Copertina
Autore Sandro Bellei
Titolo Cucina modenese
EdizioneMuzzio, Roma, 2003 [1990], Cucine regionali 14 , pag. 256, cop.fle., dim. 138x210x16 mm , Isbn 978-88-7413-075-7
LettoreLuca Vita, 2004
Classe alimentazione , regioni: Emilia-Romagna
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Indice

Prefazione 9
Introduzione 13

Cucina da principi e da contadini 19
C'era una volta la sfoglia fatta a mano 23
I tortellini debbono morire in brodo 33
La civiltà del mais e della castagna 39
Un divino aceto di vino 43
Un vino antico nato moderno 51
Il campione del mondo dei formaggi 61
Il maiale, un cireneo a quattro zampe 65
Dolci paciosi, casalinghi, quasi esausti 73


Le ricette 77
Salse, sughi e condimenti 79
Antipasti 87
Polenta 97
Primi piatti 101
Carni 135
Pesci 181
Uova 189
Contorni 191
Dolci 211
Liquori 247


Indice delle ricette 251

 

 

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Pagina 13

Introduzione


Emilia e Romagna. Fino a qualche anno fa, a dividerle c'era un trattino. Oggi, dopo che una legge l'ha abolito, a separare le due regioni è rimasto soltanto il Rubicone, un fiumiciattolo che non sarebbe mai passato alla storia se Giulio Cesare, attraversandolo per dirigersi minaccioso verso Roma, non avesse pronunciato il fatidico "Alea iacta est", il dado è tratto. Emilia e Romagna, almeno da un punto di vista amministrativo, costituiscono una stessa regione, ma se da queste parti chiedete che differenza c'è fra un emiliano e un romagnolo, vi rispondono con un verosimile aforisma: quando avete sete e chiedete da bere, in Romagna vi offrono un bicchiere di Sangiovese, di là dal Rubicone un bicchiere d'acqua. In Emilia, però, se insistete per ottenere un bicchiere di vino, ve lo danno sempre diverso, da Piacenza sino a Bologna, prima il Gutturnio, poi la Malvasia e infine il lambrusco. I torrenti e i fiumi che scendono a valle dall'Appennino verso la pianura padana, infatti, dividono la regione in tante fette, dove in pochi chilometri mutano sostanzialmente i dialetti, ma soprattutto i modi di bere e di far da mangiare.

Il pomo della pacifica discordia gastronomica sono i tortellini, una minestra assurta a simbolo di questa terra "sazia e disperata" (come l'ha definita, non senza polemiche, mons. Giacomo Biffi, cardinale di Bologna), dove l'individualismo - uno dei suoi tratti più caratteristici - regna sovrano soprattutto in cucina. Chiedere a sud del Po se è nato prima il tortellino o il cappelletto, o se il primato spetta invece all'anolino, vuol dire innescare una polemica oziosa tra Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma. Preferisco tagliare subito la testa al toro: salvato dell'antica leggenda solo il simpatico oste guardone, che sbirciando Venere attraverso il buco della serratura ne riprodusse con la pasta sfoglia l'affascinante ombelico, mi piace pensare che tortellino, cappelletto e anolino siano figli della stessa mamma, la vasta pianura attraversata dal grande fiume.

[...]

Modena, a un tiro di schioppo dal capoluogo della regione, non è da meno di Bologna. La sua tavola merita un lungo capitolo nella vastissima enciclopedia della gastronomia regionale italiana. Ricca, delicata, sontuosa, di grande raffinatezza, sa essere anche semplice, essenziale, straordinariamente rustica. Una cucina da contadini e da principi, scriveva negli anni '60 Dario Zanasi, un giornalista modenese inviato speciale de il Resto del Carlino di Bologna, che fu il primo gourmet, in un'epoca ancora priva di "bibbie" gastronomiche, a prendere per mano i propri lettori e guidarli in un lungo viaggio proustiano, alla ricerca dei sapori perduti. Anche oggi, per capire meglio perché questa città goda la simpatia persino di chi non la conosce, bisogna uscire dall'autostrada ed esplorare la campagna col finestrino dell'automobile aperto percorrere le contrade che partono dalla via Emilia, la vecchia strada consolare, e si frantumano nei viottoli dove la gente gira ancora ln bicicletta, le galllne sembrano disposte al suicidio collettivo, i cartelli con la scritta "Qui si vende Parmigiano-reggiano" sono più numerosi dei segnali stradali.

L'Emilia da conoscere e apprezzare è ancora tutta qui. Modena è uno dei suoi ombelichi, un gioiello che merita di essere visitato in un giorno di tiepida primavera che faccia venire voglia di scollinare con l'automobile a caccia di quelle trattorie fuori mano, dove tirano la pasta sfoglia come Dio comanda e non cercano di spacciare per i tortellini della zia quelli di plastica, fatti a macchina dai lucidi inquietanti robot di cucina. In questa terra orizzontale, dove il rombo delle Ferrari in prova sul circuito di Fiorano rischia ogni volta di bloccare in un attimo l'intenso traffico della strada che unisce la città alla montagna, per fortuna esistono ancora tante sfogline che tutti i giorni sculettano un samba solitario davanti al tagliere per fare la pastella con acqua, uova e farina. Come in un tic frenetico, ripetono l'antico gesto di chiudere i tortellini con le dita che lavorano da sole, senza bisogno che il cervello le comandi.

Da queste parti, tutti sanno come si fa il brodo, quello buono della festa, ma di sicuro non c'è la stessa unanimità sulla maniera di preparare il ripieno dei tortellini, che ogni donna confeziona a modo suo, seguendo e mutando i consigli della mamma, che a suo tempo aveva già seguito e mutato i consigli della nonna. Non c'è rezdóra che nel preparare la farcia per la pasta ripiena più nota al mondo non aggiunga o tolga qualcosa rispetto alla ricetta che ha visto preparare in casa sin da quando era bambina. Nel variegato "cocktail" di maiale, vitello, tacchino, pollo, cappone, prosciutto e mortadella, cambiano le proporzioni delle carni e anche i loro abbinamenti. A Castelfranco Emilia, un paese aggrumato attorno allo spartiacque della via Emilia, esattamente a metà strada fra Modena e Bologna, un gourmet dilettante, nel vano tentativo di definire la ricetta canonica del tortellino, ha bussato, casa per casa, alla porta di tutte le massaie. Alla fine del suo inutile itinerario gastronomico, s'è trovato fra le mani ben 350 suggerimenti diversi per preparare la stessa minestra.

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Pagina 23

C'era una volta la sfoglia fatta a mano


A parlare di pasta sfoglia mi verrebbe voglia di iniziare come nelle favole. C'era una volta... C'era una volta la pasta sfoglia fatta a mano, con la farina raccolta a cratere sul tagliere per contenere il tuffo delle uova fresche di giornata. Poi il lungo, faticoso, solitario lavoro della rezdóra, che impastava con la forza delle braccia e il sapiente ritmo delle mani. Infine, l'abile impiego del matterello, che la tradizione - ancora oggi - vuole di liscio legno di ciliegio, adoperato con professionale maestria, mosso da gesti sapienti, quasi atavici. Era il rito della domenica mattina, quando la donna di casa, dopo aver messo sul fuoco la pentola con la carne per il brodo, passava almeno un paio d'ore in cucina per tirare la sfoglia. Da quel disco dorato, che il bolognese Giovanni Poggi, fondatore della Dotta Confraternita del Tortellino, voleva "tondo come la luna e leggero come una carezza", nascevano i tortellini per solennizzare la festa e le tagliatelle per il giorno dopo. Una grande prova di abilità culinaria, che non era alla portata di tutte. Conosco madri che, sapendolo molto esigente in cucina, hanno ingannato il futuro genero facendogli credere che le sode tagliatelle imbandite in tavola fossero frutto delle "mani d'oro" della figlia.

La sfoglia come esame di laurea? Non proprio, ma quasi.

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Pagina 33

I tortellini debbono morire in brodo


Unite in un tegame la polpa di maiale e il petto di gallina tritati finemente, il burro e un dado. Cuocete per circa 15 minuti, poi aggiungete il prosciutto già tritato. Lasciate sul fuoco ancora per qualche minuto, poi togliete e lasciate raffreddare. Incorporate alla carne il Parmigiano-reggiano e un uovo, poi mescolate l'impasto sino a ottenere un amalgama consistente ma morbido, aggiungendo, se necessario, un po' di sale e di noce moscata. Questo è il ripieno per tortellini che nel Modenese va per la maggiore, ma le varianti sono numerose.

C'è chi adopera la mortadella al posto del prosciutto o il vitello (in qualche caso già cotto arrosto) invece del maiale, chi il petto di tacchino o di pollo in aggiunta al maiale, chi il grasso di gallina (meglio se di cappone) in sostituzione del burro e chi, infine, aggiunge 50 grammi di cervello di vitello.

Con farina, sale, olio e uova, fate la pasta nel solito modo e lasciatela riposare sotto un canovaccio per circa 30 minuti. Tirate la sfoglia piuttosto sottile, non molto secca, e tagliatela a strisce prima orizzontali poi verticali, in modo da ottenere dei quadrati di tre o quattro centimetri di lato. Ricordate che il tortellino più è piccolo più è apprezzato. Ponete al centro del quadrato una piccola presa di "pesto", poi piegate la sfoglia a triangolo facendo aderire bene gli orli. Dopo aver stretto fra il pollice e l'indice di entrambe le mani i due cateti del triangolo, fate ruotare con la destra il tortellino attorno alla punta dell'indice sinistro e sovrapponete i due angoli stringendoli sinché restano uniti. I tortellini debbono riposare e rassodare alcune ore, poi vanno cotti in un buon brodo di carne dove deve prevalere il gusto della gallina. Dieci minuti bastano per portarli al giusto punto di cottura. Quando li servite in tavola, seguite la tradizione, che vuole "per ogni turtlèin un cucèr éd bròd" (per ogni tortellino un cucchiaio di brodo).

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Pagina 65

Il maiale, un cireneo a quattro zampe


Il maiale è un animale in onore del quale tutti gli abitanti della pianura padana dovrebbero erigere un monumento. Lo ha fatto, invece, solo Castelnuovo Rangone, uno dei paesi modenesi più piccoli tra quelli divenuti ricchi grazie ai prosciutti, agli zamponi e ai salami. Nella piazza di questa piccola "capitale" della lavorazione della carne suina, dove ogni anno si cuoce e si offre alla gente, con tanto di patente certificata dal Guinnes dei primati, lo zampone più grosso del mondo, fa bella mostra di sé un porcellino di bronzo. A questa vittima sacrificale della nostra florida economia nessun industriale aveva pensato prima, sull'esempio dei Celti, di dedicare un perpetuo ricordo immortalato nel marmo o nel bronzo. Al gatto sì, perché non a questo mansueto quadrupede della cui carne, come per la musica di Verdi, non si getta via niente? Al cane sì, perché non al maiale che ha sempre donato tutto se stesso, dalla carne al sangue, dalle unghie alle setole, dalle saporite guance del muso paffuto sino al golosissimo codino a cavatappi? La mia idea è stata raccolta e, sebbene non grazie a un contributo economico locale bensì olandese, ora anche al suino è tributato in forma perenne l'onore che merita.

Le statistiche ufficiali assicurano che, sull'area a cavallo dell'Emilia Romagna e della Lombardia (con epicentro a Modena e Reggio), vivono più maiali che uomini. Molti di questi ultimi, pur campando sulla sua cotenna, considerano ancora il suino un simbolo di sporcizia e bassezza morale. Il maiale, il più "cireneo" fra gli animali, porta la croce di un nome che lo bolla - scrivono Devoto e Oli sul loro dizionario - come "persona fisicamente repellente o, talvolta, scandalosamente intemperante".

[...]

I Romani fecero del maiale il loro cibo preferito. Porchette, prosciutti e salsicce allietarono i banchetti di Trimalcione e dei suoi golosi ospiti, per i quali il famoso Apicio, uno dei più noti gourmet dell'epoca, una specie di Carnacina (cuoco e scrittore), inventò pietanze raffinatissime come le mammelle di scrofa ingrassata coi fichi. Nella pianura padana, a quei tempi ombreggiata da enormi boschi di querce che fornivano le ghiande di cui i maiali sono ghiotti, l'allevamento suino era, con l'agricoltura, l'unica attività delle popolazioni rurali. Al maiale bastavano un ricovero (al ciùs) e un'alimentazione senza troppe pretese. La carne, macellata nel periodo invernale, avrebbe garantito la sopravvivenza almeno per un anno. Ecco perché, soprattutto nelle campagne, non si è mai persa l'abitudine di fèr pcarìa, fare macelleria, per riempire la dispensa con prosciutti, salami, salsicce, lardo, coppe, ciccioli e carne fresca, l'unica possibilità di tener lontana l'atavica minaccia della fame.

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