunista di Morselli, forse il testo letterario più compiuto in questo senso, serve il proprio tema fin dalla tipologia narrativa adottata: il racconto è condotto da un narratore omodiegetico femminile, il cui desiderio sessuale, figura dell'attrazione sociale, viene esplorato dall'interno. L'opzione narrativa è la stessa di Incontro col comunismo, ma quella operata da Morselli è una scelta ben più forte: se per Viganò il genere sessuale del narratore è determinato dalla parziale sovrapposizione dell'esperienza autobiografica alle vicende narrate, Morselli viene meno alla «naturale» corrispondenza di genere tra voce narrante e autore. Nell'identificazione delle due forme di alterità (sociale e di genere) balena il proposito di raccontare il punto di vista dell'altro (la donna e la classe subalterna) sul mondo e in particolare su di sé.

Anche Moravia, «narratore borghese della crisi della borghesia», nel primo decennio del dopoguerra si impegna nel racconto dell'altro sociale, evadendo dal mondo chiuso del proprio oggetto privilegiato. Il clima civile e letterario postbellico lo influenza, favorendo nello scrittore la costruzione di un mito del popolo come alterità positiva, al quale è possibile quell'«abbandono passivo al ritmo dell'esistenza» che «a priori esclude il borghese». Lo scrittore ha fiducia di poter raccontare questa diversa dimensione dell'esistenza, di poterle dare parola facendo degli stessi popolani i narratori delle proprie storie: dal «popolo» sgorgano le voci narranti, tutte maschili, dei Racconti romani (1954; nel 1959 escono i Nuovi racconti romani), e due popolane sono le narratrici di La romana (1947) e La ciociara (1957). Se nei Racconti è la lingua, mimando l'oralità, a farsi veicolo della voce dell'altro, nei due romanzi è la femminilità del personaggio narrante a marcare la distanza, quasi più antropologica che sociale, dell'autore dal mondo narrato.

In La romana e La ciociara il principale personaggio maschile cui le due donne diversamente si legano è un intellettuale, borghese e antifascista. Giacomo e Michele sono due personaggi radicalmente lontani dalle narratrici, che concentrano su di loro uno sforzo ermeneutico indotto in Adriana dall'amore, in Cesira da un affetto materno e protettivo. La coppia più interessante è quella formata da Adriana e Giacomo in La romana, in cui si presentano mischiate l'attrazione sessuale e quella sociale: la prostituta Adriana si innamora del giovane studente Mino, figlio della buona borghesia di provincia, ma non ne viene mutata e introdotta nel mondo della passione politica, come era avvenuto a Ilaria in Incontro col comunista. La coppia moraviana è divaricata a livello sociale, ma in maniera capovolta rispetto al romanzo di Morselli; l'intellettuale borghese non vi è presente in figura, ma pienamente rappresentato per quello che è; muta perciò la funzione del personaggio femminile, che diventa filtro per una rappresentazione straniata della sua realtà umana. Adriana e Cesira, rese esperte dall'immersione quotidiana nella concretezza dell'esistenza, valutano le cose per quello che sono; il loro sguardo ingenuo rivela il castello di astrazioni, proiezioni e infingimenti che regola il rapporto dell'intellettuale con il mondo, e che impedisce il radicamento delle sue convinzioni, anche e soprattutto politiche, nella concretezza dell'esistenza, valutano le cose per quello che sono; il loro sguardo ingenuo rivela il castello di astrazioni, proiezioni e infingimenti che regola il rapporto dell'intellettuale con il mondo, e che impedisce il radicamento delle sue convinzioni, anche e soprattutto politiche, nella realtà.

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Conclusioni


Compagno di strada, nemico di classe, istanza superegotica, oggetto di attrazione o desiderio: il comunista si trova al centro della rappresentazione narrativa che di sé ci ha lasciato la generazione letteraria segnata dalla Resistenza. Romanzi e racconti fanno perno su questi uomini e queste donne, contadini o operai, proletari o borghesi: è il marchio lasciato in letteratura del ruolo protagonista – deuteragonista e antagonista – svolto dal comunismo nella storia e nella società italiane del secolo scorso.

Al termine della seconda guerra mondiale i membri del Pci, sia dirigenti che militanti, incarnano esemplarmente la «generazione lunga antifascista» di cui ha parlato lo storico Claudio Pavone per identificare un fenomeno politico e culturale, più che una coincidenza anagrafica: un patrimonio di valori salda gli antifascisti del Ventennio ai ventenni entrati nella politica e nella vita durante la Resistenza. Li accomuna la convinzione che la guerra civile abbia tracciato una linea di demarcazione nella storia italiana, e che possa divenire punto di partenza per rivoluzionarla.

Non è stato così, ma l'intenzione stessa ha fatto di quell'evento una cesura. Il microcosmo letterario illustra esemplarmente questo duplice significato storico della Resistenza, insieme reale e simbolico: benché permangano gli assetti istituzionali dell'anteguerra — editoriali, scolastici e accademici –, dopo il 1945 il neorealismo e la letteratura «impegnata» annunciano e propugnano un rinnovamento delle forme, dei contenuti e del mandato sociale della letteratura che riesce a imporre una nuova assiologia al campo letterario.

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Un'appendice per non concludere: dopo il 1968

La fine degli anni Sessanta segna un mutamento epocale nella storia sociale italiana. Dopo le rivolte studentesche e operaie del 1968-1969, tra strategia della tensione e terrorismo rosso le forze politiche progressiste escono dal ghetto della guerra fredda: il Pci conosce una trionfale avanzata elettorale e irrompono in scena forze di rinnovamento estranee al Partito. La sinistra extraparlamentare, il femminismo, i movimenti di riforma delle istituzioni come Magistratura o Psichiatria Democratica, gli esiti dei referendum sul divorzio e sull'aborto mettono in luce i mutamenti profondi occorsi agli stili di vita e ai valori di una parte della popolazione italiana.

La cesura del 1968-1969 segna un discrimine anche nei confronti del nostro oggetto di analisi: con l'emergere di una sinistra alla sinistra del Pci, quale personaggio letterario, quale agente della storia sociale possiamo definire «comunista»? Dobbiamo considerare tali, come in precedenza, i membri del Partito, oppure anche chi rivendica quel titolo contestando la legittimità rivoluzionaria del Pci, di cui considera esaurita la spinta propulsiva?

Sindacalisti burocrati del Pci falsi marxisti leninisti poliziotti e fascisti hanno tutti una caratteristica in comune. Hanno una paura dannata della lotta operaia della capacità operaia di mandare al diavolo padroni e servi dei padroni per decidere e organizzare autonomamente la lotta in fabbrica e fuori dalla fabbrica. Per loro abbiamo fatto questo volantino che finiva così Diceva un tale che anche le balene hanno i loro pidocchi. La lotta di classe è una balena. Poliziotti burocrati di partito e di sindacato fascisti e falsi rivoluzionari sono i suoi pidocchi.

Questa «lassa» del romanzo del 1971 Vogliamo tutto di Nanni Balestrini esprime bene il disprezzo per il Pci proprio di una parte dei movimenti sociali degli anni Settanta. Ma il libro di Balestrini non è significativo solo per il suo messaggio ideologico-politico, ma anche come segnale di quel mutamento di forze nel campo letterario cui abbiamo accennato nel terzo capitolo. Il ribellismo stilistico del brano citato, espressione e specchio di quello politico, dev'essere interpretato in termini radicalmente diversi da quelli con i quali leggiamo, per esempio, Capriccio italiano (1963) di Edoardo Sanguineti.

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[...] A giudicare dal racconto di Rossana Rossanda dell'«autunno caldo» milanese, sembrerebbe che quello narrato da Balestrini sia stato il vissuto di una minoranza:

Non erano i poveri e gli oppressi, era la «classe» che prendeva corpo in modo massiccio, dimostrava di essere in grado di garantire tutta la produzione e più fluidamente, sconcertando il padronato e scrollandone gli equilibri. Ignoro se si chiedessero come sarebbe finita, era il loro posto di lavoro, si battevano per cambiarlo e per tenerlo, non per andarsene – pochi avevano in mente il lavoro zero, tutti si scrollavano un'obbedienza di dosso. [...] Non si aggregavano per caso, non venivano dalla città atomizzata, erano nel loro luogo quotidiano, dettato e coltivato, parlavano di quel che si faceva e non si sopportava più di fare e come si sarebbe potuto fare. Il comunismo era questo, qualcuno aveva detto la cosa semplice difficile da fare – e invece si faceva. I fogli prodotti allora, e che per rivoli durano anche dopo, sono di gente che vuole dirigere assieme, non stendersi felicemente da sola sotto un albero. Il padrone e i suoi capi non c'erano, e domani non sarebbe stato come oggi. La posta in gioco era altissima, non ci può essere per il capitale una sfida più grande.

Naturalmente anche quella di Rossanda è una ricostruzione condotta da un punto di vista individuale e perciò parziale, ma non è insensato darle più credito che a Balestrini. Non foss'altro per continuità con un fenomeno già più volte sottolineato: abbiamo dedotto continuamente dalle nostre analisi di testi letterari come nell'immaginare l'esperienza vissuta da un operaio, da un contadino, da un militante della «base» comunista, gli scrittori esprimano piuttosto la propria che l'altrui condizione sociale. È questa il sostrato autentico delle rappresentazioni di operai emarginati e alienati di Volponi o Balestrini; è la condizione intellettuale a pensarsi in decadenza, straniata, sterilmente ribelle. L'operaio cui Balestrini pretende di dar voce direttamente è la proiezione del discorso politico di un mondo intellettuale che non ha che una conoscenza mediata della realtà di cui si dichiara portavoce ideologico.

Ogni opera letteraria, come ogni sguardo portato sul mondo, vive della prospettiva di chi guarda, che viene influenzata non solo da specificità psicologiche, sociali e storiche, ma anche dalle dinamiche interne ai vari microcosmi sociali. L'opera letteraria e la proiezione non solo della prospettiva sul mondo di un individuo, ma di quella del suo specifico campo di azione sociale. Se il sistema dei personaggi di un impianto romanzesco costituisce un laboratorio sperimentale di dinamiche relazionali, la presenza stessa dell'osservatore, come insegna il principio di indeterminazione di Heisenberg, influenza il risultato dell'esperimento. E, come nella fisica quantistica, è importante tener conto di questa rifrazione, il cui gradiente è tanto maggiore quanto più autonomo è un campo, e grazie alla quale l'opera d'arte finisce per celare in sé tracce della percezione e comprensione del mondo del suo autore.

La maggior autonomia del campo lettarario italiano dopo il 1955 ha portato a una condanna della referenzialità in letteratura, in contrapposizione all'ingerenza politica che nel decennio precedente aveva incoraggiato il realismo e sostenuto il primato della narrativa. Negli anni Sessanta si consolida un'assiologia letteraria che esalta l'opacizzazione dei referenti attraverso la ricerca formale, libera elementi fantastici e ludici, ma anche svaluta il genere romanzesco e chiude la letteratura in un circuito autoreferenziale, come avviene spesso nei periodi di più radicale autonomia delle ragioni dell'arte. Gli scrittori che abbiamo qualificato come «isolati» lo sono stati perché, per motivi diversi, continuano a credere nella possibilità di un rapporto mimetico e referenziale tra letteratura e mondo, e nell'importanza della narrativa per la comprensione della realtà. Non c'è da stupirsi dunque se un diverso racconto del vissuto di un operaio, rispetto agli schematismi e al populismo degli anni Cinquanta, ma anche rispetto alle deformazioni espressionistiche di Balestrini o Volponi, ci venga da un altro scrittore relativamente isolato rispetto al proprio contesto letterario.

Nel 1978 Primo Levi pubblica La chiave a stella, una serie di storie di lavoro che l'operaio montatore Tino Faussone racconta a un anonimo chimico-narratore durante una comune permanenza a Togliattigrad. Fondamento e morale del libro è un'etica radicalmente diversa rispetto al messaggio di quello di Balestrini: le voci dei due narratori con le loro storie di mestiere (il mestiere del montatore, quello del chimico, quello dello scrittore) compongono una sinfonia che, in una modulazione di tonalità maggiori e minori - vittorie e sconfitte, giorni buoni e cattivi, fatiche e soddisfazioni – ruota intorno all'elogio dell'esperienza umana del lavoro:

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. Questa sconfinata regione, la regione del rusco, del boulot, del job, insomma del lavoro quotidiano, è meno nota dell'Antartide e per un triste e misterioso fenomeno avviene che ne parlano di più, e con più clamore, proprio coloro che meno l'hanno percorsa. Per esaltare il lavoro, nelle cerimonie ufficiali viene mobilitata una retorica insidiosa, cinicamente fondata sulla considerazione che un elogio o una medaglia costano molto meno di un aumento di paga e rendono di più; però esiste anche una retorica di segno opposto, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, a dipingerlo vile, come se del lavoro, proprio od altrui, si potesse fare a meno, non solo in Utopia ma oggi e qui: come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo, e come se, per converso, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo scendere in campo carichi di odio preconcetto: chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l'amore o rispettivamente l'odio per l'opera sono un dato interno, originario, che dipende molto dalla storia dell'individuo, e meno di quanto si creda dalle strutture produttive entro cui il lavoro si svolge.

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