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| << | < | > | >> |IndiceVII Introduzione. Cenni di inquadramento della disciplina 1 1 Generalità 1 1.1 Definizione della disciplina 1 1.2 Il linguaggio verbale umano 3 1.3 Segni, codice 5 2 Le proprietà della lingua 5 2.1 Biplanarità 5 2.2 Arbitrarietà 9 2.3 Doppia articolazione 10 2.4 Trasponibilità di mezzo 11 2.4.1 Lingua parlata e lingua scritta 14 2.5 Linearità e discretezza 15 2.6 Onnipotenza semantica, plurifunzionalità e riflessività 17 2.7 Produttività 18 2.8 Distanziamento e libertà da stimoli 19 2.9 Trasmissibilità culturale 20 2.10 Complessità sintattica 21 2.11 Equivocità 21 2.12 Lingua solo umana? 23 2.13 Definizione di 'lingua' e princìpi generali per la sua analisi 27 2.14 Livelli di analisi 29 3 Fonetica e fonologia 29 3.1 Fonetica 29 3.1.1 Apparato fonatorio e meccanismo di fonazione 31 3.1.2 Consonanti 32 3.1.3 Vocali 34 3.1.4 Semivocali 35 3.1.5 Trascrizione fonetica 39 3.2 Fonologia 39 3.2.1 Foni, fonemi, allofoni 41 3.2.2 Fonemi e tratti distintivi 42 3.2.3 I fonemi dell'italiano 45 3.2.4 Sillabe 46 3.2.5 Fatti prosodici (o soprasegmentali) 51 4 Morfologia 51 4.1 Morfemi 54 4.2 Tipi di morfemi 59 4.3 Formazione delle parole 64 4.4 Flessione e categorie grammaticali 69 5 Sintassi 69 5.1 Analisi in costituenti immediati 75 5.2 Sintagmi 78 5.3 Funzioni sintattiche, strutturazione delle frasi e ordine dei costituenti 84 5.4 Elementi minimi di grammatica generativa 89 5.5 Oltre la frase 95 6 Semantica 95 6.1 Il significato 98 6.2 Rapporti di significato fra lessemi 102 6.3 L'analisi del significato: semantica componenziale 106 6.4 Cenni di semantica prototipica 108 6.5 Elementi di semantica frasale 115 7 Cenni di tipologia linguistica 115 7.1 Le lingue del mondo 122 7.2 Tipologia morfologica 129 7.3 Tipologia sintattica 129 7.3.1 Tipologia dell'ordine dei costituenti 132 7.3.2 Ergatività 137 8 Questioni, materiali ed esercizi 163 Appendice. Soluzioni di alcuni quesiti ed esercizi del Capitolo 8 171 Bibliografia essenziale commentata 185 Indice analitico |
| << | < | > | >> |Pagina VIILa linguistica, lo studio scientifico delle lingue, è una disciplina relativamente giovane. Anche se le riflessioni sul linguaggio e sulla grammatica non sono certo estranee al mondo antico, medievale e moderno, è infatti non più in là della prima metà dell'Ottocento che la linguistica si sviluppa come specializzazione autonoma, profilandosi nella sua fase iniziale soprattutto come studio storico-comparativo delle lingue indoeuropee. E ancor più giovane è la linguistica generale, che in quanto disciplina teorica non ha ancora un secolo di vita, facendosi convenzionalmente risalire il suo atto di nascita alla pubblicazione postuma delle lezioni ginevrine di Ferdinand de Saussure, il famoso Corso di linguistica generale (1916). Il posto della linguistica in generale, e della linguistica generale in particolare, nello sviluppo del pensiero del nostro secolo e nel quadro delle attuali scienze umane è piuttosto peculiare. Dopo aver conosciuto un notevole progresso fra gli anni Venti e Cinquanta del secolo scorso, soprattutto grazie alle correnti note nel loro insieme come 'linguistica strutturale' o più ampiamente 'strutturalismo', negli anni Sessanta la linguistica generale era andata acquisendo un ruolo trainante fra le scienze umane, diventando spesso modello di riferimento, per rigore di metodo e per esplicitezza dei concetti, per molte altre discipline. Negli ultimi trent'anni tuttavia la linguistica generale, mentre paradossalmente da un lato ha visto al suo interno una vera esplosione di ricerche, metodi e teorie ed ha raggiunto alti gradi di raffinatezza teorica (in particolar modo — ma non solo — nella corrente nota come 'linguistica generativa' o 'generativismo'), dall'altro lato (forse anche a causa dei suoi sviluppi a volte altamente tecnicistici) ha perso buona parte della centralità che aveva conquistato, cosicché oggi appare a chi lavora nel campo delle scienze umane tutto sommato una disciplina un po' isolata ed anche esoterica. D'altra parte anche i modi di procedere, i metodi e gli strumenti di analisi della linguistica generale sono difficilmente riconducibili alla tradizione umanistica, ed hanno spesso più a che fare con la logica e le scienze esatte, o le scienze sociali, o addirittura le scienze della natura, che non con le discipline dello spirito. Sta di fatto che ancor oggi la linguistica generale, mentre è insegnata in Italia nelle Università da non molto più che un trentennio, non fa parte del bagaglio di conoscenze della cultura di base e del paradigma di materie che sono oggetto di insegnamento scolastico, talché gli studenti giungendo all'università dalle scuole medie superiori si trovano di solito di fronte ad una disciplina dai contorni del tutto nuovi ed ignoti, con la quale non hanno alcuna previa familiarità e che, richiedendo a volte una forma mentis particolare e basandosi su tecniche e prospettive di analisi diverse da quelle abituali nello studio letterario e storico, può risultare anche molto ostica. Il compito di questo corso consiste per l'appunto nel cercare di rendere accessibili i rudimenti della disciplina a studenti principianti, ma nel contempo di non sacrificare troppo, pur riducendola al minimo, la necessaria base di termini, nozioni e procedimenti tecnici senza la quale è vano sperare di introdursi davvero nella linguistica contemporanea. Conformemente a tale obiettivo, si è tentato di privilegiare nella spiegazione e nell'argomentazione la plausibilità e l'efficacia didattica rispetto all'approfondimento critico dei concetti e dei problemi. Questa scelta comporta ovviamente il rischio di semplificare troppo e di presentare come scontati e dati una volta per tutte punti e temi che sono invece aperti, dibattuti e fonte di problemi; d'altra parte, una presentazione troppo problematica dei concetti di base rischia spesso di risultare, anche per esperienza diretta dello scrivente, poco fruibile, se non controproducente, dal punto di vista didattico. Per ridurre la portata di questo rischio, si è comunque cercato di raccogliere qui una lista minimale di nozioni e concetti fondamentali per la determinazione dei quali si può sostenere che viga fra le diverse scuole di linguistica almeno un certo accordo; e si è evitato in ogni caso di entrare nei dettagli, laddove le cose cominciano subito a farsi più complicate e le diverse impostazioni a divergere anche nettamente. La presentazione della materia non è qui basata sullo sviluppo storico della linguistica e sulle sue correnti e scuole, bensì sulle nozioni, i concetti e i metodi usati nell'analisi del linguaggio. Un cenno riassuntivo di elementare inquadramento storico che serva da primo orientamento di massima nella multiforme e complessa articolazione della disciplina in termini di sviluppo del pensiero linguistico nel nostro secolo è pertanto dato nelle presenti righe (si veda comunque anche il commento alla Bibliografia essenziale, pp. 171-176). Trattazioni generali e sistemazioni già di notevole importanza dal punto di vista teorico per la linguistica generale si trovano nelle opere di autori della seconda metà dell'Ottocento, in particolare in Hermann Paul (1880), uno dei principali rappresentanti della scuola tedesca di linguistica comparativa detta dei 'neogrammatici' (Junggrammatiker), in Georg von der Gabelentz (1891), un altro studioso tedesco che è stato considerato un diretto precursore di alcune delle posizioni saussuriane, e nell'americano William D. Whitney (1876). Le idee fondanti dello strutturalismo, presenti essenzialmente nel Cours de linguistique générale di Saussure e ruotanti attorno alla considerazione della lingua come sistema in cui tout se tient ("tutto si tiene", "tutto è in interrelazione reciproca") e in cui quindi il valore di ogni elemento dipende dai suoi rapporti con gli altri elementi del sistema, hanno trovato sviluppo in diverse direzioni presso diverse scuole europee soprattutto fra gli anni Trenta e Cinquanta: la scuola di Praga (Roman Jakobson, Nikolaj S. Trubeckoj, Vilém Mathesius), la scuola di Copenaghen (Louis Hjelmslev, la cui teoria molto astratta e matematizzante va sotto il nome di 'glossematica'), la scuola parigina di André Martinet, la scuola di Londra (John R. Firth). Un tratto evidente di tali scuole (ma assente nella glossematica) è l'accentuazione data a una prospettiva funzionale o gra funzionalista, che considera il linguaggio in primo luogo come strumento di comunicazione e vede le strutture correlate con le funzioni. In America, a dispetto dell'orientamento antropologico e tipologico presente a inizio Novecento nell'opera di Edward Sapir, lo strutturalismo si diffonde invece in una versione fortemente neopositivistica e descrittiva, nota come 'distribuzionalismo' o 'strutturalismo tassonomico' (lo studioso più importante è Leonard Bloomfield), che mira ad analizzare la lingua sulla sola base comportamentale empiricamente verificabile dei messaggi in essa prodotti, prescindendo dalle funzioni e dal significato. Un'altra data capitale per la linguistica generale è il 1957, anno di pubblicazione della prima opera (Syntactic Structures) di Noam Chomsky, operante al M.I.T. di Boston, divenuto ben presto il linguista più influente e più noto dei nostri tempi. La linguistica chomskyana, nota come 'generativismo', affronta lo studio del linguaggio da una prospettiva formale (o formalista) e intende porsi in radicale contrapposizione allo strutturalismo e ad ogni altra corrente della linguistica che privilegi induttivamente i dati empirici. Ispirandosi a modelli da un lato matematizzanti e dall'altro psicologici, vede il linguaggio come una facoltà mentale basilarmente innata e con una sua organizzazione autonoma, da studiare con metodi rigorosamente deduttivi. Anche se i fondamenti e gli obiettivi ne sono rimasti pressoché invariati, la teoria generativa ha conosciuto nei suoi quasi cinquant'anni di vita un continuo ricambio dei risultati e significativi riorientamenti di indirizzo che ne hanno via via mutato l'assetto e le categorie principali, dalla 'teoria standard' della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta alla cosiddetta 'teoria dei princìpi e parametri' (o government and binding) degli anni Ottanta sino all'attuale 'programma minimalista'. Questo, assieme all'altissimo grado di sofisticazione tecnica raggiunto, fa sì che sia molto difficile per coloro che non partecipano dall'interno al programma di ricerca generativo capire e apprezzare dovutamente le sue tecniche e i suoi risultati e seguirne i progressi con piena cognizione di causa, talché si è progressivamente creato fra la linguistica generativa e gli altri modi di fare linguistica teorica e descrittiva un solco che oggi appare purtroppo relativamente netto. Anche per queste ragioni, nonostante che la grammatica generativa costituisca, soprattutto in America, il paradigma per eccellenza degli studi teorici in linguistica, è impresa estremamente ardua (che non sarà qui nemmeno perseguita) fornire in un corso istituzionale introduttivo gli elementi necessari per avvicinarsi da principianti ma in maniera competente a questo settore degli studi linguistici. Fra le altre correnti della linguistica generale contemporanea, oltre a modelli strutturalisti o poststrutturalisti come la 'tagmemica' dello studioso americano Kenneth L. Pike e come la 'grammatica di valenza' (o 'dipendenza') basata sull'opera del linguista francese Lucien Tesnière, hanno particolare rilevanza da un lato le teorie funzionali quali quelle della scuola inglese di Michael A.K. Halliday o della scuola di Amsterdam di Simon Dik, e dall'altro gli studi di tipologia linguistica, che, appoggiandosi di solito a principi molto più funzionalisti che formali, cercano di comprendere quali siano i meccanismi potenziali e attuati del linguaggio, e che cosa quindi sia universale e che cosa variabile nella struttura delle lingue, prendendo in considerazione i diversi modi in cui le disparate lingue di differenti famiglie linguistiche esistenti al mondo realizzano le categorie del sistema linguistico. Assunti decisamente funzionalisti sono alla base anche di teorie più particolari, come la 'morfologia naturale' di Wolfgang Dressler (professore a Vienna) e di altri autori europei, la 'sintassi funzionale-tipologica' dell'americano Talmy Givón, o anche la 'sintassi naturale' di John Haiman, altro studioso americano; che tendono a ridurre la portata del postulato saussuriano dell'arbitrarietà del segno, vedendo più di un aspetto della struttura delle lingue come riflettente in maniera iconica caratteri del mondo o dell'utente. Non mancano nel panorama odierno, tutt'altro, anche teorie cognitive o formali che si discostano più o meno recisamente dagli assiomi del generativismo, come da un lato la 'grammatica cognitiva' dello studioso americano Ronald W. Langacker, e dall'altro, su un versante fortemente logicizzante, la 'grammatica categoriale' o 'grammatica di Montague' (dal nome di un logico matematico americano prematuramente scomparso). Come si vede già da queste sintetiche annotazioni, il panorama odierno della linguistica generale è molto mosso e variegato: il mondo della ricerca linguistica si apre a ventaglio in una miriade di correnti e specializzazioni, a cui fa da pendant una quantità sempre crescente di lavori e di ricerche nei diversi campi e sottosettori dello scibile linguistico, a volte assai parcellizzate, talché non esiste più studioso che possa dominare con la dovuta profondità campi anche solo un po' diversi da quelli che pratica abitualmente. Ad aumentare la complessità del quadro (e si badi che non abbiamo fatto qui alcuna menzione di un altro importante settore degli studi linguistici in rigogliosa evoluzione, quello della linguistica storica), occorre infine segnalare che nell'ultimo quarantennio sono nate e si sono sviluppate aree disciplinari al confine della linguistica generale, ma che hanno sempre il linguaggio come fuoco d'attenzione principale, quali la sociolinguistica (studio delle interrelazioni fra linguaggio e società e dei fatti linguistici in quanto dotati di valore sociale), la psicolinguistica (studio delle interrelazioni fra linguaggio, mente e comportamento linguistico dei singoli parlanti), la linguistica antropologica o etnolinguistica (studio delle interrelazioni fra linguaggio, pensiero e cultura, in particolare presso società che non possiedano la scrittura), la pragmatica linguistica (studio del linguaggio come modo di agire), la linguistica applicata (e lo studio dell'acquisizione delle lingue seconde), la linguistica matematica e computazionale, eccetera. | << | < | > | >> |Pagina 102.4 Trasponibilità di mezzoIl significante dei segni linguistici, oltre ad essere doppiamente articolato, possiede un'altra proprietà molto importante, caratterizzante della lingua: può essere trasmesso o realizzato (sostanziato, attuato, manifestato) sia attraverso il mezzo aria, il canale fonico-acustico – sotto forma di sequenza di suoni e rumori prodotti dall'apparato fonatorio umano (bocca e altri organi interessati alla produzione del parlare) che si propagano come onde sonore e vengono ricevuti dall'apparato uditivo – sia attraverso il mezzo luce, il canale visivo o grafico – sotto forma di segni ('disegnini', lettere nei nostri alfabeti occidentali, tracciati sulla carta o su altro supporto solido e ricevuti tramite l'apparato visivo). A tale proprietà si dà il nome di 'trasponibilità di mezzo' (anche: 'trasferibilità di mezzo' o 'intercambiabilità del mezzo').
Anche se i segni linguistici possono essere trasmessi o oralmente o
graficamente, e in linea di principio ogni messaggio detto, parlato, è
traducibile, trasponibile in un equivalente messaggio scritto, e viceversa, il
carattere orale è tuttavia prioritario rispetto a quello visivo: il canale
fonico-acustico (o vocale-uditivo) appare per varie ragioni il canale primario,
talché spesso si dice anche che una delle proprietà del linguaggio verbale umano
è la
fonicità.
Occorre a questo punto aprire un
excursus
su parlato e scritto.
2.4.1 Lingua parlata e lingua scritta Il parlato – realizzazione del linguaggio verbale umano attraverso il mezzo fonico – è anzitutto prioritario antropologicamente rispetto allo scritto – realizzazione del linguaggio verbale umano attraverso il mezzo grafico. Tutte le lingue che hanno una forma e un uso scritti sono (o sono state) anche parlate, mentre non tutte le lingue parlate hanno anche una forma e un uso scritti: migliaia di lingue, soprattutto in Africa o in Oceania, non hanno una scrittura, non possiedono una convenzione di notazione grafica che permetta di usarle per la comunicazione scritta. Inoltre, l'importanza che risulta avere oggi per noi la scrittura è di data piuttosto recente, nello sviluppo storico dell'umanità. Ancora, il parlato ha anche nelle nostre culture moderne una netta prevalenza statistica: nella vita quotidiana normalmente noi parliamo molto di più di quanto scriviamo, e attraverso il canale orale facciamo molte più cose che non attraverso il canale scritto. C'è una priorità ontogenetica (relativa al singolo individuo) del parlato: ogni individuo umano impara prima, al momento della socializzazione primaria, e per via naturale, spontanea (senza bisogno di addestramento specifico) a parlare, e solo in un secondo tempo, e attraverso addestramento guidato specifico, a scrivere (da quanto notato nel capoverso precedente, si ricava inoltre che non tutti imparano (o sanno) anche (a) scrivere). C'è poi una priorità filogenetica (relativa alla specie umana) del parlato: nella storia della nostra specie, la scrittura si è sviluppata certamente molto tempo dopo il parlare. Le prime attestazioni giunteci di una forma scritta della lingua risalgono a non più di cinque millenni prima di Cristo (scritture pittografiche), e quelle di un sistema di scrittura vero e proprio, la scrittura cosiddetta cuneiforme presso i Sumeri, a circa il 3500 a.C. La scrittura alfabetica, quella che darà luogo al nostro alfabeto attuale, nasce probabilmente, sotto forma di scrittura consonantica che non registra le vocali (si veda par. 3.1.3), presso i Fenici attorno al 1300 a.C., come sviluppo della cosiddetta scrittura ugaritica. Dalla scrittura fenicia derivano nel corso del primo millennio a.C. l'alfabeto ebraico, l'alfabeto aramaico, base principale della futura scrittura araba, e l'alfabeto greco, da cui evolveranno l'alfabeto cirillico e quello latino, usato dalle lingue europee occidentali.
Invece le
origini del linguaggio
sono certamente molto più antiche. A prescindere dalle diverse ipotesi avanzate
circa il modo in cui il linguaggio è sorto (la questione è molto complessa, e
qui non vi accenniamo nemmeno), tutto porta in paleontologia a far risalire
molto indietro lungo l'albero genealogico degli ominidi l'origine del linguaggio
verbale, sotto forma evidentemente parlata: è ipotizzabile infatti che qualche
forma embrionale di comunicazione orale con segni linguistici fosse già presente
nell'
Homo habilis
e nell'
Homo erectus
(e quindi verso i tre milioni di anni fa). Sicuramente il linguaggio verbale era
presente nell'
Homo neanderthalensis
(100-50.000 anni fa) e a fortiori nell'
Homo sapiens sapiens.
Ling. verb. Homo habilis 3.000.000 a. | | | | | Homo erectus 1.000.000 a. | | | ____________|___________ 500.000 a. | | | | | | | Homo neanderthalensis Homo sapiens 100.000 a. | | | | | Homo sapiens sapiens 30.000 a. V Il canale fonico-acustico e l'uso parlato della lingua presentano d'altra parte tutta una serie di vantaggi biologici e funzionali rispetto al canale visivo e all'uso scritto: a. purché vi sia presenza di aria (condizione che si dà sempre sul nostro pianeta), possono essere utilizzati in qualunque circostanza ambientale, e consentono la trasmissione anche in presenza di ostacoli fra emittente e ricevente e a (relativa) distanza; b. non ostacolano altre attività, possono essere utilizzati in concomitanza con molte altre prestazioni fisiche (mentre il canale grafico, almeno nella produzione, impegna totalmente l'attività dell'individuo); sono quindi particolarmente adatti all'impiego del linguaggio per accompagnare e guidare le azioni; c. permettono la localizzazione della fonte di emittenza del messaggio; d. la ricezione è contemporanea alla produzione del messaggio, avviene in diretta; e. l'esecuzione parlata è più rapida di quella scritta; f. il messaggio può essere trasmesso simultaneamente a un gruppo di destinatari diversi e può essere colto da ogni direzione; g. il messaggio è evanescente, ha rapida dissolvenza, non permane a ingombrare il canale ma lascia subito libero il passaggio a altri messaggi;
h. l'energia specifica richiesta è molto ridotta, il parlare è concomitante
con la respirazione e ne può fisiologicamente essere considerato entro certi
termini un sottoprodotto.
Nelle società moderne, tuttavia, lo scritto ha una priorità sociale: avere una forma scritta è un requisito indispensabile per una lingua evoluta, a pieno titolo; lo scritto ha maggiore importanza, prestigio e utilità sociale e culturale; è lo strumento di fissazione e trasmissione del corpo legale, della tradizione culturale e letteraria e del sapere scientifico; è la norma dell'istruzione scolastica (l'importanza dell'alfabetismo è un cardine elementare indiscusso di ogni società civile); ha validità giuridica (si badi per esempio all'importanza della firma della persona per ogni atto che abbia valore formale e legale), eccetera. Occorre ancora dire che d'altra parte la realizzazione parlata e quella scritta dei segni linguistici non sono puramente diretta rappresentazione l'una dell'altra. Lo scritto è nato come fissazione, trascrizione, rappresentazione 'solida', stabile, del parlato; ma si è poi sviluppato con aspetti e caratteri in parte propri: non tutto ciò che fa parte del parlato (per esempio, il tono di voce, la modulazione del discorso, in genere i tratti paralinguistici che accompagnano la comunicazione orale, ecc.) può essere reso e avere un corrispondente nello scritto, né tutto ciò che fa parte dello scritto (per esempio, uso delle maiuscole, disposizione del testo sul foglio, ecc.) può essere reso e avere un corrispondente nel parlato. Insomma, parlato e scritto non sono semplicemente la traduzione l'uno dell'altro su supporti fisici diversi: la diversità del mezzo crea in parte dei caratteri strutturali diversi e irriducibili, che conferiscono sia all'uno che all'altro una certa quota di peculiarità. | << | < | > | >> |Pagina 1157.1 Le lingue del mondo Le lingue storico-naturali che rappresentano la realizzazione della facoltà del linguaggio presso le diverse comunità oggi presenti nel mondo sono numerose, dell'ordine delle migliaia. Le cifre proposte dagli studiosi sono tuttavia assai contrastanti, andando da un numero minimo di circa 2200 a un numero più che doppio di circa 5100 (e secondo alcuni le lingue oggi parlate sarebbero addirittura sulle 12.000!). Il sito www.ethnologue.com, "Languages of the world", del Summer Institute of Linguistics di Dallas (USA), censisce circa 6900 lingue. L'enorme differenza fra queste cifre può stupire, ma ha le sue buone ragioni. Enumerare tutte le diverse lingue del mondo è un compito molto difficile, e il computo può variare di molto a seconda dei criteri che si adottano. Anzitutto, certe aree linguistiche sono tuttora insufficientemente studiate; e soprattutto spesso è tutt'altro che semplice stabilire se diverse parlate tra loro simili sono da considerare varietà o dialetti di una stessa lingua (e quindi contare come una sola unità nel computo), oppure sono lingue a sé stanti (e quindi contano come più unità). L' Italia è già un caso esemplare per questo problema. In prima ipotesi, alla domanda 'quante lingue si parlano in Italia?' verrebbe forse da rispondere: una, l'italiano. In realtà, una risposta del genere è del tutto fallace. In primo luogo, bisogna tener conto non solo della lingua nazionale comune, ma anche delle lingue delle minoranze, parlate da gruppi più o meno consistenti di parlanti in alcune aree o areole del paese (tedesco, francese, sloveno, ladino dolomitico – queste quattro, riconosciute legislativamente –, neogreco, albanese, serbo-croato, provenzale e franco-provenzale, catalano, parlate zingare; e secondo molti apparterrebbero a tale categoria anche il sardo e il ladino friulano), per cui superiamo già abbondantemente la decina. In secondo luogo, è dubbio lo statuto dei vari dialetti italiani (piemontese, lombardo, veneto, napoletano, pugliese, siciliano ecc.), che dal mero punto di vista della storia e della distanza linguistica avrebbero le carte in regola per essere considerati sistemi linguistici a sé stanti, autonomi rispetto all'italiano e non sue varietà, anche se di solito non sono computati separatamente; se li calcoliamo come lingue a sé, arriviamo già ad una trentina di lingue 'indigene' presenti in Italia. Si noti anche che le lingue romanze o neolatine vengono ovviamente considerate ciascuna una lingua a sé stante, mentre in altri gruppi linguistici sistemi con una distanza strutturale del tutto analoga a quella fra le diverse lingue romanze vengono a volte considerati varietà della stessa lingua (è questo, molto spesso, il caso del cinese, termine che viene volentieri usato per indicare, come se fosse un'unica lingua, un gruppo di lingue tra loro strettamente imparentate). Comunque, le lingue del mondo sono alcune migliaia, moltissime peraltro in via di estinzione. La maniera principale per mettere ordine in questo coacervo di sistemi linguistici consiste nel raggrupparli in famiglie, secondo criteri di parentela genealogica, che si basano sulla possibilità di riportare le lingue ad un antenato comune, attestato storicamente o ricostruito induttivamente a partire dalle lingue odierne. Il riconoscimento di parentela linguistica è in genere evidente comparando il lessico fondamentale (un insieme di circa 200 termini designanti nozioni comuni – i numeri fino a dieci, i principali fenomeni meteorologici, le fondamentali specie naturali, le parti del corpo, le comuni azioni quotidiane, ecc. – da considerare non esposti a interferenze fra le lingue e quindi sintomatici del lessico ereditario indigeno). L'assunzione di base è che se troviamo lo stesso o simile significante (fatte salve le differenze fonetiche specifiche dei singoli sistemi linguistici) vorrà dire che questo rimanda a una forma originaria condivisa, e che quindi le lingue che le presentano hanno un antenato comune. Prendiamo a mo' di esempio la seguente tabella, relativa a come si dicono i numeri 2 e 3 in una serie di lingue: a b c d e f g h i j k l m zwei doj kaksi tvo dos kaks mbili due bi do two dva deux drei trej kolme tre tres kolm tatu tre hiryr tîn three tri trois Si vede subito che le coppie di parole per i numeri 2 e 3 della lista in base alla somiglianza del significante si possono raggruppare come segue: un grande gruppo (che comprende a, b, d, e, h, j, k, l, m); un gruppetto di due (c, f); e due casi isolati, senza somiglianza con altri (g, i). E infatti nel primo gruppo ci sono tutte lingue della famiglia indoeuropea: a tedesco, b romeno, d svedese, e spagnolo (e catalano), h italiano, j hindi, k inglese, l russo, m francese; nel gruppetto di due abbiamo c finnico, f estone, lingue della famiglia uralica (ramo ugrofinnico); e le due lingue che mostrano forme del tutto diverse da tutte le altre sono il swahili (g), della famiglia niger-cordofaniana, e il basco (i), lingua genealogicamente isolata. Entrambe non hanno nulla a che fare con le altre lingue esemplificate. Inoltre, all'interno del primo gruppo di lingue imparentate, possiamo notare che alcune mostrano forme tra loro più simili che altre: b, e, h, m sembrano fra loro più strettamente imparentate, e così a, d, k, mentre l e j sembrano un po' più lontane (in particolare, nella forma per 3, j). Infatti, nella famiglia indoeuropea, romeno, spagnolo (e catalano), italiano e francese appartengono al ramo neolatino; tedesco, svedese e inglese appartengono al ramo germanico; russo al ramo slavo; e hindi al ramo indo-ario. Per muoverci un pochino fra le lingue del mondo, partiamo dalla lingua a noi più familiare, l'italiano. L'italiano ha stretti rapporti di parentela con tutte le lingue derivate, come l'italiano, dalla comune base del latino, e costituisce assieme a queste il gruppo delle lingue romanze (o neolatine), che comprende: italiano, francese, spagnolo (castigliano), portoghese, romeno e altre lingue minori come gallego, catalano, provenzale, retoromanzo, ecc. (nonché diverse varietà — come si è detto a proposito della situazione italiana — che si è incerti se definire dialetti o lingue a sé stanti). Il gruppo romanzo, assieme ad altri gruppi con cui le lingue romanze hanno una parentela, più remota ma sempre dimostrabile, come le lingue germaniche (tedesco, inglese, neerlandese, svedese, norvegese, danese, ecc.), le lingue slave (russo, polacco, serbo-croato, sloveno, ucraino, ceco, bulgaro, macedone, ecc.), le lingue baltiche (lituano, lettone), le lingue celtiche (bretone, gaelico, gallese), le lingue indo-arie (hindi, bengali, panjabi, marathi, ecc.), le lingue iraniche (persiano o farsi, curdo, pashto, ecc.) e tre lingue isolate (il (neo)greco, l'albanese e l'armeno), forma la grande famiglia delle lingue indoeuropee. Il livello della 'famiglia' rappresenta il più alto livello di parentela ricostruibile con i mezzi della linguistica storico-comparativa, che individua le somiglianze (specialmente nel lessico) fra le lingue come prova della loro comunanza di origine, ed è quindi la categoria fondamentale della classificazione delle lingue su base genetica. Più tecnicamente, e a volte con un'accezione che veicola un grado di parentela meno netto e che quindi individua un livello ancora superiore a quello della famiglia (comprendente quindi più lingue), si parla anche di phylum (o anche di stock). All'interno di una famiglia di lingue, a seconda dei gradi più o meno stretti di parentela, si possono riconoscere dei 'rami', che a loro volta si possono dividere in 'gruppi' (e questi via via in sottogruppi), a seconda del grado sempre più stretto di parentela fra le lingue: l'italiano quindi si può classificare (assieme ai dialetti italiani) come una lingua del sottogruppo italo-romanzo del gruppo occidentale (assieme ai sottogruppi ibero-romanzo e gallo-romanzo) del ramo neolatino (o romanzo; assieme ai rami germanico, slavo, ecc.) della famiglia indoeuropea.
La linguistica comparativa riconosce oggi fino a un massimo di diciotto
famiglie linguistiche, raggruppamenti separati tra i quali non sono dimostrabili
(almeno allo stato attuale delle conoscenze) rapporti ulteriori di parentela a
un livello più alto; più quattro (o cinque, o anche molte di più, a seconda
degli autori) lingue singole isolate, di cui non si è riusciti a provare la
parentela con altre lingue e quindi ad appurare l'appartenenza ad alcuna delle
famiglie esistenti. Riportiamo qui, a puro titolo esemplificativo (il campo è
uno di quelli più discussi ed incerti di tutta la linguistica, data anche la
grande disparità delle conoscenze nelle diverse aree) una possibile lista di
queste famiglie, indicando per alcune il numero approssimativo di lingue che la
compongono e citando qualche lingua più nota.
a. Lingue indoeuropee (circa 140 lingue): si veda sopra. b. L. uraliche (24 l.): lingue ugrofinniche': ungherese o magiaro, finlandese o finnico (suomi), lappone (sami), estone, eccetera; votiaco, lingue samoiede, eccetera. c. L. altaiche: turco, tataro, cosacco, mongolo, evenki (o tunguso); giapponese, coreano, ecc. (l'appartenenza di queste ultime due lingue alla famiglia altaica è tuttavia controversa). d. L. caucasiche: georgiano, àvaro, abcaso, ceceno, eccetera. e. L. dravidiche: tamil, telugu, kannada, malayalam, eccetera. f. L. sinotibetane (circa 260 l.): cinese (o meglio il gruppo delle lingue cinesi: putonghuà o mandarino, cantonese, wú, ecc.), tibetano, birmano, miáo, eccetera. g. L. paleosiberiane: ciukcio, camciadalo, coriaco, eccetera. h. L. austroasiatiche: vietnamita, khmer (cambogiano), eccetera. i. L. kam-thai: thai o thailandese (o siamese), laotiano, eccetera. j. L. austronesiane (circa 960 l.): indonesiano-malese, tagalog (o, nella forma standardizzata, pilipino), ilocano, sundanese, giavanese, malgascio, samoano, tongano, figiano, maori, motu, hawaiano, eccetera. k. L. australiane (circa 170 l.): dyirbal, warlpiri, nunggubuyu, tiwi, ecc. (assieme alle finitime lingue papua, o indo-pacifiche, della Nuova Guinea e di isole vicine — circa 730 l. per un totale di circa soli 3 milioni di parlanti!). l. L. afro-asiatiche (circa 240 l.): lingue semitiche: arabo, ebraico, maltese, tigrino, amarico, ecc.; lingue cuscitiche: somalo, galla, ecc.; hausa e altre lingue ciadiche, kabilo e altre lingue berbere, eccetera. m. L. nilotico-sahariane (circa 140 l.): nubiano, dinka, luo, eccetera. n. L. niger-cordofaniane (circa 1060 l.): lingue bantu: swahili (più propriamente, kiswahili), zulu, lingala, kikongo, shona, ruanda, ecc.; yorúba, ewe, igbo, mossi, fulfulde, bambara, eccetera. o. L. khoisan (ottentotto-boscimane): nama, kwadi, eccetera.
p. L. amerindiane
(circa 610 l.): l. nordamericane: eschimese, navaho, cree, cherokee, hopi,
nahuatl (o azteco), yucateco (o maya), zapoteco, ecc.; lingue sudamericane:
lingue caribiche; cuna, quechua, aymarà, guaranì, eccetera.
A queste andrebbero aggiunte alcune decine (o alcune centinaia, a seconda dei criteri di valutazione) di lingue pidgin e creole, lingue miste nate dall'incontro e mescolanza in situazioni particolari di lingue per lo più tra loro assai diverse e distanti, e pertanto spesso difficili da collocare con precisione in una famiglia linguistica. La cartina seguente (fig. 7.1) mostra la distribuzione geografica approssimativa tradizionale delle principali famiglie linguistiche (e di quattro lingue isolate, prive di parentela riconoscibile).
Delle migliaia di lingue esistenti, soltanto alcune decine possono essere
considerate
'grandi' lingue,
con un numero sostanzioso di parlanti e appoggiate a una tradizione culturale di
ampio prestigio. Secondo stime relative al 2003, risultavano esserci al mondo 64
lingue con più di 10 milioni di parlanti (nativi), e
125 con più di 3 milioni. Molte lingue (soprattutto in aree isolate e con pochi
parlanti, in Oceania, in Amazzonia, ecc.) si stanno peraltro estinguendo.
Riportiamo qui di seguito una tabella con la graduatoria delle principali lingue
per numero di parlanti nativi ad inizio del Terzo Millennio (occorre tuttavia
tener conto che il dato puramente demografico, il numero dei parlanti, è solo
uno dei criteri coi quali giudicare dell'importanza delle lingue: sono
altrettanto, e forse più, rilevanti anche criteri come il numero di paesi e
nazioni in cui una lingua è lingua ufficiale o è comunque parlata, la sua
tradizione letteraria e culturale, l'impiego della lingua nei rapporti
internazionali, nella scienza, nella tecnica, nel commercio ecc., l'insegnamento
della lingua nella scuola come lingua straniera).
Inoltre, dal punto di vista demografico ha molto peso anche il numero dei
parlanti non nativi, che parlano una certa lingua come lingua seconda o
straniera: questo dato aumenterebbe assai il rango demografico dell'inglese,
portandolo verosimilmente al primo posto (all'incirca alla pari con il cinese
mandarino, sul miliardo di parlanti), e, anche se meno significativamente, di
hindi/urdu, arabo e russo.
Lingue del mondo in base al numero di parlanti nativi (2003, parlanti in milioni, cifre stimate; in percentuale la differenza con la situazione di 20 anni prima; fra parentesi, indicazioni sui principali paesi in cui sono parlate alcune lingue; da Mioni 2005). 1. cinese mandarino 902 (+21%) 2. hindi-urdu (India, Pakistan) 457 (+32%) 3. inglese 384 (+24%) 4. spagnolo 366 (+32%) 5. arabo 254 (+36%) 6. bengali 198 (+28%) 7. portoghese 171 (+27%) 8. russo 160 (+1,2%) 9. indonesiano-malese 157 (+33%) 10. giapponese 132 (+6,8%) 11. tedesco 98 (+3%) 12. wú (Cina) 93 (+19%) 13. giavanese 85 (+27%) 14. telugu (India) 85 (+30%) 15. marathi (India) 76 (+30%) 16. cantonese (Cina) 75 (+26%) 17. vietnamita 75 (+32%) 18. tamil (India) 73 (+27%) 19. coreano 72 (+14%) 20. panjabi (India) 72 (+39%) 21. francese 72 (+2,7%) 22. italiano 70 (+5,7%) [...] In Europa sono tradizionalmente parlate lingue di quattro diverse famiglie linguistiche (cinque, se vi consideriamo anche il maltese, lingua semitica, fam. afro-asiatica, con una parte del lessico italo-siciliana): oltre alle lingue indoeuropee, di gran lunga predominanti, troviamo infatti l. uraliche del gruppo ugrofinnico (l'ungherese, il finlandese, l'estone, il lappone, il mordvino, ecc.), l. altaiche (il turco, il tataro, ecc.), l. caucasiche (il georgiano, il ceceno, l'àvaro, ecc.), oltre a una lingua isolata, il basco. Molto più interessante dal punto di vista teorico è però la classificazione delle lingue secondo una prospettiva tipologica. La 'tipologia linguistica' si occupa di individuare che cosa c'è di uguale e che cosa c'è di differente nel modo in cui, a partire dai princìpi generali che governano le 'lingue possibili', le diverse lingue storico-naturali sono organizzate e strutturate, attuando scelte tra loro compatibili nella realizzazione di fatti o fenomeni universali che ammettono più soluzioni. La tipologia è dunque strettamente connessa con lo studio degli 'universali linguistici', proprietà ricorrenti nella struttura delle lingue (indipendentemente dai loro rapporti genetici e dagli eventuali condizionamenti reciproci) sia sotto forma di invarianti necessariamente possedute dalle lingue in quanto tali sia sotto forma di un repertorio di possibilità a cui le lingue si rifanno in maniera diversa l'una dall'altra. Un universale linguistico non è necessariamente tale solo se è manifestato o posseduto da tutte le lingue conosciute; l'importante è che non sia contraddetto dalle caratteristiche di nessuna lingua.
Sulla base di tratti strutturali comuni si possono così classificare le
lingue non più dal punto di vista genealogico, della loro origine storica e
della riconducibilità ad un unico progenitore, bensì dal punto di vista della
loro appartenenza a tipi diversi e della somiglianza relativa della loro
organizzazione strutturale. Un
'tipo linguistico'
si può definire come un insieme di tratti strutturali in armonia gli uni con gli
altri; e, in concreto, equivale all'incirca a un raggruppamento di sistemi
linguistici con molti caratteri comuni. 'Tipo' è un concetto molto idealizzato,
a un livello più alto di astrazione che non 'sistema':
una singola lingua non corrisponde mai totalmente, in assoluto, a un tipo
particolare, e in genere in una lingua determinata si trovano, in punti diversi
del sistema, assieme a caratteristiche tipologiche prevalenti di un tipo anche
caratteri propri di altri tipi. Un sistema linguistico, in altre parole,
realizza fondamentalmente un certo tipo linguistico, mescolando però in genere a
questo caratteri di altri tipi linguistici ideali.
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