Autore Marco Belpoliti
Titolo Crolli
EdizioneEinaudi, Torino, 2005, Vele 14 , pag. 144, cop.fle., dim. 105x180x12 mm , Isbn 978-88-06-17345-6
LettoreRenato di Stefano, 2005
Classe libri , storia contemporanea , sociologia , critica letteraria , critica d'arte , citta': New York , citta': Berlino












 

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Indice

  5 Premessa

  7 1.  Una volta, a Berlino
 11 2.  Macerie
 17 3.  L'età dell'estremismo
 23 4.  Le nuvole e il kitsch
 27 5.  Post human
 32 6.  Cremaster
 36 7.  Informe
 42 8.  Le scarpe di Warhol
 49 9.  Nero sulle Torri
 53 10. La discarica e il grattacielo
 59 11. Scrittori e terroristi
 64 12. Mao II
 69 13. Fotografie e romanzi
 75 14. Lullaby
 82 15. L'incidente
 88 16. Sentirsi giú quando si è su
 95 17. Matrix
101 18. Polvere
107 19. Bombe e rifiuti
111 20. Pripjat': la città fantasma
117 21. L'età lirica
120 22. A Berlino, alla fine
128 23. Il tempo penultimo

135 Nota bibliografica


 

 

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Premessa.


Due avvenimenti segnano il decennio che abbiamo alle spalle: la caduta del Muro di Berlino e la distruzione delle Torri gemelle del World Trade Center di New York. Sono due crolli opposti e simmetrici.

Il primo, l'abbattimento della barriera di cemento che separava le due parti dell'ex capitale tedesca, è stato un evento gioioso e collettivo, una grande festa, un happening durato parecchi giorni, che si è concluso con la caduta del regime politico della DDR e di una divisione che l'Europa, l'intero mondo, hanno salutato come l'inizio di una nuova epoca. L'altro, effetto dell'attacco suicida di una cellula terrorista di matrice fondamentalista islamica, diretto contro il simbolo stesso della città americana, della sua ricchezza, solidità e potenza, è invece un evento angoscioso, tragico, carico di valenze simboliche.

Mentre l'azione di Berlino indica l'apertura di uno spazio, un cambiamento geopolitico — dallo «spazio chiuso» della Guerra fredda allo «spazio aperto» della globalizzazione — mediante un atto distruttivo, il gesto devastatore di New York mostra invece il contrario: la chiusura di uno spazio — forse il medesimo spazio — che produce una reazione claustrofobica, almeno in Occidente.

C'è anche un'altra simmetria che riguarda l'utilizzo stesso delle macerie prodotte dai due eventi: mentre i frammenti del Muro vengono raccolti e venduti come souvenir ai tedeschi e ai turisti stranieri in visita alla nuova Berlino dell'unificazione, alimentando una piccola industria della demolizione e del riuso, le rovine del WTC vengono faticosamente dissepolte e occultate come se si trattasse di un materiale osceno, ingombrante, scandaloso. E in una certa misura lo sono, vista la presenza dentro di esse di 3 000 corpi umani mescolati alle macerie, polverizzati dal crollo e in gran parte irrecuperabili. Caricate e trasportate su camion e articolati verso le chiatte a un deposito situato a debita distanza dal luogo del crollo, le macerie di New York sono la «parte maledetta» di un evento traumatico di grande rilevanza.

Cogliere il senso di un'epoca, o in modo piú limitato, di un decennio - lasso di tempo con cui noi oggi descriviamo il succedersi impetuoso degli eventi - non è semplice. Per farlo bisogna necessariamente procedere per dettagli, particolari, frammenti, cercando di illuminare avvenimenti, ma anche opere, libri, scritti e idee che ci aiutano a restituire un significato, almeno plausibile, al nostro passato prossimo.

Quello che mi sono proposto di fare è questo: raccontare l'epoca dell'estremismo in cui viviamo. Non inizia con il 1989 e con la «caduta dei Tiranni», ma ben prima, almeno dal 1945. È l'epoca che va sotto il nome di Guerra fredda e ha nell'equilibrio del terrore atomico il suo instabile punto di bilico. Non intendo però ripercorrerne l'intera storia, spostare le lancette del mio racconto cosí indietro nel tempo, anche se per capire il decennio che si è appena concluso, gli anni Novanta, bisognerà fare riferimento al lasso di tempo che lo precede, ad alcuni degli accadimenti storici, culturali - letterari e artistici, in particolare - che hanno segnato il dopoguerra in Europa e negli Stati Uniti. Ho privilegiato la letteratura e le arti visive, l'architettura e la filosofia, pur sapendo che nel cinema o nella musica avrei trovato altrettanti esempi o riferimenti significativi. E una scelta, non una esclusione.

Crolli ha la brevità e la necessaria icasticità di un punto di vista che muta, di giorno in giorno, per adattarsi alla lettura e all'interpretazione del mondo contemporaneo. Il suo movimento interno è sincopato, il suo pattern ha la forma di un puzzle, il suo andamento è analogico non logico: cerca di stabilire connessioni tra punti lontani per descrivere una costellazione di avvenimenti, idee ma anche paure, fantasie e sogni. Come ha scritto Walter Benjamin a proposito della propria città natale, Berlino, sapersi orientare in una città non significa molto, mentre per smarrirsi in essa occorre una certa pratica. Faccio mia la frase dello scrittore tedesco come viatico per questo breve viaggio nel labirinto del nostro passato piú prossimo.

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1. Una volta, a Berlino.


La storia è nota. Nel bel mezzo della crisi della DDR, il 9 novembre 1989, Günter Schboski, portavoce del Partito al potere nella Germania dell'Est, rispondendo alla domanda di un giornalista sulle restrizioni relative al rilascio dei visti, comunica, quasi en passant, che i cittadini tedeschi possono liberamente recarsi in Occidente. Il giornalista chiede: «Da quando?» «Da subito», è la risposta.

È un annuncio del tutto informale, ma viene preso sul serio dagli ascoltatori televisivi. Nessuno pensa che il Muro sia caduto, tuttavia in molti si presentano ai posti di frontiera. Sono cosí tanti che le guardie, dopo aver parlamentato con loro, li lasciano transitare attraverso i varchi di passaggio.

La folla alle sbarre e ai cancelli ripete che il governo ne ha decretato l'apertura. «Come fate a saperlo?», chiedono le guardie. «L'abbiamo visto alla televisione», rispondono i cittadini di Berlino Est. «In tal caso, — risponde una delle guardie, — potete passare».

Robert Darton, un eminente e brillante storico americano, dedito alla storia della Rivoluzione francese e alle sue origini intellettuali, si trova a Berlino in quei giorni e decide di scrivere un diario della nuova rivoluzione. In una delle prime pagine del libro racconta la scena alla frontiera e conclude che è possibile considerare la caduta del Muro come un altro «colossale equivoco, un evento letteralmente creato dai mass media». C'è sempre qualcosa di ambiguo e di incerto nei fatti storici, e vederli da vicino non sempre aiuta a comprenderli. Gli «eventi» succedono e basta, chiosa Darton, e non possiamo che cercare di interpretarli, anche se eravamo là.

Il 10 novembre il Muro è ancora lí, dentro la città, e tuttavia non c'è piú. Il giorno prima era un'enorme cicatrice, il «grande spartiacque» della guerra fredda. Il giorno dopo è diventato una pista da ballo, una galleria artistica, una bacheca, uno schermo cinematografico, una videocassetta, un museo, o, come si esprime la donna delle pulizie nell'ufficio di Darton a Berlino Ovest, «nient'altro che un mucchio di pietre». Come nel caso della presa della Bastiglia, sempre di pietre si tratta.

Il pomeriggio di giovedí 9 novembre un Ossi, ovvero un berlinese orientale, come li chiamano quelli dell'Ovest, con uno zaino in spalla si issa sul Muro proprio di fronte alla Porta di Brandeburgo. Se ne sta lassú e va avanti e indietro. Semplicemente bighellona, agitando le braccia da una parte e dall'altra. Darton lo osserva, e pensa che sia un bersaglio perfetto per le guardie di confine. Basterebbe un nulla, imbracciare un'arma, puntare, premere il grilletto e morirebbe, come è già accaduto ad altri giovani, a Peter Fechter, ad esempio, un operaio edile di diciotto anni, ricorda, ferito dai Vopos e lasciato morire dissanguato a pochi metri dal Checkpoint Charlie il 17 agosto 1962, subito dopo aver cercato di scavalcare il Muro.

Anche adesso le guardie di confine sparano contro il giovane passeggiatore, ma sono getti d'acqua che escono, quasi senza convinzione, dagli idranti. Il ragazzo è bagnato fradicio, ma prosegue la sua passeggiata solitaria fino a che l'ultima guardia non si arrende e smette. Ha conquistato il Muro con un semplice atto. Con un gesto finale: apre lo zaino e riversa tutta l'acqua che contiene nella parte orientale. Un atto simbolico: «Addio per sempre».

Passano pochi minuti e centinaia di Ossi e di Wessi, i loro omologhi dell'altra parte, sono sul Muro. Si abbracciano, cantano, ballano, si scambiano fiori, bevono vino, mentre altri cominciano ad accanirsi contro le lastre di cemento che hanno separato per decenni la città. In certi punti la barriera è cosí larga da diventare, sotto i piedi dei giovani equilibristi, quasi una piattaforma da ballo. Dalle torri di controllo le guardie impotenti gettano i loro fasci di luce sui giovani. Sono mille, forse piú, proprio sulla cima, mentre sotto altri giovani e non giovani picconano, martellano, raschiano la barriera: allegra compagnia di demolitori.

A poco a poco, racconta Darton (le immagini le abbiamo viste, trasmesse dalle televisioni di tutto il mondo), si aprono varchi: appaiono squarci, fratture, buchi. Attraverso quelle fenditure la luce di riflettori dei Vopos passa di là. Sembrano «fiochi bagliori guizzanti dagli occhi di una zucca luminosa». Ironia della sorte: al centro della baraonda, con la Porta di Brandeburgo alle spalle, un Ossi dirige le operazioni di abbattimento brandendo una falce in una mano e un martello nell'altra.

Sabato 11 novembre i pezzi del Muro cominciano a circolare in entrambi i settori di Berlino. Sono oggetto di scambio, souvenir, ricordi di «qualcosa» di straordinario. La gente ha già conferito all'evento un significato storico: la fine della Guerra fredda.

Ma ecco che il mercato fa capolino. Non quello dei supermercati dell'Ovest. Ha la forma piú dimessa e artigianale di un banchetto. Darton vede su un marciapiedi di Ku'damm un ambulante vendere frammenti del Muro. Costano venti marchi l'uno. Si vende il passato, a brandelli, a pezzi. Un berlinese orientale si avvicina, e scherzosamente protesta con l'ambulante: «Lei non può vendere questa roba. È il nostro Muro. Appartiene a noi». Come le mura di un castello medievale o le fortificazioni di una città, il Muro è un separatore, appartiene sia a chi è dentro sia a chi è fuori. È un punto d'incontro: unisce e divide.

Il muro è andato in pezzi e comincia a circolare in porzioni sempre piú piccole, come si fa con le reliquie dei santi o con il pane necessario. Da oggetto lugubre, da cinta della prigione, si è trasformato nell'arco di tre giorni in un innocuo oggetto per turisti.

Tredici anni prima, nel settembre del 1976, un giovane artista cileno-americano Gordon Matta-Clark, che lavora con macerie, frammenti, edifici sventrati, che fora palazzi e pratica buchi nei pavimenti di case abbandonate, arriva a Berlino per una mostra. Vede per la prima volta di persona il Muro e decide di farne l'oggetto di un intervento. In una zona in cui la cinta di cemento si affaccia su desolati quartieri popolari, e dove il Muro è già ricoperto da una scritta - uno slogan tracciato con lo spray - realizza una scritta piú piccola ma ripetuta identica a breve distanza: «Made in America». L'imprime in azzurro, mentre sotto pone una bandiera rossa su cui c'è un doppio segno: le stelle, in un angolo, e la falce e il martello, in basso. Qualcosa di ironico e insieme di politico: Usa/Urss, i due lati opposti del mondo che qui si toccano e convergono. Proprio come nel muro che circonda la città assediata, non si sa bene dove comincia lo spazio degli assedianti e dove inizia quello degli assediati. Il confine come soglia, punto di passaggio, zona incerta. Curiosamente nel 1974 Matta-Clark aveva fotografato le Twin Towers di New York, i loro monoliti scuri in bianco e nero. Nell'immagine ottenuta egli ha evidenziato lo spazio che intercorre tra i due alti edifici, il vuoto, o corridoio, che c'è in mezzo: The Space Between (1974).

La caduta del Muro è una festa che dura a lungo, almeno fino al 22 dicembre, quando i politici dell'Ovest arrivano a Berlino per l'apertura ufficiale della porta di Brandeburgo. La notte del capodanno del 1989 la festa diventa incontenibile. È la fine di qualcosa, tuttavia è anche l'inizio di qualcosa d'altro. Cosa? L'età dei crolli, potremmo forse chiamarla.

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3. L'età dell'estremismo.


«La nostra è effettivamente un'epoca di estremismi. Viviamo infatti sotto la minaccia continua di due prospettive egualmente spaventose, anche se apparentemente opposte: la banalità ininterrotta e un terrore inconcepibile». Cosí affermava icasticamente nel 1965 Susan Sontag al termine di un ampio saggio dedicato all' Immagine del disastro.

È una frase che sembra scritta qualche ora fa, come se i quarant'anni trascorsi fossero un tempo irrisorio, del tutto inconsistente, nell'arco della storia della civiltà occidentale o, si dovrebbe dire, della civiltà umana in generale, dal momento che oggi il mondo sembra unificato anche grazie a quell'estremismo e alle sue due prospettive: banalità e terrore.

Non è un caso che la saggista americana abbia scelto due aggettivi - ininterrotta e inconcepibile - per definire le due facce di questa medaglia. La banalità appare infatti attualmente senza fine, o meglio: senza interruzioni di sorta, come se non esistessero luoghi o spazi sottratti a essa; mentre il terrore è davvero inconcepibile: non può essere pensato, arriva imprevisto, come ormai ben sappiamo.

La frase, quasi un aforisma, segue un periodo altrettanto secco e tranciante: «È la fantasia, servita in razioni abbondanti dalle arti popolari, che permette ai piú di tenere testa a questi due spettri. Infatti una delle cose che la fantasia può fare è di sollevarci dall'insopportabile monotonia e di distrarci dalle paure - attuali o future - con una fuga nell'esotismo di situazioni pericolose risolte lietamente all'ultimo minuto. Un'altra cosa che può fare è normalizzare ciò che è psicologicamente insopportabile, assuefacendoci cosí ad esso. Nel primo caso la fantasia abbellisce il mondo, nel secondo lo neutralizza».

Questa presa di posizione viene subito dopo un'accurata disanima dei film di fantascienza americani del secondo dopoguerra, condotta con taglio rapido ma anche con attenzione ai dettagli, come è tipico di Susan Sontag. La sua idea è che i film di fantascienza sono perfettamente prevedibili alla stregua dei film western. Il loro contenuto non è infatti tanto la scienza in sé e per sé, ma il disastro, «uno dei piú antichi soggetti dell'arte». Inoltre, annota l'autrice, è raro che nei film i disastri siano visti in modo intensivo: la catastrofe è sempre estensiva.

Sontag solleva qui un tema che l'iconografia del disastro - pittura, incisioni, film, video, televisione - non ha mai ignorato: il problema dello spazio, o meglio delle proporzioni. Le dimensioni dei luoghi e dei personaggi, oltre che dei disastri medesimi, hanno un ruolo fondamentale nel cinema. I film di fantascienza si occupano di quello che è ormai diventato un genere fondamentale nella cultura occidentale: l'estetica del disastro.

Il disastro ha un grande vantaggio, scrive: «libera l'individuo da obblighi normali». Meglio: ci porta ad essere soltanto spettatori: «Guardiamo». Questa estetica si è sviluppata nella nostra cultura attraverso una pratica dello sguardo o, almeno, ne è ora parte sostanziale. Per quanto sotto l'aspetto psicologico l'immaginazione del disastro non differisca molto da un periodo storico all'altro, come dimostrano le rovine di Piranesi o le tavole di Goya sugli effetti della guerra, c'è un aspetto morale e politico che invece non è mai lo stesso. E quale sarebbe nei film americani degli anni Quaranta e Cinquanta? La reazione inadeguata. Scrive Susan Sontag: «l' imagerie del disastro della fantascienza è l'emblema di una reazione inadeguata» di fronte al terrore della guerra atomica, all'invasione degli «alieni», del nemico interno ed esterno. È nei film catastrofici che meglio si mostrano le paure recondite dell'epoca.

Nel saggio il valore estetico di queste opere cinematografiche che spesso sono reputate di serie B, non è mai sottovalutato; anzi, Sontag accenna al «loro notevole fascino» che consiste nell'incontro «tra un prodotto artistico commerciale ingenuo e assai involgarito e i dilemmi piú profondi dell'uomo contemporaneo». Non c'è in lei alcun rifiuto della cultura pop. Al contrario. Nel medesimo libro che contiene il saggio, Contro l'interpretazione, è raccolto un suo fondamentale contributo sulla definizione del Camp, ovvero il kitsch contemporaneo, esempio di critica della cultura che non è mai demonizzazione del proprio oggetto. Susan Sontag si pone un problema etico che compendia nelle righe finali del saggio L'immagine del disastro: «non si possono eliminare gli incubi collettivi dimostrando che, intellettualmente e moralmente, sono ingannevoli». L'incubo «è troppo vicino alla nostra realtà».

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Pagina 95

17. Matrix.


Quando il protagonista di Matrix (1999), il film diretto da Andy e Larry Wachowski, e interpretato da Keanu Reeves, si risveglia, scorge un desolato panorama cosparso di rovine e macerie bruciate. E ciò che resta di Chicago dopo la guerra globale, ma anche il suo ingresso nella realtà. Il capo della banda di resistenti, Morpheus, che porta il nome del dio del sonno, lo accoglie con un ironico saluto: «Benvenuto nel deserto del reale!» Che sia questo ciò che è accaduto agli abitanti di New York l'11 settembre?, si domanda il filosofo sloveno Slavoj Zizek. Mentre loro, abitanti in carne e ossa della realtà catastrofica provocata dal crollo delle Torri, si risvegliano sbalorditi e storditi dentro «il deserto del reale», noi, dall'altro lato dell'Oceano, nella vecchia Europa, telespettatori stupefatti seduti davanti ai nostri televisori, assistiamo alla caduta dei due giganti dai piedi di acciaio e cemento come se stessimo guardando un incredibile film hollywoodiano.

Il sospetto, indotto anche da pensatori dell'apocalisse quotidiana come Baudrillard, è proprio questo: «la realtà materiale che tutti noi viviamo e vediamo attorno a noi è in effetti virtuale, generata e coordinata da un gigantesco mega-computer al quale simo tutti connessi», come accade in Matrix? Slavoj Zizek è convinto che non sia cosí. Il reale c'è. Semmai è accaduto che il reale è entrato nell'immaginario: «Non è successo che la realtà sia entrata nella nostra immagine, ma l'immagine sia entrata e abbia sconvolto la nostra realtà (cioè quelle coordinate simboliche che determinano quel che sperimentiamo come realtà)». L'interferenza tra finzione e realtà, tra immaginazione e reale, è talmente forte che l'attacco suicida e il crollo del WTC mettono in discussione i loro reciproci rapporti.

Nel suo testo sull'11 settembre Don DeLillo nota che la copertura mediatica assicurata all'evento ha messo a nudo una semplice verità: «L'evento ha dominato il mezzo. È stato abbagliante e totalizzante, e alcuni di noi hanno detto che era irreale». Il fatto è che quando noi diciamo che qualcosa è irreale, «intendiamo dire che è troppo reale, un fenomeno inspiegabile e tuttavia cosí legato alla forza bruta del fatto oggettivo che non riusciamo ad adattarlo alla nostra percezione». Lo scrittore, da attento conoscitore dei processi narrativi, smonta l'avvenimento, lo divide in sequenze. Prima c'è stato l'impatto dei due aerei contro le Torri. Questo è stato cosí incredibile che a malapena siamo stati in grado, osservandolo al televisore, di assorbirlo. Quando i due grattacieli sono crollati, quando i loro piani sono collassati l'uno sull'altro, quando il fumo e la polvere hanno avvolto tutto, la cosa ha assunto una tale rilevanza ed enormità, che tutto ci è apparso irreale e «non ce l'abbiamo fatta a stare al passo». Tuttavia l'evento era, e resta, reale, persino crudelmente reale, «un'espressione fisica dei nostri limiti strutturali e di un vuoto d'anima». Semmai è proprio sul «vuoto d'anima», suggerito da DeLillo, che occorre soffermarsi, sulla nostra incapacità di provare sentimenti che siano all'altezza dell'evento catastrofico. Ma si possono davvero provare sentimenti «pieni» senza cadere nel cinismo o nella disperazione? Si può trasformare in tal modo lo sconcerto, la rabbia e la paura in qualcosa d'altro? In conoscenza? O in parola? È da questo interrogativo che si muove DeLillo, il quale trova da scrittore la propria risposta all'evento: la parola e la narrazione letteraria possono, devono farlo; e in questo scritto, rovescia o forse solo riaggiusta una frase apotropaica del protagonista, James Axton, di un suo precedente libro, I nomi (1982): «Se fossi uno scrittore... come mi piacerebbe che mi dicessero che il romanzo è morto. Che liberazione, lavorare ai margini, al di fuori di una percezione centrale. Essere il ghoul della letteratura. Meraviglioso».

«Dove abbiamo già visto questa scena?», si chiede Zizek nel suo libro dedicato all'11 settembre. L'interrogativo ci riporta a quel sogno descritto da Franzen, ma anche ai desideri inconsci evocati da Baudrillard. Gli americani hanno già paventato una realtà catastrofica che avrebbe distrutto la loro città-simbolo?

Lo storico urbano Mike Davis racconta nel suo libro Città morte di aver ritrovato nella biblioteca della propria università a New York la prima edizione americana di un libro di H. G. Wells, La guerra dell'aria (1908). Wells è il celebre autore di un altro romanzo, La guerra dei mondi, da cui Orson Welles trasse la trasmissione radiofonica, andata in onda il 30 ottobre 1938, un anno prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, in cui descrisse in diretta lo sbarco dei marziani gettando nel panico l'intera America. In un'illustrazione contenuta nella Guerra dell'aria è descritto l'incendio che sta divorando Wall Street. Wells racconta nel romanzo il conflitto bellico tra l'America e la Nuova Siria, ovvero la Germania guglielmina, durante il quale i dirigibili tedeschi attaccano New York che diviene, nella finzione romanzesca, la prima città interamente distrutta dall'aria. Mike Davis cita altri romanzi, racconti e opere visive, tra cui un quadro di José Clemente Orozco del 1931, che hanno dato corpo nel corso del Novecento alla sottile ma solida paura dei newyorkesi di essere attaccati dal «nemico». Tutte queste premonizioni hanno la forza del senno-di-poi, tuttavia è anche vero che la nostra epoca è caratterizzata da un'ansia inesplicabile. Durante gli anni Novanta l'allarmante serie X-Files ha plasmato l'immaginario collettivo cosí come era accaduto con le zuccherose soap opere televisive negli anni Cinquanta. Semmai la sproporzione, osserva Davis, è tra le previsioni, o premonizioni, di chi si aspettava un attacco tecnologicamente raffinato dei «marziani» e il gesto suicida di una cellula terrorista armata di taglierini.

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