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| << | < | > | >> |IndiceSincope 7 Chi sono io oggi? 15 Cristalli 20 Cronologie 29 Cinema esteso 33 Spazi temporali 38 Ritagli di tempo 51 In simultanea 56 Nulla 59 Futuri arrivi 65 Cronometri 77 Appendice: 85 chronos e kairos |
| << | < | > | >> |Pagina 6Il tempo, così disse Austerlitz nell'Osservatorio di Greenwich, fra tutte le nostre invenzioni è senz'altro la più artificiosa e, nel suo essere vincolato ai pianeti che ruotano intorno al proprio asse, non meno arbitrario di quanto lo sarebbe ad esempio un calcolo basato sulla crescita degli alberi o sul periodo impiegato da una pietra calcarea per disgregarsi, a prescindere poi dal fatto che il giorno solare, in base al quale ci regoliamo, non fornisce una misura esatta, sicché noi, anche al fine di calcolare il tempo, siamo stati costretti a escogitare un immaginario sole medio, la cui velocità di rotazione non cambia e che, nella sua orbita, non è inclinato verso l'equatore.[...]
W. G. Sebald
SINCOPE
L'eterno ritorno, necessità che si deve volere: soltanto quello che
io sono adesso può volere questa necessità del mio ritorno e di
tutti gli eventi che hanno fatto sì che io sia quello che sono...
Pierre Klossowski
Sono solito ritornare eternamente all'eterno ritorno. Questa dottrina è stata così formulata: il numero delle particelle che compongono il mondo è, benché smisurato, finito e perciò capace soltanto di un numero finito (sebbene anch'esso smisurato) di permutazioni. In un tempo infinito, il numero delle costellazioni possibili non può non essere raggiunto e lo stesso universo deve ripetersi. Di nuovo nascerai da un ventre, di nuovo crescerà il tuo scheletro, di nuovo arriverà questa pagina nelle tue mani uguali, di nuovo percorrerai tutte le ore della tua vita fino all'ora della tua morte incredibile. Poiché tutto è destinato a ritornare, non esiste niente di unico, neanche queste righe, rubate ad uno scrittore (Borges) il quale a sua volta si avvalse delle idee di qualcun altro (Nietzsche) che nell'autunno del 1883 disse: E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti esserci stati un'altra volta? - e ritornare a camminare in quell'altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno? Necessità che si deve volere: qualsiasi cosa accada nell'universo deve essere già accaduta ed è destinata ad accadere ancora, preceduta e seguita sempre esattamente dagli stessi eventi. La finitudine dell'universo e l'infinità del tempo rendono possibile questo apparente paradosso. Le stesse disposizioni, noiose o altro, sono destinate a ripetersi. Così Donny, il bel ragazzo giovane ma ingenuo della video-installazione di Stan Douglas del 1998 Win, Place or Show presenterà ripetutamente ad occhi spalancati le sue teorie sulle forze mistiche responsabili delle sofferenze umane. E Bob, poco più vecchio e molto più rozzo, l'inquilino dell'appartamento in cui si svolge l'azione, continuerà a spiegare all'infinito a Donny un gioco che riguarda una corsa di cavalli in modo fastidioso, che porta ad uno scontro che Bob sembra vincere, ma che termina con una nota laconica "se non fossi così stanco ti colpirei ancora". E nuovamente Donny risponderà "Io so". E così via, per sempre. Stan Douglas ha realizzato questo microcosmo finito ed esattamente lo stesso dialogo e le stesse riprese in effetti si ripeteranno, ma solo dopo circa 20.000 ore, grazie ad un programma del computer che randomizza la trasmissione di due video-proiezioni, ciascuna delle quali ritrae la "stessa" azione da angolazioni diverse. Dopo circa sei minuti, ciò che sembra essere un loop ricomincia da capo, ma la ripetizione non è identica. La sottile alterazione, la combinazione delle riprese oblique che mutano costantemente, dà la sensazione che forse questa volta il risultato sarà diverso. Non lo è mai: i due ragazzi finiscono sempre per portare a termine il loro combattimento senza speranza. Sono intrappolati all'interno di un meccanismo senza via di fuga. Una costante nelle installazioni di Douglas è che c'è sempre più di quanto si vede. Le mie prime impressioni si concentrano sulle varie incongruenze: due uomini di basso ceto, probabilmente operai, che litigano e lottano all'interno di alloggi dall'aspetto, per così dire, stranamente chic. La sedia su cui Bob è seduto mentre legge il Daily Racing Form è un pezzo di Bruno Mathsson. In effetti, tutto l'insieme mi ricorda quel revival del modernismo scandinavo promosso con insistenza proprio in quegli anni dalla rivista Wallpaper. Il dialogo ostile e la pioggia battente, su una veduta urbana di edifici altissimi che si apre oltre la grande finestra, creano un contrasto curioso in questa raffinata cornice. E perché questi ragazzi vivono insieme? Perché non possono permettersi l'affitto? Perché sono gay? Certamente l'abile lavoro della macchina da presa, con angolazioni spinte e primi piani che ricordano i telefilm americani degli anni Sessanta, dovrebbero rendere ovvio che l'ambientazione non appartiene alla cinica era di Wallpaper, ma ad un periodo precedente, quando questo arredamento suggeriva ancora speranze utopistiche. In effetti, il tema di questa ripetitività (comunque coinvolgente) non sono né le corse dei purosangue né le teorie cospirative, ma piuttosto le promesse fallite del modernismo. Come in tutti i lavori di Douglas, il contesto ambientale ed ideologico sono stati meticolosamente ricercati e rigorosamente progettati. Insieme all'architetto Robert Kleyn, l'artista ha ricostruito la scena secondo le cianografie autentiche di un progetto degli anni Cinquanta per la ricostruzione totale del quartiere Strathcona a Vancouver, uno schema mai realizzato di altissimi palazzi a basso costo, inteso come soluzione ai problemi degli alloggi per molti operai single e maschi. Donny e Bobby occupano una di quelle unità alienanti di questi complessi e la loro litania circolare di una disperazione infinita dà espressione ad una situazione che ricorda il romanzo di Samuel Beckett L'innominabile, un uomo che vive "come una bestia nata in una gabbia da bestie nate in gabbia da bestie nate in gabbia da bestie nate in gabbia da bestie nate e morte in gabbia nate e poi morte in gabbia, nate e poi morte in gabbia". Il fatto che, pochi decenni più tardi, la loro cellula/prigione modernista, destinata alla produzione di massa a basso costo, finisca armoniosamente tra le pagine di una delle migliori riviste di design rende l'ironia molto più che diabolica. Questo è il triste esempio del sinistro sogno di pianificazione urbana di una vita razionalizzata, un incubo che diventa feticcio dei benestanti. Il modernismo – i suoi fallimenti come pure i suoi fugaci momenti di speranza nei quali una costellazione di libertà sembrava possibile – è uno dei temi principali in molti dei lavori di Stan Douglas. A Documenta IX, nel 1992, l'artista presentò il lavoro Horsechamps, che gettava uno sguardo su un ordine sociale alternativo e sulle forme liberatorie dell'auto-espressione che il modernismo aveva promesso. Le scene tratte da una sessione di free-jazz, che vedono protagonisti quattro musicisti americani attivi a Parigi fin dagli anni Sessanta, sono proiettate in bianco e nero su entrambi i lati di uno schermo sottile appeso nel mezzo di una stanza vuota. L'opera, come molti altri lavori di Douglas, è leggibile su più livelli, e ricordo di averne goduto senza preoccuparmi molto dell'esatta origine della musica, del contesto sociale della performance o del tipo di ripresa che catturava l'evento. La scelta musicale, una composizione del 1965 di Albert Ayler che sembra citare ideologicamente due inni significativi, La Marsigliese e The Star-Spangled Banner, non è casuale. Douglas, dopotutto, mette in scena questa performance come parte delle sue ricerche sulle aspirazioni emancipatrici del movimento del free-jazz, per alcuni il modello per una società alternativa. Piuttosto che nostalgia, l'esecuzione double-face di questo momento di speranza (infine mai realizzata, come tanti altri aspetti della rivoluzione del '68) mette in evidenza la discrepanza tra il modo in cui questi concerti erano presentati in televisione (dove le riprese mettevano in risalto gli assoli) e la dinamica di gruppo dello scambio. La musica è ciò che lega il tutto, ma il sottile schermo tiene insieme due realtà distanti: quella appartenente a qualcosa di "ufficiale" come la macchina da presa, e un'altra forse più vera però fuori campo. Occorre camminare a lungo avanti e indietro nella stanza per riuscire a capire questi due mondi. Non è possibile coglierli in una sola volta. Molta arte proveniente dai secoli scorsi, come le allegorie barocche o i motivi religiosi rinascimentali, richiede una grande conoscenza per poter essere totalmente apprezzata; perché per l'arte contemporanea dovrebbe essere diverso? | << | < | > | >> |Pagina 48Se la dimensione fondamentale della soggettività è il tempo, ogni fenomenologia finirà per essere anche una cronologia. Dal momento che il soggetto ritorna a sé in cerca di qualcosa di dato originariamente, trova il "presente vivente" all'origine della sua esistenza. Questo non risulta essere una zona di monolitica presenza di sé quanto piuttosto di un'origine eterogenea. Secondo Husserl, il presente è permeato dall'assenza ed altro; solamente quando s'imbatte in qualcosa che sia altro da sé, può rimanere ciò che realmente è. Non può, quindi, essere interpretato come un principio di esclusione, che tiene fuori l'io da ciò che è diverso e sconosciuto. Una volta stabilito il ruolo fondamentale delle varie forme di alterità, il presente vivente va invece visto come inclusivo di un principio di ospitalità. Per usare una metafora di Husserl, la coscienza non è una borsa piena di concetti presenti che dovrebbero compensare ciò che è assente. La coscienza, invece, è in grado di riconoscere ciò che è altro da sé; è capace di trascendenza. È un'idea che Husserl condivide con Bergson. Ad esempio, nessuna immagine del passato può rimpiazzare il passato in sé. Quando rivolgiamo la mente ad un evento passato attraverso i ricordi, non ci rivolgiamo ad una qualche replica o fotografia. Scrive Bergson: "La pura e semplice immagine mi riporterà al passato soltanto perché, in effetti, è nel passato che sono andato a cercarla". Siamo dunque capaci di saltare nel passato. Questo salto verso un'altra zona temporale è forse inatteso nel lavoro di un filosofo considerato soprattutto per il concetto di continuità. Al contrario, la soggettività può essere paragonata ad una scatola cinese. Una configurazione labirintica di flussi tenuti uno dentro l'altro: percezione, empatia, memoria, anticipazione e fantasia generano una disposizione a nido. Tutti abitiamo simultaneamente diverse zone temporali. Questa "etero-cronologia", per usare il concetto di Boris Groys, è la più normale delle condizioni. Noi viviamo in tempi diversi.La soggettività in sé non può essere vista in nessun luogo. Questo in perfetto accordo con la nozione fenomenologica di un flusso di coscienza del tempo che appare a se stesso solo indirettamente e mai in modo chiaro. Il flusso, che è "assoluta soggettività", secondo Husserl, non può mai essere afferrato attraverso il riflesso oggettivante, poiché nel momento in cui il flusso è oggettivato per mezzo di azioni riflessive è già sparito. Sembra che il più profondo livello di temporalità appaia solo indirettamente mediante forme varie di spazializzazione. Può mai un'opera d'arte visualizzare una struttura così complessa? Il formato del film tradizionale non può riflettere il modo in cui lavorano la percezione e la memoria, dice Ahtila. Il suo lavoro, ovviamente, cerca di farlo ed opere come Today certamente accennano ad una struttura più ricca per conciliare la molteplicità dei flussi. Il "cinema altro" di oggi, quello di Ahtila senza dubbio, ma anche quello di Tacita Dean, emerge come tentativo di inserire modelli spaziali all'interno della dimensione temporale, e di "installare il tempo" nello spazio. L'installazione del tempo consiste nello scegliere il giusto modello spaziale, il più adeguato "schematismo" che permetta la traduzione di proprietà temporali nello spazio. Cicli, circolarità e rotazione sono modi di visualizzazione, modi di (in)stallare il tempo. Quello che hanno in comune è la loro capacità di mettere in movimento immagini, di restituire intere sequenze. La circolarità intesa come cifra del tempo è un'importante caratteristica dei progetti di Tacita Dean, forse presente in maniera più evidente in Fernsehturm (2000), un film girato nel ristorante rotante della famosa torre televisiva di Berlino, uno dei più memorabili monumenti della Germania Est. | << | < | > | >> |Pagina 77CronometriLo sfortunato Donald Crowhurst fu uno tra i nove contendenti a iscriversi nel 1968 al Sunday Times Golden Globe Race, la gara per essere il primo a circumnavigare da solo, senza fermate, il mondo, scrive Tacita Dean in un saggio intitolato "Once Upon a Different Sort of Time". L'artista, che ha una buona conoscenza delle diverse specie di tempo, ha portato alla luce la storia tragica e affascinante di questo eroe bizzarro (fa riferimento a lui e al suo viaggio in parecchi dei suoi lavori). La verità era che Crowhurst non aveva molto del marinaio. Quando capì di non avere alcuna possibilità di fare il giro del mondo, né tantomeno di vincere la corsa contro autentici marinai, decise di imbrogliare nel corso del viaggio. Interruppe i contatti radio per non essere scoperto. Nel frattempo, il suo portavoce, eccessivamente zelante, aveva diffuso il suo itinerario fittizio e aveva sistematicamente esagerato i suoi progressi con grande eccitazione da parte della BBC e del pubblico britannico. Il mondo credeva che stesse procedendo come da programma e che egli, in effetti, avesse una buona possibilità di vincere la competizione. La verità era molto diversa: Crowhurst non aveva più idea di dove fosse e, peggio ancora, cominciò a soffrire di "follia da tempo", una condizione mentale scatenata dell'ossessione di misurare il tempo in mare aperto. Faceva supposizioni a caso sulla sua posizione e cominciò a registrare stranezze sul giornale di bordo che non avevano niente a che fare col viaggio in sé ma piuttosto erano speculazioni private su Dio, la relatività e la natura dell'universo. "Una volta che il suo senso del tempo venne distorto, Crowhurst non ebbe ulteriori punti di riferimento nella massa in movimento del grigio oceano", scrive Tacita Dean. Quando finalmente cedette, si gettò in mare, portando con sé il falso cronometro negli abissi dell'oceano. Ho scelto questo cronometro difettoso sepolto nelle profondità marine come tema emblematico con cui concludere Cronologia. La futilità del dispositivo e il disorientamento del suo proprietario mi sembra rispecchino la mia condizione e quella di molti altri, quando si prova a cimentarsi con le complessità temporali delle opere d'arte che testano in vari modi i limiti della nostra tradizionale comprensione della presenza nel tempo e nello spazio. Non diversamente dalle acque del tragico eroe di Tacita Dean, i territori che ho tentato di navigare sono fondamentalmente di natura artificiale e consistono di macchinari visivi e cinestetici. Non tutti i lavori trattati utilizzano nuove tecnologie, alcuni si servono di apparati che generalmente consideriamo obsoleti. Una cosa però ce l'hanno in comune: sono tutti incentrati sul nostro senso del tempo, la nostra comprensione delle cose che accadono nel tempo e di noi stessi in quanto esseri temporali. Sono tutte articolazioni del tempo e dello spazio in un mondo in cui questi concetti, come intelligentemente puntualizza Virilio, sono in procinto di essere rapidamente rinegoziati. Attualmente, una molteplicità di tempi locali sembra rimpiazzare la nozione di un tempo assoluto e, sostiene Virilio, "l'ordine differenziale di velocità" ci introduce ad un "ordine di luce" dove il significato di passato, presente e futuro, acquista nuova ricchezza e complessità: "Infatti, l'ordine (assoluto) di velocità è un ordine di luce in cui i tre classici 'tempi' sono reinterpretati all'interno di un sistema che non è più esattamente cronologico". In un mondo in cui la trasmissione in tempo reale e la tele-robotica sono divenute il più comune dei fenomeni, il qui ed ora dell'esperienza, già messi in discussione attraverso le più vecchie tecniche di riproduzione meccanica, sembrano svanire all'interno di varie forme di tele-presenza. Allora, dov'è situata la reale presenza dell'essere umano nel mondo? Sembra che la questione fosse la maggiore preoccupazione di Crowhurst e che, per trovare una risposta, egli sviluppò un'ossessiva relazione col suo cronometro. Dove, quando, chi sono io? Infine egli non conosceva la risposta a nessuna di queste domande ed ha, come ha puntualizzato J.G. Ballard in un commento sul lavoro di Tacita Dean, esaurito il tempo: "Dopo aver vagato dei mesi per l'Atlantico, egli era psicologicamente e spiritualmente esausto. Il vuoto senza tempo di un oceano morto era tutto ciò che gli restava".
Potrebbe questo essere interpretato come un'allegoria della sparizione
dell'essere umano e del suo senso del tempo nell'ambiente globale
digitalizzato ed automatizzato?. E una volta sparito l'essere umano, chi
(o cosa) prenderà il suo posto? Gli artisti presi in esame qui sembrano,
approssimativamente, rientrare in due categorie quando trattano questo
punto: quelli che piangono la perdita del cronometro e prendono parte ad
un finale di partita infinito e quelli che provano ad immaginare interamente
nuove forme di vita che emergono dall'interazione con la tecnologia.
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