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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione (Francesco Cappa, Martino Negri) 9 Bambini 49 Ingrandimenti 53 Bambini 57 Cantiere 60 G.F. Hartlaub, Il Genius nel bambino 61 Logge 62 Raccolta di filastrocche francofortesi 65 Libri 71 Abbecedari di cent'anni fa 75 Libri per ragazzi 77 Armadi 79 Libri per l'infanzia vecchi e dimenticati 84 Uno sguardo sulla letteratura per l'infanzia 97 Tirando fuori dalle casse la mia biblioteca 105 Leggere 117 Letteratura per l'infanzia 121 Lo scrittoio 131 Leggere 134 Al camino 135 L'alfabetario 141 La febbre 143 Giocattoli 149 Steglitzer angolo Genthiner 153 Giocattoli russi 156 Storia culturale del giocattolo 159 Antichi giocattoli 164 Elogio della bambola 170 Giocattolo e gioco 177 Teatri 183 Teatro delle scimmie 187 Teatro dei burattini a Berlino 188 Caspar Hauser 197 Cagliostro 206 Teatro e radio 214 Programma per un teatro proletario di bambini 219 Educazione 227 Biblioteca scolastica 231 La riforma della scuola: un movimento culturale 234 Insegnamento e valutazione 239 Pedagogia coloniale 248 Una pedagogia comunista 251 Pestalozzi a Yverdon 255 La vita degli studenti 259 Passagenwerk. Frammenti dal fascicolo K 275 Note ai testi 279 Nota alla traduzione 303 Fonti 307 Approfondimenti 313 Il segnale segreto del futuro. Un itinerario pedagogico negli scritti di Walter Benjamin (Francesco Cappa) 315 Nel regno delle figure. Lo sguardo di Walter Benjamin sul rapporto tra infanzia e letteratura (Martino Negri) 334 |
| << | < | > | >> |Pagina 53Bambino che legge. Il libro lo si riceve dalla biblioteca scolastica. Nelle classi inferiori vengono assegnati. Solo raramente ci si azzarda a esprimere una preferenza. Spesso – invidiosi – capita di vedere finire nelle mani di altri libri che si desiderava ardentemente. Alla fine si riceveva il proprio. Per una settimana si rimaneva prigionieri del turbinio del testo, che, mite e segreto, fitto e incessante, ti avvolgeva come una nevicata. Nel libro si entrava totalmente fiduciosi. Il silenzio del libro invitava a procedere! Il contenuto non era poi così importante. Poiché la lettura apparteneva ancora al tempo in cui, a letto, si inventavano storie per proprio conto. Di queste il bambino segue ancora le tracce mezzo cancellate. Leggendo si tappa le orecchie, il suo libro giace sempre su un piano troppo alto rispetto a lui e una mano sta sempre su una pagina. Per lui le imprese dell'eroe vanno ancora lette, in quel vortice di lettere, come si leggono figura e messaggio nel turbinio dei fiocchi di neve. Il suo respiro è nell'aria degli eventi e tutte le figure gli alitano in faccia. Lui si mescola ai personaggi molto più dell'adulto. Viene colpito in modo particolare dagli eventi e dalle parole che vi si scambiano, e quando si alza è tutto coperto dalla nevicata di quanto ha letto.
Bambino arrivato in ritardo.
L'orologio nel cortile della
scuola sembra essersi rotto per colpa sua. Le lancette sono ferme sul "Tardi". E
nel corridoio filtra, da dietro le
porte delle aule che lui oltrepassa velocemente, un brusio
di conciliaboli misteriosi. Maestri e compagni, là dentro,
sono tutti d'accordo. Oppure tutto tace, come se si stesse aspettando qualcuno.
Il bambino appoggia la mano in
modo quasi impercettibile sulla maniglia. Il sole inonda il
punto dove lui si trova. E lui, ecco, profana il giorno ancora
acerbo e apre. Sente la voce del maestro ciarlare come una
ruota di mulino, lui è davanti alla macina. La voce prosegue
con lo stesso ritmo, ma ora i garzoni si tolgono il carico di
dosso e lo scaricano sul nuovo arrivato: dieci, venti pesanti
sacchi gli volano incontro e lui se li deve trascinare fino al
proprio banco. Ogni filo del suo cappottino è spolverato di
bianco. Come un'anima in pena che a mezzanotte, a ogni
passo, fa un gran rumore e nessuno lo vede. Poi, una volta al suo posto, lavora
zitto con gli altri fino al suono della
campanella. Ma non ne esce nulla di buono.
Bambino goloso.
La mano avanza attraverso la fessura della dispensa socchiusa, come un
innamorato nella notte.
Poi, una volta abituatasi al buio, eccola cercare a tentoni
zucchero o mandorle, uva sultanina o conserva. E come
l'amante che, prima di baciare la sua amata, l'abbraccia,
così il tatto li conosce prima che la bocca ne assapori la
dolcezza. Come scivolano insinuanti – nella mano – il
miele, i mucchietti di uva passa e persino il riso! Che appassionato l'incontro
tra i due, finalmente sfuggiti al cucchiaio! Riconoscente e sfrenata come una
fanciulla rapita dalla casa del padre, la gelatina di fragole si concede
all'assaggio senza pane e, per così dire, alla luce del sole,
e persino il burro ricambia con dolcezza l'audacia di uno
spasimante che si è spinto sino alla sua camera di fanciulla. La mano, giovane
Don Giovanni, è presto penetrata in
ogni anfratto e vano, lasciandosi dietro cataste stillanti e
scorte torrenziali: illibatezza che si rinnova senza lamenti.
Bambino sulla giostra. La piattaforma con i servizievoli animali gira raso terra. È dell'altezza giusta dalla quale il sogno di essere in volo riesce meglio. Parte la musica e, a scossoni, il bambino si allontana da sua madre. All'inizio ha paura di lasciare la mamma. Poi però si accorge di quanto lui stesso sia fedele. Troneggia da re devoto sopra un mondo che sente suo. Sulla linea di tangenza, alberi e indigeni fanno ala. Ecco che, a oriente, rispunta la mamma. Poi dalla foresta vergine emerge una vetta così come il bambino l'ha vista già alcuni millenni fa, così come l'ha vista un attimo prima sulla giostra. Il suo animale gli è fedele: come un silente Arione, lui si allontana sul suo pesce muto, un ligneo Giove-toro rapisce lei, candida Europa. Da lungo tempo l'eterno ritorno di tutte le cose è divenuto la sapienza infantile e la vita una primordiale ebbrezza di dominio con l'organetto rimbombante nel mezzo, come tesoro della corona. Se questo suona più lento, lo spazio si mette a balbettare e gli alberi iniziano a tornare in sé. La giostra diventa terreno infido. E spunta la mamma, il palo ben conficcato, intorno a cui il bambino, approdando, avvolge la gomena dei suoi sguardi. | << | < | > | >> |Pagina 80[...] Passarono degli anni. La mia fede nella magia era ormai già indebolita; erano necessari stimoli ben più forti per restituirmela. Incominciai a cercarli nell'insolito, nel perverso, nel terrificante ed era destino che anche questa volta dovessi incontrarli davanti a un armadio. Il gioco si era fatto però più temerario. L'innocenza era lontana e fu la proibizione, un divieto, a farlo nascere. Mi erano infatti proibiti quei libri che io pensavo mi avrebbero riccamente ripagato dell'ormai perduto mondo delle favole. Titoli come Die Fermate, Das Majorat e Heimatochare mi rimanevano incomprensibili. E tuttavia, anche se non li capivo, per essi il nome, "Hoffmann dei fantasmi", era una garanzia, come anche il divieto rigoroso di leggerlo. Alla fine riuscii a spingermi fino a loro e a raggiungerli. Succedeva, alle volte, che la mattina rincasassi da scuola prima che la mamma fosse tornata dal centro e mio padre dal lavoro. In tal caso, senza perdere tempo, andavo di filata verso la libreria. Era un mobile strano; dall'esterno non sembrava contenere libri. Le due ante di vetro erano circondate da una cornice di legno di quercia e i vetri erano composti, per la precisione, da piccoli tondi separati gli uni dagli altri da un filetto di piombo. I vetri colorati di verde, di rosso e di giallo erano totalmente opachi. In questo armadio il vetro era dunque una presa in giro; e come se volesse vendicarsi per un destino inclemente creava mille fastidiosi riflessi che non invitavano nessuno ad avvicinarsi. Tuttavia, se l'atmosfera infausta che aleggiava intorno a questo mobile mi avesse coinvolto, essa non sarebbe stata altro che un'attrattiva in più per il colpo di mano che avevo in mente in quella chiara, attonita e temeraria ora antimeridiana. Spalancavo le ante, cercavo a tastoni il libro che non era nella prima fila ma dietro, nel buio, lo sfogliavo febbrilmente fino a trovare la pagina dove ero rimasto e, inchiodato sul posto, divoravo le pagine davanti all'armadio aperto; leggevo facendo tesoro del tempo che mi separava dal rientro dei miei. Di ciò che leggevo non capivo nulla. Tuttavia le voci di fantasmi, i rintocchi di mezzanotte e gli anatemi venivano alimentati e completati dal timore angoscioso dell'orecchio che in ogni istante si aspettava di sentire il rumore delle chiavi e il colpo sordo con cui il bastone da passeggio di mio padre cadeva nel portaombrelli. Era un segno della speciale considerazione di cui in casa godevano le cose dello spirito che questo armadio fosse, tra tutti, l'unico a restare aperto. Agli altri infatti non si poteva accedere se non con la mediazione del cestello portachiavi, il quale, in quegli anni, accompagnava in ogni angolo della casa tutte le governanti, che immancabilmente lo cercavano in ogni momento.| << | < | > | >> |Pagina 86Perché collezionare libri? Ha forse qualcuno esortato mai i bibliofili con una domanda così diretta a riflettere su se stessi? Come sarebbe interessante sapere le risposte, almeno quelle sincere! Poiché solo i profani possono credere che anche qui non ci sia qualcosa da celare e mascherare. Alterigia, solitudine, amarezza, questi sono gli aspetti negativi della colta e felice natura di alcuni collezionisti. Di tanto in tanto ogni passione rivela i suoi tratti demoniaci: la storia della bibliofilia a questo proposito ne è la testimonianza più alta. Niente di tutto ciò trapela nel credo del collezionista Karl Hobrecker, la cui ricca raccolta di libri per bambini viene presentata al pubblico nella sua opera. Per coloro a cui non lo dicesse la persona amichevole e cordiale dell'autore, a cui non lo comunicasse ogni pagina del libro, basterebbe pensare che il settore del collezionismo di libri per bambini lo poteva scoprire solo chi avesse mantenuto sempre la fiducia nella gioia infantile. La gioia dei bambini è infatti l'origine della sua biblioteca, e di essa avrà bisogno, per poter prosperare, anche ogni altra analoga collezione.Un libro, anzi, una sola pagina di libro, una semplice illustrazione in un esemplare antico, avuto magari in eredità dalla mamma e dalla nonna, può essere il punto fermo, il perno attorno a cui si avvolge la prima tenera radice di questa passione. Non importa se la copertina è mezzo staccata, fa niente se mancano delle pagine e se qualche mano maldestra ha colorato le xilografie. La caccia all'esemplare di pregio trova la sua giustificazione, ma proprio qui il pedante si romperà l'osso del collo. Ed è un bene che la patina lasciata dalle manine sporche posate sulle pagine tenga lontano il bibliofilo snob. Quando venticinque anni fa Hobrecker cominciò la sua collezione, i vecchi libri per bambini erano considerati carta da macero; egli è stato il primo a offrire loro un rifugio, dove per un po' saranno protetti dalla distruzione. Tra le molte migliaia di pubblicazioni che riempiono la sua libreria alcune centinaia si possono trovare solo da lui; si tratta di esemplari unici, l'ultima copia sopravvissuta. Hobrecker, primo archivista di libri per bambini, non si presenta al pubblico con quella dignità e severità che spetterebbe al suo grado. Non cerca l'approvazione per il suo lavoro quanto piuttosto la condivisione della bellezza che ne è derivata. Tutti gli elementi di erudizione, in particolare un'appendice bibliografica comprendente circa duecento tra i titoli più importanti, sono utili per il collezionista ma non disturbano il non addetto ai lavori. | << | < | > | >> |Pagina 105
L'esistenza del collezionista è dunque tesa in modo dialettico tra i poli
dell'ordine e del disordine. Naturalmente essa è anche legata ad altre e
numerose cose. È legata a un rapporto assai complesso con il possesso, sul quale
più avanti dovremo soffermarci. Si tratta di un rapporto
con le cose che non ne esalta il valore funzionale e dunque l'utilità, la
possibilità di adoperarle, quanto piuttosto
le studia e le ama come si ama la scena, il teatro del loro
destino. L'incanto più profondo del collezionista è quello di chiudere il
singolo oggetto in una sfera d'influenza
in cui esso s'irrigidisce, mentre l'ultimo brivido – quello
di averlo acquistato – lo abbandona rapidamente. Tutto
quello che viene ricordato, pensato, saputo si trasforma in
piedistallo, cornice, base, sigillo di proprietà. Periodo, luogo, edizione,
proprietario precedente formano per il vero
collezionista, in ogni singolo oggetto della sua proprietà,
una magica enciclopedia che nella sua sostanza è il destino dell'oggetto. E
dunque in questo ambito ristretto che si
può presagire come i grandi fisiognomici – e i collezionisti
sono grandi fisiognomici del mondo delle cose – si facciano interpreti del fato.
Basta osservare come un collezionista tocchi e muova i suoi oggetti in una
vetrina. Appena li ha tra le mani, pare guardare rapito attraverso di loro,
nella loro lontananza. Tanto potrei raccontare del lato magico
del collezionista, del suo aspetto di vegliardo.
Habent sua fata libelli
fu forse pensata come una frase generica sui libri. Libri come la
Divina Commedia
o l'
Etica
di Spinoza o
L'origine delle specie
hanno un proprio destino. Il collezionista interpreta in un altro modo questo
detto latino. Per lui non sono tanto i libri quanto gli esemplari ad avere un
loro proprio destino. E, nel senso che lui dà a questo detto, il destino
migliore che possa capitare all'esemplare è
quello di imbattersi in lui stesso, ossia nella sua collezione.
Non sto esagerando: per l'autentico bibliomane l'acquisto
di un vecchio libro significa la sua rinascita. E in questo
si manifesta quell'aspetto infantile che, nel collezionista,
si compenetra con quello del vegliardo. I bambini hanno
infatti la capacità di rinnovare la vita come pratica eterna
e spensierata. Per i bambini collezionare oggetti è solo
uno tra i tanti
metodi di rinnovamento, un altro è dipingere gli
oggetti, un altro è ritagliare, un altro ancora è ricalcare e
c'è poi l'intera gamma dei modi infantili di appropriarsi
delle cose, dall'afferrare al nominare. Rinnovare il vecchio
mondo – questo è la spinta più profonda presente nel desiderio del
collezionista, acquistare qualcosa di nuovo; e
per questo il collezionista di libri antichi è più vicino alla
sorgente da cui nasce il collezionismo di quanto non lo sia
chi si interessa di ristampe per bibliofili. E ora alcune parole su come i libri
varchino la soglia di una collezione, su
come diventino di proprietà del collezionista: insomma,
qualcosa sulla storia del loro acquisto.
[...]
L'atteggiamento del collezionista verso gli oggetti della sua raccolta ha origine dal sentimento di obbligazione che lega il proprietario alla sua proprietà. Esso è dunque, nel senso più alto, l'atteggiamento dell'erede. Il titolo di nobiltà di una collezione sarà rappresentato sempre dalla sua ereditabilità. Quando faccio un'affermazione di questo genere sono – vi deve essere chiaro – perfettamente consapevole di quanto una tale descrizione del mondo di rappresentazioni proprie del collezionista rafforzerà in molti di voi la convinzione circa l'inattualità di questa passione, nonché la diffidenza nei confronti del collezionista come tipo sociale. Niente è più lontano dai miei propositi che quello di scuotervi da tale convinzione e da questa diffidenza. Basterebbe a questo proposito una sola osservazione: il fenomeno del collezionismo perde il suo senso con il venir meno del suo soggetto. Se le collezioni pubbliche possono essere più corrette dal punto di vista sociale e maggiormente utili da quello scientifico rispetto a quelle private, è solo in queste ultime che gli oggetti affermano i propri diritti. Del resto so che per il tipo sociale a cui qui mi riferisco, il collezionista che io, un po' ex officio, ho rappresentato al vostro cospetto, è arrivata la notte. Ma, come dice Hegel, solo con il buio la nottola di Minerva spicca il volo. Solo con la sua scomparsa il collezionista viene compreso. La mezzanotte è passata da un po' e ho davanti a me solo l'ultima cassa che è a metà. Pensieri diversi da quelli che vi ho raccontato finora si stanno impadronendo di me. Non pensieri, ma immagini, ricordi. Ricordi delle città in cui ho fatto tante scoperte: Riga, Napoli, Monaco, Danzica, Mosca, Firenze, Basilea, Parigi; ricordi dei sontuosi locali di Rosenthal a Monaco, dello Stockturm di Danzica dove abitava lo scomparso Hans Rhaue, del fetido deposito di libri Süssengut a Berlino-Neukölln; ricordi delle stanze che hanno ospitato questi libri: la mia stanzina da studente a Monaco, la mia camera a Berna; memorie di solitudine a Iseltwaid sul lago di Brienz e infine ricordi della mia camera da ragazzo, da cui provengono solo quattro o cinque delle diverse migliaia di libri che cominciano a torreggiare intorno a me. Gioia del collezionista! Gioia dell'uomo privato! Dietro a nessun altro si è cercato meno, e nessuno in questa situazione si è trovato meglio di lui che, sotto una maschera alla Spitzweg, ha potuto continuare a condurre la sua indecorosa esistenza. Nel suo intimo si sono insediati degli spiriti, o perlomeno degli spiritelli, che fanno sì che per il collezionista – quello vero, come deve essere – il possesso sia il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose: non come se le cose vivessero in lui, piuttosto è egli stesso che abita in loro. E io vi ho qui oggi presentato una delle sue dimore, i cui mattoni sono i libri; e adesso, come è giusto, vi si ritira. | << | < | > | >> |Pagina 129Divorare libri. Una metafora curiosa che spinge a riflettere. Infatti, nell'atto di ingerire nessun mondo delle forme viene assimilato, scomposto e distrutto come nella prosa narrativa. Forse è possibile stabilire un confronto tra il leggere e il mangiare. Nel fare ciò bisogna tenere presente soprattutto una cosa: che le ragioni che determinano il mangiare sono diverse rispetto a quelle che ci spingono a leggere. La vecchia teoria alimentare, a questo proposito, si rivela istruttiva perché ha il suo punto di partenza nell'atto del mangiare; essa sosteneva che ci nutriamo attraverso l'assimilazione degli spiriti delle cose che abbiamo ingerito. Ora, naturalmente noi non ci nutriamo in questo modo, e tuttavia mangiamo per assimilazione, che è pur sempre qualcosa che va al di là del mero bisogno di sopravvivenza. Nello stesso modo in cui assimiliamo, noi leggiamo. Leggiamo dunque non per estendere la nostra esperienza, il nostro patrimonio di memoria e di dati acquisiti; quest'ultima posizione seguirebbe piuttosto quelle teorie dell'alimentazione di tipo sostitutivo secondo cui dal sangue che consumiamo deriva il nostro sangue, dalle ossa che mangiamo derivano le nostre ossa e così via. Ma le cose non sono così semplici. Noi non leggiamo per accrescere le nostre esperienze, ma per accrescere noi stessi. In particolare i bambini, poi, leggono non per empatia bensì per assimilazione. Il leggere dei bambini è in un rapporto molto stretto non con la loro formazione o con la loro conoscenza del mondo, ma con la loro crescita e con il loro potere. Per questa ragione la lettura fa crescere maggiormente quando c'è qualcosa di geniale nascosto nei libri che i bambini leggono. Questa è la particolarità di ciò che avviene con il libro per bambini.| << | < | > | >> |Pagina 131| << | < | > | >> |Pagina 159Alla base dell'opera di Karl Gröber, Kinderspielzeug aus alter Zeit, sta la rinuncia. L'autore si prefigge di non trattare il gioco infantile, per limitarsi esplicitamente al suo tema e dedicarsi interamente alla storia del giocattolo. L'autore si è concentrato esclusivamente sull'ambito della civiltà europea contravvenendo alla coerenza del suo metodo. Se in questo modo la Germania costituisce il centro geografico, per questo settore, essa ne è anche il centro spirituale, in quanto buona parte dei più bei giocattoli che incontriamo nei musei e nelle stanze dei bambini possono essere definiti un regalo della Germania all'Europa. Norimberga è la patria dei soldatini di piombo e di curatissimi animaletti dell'arca di Noè; la più antica casa delle bambole che si conosca viene da Monaco. Ma anche chi non è interessato a sentir parlare di primati, che in fondo non dicono molto, ammetterà che le bambole di legno di Sonnenberg, gli alberi fatti con i trucioli di legno tipici dell'Erzgebirge, la fortezza di Oberammergau, i negozietti di spezie e di cuffie, la festa del raccolto in stagno di Hannover sono degli insuperabili modelli di una semplicissima bellezza. Questi giocattoli non sono stati inventati da fabbricanti specializzati ma videro la luce nelle botteghe di silografi, intagliatori di legno, stagnini ecc. La produzione del giocattolo non assume la forma di una professione specifica prima del XIX secolo. Stile e bellezza delle tipologie più antiche possono essere compresi solo se si prende in considerazione il fatto che il giocattolo era un prodotto secondario nell'attività delle numerose corporazioni, rigidamente chiuse, ciascuna delle quali poteva fabbricare solo quanto rientrava nel proprio ambito. Quando poi, nel corso del XVIII secolo, fecero la loro comparsa i primi tentativi di una produzione specializzata, questi si scontrarono con i limiti posti dalle corporazioni. Esse di fatto vietavano al tornitore di dipingere le bamboline che lui stesso aveva realizzato o, quando un giocattolo comportava l'impiego di materiali differenti, costringevano gli artigiani a suddividersi il lavoro, assumendosi ciascuno l'onere di una fase della produzione, con la conseguenza di aumentare il costo del prodotto. Si capisce dunque perché all'inizio la distribuzione e la vendita al dettaglio del giocattolo non fossero effettuate da una determinata categoria di commercianti. Dal tornitore si trovavano gli animaletti di legno intagliato, dai calderai i soldatini di piombo, le figurine di zucchero dal pasticcere e le bamboline di cera dal produttore di candele. Il commercio, la vendita all'ingrosso tramite intermediari, era leggermente diversa. Anche questa forma di "distribuzione" ha fatto la sua comparsa per la prima volta a Norimberga, dove aziende d'esportazione iniziarono ad acquistare all'ingrosso giocattoli prodotti nei dintorni, tra le mura domestiche, e a rivenderli al minuto. Sostanzialmente, con l'imporsi della Riforma, molti artisti che prima lavoravano per la Chiesa furono costretti a "passare all'arte industriale e a sostituire" la produzione "delle opere di grande formato con oggetti più piccoli adatti all'ambiente domestico". Si arrivò così alla grande diffusione di quel minuscolo mondo di oggetti che in passato faceva la gioia dei piccini negli armadi dei giocattoli e dei grandi negli scarabattoli delle camere delle meraviglie; nasceva il "gingillo" di Norimberga, che con la sua fama ha avviato alla finora indiscussa supremazia dei giocattoli tedeschi sul mercato mondiale. Se si prende in considerazione tutta la storia del giocattolo, si vede come il formato abbia avuto un'importanza molto maggiore di quanto si pensi. A partire dalla seconda metà del XIX secolo inizia la decadenza di questi oggetti, i giocattoli diventano più grandi e perdono il loro carattere minuto e semplice. Il bambino ora ha una sua camera per giocare, uno scaffale dove può riporre i suoi libri separati da quelli dei genitori. Non vi è dubbio, i vecchi libriccini, di piccolo formato, richiedevano una presenza più forte della madre, mentre i nuovi libri in quarto con la loro dolcezza piatta e artificiale sono fatti per non notare l'assenza materna. Si è dato così inizio a una emancipazione del giocattolo; quanto più si afferma l'industrializzazione, tanto più il giocattolo si sottrae al controllo della famiglia diventando più estraneo ai bambini ma anche ai genitori. | << | < | > | >> |Pagina 168[...] C'è voluto parecchio tempo prima di capire che i bambini non sono uomini e donne in miniatura, per non parlare delle bambole che li rappresenterebbero. È noto che anche il vestiario per bambini si è emancipato da quello degli adulti solo recentemente e precisamente nel secolo scorso. E talvolta potrebbe sembrare che il nostro secolo sia andato un passo oltre e, lungi dal rivolgersi ai bambini come a piccoli uomini o piccole donne, li consideri esseri umani con riserva. Nella vita dei bambini si sono scoperti i lati crudeli, grotteschi e feroci. Mentre i pedagoghi pii continuano a inseguire i loro sogni rousseauiani, autori come Ringelnatz e pittori come Klee hanno individuato nel bambino anche un elemento dispotico e disumano. Lontani dal mondo e sfrontati sono i bambini. Dopo tutti i sentimentalismi di un rinato Biedermeier, Mynona ha più che mai ragione quando, nel 1916, propone: "Se si vuole che i bambini crescano come si deve, non bisogna nasconder loro alcunché dell'umanità. La loro innocenza provvede già senza volerlo a fornire tutte le barriere necessarie: e più tardi, quando a poco a poco queste barriere si allargheranno, il nuovo troverà gli animi preparati. Che i bambini ridano di tutto, anche dei lati oscuri della vita, è un modo magnifico per estendere la loro raggiante serenità sugli aspetti più squallidi e tristi dell'esistenza [...]. Piccoli attentati dinamitardi perfettamente riusciti, con principi che vanno a pezzi, facili da guarire. Grandi magazzini con l'innesco automatico di incendi, scassinamenti, furti. Vittime assassinabili in varia guisa e relativi pupazzi assassini con tutti gli strumenti del caso [...]. Almeno la ghigliottina e un capestro non dovrebbero mai mancare tra i loro giochi".Cose come queste non si trovano qui. Una, però, non va dimenticata: nessun adulto, pedagogo, fabbricante o letterato, sa trasformare i giochi come fanno i bambini giocando. Una volta nascosta, fatta a pezzi, riparata, anche la bambola più regale diventa una buona compagna proletaria nella comunità dei giochi infantili. | << | < | > | >> |Pagina 244Il liceo classico [1913]È abbastanza facile fare polemica sulle lacune e gli errori nell'insegnamento, scagliarsi contro un determinato modo di insegnare, o sostenere una nuova suddivisione del programma. Ben più complesso è entrare in campo contro la distrazione, combattere la stupidità. È anzi praticamente impossibile: si possono solo fornire delle prove. Nell'articolo precedente abbiamo cercato di sviluppare questo compito ingrato nei riguardi dell'insegnamento del tedesco e della storia. Ancora più difficile è fare la stessa cosa per le materie umanistiche. Non sappiamo neppure quale sia lo scopo di questo insegnamento umanistico (mentre sappiamo, almeno vagamente, quale sia lo scopo dell'insegnamento del tedesco e della storia in una scuola moderna). Confessiamo di avere in fondo molta simpatia per la scuola classica. La amiamo con una sorta di caparbio accanimento perché vediamo in essa una concezione educativa che ha conservato una nobile serenità e si è salvata dall'utilitarismo di matrice darwiniana di tutta la nostra pedagogia. Ma se leggiamo gli atti degli "Amici del liceo classico", sentiamo con stupore affermare tra l'unanime consenso che la conoscenza della lingua greca è di grande utilità a medici e giuristi. Inoltre il conferenziere ricorda con gratitudine gli anni in cui... e qui seguono frasi tipiche di chi, essendoci ormai passato, si liscia compiaciuto il pelo e fa l'occhiolino ai "giovani". Il tono con cui questo signore loda serenamente la "concezione idealistica", e insieme la conoscenza di molte parole straniere che il liceo gli ha "fornito", per noi è terrificante. Risulta penoso il tronfio sentimentalismo di chi, dopo quarant'anni, fa ancora risuonare al pranzo di famiglia (tra il pesce e l'arrosto) i primi versi dell' Odissea, di chi ancora oggi conosce la grammatica dell'apodosi meglio di suo figlio che è all'ultimo anno di liceo. Altamente sospetta è la complice intimità fra pedanteria e liceo classico. Sentiamo profondamente che, proprio perché i nostri padri collegano così strettamente ogni sorta di sentimenti polverosi con Sofocle e Platone, noi dobbiamo liberarci di questa atmosfera di famiglia del ginnasio. Eppure abbiamo un vago sentore, alcuni di noi forse addirittura un'idea, di come dovrebbe essere il nostro liceo. Non sarà un liceo in cui (nel migliore dei casi) venga capita la grecità alla Winckelmann (da tempo la "nobile semplicità e quieta grandezza" sono diventate il triste patrimonio dell'istruzione superiore per signorine). Il nostro liceo dovrebbe richiamarsi a Nietzsche e al suo saggio Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben [Sull'utilità e il danno della storia per la vita]; confidando fermamente in una gioventù che segua Nietzsche con entusiasmo, il liceo dovrebbe travolgere questi piccoli riformatori della pedagogia odierna, invece di farsi modernista e di proclamare a tutti gli angoli della strada una nuova recondita utilità dell'istituzione. La grecità di un simile liceo non dovrebbe essere un inverosimile regno di "armonie" e di "ideali", ma la grecità di Pericle, che disprezzava le donne e amava gli uomini, una grecità aristocratica, con la schiavitù, con i miti oscuri di Eschilo. Queste cose dovrebbe guardare in faccia il nostro liceo classico. In esso allora si potrebbe anche insegnare la filosofia greca, che oggi è proibita come è proibita la lettura di Wedekind. Oggi, infatti, si impara da un manuale che Talete pensava che l'elemento originario fosse l'acqua, Eraclito il fuoco, Anassagora invece il nous, Empedocle l'amore e l'odio (e si gettò nell'Etna) e Democrito l'atomo; e che i Sofisti minarono l'antica fede (un simile insegnamento è di quelli che discreditano al massimo la filosofia). Come già detto, noi conosciamo e intravediamo un liceo classico che potremmo amare. In una scuola del genere una scultura greca sarebbe qualcosa di più di una misera riproduzione su cartone appesa ogni tanto in aula per quattro settimane. Un liceo diverso che potrebbe esserci almeno di aiuto. I pedagoghi si domanderanno a questo punto se sarà loro possibile creare per noi una scuola così, ostile al presente, non democratica, lieta e determinata a non scendere a comodi compromessi con il liceo scientifico, la scuola tecnica e altre scuole del genere. Ma se noi, in nome dei due millenni trascorsi dopo Cristo, non possiamo ancora avere una scuola così, ci congederemo in modo serio e dignitoso dal liceo. Basta dunque con questo umanesimo esangue! Oggi nelle ore di lettura abbiamo l'estetica senza avere una formazione estetica. Chiacchierare sulla [...] [moderazione] senza avere la minima idea della mancanza di misura dell'Asia antica; affrontare i Dialoghi di Platone senza aver letto il Simposio (per intero, miei signori, per intero!). Ma riconosciamolo ancora una volta: non sappiamo di che si parli quando ci viene messa davanti questa odierna cultura umanistica. Di ogni libro classico leggiamo il "fiore", solo il primo della classe è in grado di capire il greco senza un aiuto, solo i secchioni patentati si dedicano volontariamente a lavori umanistici. Noi studenti che siamo direttamente coinvolti ne abbiamo fin sopra i capelli di questa ipocrisia che copre con il mantello "dell'armonia greca" la mancanza di spiritualità e l'agnosticismo! | << | < | > | >> |Pagina 251La psicologia e l'etica sono i poli attorno ai quali si raggruppa la pedagogia borghese. Non si deve supporre che si tratti di una disciplina in stagnazione. Sono infatti attive in essa forze diligenti e in alcuni casi anche significative. Solo che esse non possono alcunché contro il dato di fatto che la mentalità borghese, qui come in tutti gli altri ambiti, è scissa in modo non dialettico e al suo interno è lacerata. Vi è, da un lato, la questione circa la natura dell'allievo – psicologia dell'infanzia e dell'età giovanile – e, dall'altro, lo scopo dell'educazione, l'uomo completo, il cittadino. La pedagogia ufficiale è la metodologia che cerca di adattare questi due momenti l'uno all'altro – da una parte l'astratta disposizione naturale e dall'altra l'ideale chimerico –, e i suoi progressi vanno nella direzione della graduale sostituzione della violenza con l'astuzia. La società borghese ipostatizza un essere bambino o un essere ragazzo in termini assoluti, a cui associa il nirvana dei Wandervögel o dei boy scout; ipostatizza allo stesso modo un uomo o un cittadino assoluto che si fa bello con gli attributi della filosofia idealista. Nella realtà si tratta di due maschere ben affiatate del concittadino virtuoso, socialmente affidabile e cosciente del proprio stato. Questo è il carattere inconscio di questo tipo di educazione a cui corrisponde una strategia delle insinuazioni e delle empatie. "I bambini hanno bisogno di noi più di quanto noi abbiamo bisogno di loro" è la massima non dichiarata di questa classe sociale, massima che sta alla base anche delle più sottili speculazioni della sua pedagogia, allo stesso modo in cui sta alla base della sua pratica nei confronti della procreazione. La prole della borghesia sta davanti alla borghesia come erede; quella dei diseredati ha invece la funzione di aiutare, vendicare, liberare. Questa è la differenza più drastica. Le cui conseguenze pedagogiche sono incalcolabili. In primis la pedagogia proletaria non parte da due dati astratti bensì da uno concreto. Il bambino proletario nasce all'interno della sua classe. Più precisamente, nella nuova generazione della sua classe, non nella famiglia; prima di tutto è un elemento di questa nuova generazione e quello che diventerà non è determinato da uno scopo educativo dottrinario, ma dalla situazione della sua classe. Questa situazione lo caratterizza fin dal primo momento; già da quando è in grembo alla madre, il contatto con la vita stessa è fatto in modo da acuire la sua coscienza alla scuola della penuria e della sofferenza. Quella che poi diventerà coscienza di classe. Poiché la famiglia proletaria non è per il bambino una protezione migliore, nei riguardi della tagliente conoscenza sociale, di quanto lo possa essere il suo logoro cappottino estivo contro i rigori dei freddi venti invernali. Edwin Hoernle fornisce numerosi esempi di organizzazioni rivoluzionarie che vedono coinvolti dei bambini, scioperi scolastici spontanei, scioperi in occasione della raccolta delle patate ecc. Quello che differenzia le sue osservazioni rispetto anche a quelle più autentiche e sincere da parte borghese è il fatto che in esse il bambino non è mai preso sul serio; la natura infantile stessa, ma anche la situazione sociale del bambino, non possono mai rappresentare per il "riformatore scolastico" un problema reale. Hoernle ha dedicato proprio al "riformatore scolastico" l'ultimo insistente capitolo del suo libro. Affronta il tema dei "riformatori scolastici austro-marxisti" e dello "pseudorivoluzionario idealismo pedagogico" che innalzano proteste "contro la politicizzazione del bambino". Ma – dimostra Hoernle – cosa sono la scuola primaria e professionale, il militarismo, la Chiesa, le associazioni giovanili e i giovani esploratori, se si considera la loro funzione celata ma chiara, se non degli strumenti per l'istruzione antiproletaria dei proletari? A tutto ciò si contrappone l'educazione comunista, non però in forma difensiva, ma come una funzione della lotta di classe. Della lotta della classe lavoratrice per i figli che le appartengono e per i quali essa esiste. | << | < | > | >> |Pagina 255"A Yverdon educatore dell'umanità" – così si legge sulla lapide della tomba di Pestalozzi che, in modo chiaro e ben articolato, scandisce i periodi della sua vita. La scuola di Yverdon, l'ultima grande istituzione fondata da Pestalozzi, aveva – come tutte le sue opere – un carattere paradossale. Quando Pestalozzi, quasi sessantenne, se ne andò da Münchenbuchsee, pensava di aver concluso la sua opera. Per "Iferten" aveva nominato una commissione che si occupasse di dirigere la scuola. Non appena però uno dei suoi membri più autorevoli si ritirò (circostanza che non si fece attendere a lungo), tutto ricadde nuovamente sulle spalle di Pestalozzi. All'epoca egli aveva superato i sessant'anni ed era all'apice della sua fama, era un'autorità indiscussa, un maestro d'Europa, e tuttavia il suo impegno era, e restava, quello del passato, del suo primo esperimento, a Neuhof – il compito di aiutare una comunità in divenire a superare le difficoltà, dall'organizzazione economica alle devozioni. è plausibile che la personalità dell'uomo, da sempre scissa sotto l'influenza di tali contraddizioni, abbia assunto le sue forme più dure, ma anche più nobili. L'attendibilità e la fedeltà del lavoro di Zander è dimostrata dal fatto che, nel descrivere l'istituto, egli lo presenti come la proiezione di un carattere forte in una comunità ristretta. E sotto nessun aspetto questa comunità potrebbe apparire più affascinante e, sì, sotto nessun aspetto anche oggigiorno potrebbe essere più istruttiva in una prospettiva pedagogica. Yverdon era un congresso di pedagogia permanente. I suoi delegati – studenti, insegnanti, visitatori – provenivano da tutte le parti del mondo. Da Hannover, Monaco, Königsberg, Würzburg, come anche da Klagenfurt o Vienna, Parigi, Marsiglia, Orléans, Milano, Napoli, Madrid, Malaga, Riga, Smirne, Londra, Filadelfia, Baltimora e Città del Capo. Nelle lezioni, come in tutte le altre attività educative, Pestalozzi non vedeva che esperimenti, ai quali ciascuno poteva prendere parte. Non solo entravano nel corso delle lezioni ad ascoltarlo degli estranei, anche solo per breve tempo, ma i docenti stessi erano più di una volta chiamati a sedersi tra gli alunni. E spesso capitava di trovare adulti seduti ai banchi di scuola. Nelle testimonianze raccolte, ogni tanto si trova qualche lamentela circa questa abitudine, che alle volte arrecava disturbo allo svolgimento delle lezioni. Molto più frequente, ma anche molto più significativo, era evidentemente il fatto che gli insegnanti accogliessero, senza fatica, estranei. Non si trattava di classi nel senso tradizionale del termine. "Il costante movimento degli allievi durante le lezioni, il loro stare seduti, il loro alzarsi, l'andare via e il ritornare, il formarsi come lo sciogliersi di gruppi aveva suscitato sorpresa in non pochi visitatori." Non era raro che in uno stesso locale vi fossero riuniti gruppi di lavoro totalmente diversi e le numerose sezioni di ripetizioni – come è testimoniato – creavano nell'aula un ronzio simile a quello delle api in un alveare. La natura di Pestalozzi, l'incalcolabile susseguirsi dei suoi impulsi, lo sguardo fulmineo e amoroso degli occhi che spesso brillavano come stelle emanando i loro raggi e che spesso si ritiravano, come a guardare un immenso spazio interiore, e poi il suo ammutolire di rabbia, tutto ciò ha certamente determinato l'impegno enorme – così grande da sfiorare il limite dell'intollerabile – di tutti i membri di questa scuola, per i quali non esistevano vacanze. L'altra origine di questo ordine era poi da ricercare nella necessità. A Yverdon le condizioni di vita erano spartane. "I suoi beni sono un armadio nel pianerottolo, uno scrittoio nella camera dove dormono i piccoli, una sedia e un letto nel dormitorio dei piccoli", scriveva un maestro. In questa stanza dormivano sessanta bambini che, al mattino, venivano portati – alle sette, direttamente dalla prima ora di lezione, a cui andavano digiuni e senza essersi lavati – in cortile e posti davanti a lunghi tubi di legno con la faccia esposta a getti di acqua fredda che usciva da appositi buchi. Non esistevano bacinelle per lavarsi. Ma anche questo è uno dei grandi e fecondi paradossi di Pestalozzi, ossia che questi metodi spartani fossero totalmente immuni da qualsiasi ambizione bellica e militare; non vi era traccia, in essi, del risentimento che oggi si cela volentieri dietro l'ideale del rigore. La mentalità che regnava a Yverdon era quella spartiate della classe borghese che si stava appunto emancipando. La durezza che i bambini dovevano avvertire non era quella degli uomini ma solo la durezza del legno, della pietra, del ferro o di altri materiali, che più avanti avrebbero lavorato, occupando in modo onorevole il loro posto tra i concittadini. Pestalozzi chiamava gymnastique industrielle, "ginnastica industriale", la lezione di lavoro manuale, che egli legava all'umanesimo, così come lo intendeva, nel senso più stretto. E comunque questo era il modo in cui il vecchio Pestalozzi prendeva posizione nei confronti di fenomeni problematici come l'"erudizione libresca" del neoumanesimo. Invece di combatterli, li modificava in silenzio. Era un uomo di grande humour, non abbiamo alcun motivo per vedere, nella ricompensa che ogni anno dava ai suoi migliori tiratori tra i bambini, qualcosa di diverso da una profonda ironia: affidava loro delle pecorelle da pascolare. Nel 1808, all'apice dello splendore dell'Istituto, Pestalozzi scriveva a Stapfer: "Amico, noi credevamo di seminare del grano per nutrire i bisognosi, che sono a noi vicini, e abbiamo invece piantato un albero che allarga i suoi rami su tutta la terra". In questo modo Pestalozzi traccia un arco, in realtà un arcobaleno – che si eleva sul lavoro della sua vita. Non si era dimenticato di Neuhof, dove, sconosciuto, aveva fatto con i bambini dei poveri quello che a Yverdon avrebbe fatto con quelli dei ricchi, di fronte allo sguardo delle persone più dotte e dei potenti. "La sua vecchia aspirazione era di raccogliere attorno a sé una schiera di bambini poveri e abbandonati per poter essere per loro un padre. Invece diventò il direttore di un istituto di fama mondiale. Quante volte soffrì per questa rinuncia, quanto spesso sognava la sua scuola per i poveri! Il vecchio Pestalozzi fu felicissimo quando, nel 1818, Schmid riuscì a creare un istituto per i poveri vicino a Yverdon, a Clindy." Questo va tenuto presente quando si parla di Pestalozzi e ancor di più quando si fa riferimento all'"educazione della persona". Poiché egli la concepiva in modo differente rispetto ai suoi seguaci ultrazelanti pappagalli. Non si era formato, non aveva colto l'immagine della personalità attraverso il rapporto con bambini appartenenti a ceti privilegiati. I poveri e i deboli gli avevano insegnato come potessero essere scomodi i loro tratti, e soprattutto come possa aprirsi una via in momenti quanto mai imprevedibili. Questa personalità sgarbata, scorbutica, anzi minacciosa, che egli avvertiva profondamente in se stesso, era ciò che si aspettava che spuntasse, con un'attenzione costante, anzi tremando di ansia. Pestalozzi non aveva alcunché di esemplare. Quello che dava ai bambini, senza i quali non poteva vivere, non era il suo esempio, ma la mano: offriva loro una mano, per usare una delle sue espressioni preferite. Questa mano era sempre aperta, che fosse d'aiuto nel gioco o nel lavoro o che accarezzasse la fronte di un bambino che gli passava accanto. Una parte di questo è contenuta nella sua teoria, ma quella migliore è contenuta nella pratica a cui egli, a Yverdon, dedicò in maniera totalmente esclusiva le sue ultime forze. Non c'è altro da aggiungere a proposito dei meriti dell'opera che, per prima, si è occupata in modo veramente completo e approfondito di questa pratica. | << | < | > | >> |Pagina 348| << | < | |