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| << | < | > | >> |IndiceZeropoli 9 Prefazione 15 Zeropoli 24 Offerte al dio fun 34 Cimitero d'insegne 37 Il doppio volto dell'utopia 48 La cornucopia dell'identico 55 L'altra faccia della scena 58 Urbanità psicotropa 65 Ghost town 67 La trasfigurazione della banalità 69 Fiat lux 75 Variazioni sul tema 78 Dal sublime al grottesco 80 Aperture e chiusure 83 A. c. 84 Al di là del bello e del brutto 88 Ametican dream 96 Googie style 99 La congiura del caso 103 Mostro urbano o normalità futura? 109 Anything goes 114 Via da Las Vegas 124 Vegas Vickie |
| << | < | > | >> |Pagina 9PrefazioneLa Babilonia da cui fuggo sono io stesso. John Donne Chiunque si metta a scrivere su Las Vegas corre il rischio di sembrare uno di quei guastafeste che, nel bel mezzo dei festeggiamenti, interrompe balli e risate per pronunciare un discorso destinato a risultare sempre e comunque troppo insipido rispetto all'atmosfera festiva. Per tentare di rimediare all'inadeguatezza, potrei aggiungere tuttavia che il mio progetto complessivo non è di compiere la celebrazione di quell'evento architettonico e sociale che Las Vegas rappresenta, né tantomeno di tracciarne una genealogia. E neppure ho cercato di innalzare la mia prosa alle vette irraggiungibili della fantasmagoria che mi circonda. Che cosa si propone allora il libro? O meglio: che cosa è rimasto in me di questa esperienza urbana? Non mi discosterei molto dal vero se a chi per caso mi domandasse che cosa ho imparato a Las Vegas rispondessi in tutta franchezza: nulla. Con ciò non intendo semplicemente dire che la città, in quanto puro caos urbano, è in sé e per sé di scarsissimo interesse, ma anche che in essa non ho potuto individuare nulla che non avessi già visto. La ragione è che, in un certo senso, Las Vegas non è nient'altro che la rappresentazione del mondo in cui vivo - oggi stesso e nella mia qualità di homo urbanus. Una simile conclusione potrebbe suonare singolare, per non dire decisamente falsa. La capitale mondiale del gioco non è forse agli occhi del mondo intero l'espressione della fantasia allo stato puro e di una sconfinata eccentricità impossibile da ritrovare in qualsiasi altro luogo? Non costituisce forse quella che si può definire, per parlare in senso proprio, una città eccezionale che, in virtù della sua passione per l'eccesso, suscita la meraviglia o l'ironia del mondo intero? In realtà, per quanto mi riguarda, credo che di fronte a qualsiasi obiezione io continuerei a ripetere: «Las Vegas è semplicemente il nostro orizzonte urbano». Tutto ciò che è stato costruito nel cuore del deserto di Mojave, la superpotenza dell' entertainment che detta il senso dell'esistenza, l'organizzazione della città in funzione dei grandi magazzini e dei luoghi di divertimento, il senso di animazione permanente che aleggia giorno e notte per le strade e i passages, le architetture a tema che coniugano seduzione commerciale e immaginario infantile, la dipendenza beata dei cittadini dall'oppio spettacolare e mediatico - perché gli hotel-casinò di Las Vegas non sono nulla più dell'equivalente tridimensionale degli show televisivi - tutto questo è qualcosa che conosciamo già, e attraverso Las Vegas siamo condotti a viverlo, se così si può dire, in modo ancora più naturale. Quella cultura consumistica e ludica che ha guidato la trasfigurazione di Las Vegas da trent'anni a questa parte guadagna terreno ogni giorno nel nostro rapporto quotidiano con la città, qualunque essa sia: Parigi, Città del Capo, Tokyo, San Paolo, Mosca. Siamo tutti abitanti di Las Vegas, a prescindere dalla distanza a cui ci troviamo dal sud del Nevada. Il suo nome non evoca più un fantasma. Las Vegas vive nelle nostre teste e si esprime nei gesti che compiamo ogni giorno. È questo il motivo per cui i tratti caratteristici di Las Vegas, che nelle sue pseudocostruzioni fantastiche ci offre prosaicamente la formula dei nostri giorni a venire, costituiscono il modello che dà forma ai nostri centri urbani. La più innocente escursione in un centro commerciale è già l'ombra degli usi e costumi di Las Vegas. E che Las Vegas sia la meta finale del nostro viaggio si può arguire dal fervore con cui ogni città del pianeta tenti di offrire un nuovo abito ai propri ex quartieri industriali installandovi complessi di svago e centri commerciali che riescono a malapena a celare la loro reale fonte di ispirazione. Certo - e occorre restituire questa qualità alla sostanza da cui proviene - la capitale del gioco fa tutto in grande. Si pensa enorme e senza limiti. La più insignificante delle nostre esperienze riceve in terra del Nevada una traduzione amplificata e allargata. Ma si tratta semplicemente di un salto di quantità, e non di qualità. Checché ne pensino le maree di turisti che sommergono Las Vegas nel corso dell'anno, la logica al tempo stesso mercantile e infantile che regge la città con pugno di ferro non ha nulla di straordinario - anzi è il culmine dell'ordinario. Sono semplicemente i nostri gesti più vieti, dipinti su una tela formato gigante: giocare, mangiare, consumare, divertirsi. | << | < | > | >> |Pagina 23Né vicina né lontana, né qui né altrove, Las Vegas trova il proprio indice di determinazione nel nulla. Tutte le qualificazioni per via negativa che si possono attribuire di solito a una città risultano appropriate, dal momento che la sua mancanza di consistenza le conferisce un carattere di esistenza incerta: no man's land, terrain vague, non luogo, città fantasma, simulacro urbano, e via dicendo. Per noi sarà zeropoli, la non-città che è, al tempo stesso, la prima città in senso assoluto - così come lo zero precede ogni altro numero. Il nulla che conta - il niente del neon. Città al grado zero dell'urbanità, dell'architettura e della cultura - grado zero della socialità, dell'arte e del pensiero. Città qualunque, in cui tutto ricomincia da zero: toccare il fondo e risalire alla superficie, allineando sullo schermo uno zero dopo l'altro. Città vacante, del nulla e dell'assenza che, nonostante tutto, costituisce appunto una città. Città del troppo che diventa niente, dell'eccesso che si trasforma in difetto, dell'abbondanza che si volge in privazione. Atomo di città e città atomica, contraddizione fatta ordine, delirio architettonico e confusione sociale, Las Vegas cerca bene o male di costruirsi una propria immagine unitaria, in costante lotta con il deserto che la accerchia da ogni parte, ricordandole senza tregua la sua originaria vacuità.| << | < | > | >> |Pagina 38Oltrepassato il quartiere dei casinò e degli alberghi, Las Vegas è come qualsiasi altra città americana, con la sua scarsa densità urbana e le sue sconfinate periferie residenziali. Ma anche qui, come in sordina, un raziocinio votato all'ossessione della sicurezza determina rigorosamente il piano di occupazione del suolo. Sulla scorta della più alta crescita urbana dell'ultimo decennio negli Stati Uniti, Las Vegas assiste nella sua periferia allo sviluppo di immensi quartieri residenziali sottoposti a stretta sorveglianza, delle sorte di «comunità chiuse» (gated communities) in cui, per accedervi, occorre esibire un lasciapassare a poliziotti armati fino ai denti che montano la guardia davanti a entrate che ricordano le porte delle città medievali. Protette dietro alte mura talora cinte di filo spinato, al riparo dagli eccessi isterici del Downtown - spesso esagerati dalla logica paranoica del pensiero «sicurista» - queste nuove comunità suburbane organizzano la propria vita con calma, attorno a un club di golf, una piscina, un campo da tennis. Come nota M. Davis, la logica del pensiero «sicurista» che «sta all'origine di questa segregazione degli spazi urbani trova la sua espressione più spettacolare nell'ossessione tipica dei quartieri ricchi di isolarsi e di cercare di occultare il loro benessere e il loro stile di vita».| << | < | > | >> |Pagina 44Esattamente come un bambino che è felice della propria mancanza di responsabilità proprio perché sa che gli adulti vegliano su di lui, il giocatore di Las Vegas si sottomette, in piena consapevolezza, a una forma di disinibizione regolamentata a partire da criteri esterni al suo piacere. La sua ilare spensieratezza non è nient'altro che una maschera dietro cui nasconde in realtà la serietà con cui egli decide di sacrificare, per un certo periodo, tutti i beni della sua esistenza in nome di una colossale burla. Non essendo più in grado, a causa dell'età, di assumersi il rischio di una vita fondata di volta in volta sull'ecitazione del momento, il suo desiderio, pur di affermarsi, accetta il compromesso sociale di un'autocensura che consiste nell'accettazione di un piacere dispensato in forma convenzionale e sotto il controllo altrui, la cui apparente smodatezza non è nient'altro, in definitiva, se non l'equivalente della sua completa alienazione a coloro che, fuori del gioco, dettano le regole. In virtù di questo aspetto coercitivo, la ludicità ha come fine l'addomesticamento di quel desiderio originario e senza oggetto che scorre nelle vene di ognuno di noi, imbrigliandolo entro delle forme direttive stile parco divertimenti a tema, mirando a canalizzare le energie vitali per farne qualcosa di banalmente umano: una smorfia di gioia.| << | < | > | >> |Pagina 78Dal sublime al grottescoCon la più totale nonchalance, Las Vegas ha trovato il suo punto di equilibrio nell'eccesso, ha posto la sua normalità nell'esagerazione. La città non è in grado di promettere nulla che non vada nella direzione di un'esagerazione infinita. La Sodoma della mafia dei vari Buggsy Siegel e Meyer Lansky e quella del sindacato camionisti si è trasformata, agli inizi degli anni ottanta - con la legalizzazione del gioco d'azzardo in altri Stati e la fine del monopolio del Nevada - in una sorta di Disneyland urbana per grandi famiglie. Che si tratti della febbre del gioco o del delirio per i parchi di divertimento a tema, è sempre la stessa forma di liberazione attraverso una dissipazione infinita - di sé o del denaro. Las Vegas vive nell'eccesso più assoluto, eppure nulla in essa è propriamente sublime. Il grandioso cede il passo al grottesco, e l'esagerazione delle proporzioni è capace di suscitare soltanto una gran voglia di ridere. Si potrebbe pensare, a prima vista, che le insegne giganti o i mastodontici hotel che incombono sullo Strip debbano indurre nello spettatore un senso di oltrepassamento della dimensione spaziale e di terrore opprimente. Ma non è cosi. Come avevano infatti notato alla fine del XVIII secolo Burke e Kant, l'esperienza del sublime nasce dall'impossibilità di un paragone fra il proprio corpo e la grandezza pressoché infinita che gli si fa incontro, spossessandolo di ogni significato ordinario. Ma il carattere monumentale dei vari casinò e attrazioni di Las Vegas non si riferisce in alcun modo al nostro corpo, né in alcun modo lo assume come termine di paragone. Questa monumentalità non ci riguarda sotto nessun punto di vista. Da qui prende origine il paradosso grottesco: è una grandiosità incapace di suscitare interesse.
Anche se l'architettura di Las Vegas ha un che di
imponente - e forse per mere proporzioni e per l'effetto
puramente visivo risulta ancora più impressionante delle più
colossali opere dell'umanità, come le
piramidi d'Egitto o i templi aztechi - non si può
dire che di fronte a una simile enormità si provi un
senso di rispetto o di soggezione. L'eccesso che
caratterizza Las Vegas non si situa nell'ordine di una vera
grandezza ma in quello della pura enfasi comica. La
disproporzione spaziale e sensoriale che ci trascina,
senza soluzione di continuità, da un eccesso all'altro - ad
esempio dagli interni bui di un casinò agli spazi
abbaglianti del deserto - invece di guidarci verso
uno stupore che ci riveli qualcosa di inquietante e di
inebriante al tempo stesso, finisce per ridursi a una
semplice bravata architettonica.
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