Copertina
Autore Edoardo Boncinelli
CoautoreGiulio Giorello
Titolo Lo scimmione intelligente
SottotitoloDio, natura e libertà
EdizioneRizzoli, Milano, 2009, Piccoli Saggi , pag. 224, cop.fle., dim. 12x18x1,4 cm , Isbn 978-88-17-01721-3
LettoreRenato di Stefano, 2009
Classe filosofia , scienze cognitive , mente-corpo , evoluzione
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Indice


A mo' di premessa                            9

1. I lombrichi e il superfluo               11

2. L'anima e la macchina                    51

3. Una trappola filosofica                  82

4. Schiavi volontari?                      114

5. Gli occhi della mente                   159

Ringraziamenti                             203
Indice dei nomi                            205
Riferimenti bibliografici                  209



 

 

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Pagina 14

GIORELLO Il nucleo del dualismo di Cartesio è qui: noi esseri umani siamo il punto d'incontro di due sostanze distinte – la «sostanza pensante» e la «sostanza estesa», l'anima e la materia, la mente e il corpo (in particolare, il cervello, o se si preferisce il cervello e il sistema nervoso). Guai a confondere i due piani: la scienza – senza più i vecchi tabù – può occuparsi del corpo (cervello incluso); può studiare l'anatomia (perfino sezionando i cadaveri: c'era già stato Vesalio); può affrontare la fisiologia (financo correggendo tecnologicamente gli organismi corporei là dove essi non funzionano in maniera adeguata, mediante cannocchiali o microscopi, sperando che un giorno sarà possibile disporre di congegni che consentano di «vedere» persino gli atomi ecc.). La religione, invece, riguarda esclusivamente il rapporto fra Dio e l'essere umano, macchina con anima. Quest'ultima è inestesa, eppure legata al corpo esteso (ben più di quanto lo sia «il nocchiero entro la sua nave», che invece può andarsene in giro dove vuole, mentre l'imbarcazione è all'ancora; o magari può «trasmigrare» su un altro vascello – come sottolineava il filosofo francese nelle sue Meditazioni). Il dualismo di Cartesio è interazionista: la nostra volontà (l'anima) può cambiare lo stato di cose esistente nella materia. In ultima analisi, la nostra libertà è garanzia del successo tecnologico. Eppure, «malignamente» non posso escludere che tra i dubbi che dovevano assillare Cartesio ci fosse anche il sospetto di essere semplicemente un congegno meccanico che pensa: un sofisticato automa – come capita nei racconti di fantascienza – o magari un qualche «animale sapiente», come quelli che vengono spacciati per tali nelle fiere di paese. Del resto, ripetiamolo, gli animali per Cartesio non sono altro che macchine...

BONCINELLI Lasciamo da parte, per ora, i congegni meccanici artificiali escogitati dall'uomo e concentriamoci, piuttosto, su quelli naturali, cioè su tutti gli altri organismi viventi, che sono sì macchine, ma infinitamente più complesse di quanto Cartesio ai suoi tempi potesse immaginare. Gli esseri viventi sono macchine intrinsecamente molecolari. Tutto ciò che conta nella vita (biologica) avviene a livello molecolare, anche se gli effetti di tutto questo si possono osservare poi sul piano delle cellule, degli organi e degli organismi. In quest'ottica la materia vivente è sostanza suddivisibile per eccellenza: se non fosse così, non sarebbe viva. Potremmo anche dire che «l'anima» della materia vivente risiede proprio nella sua grana finissima.

GIORELLO Sotto un certo profilo, la vera sconfitta di Cartesio, però, è Darwin. L'essere umano è un animale assai particolare, e sembra abbastanza ovvio, almeno a prima vista, che sia diverso non soltanto da un insetto, da un ornitorinco o da un tapiro, ma anche da un primate superiore. Eppure, quando si tratta di precisare mediante qualche parametro quale sia la distinzione tra l'umano e l'animale, ciò che sembrava intuitivamente così chiaro appare sfumato. E per me è questa la ragione della ritirata della filosofia. Si era proposta di dirci cos'è l'uomo: animale razionale, animale politico... a sentire Aristotele. E pensiamo anche a Kant che chiede: «Che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è dato sperare?»; però poi riassume queste tre domande in una sola: «Che cos'è l'uomo?». E le risposte? Anzi, la risposta? Kant è stato qui più elusivo di quanto ci abbia abituato altrove con il suo rigore prussiano. Piuttosto che risposte che fanno acqua da varie parti, meglio per i non pochi neo o postcartesiani rifugiarsi nella pretesa plasticità dei caratteri dell'essere umano. Per uscire da questo stallo occorre muovere proprio dalla biologia. Può essere curioso che lo dica un filosofo, ma mi sento insoddisfatto di un'antropologia puramente filosofica...

BONCINELLI Ti prendo in parola. Non è esagerato dire che la bilogia odierna è dominata in moltissimi aspetti dal concetto di evoluzione del vivente. Rifarsi a Darwin è doveroso, non foss'altro perché sua è stata l'intuizione che tutti i viventi hanno origine da antichissimi antenati comuni e che le varie categorie di individui sono differenziazioni fra di loro prevalentemente a opera della selezione naturale, sempre mantenendo una grandissima unitarietà di fondo.

GIORELLO L'11 gennaio 1844 Darwin scriveva a Josep Dalton Hooker: «Sono quasi convinto (in totale contrasto con la mia opinione iniziale) che le specie non sono immutabili (è come confessare di avere commesso un assassinio). Che il Cielo mi preservi dalle assurdità di Lamarck, la "tendenza al progresso", gli "adattamenti derivanti dal lento volere degli animali" ecc., ma le conclusioni che sono portato a trarre non divergono molto dalle sue, anche se completamente diversi sono i mezzi attraverso cui avviene il cambiamento. Credo di aver scoperto (qui sta la mia presunzione) il semplice modo in cui le specie arrivano ad adattarsi a svariati fini».

BONCINELLI «Il semplice modo» cui Darwin allude è veramente semplice: una produzione continua e inesauribile di nuovi tipi di animali attraverso la mutazione e selezione di alcuni di questi da parte dell'ambiente in cui vivono, così che alcuni si riproducono maggiormente, altri meno o addirittura per niente. Questa discriminazione è opera della selezione naturale, il fulcro del darwinismo, ma anche del neodarwinismo contemporaneo. Darwin alludeva proprio alla selezione naturale. Però, ho ribadito spesso che non ha senso applicare questa concezione ai primissimi eventi collegati con la comparsa della vita sulla Terra e nemmeno, probabilmente, a quelli che hanno portato alla formazione delle prime grandi suddivisioni del vivente. Ma per tutti gli ultimi cinquecento o seicento milioni di anni (e non è poco!) è stata la selezione naturale a modellare e rimodellare le specie. Il suo «meccanismo», come lo chiamavano i contemporanei di Darwin, è piuttosto semplice: per esempio, entro una data popolazione nascono ogni tanto individui un po' differenti, perché nel loro patrimonio genetico si è prodotta un'alterazione o – detto più propriamente — una mutazione. La stragrande maggioranza di questi «mutanti» avrà qualche svantaggio rispetto agli altri e, quindi, meno probabilità di lasciare una progenie. Di tanto in tanto, però, alcuni di questi freaks si rivelano superiori ai «normali», perché portatori di caratteristiche biologiche che consentono migliori risposte alla sfida del loro habitat, o perché, nel frattempo, sono cambiate le condizioni dell'ambiente in cui vive quella data popolazione. In tale evenienza è altamente probabile che questi «anormali» lascino una progenie più abbondante del resto degli individui. E se le condizioni ambientali non cambiano ulteriormente, i loro discendenti possono soppiantare la concorrenza. Si profilano allora due eventualità: o l'intera popolazione finirà per essere composta interamente di individui del nuovo tipo, oppure si dividerà in due sottopopolazioni che per un certo lasso di tempo coesisteranno – una composta di individui di tipo vecchio, l'altra di individui di tipo nuovo. Infine, le due sottopopolazioni potranno diventare due popolazioni, e poi due specie distinte. In ogni caso si osserva la comparsa di almeno una nuova specie, un fenomeno detto appunto speciazione, che è il nocciolo di tutto il processo evolutivo.

GIORELLO Così, quella che Darwin chiamava la guerra della natura produce novità e differenziazione. In tutto ciò, per altro, non si scorge alcun disegno o progetto. Qui si coglie una differenza significativa con i congegni prodotti dall'uomo. Annotava Darwin nell' Autobiografia: «Non si può più sostenere, per esempio, che la cerniera perfetta di una conchiglia bivalve debba essere stata ideata da un essere intelligente, come la cerniera della porta dell'uomo. Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l'azione della selezione naturale non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento».

BONCINELLI A differenza delle nostre macchine che nascono da un progetto, per le specie viventi non si dovrebbe parlare di alcun piano se si prende Darwin sul serio e se si segue il senso del cammino della biologia degli ultimi centocinquant'anni. Ma gli esseri umani sono strani ed estendono l'analogia tra «prodotti» artificiali e naturali immaginando che ci sia un finalismo intrinseco o estrinseco nell'evoluzione. Dopotutto, siamo quasi inconsapevolmente portati a esprimerci più nel linguaggio di Lamarck che in quello di Darwin. Per di più, a molti, moltissimi appare più rassicurante la vecchia concezione della teologia naturale per cui, se un essere vivente è un congegno assai più sofisticato di un orologio, come è lecito desumere dal ritrovamento di un apparecchio del genere l'esistenza di un orologiaio, così è lecito dalla perfezione dell'«artefatto» vivente inferire l'esistenza dell'Artefice Sommo. Così, la contemplazione delle meraviglie del creato rimanda a un Creatore! In un bel libro (Nati per credere, 2008) tre autori — Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara — hanno di recente analizzato le motivazioni profonde di questa ritirata nella religione e ne hanno indicato anche le ragioni evolutive.

GIORELLO Constatiamo ancora una volta la pregnanza della definizione della teoria dell'evoluzione da parte di Daniel Dennett come «l'idea pericolosa di Darwin». Pericolosa perché mina la costellazione dei pregiudizi radicati e delle consolazioni a buon mercato. E forse, il delitto di cui faceva ammenda Charles non era soltanto l'aver liquidato il fissismo nella considerazione delle specie vegetali e animali, ma anche l'aver rimpiazzato la teologia naturale con la selezione naturale! Per di più, in tutto quel «meccanismo» aveva incluso anche l'uomo. Anche se c'è, sull'origine dell'uomo, solo un breve accenno verso il finale dell' Origine delle specie (1859), gli avversari di Darwin, soprattutto quelli preoccupati dell'eventuale declino della prospettiva religiosa, avevano avuto modo di intuire che la creatura umana stava diventando parente stretta degli altri animali, molto più che degli angeli o dei diavoli – che, per altro, sempre angeli sono, anche se decaduti.

BONCINELLI Incidentalmente, vorrei precisare che io non mi colloco nella schiera di coloro che ritengono che l'accettazione sul piano scientifico delle idee di Darwin implichi necessariamente una scelta secca per l'ateismo. L'ateo «sa» che Dio non c'è, io non lo so e preferisco fermarmi al Kant della Ragion pura che dichiara che non è possibile dimostrare né che Dio esiste, né che non esiste. D'altra parte sono sicuro che se c'è, saprà certamente comportarsi da Signore! In questo, sono in buona compagnia: lo stesso Darwin diceva che «il mistero del principio dell'universo è insolubile per noi», e preferiva dichiararsi «agnostico», utilizzando il termine creato per l'occasione dal suo «mastino» Thomas Huxley!

GIORELLO Darwin concludeva il suo capolavoro del 1859 con le seguenti parole: «Vi è qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con le sue diverse forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secondo l'immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevoli forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi».

BONCINELLI A parte l'omaggio formale al Creatore, mi sembra che qui appaia un'interessantissima distinzione tra le leggi immutabili della fisica e la successione di eventi accidentali – contingenti e «storici» – legati alla rocambolesca storia del vivente. La biologia è essenzialmente una scienza «storica». Molte, moltissime cose sono andate in una maniera ma potevano anche andare in un'altra. Tutto ciò che osserviamo è quindi il risultato di una serie di eventi accidentali che hanno lasciato una traccia ormai indelebile, ma che possiede un'origine e una storia. Come ha detto Stephen Jay Gould, anche Homo sapiens non è altro che un «glorioso accidente della storia».

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Pagina 45

GIORELLO Ciò mi ricorda una battuta di Ludovico Geymonat: «La libertà è anzitutto libertà di cambiare».

BONCINELLI È trascorso pressappoco un milione di anni fra la prima pietra scheggiata e la successiva innovazione: la pietra scheggiata da due lati. Ma c'è voluto un altro milione di anni fra la seconda innovazione e la terza: la pietra levigata. Non solo l'inizio è stato lento, ma esso è stato uniformemente lento. Dev'essere successo qualcosa più o meno cinquecentomila anni fa: il processo innovativo è diventato più rapido; ma la vera esplosione avviene circa cinquantamila anni fa. Da quel punto in poi è stato, direi, un crescendo rossiniano. Dunque, libertà è libertà di cambiare: è una frase che ben si adatta alla storia del genere Homo!

GIORELLO Come tu dici, l'inizio è stato lentissimo, perché forse doveva essere «inventata» anche quella stessa libertà di cambiare. Poi, è divenuta essa pure un tratto «congelato» della specie umana. Tant'è vero che l'evoluzione culturale è in notevole misura evoluzione della tecnologia. Al punto che non sono mancati, e non mancano tutt'ora, coloro che si spaventano del cambiamento. Direi, con Geymonat, che costoro hanno paura della libertà.

BONCINELLI Dev'essere una tendenza profonda (ci torneremo). Un po' come la riverenza per gli dei. Dovremmo cercarne le ragioni evolutive: forse, ci riporterebbero di nuovo alla nostra affinità con gli altri animali. Quasi per scherzo, m'immagino un ippopotamo che guarda uno dei tanti prodigi della tecnica umana – che so io, la ruota o magari un telefono cellulare – ed esclama (se sapesse parlare!): «Ma che bisogno ne hanno mai questi bizzarri bipedi? Perché continuano a fabbricare cose tanto superflue?». O, come dico io, gratuite. La gratuità di molte loro azioni è per me uno dei segni distintivi degli esseri umani rispetto ad altre specie, anche molto vicine. Gli animali fanno ben poco di gratuito; qualcosa, forse, soltanto quando sono cuccioli. Per il resto della loro vita non si possono concedere troppi lussi: devono fare ciò che è essenziale, e basta! Noi, al contrario, ci possiamo prendere molte licenze e fare cose biologicamente inutili come andare a teatro, costruire palazzi o scrivere libri. Per tale motivo questo libro si sarebbe potuto anche intitolare La scimmia giocherellona.

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Pagina 61

BONCINELLI Prima alludevo a tendenze istintuali profonde. Noi ci sentiamo diversi, e c'è voluta una lotta quasi mortale per asserire che il cervello è un organo come gli altri. Questo è il pelo che il lupo sapiens ha perso, alla fine. Il vizio è che il cervello dev'essere comunque qualcosa di eccezionale. Prendi proprio il caso di Popper: si è proclamato dualista, e ha ribadito l'opposizione di spirito e materia, ovviamente non utilizzando alla lettera gli argomenti di Cartesio. E quando ha ripreso il tema della flessibilità, ha insistito sulla mente. Invece, io mi limito a considerare il nostro cervello, e ritengo che dire che il nostro cervello è un computer sia solo una vaga metafora, proprio perché i computer che noi via via realizziamo hanno una storia ben diversa da quella del cervello di Homo sapiens o di uno scimpanzé. E qui, a mio avviso, è pertinente la differenza tra le scienze fisiche, di cui l'ingegneria e l'informatica sono figlie, e le scienze biologiche, che studiano la vita che è il risultato di una serie di «esperimenti» piuttosto erratici, compiuti sulla Terra dalla natura... negli ultimi quattro miliardi di anni della vicenda del nostro universo!

GIORELLO Mi pare che tu veda le discipline fisiche come quelle che enunciano leggi universali, e quelle biologiche, invece, come discipline squisitamente storiche.

BONCINELLI In un certo senso, è così. Per esemplificare: in qualsiasi posto dell'universo ci può essere o non essere un atomo di piombo, ma se c'è, non può che avere quelle determinate caratteristiche e non altre... Ma se in qualche parte dell'universo, lontano dalla nostra Terra, un giorno mai ci imbatteremo nella vita, dubito che troveremo colà l'ornitorinco o l'opossum: troveremo degli esseri viventi; ma non c'è alcuna necessità che esista colà proprio l'ornitorinco o l'opossum. La biologia è sotto il segno della contingenza: essa registra, anche se può trattarsi di una descrizione complicatissima, gli esiti di una serie di eventi che potevano anche non essere così. La scena del vivente che noi esseri umani contempliamo, come già diceva Darwin nelle pagine finali dell' Origine delle specie (1859), può sembrarci addirittura sublime. Se oggi giudichiamo quello che è riuscita a combinare l'evoluzione, per esempio con la capacità di immagazzinare l'informazione nel DNA o con la nostra abilità nel classificare a colpo d'occhio una particolare situazione, ci pare legittimo concludere che la contingenza è stata davvero creatrice, nel senso che ha conquistato livelli che richiedevano un tempo assai lungo, cioè un tempo profondo, per essere raggiunti.

GIORELLO Sarei portato a distinguere tra fisica e biologia in un modo un po' diverso: semplicemente, i fatti descritti dalla biologia sono più complessi (servono più variabili) di quelli rilevanti per la fisica. Ma non mi comprometterei troppo nel definire la fisica come il regno della necessità e la biologia come quello della contingenza. In un qualche senso, potremmo dire che c'è una contingenza anche sotto il profilo fisico: se non c'è una ragione che determini perché un animale è quello che è, mi sembra difficile ammettere che ci sia una ragione perché il piombo o l'idrogeno siano quelli che sono. È solo perché ci sono meno variabili in gioco che il piombo è piombo ovunque ecc., mentre l'ornitorinco no. Per non dire che, se concepiamo più universi, facendo «variare» le cosiddette costanti universali, la contingenza evolutiva diventa un tratto della stessa cosmologia, come hanno proposto recentemente Andrei Linde , Martin Rees , Lee Smolin , Alex Vilenkin ecc.

BONCINELLI Non mi pronuncio sugli altri universi. Non so se ci sono e comunque non posso comunicare con loro. Mi basta che la contingenza ci faccia pensare alla eccezionalità dell'intera vicenda in questo universo, anzi su questa Terra. La parola non va intesa qui come se indicasse una singolarità rispetto a una media, ma come se si riferisse a qualcosa che ha ottenuto un enorme successo. Consideriamo, per esempio, le nostre nanotecnologie che immagazzinano l'informazione, costruendo dispositivi che contengono enormi quantità di dati in memoria in spazi sempre più piccoli. Fino a oggi (magari fra dieci anni non sarà più così...) l'immagazzinamento di informazione più spinto è quello del DNA, che mette quattro bit in dieci nanometri. Si tratta di un qualche cosa estremamente efficiente... Pensa a quanti ingegneri ci sarebbero voluti, se il progetto fosse stato necessario e non contingente! E chissà quale diavoleria ci sarà nel nostro cervello che non conosciamo ancora!

Prendiamo proprio la memoria: noi sappiamo cosa sono i ricordi, abbiamo costruito dei dispositivi per contenerli sempre più efficienti. Eppure, non sappiamo dove e come sono scritti i nostri ricordi! Quando lo scopriremo, sarà una delle maggiori sorprese che si possano immaginare, non foss'altro perché il tuo viso non sta in dieci, in venti, in cento, in mille neuroni miei: sta praticamente in tutti i miei neuroni. Un «pezzettino» infinitesimale in ciascuno di essi. Sfida la nostra immaginazione l'idea che in ciascuna delle cellule del mio cervello ci sia un pezzettino di tutta la mia memoria! Magari, quando avremo chiarito l'intera questione, la soluzione ci sembrerà facile se non ovvia; ma ora come ora ci appare come un fatto eccezionale, molto di più dell'immagazzinamento delle informazioni nel DNA.

GIORELLO Tu qui incroci due dicotomie: quella tra naturale e artificiale e quella tra contingente e necessario; e credo che tu qui tenda a chiarire la prima dicotomia con la seconda. A ciò che è naturale, almeno per quanto riguarda il mondo della vita, associ ciò che è contingente; mentre a quello che è artificiale non può che venire coniugata la necessità delle ricette dell'ingegnere...

BONCINELLI Hai capito perfettamente. Aggiungo una cosa: se non c'è dubbio che l'artificiale partecipi della necessità, è anche vero che esso è prodotto dell'essere umano. Ma l'uomo è un animale. È il risultato della contingenza. Ed ecco il paradosso. La contingenza è riuscita a produrre degli individui — leggi noi, unici, almeno su questa Terra — che osservando, combinando, manipolando, quindi trasformando, riescono a produrre... necessità! Posso capire che ci sia stato chi, proprio da una constatazione del genere, si sia spinto a sostenere che, nel passaggio dagli scimpanzé all'uomo, ci sia una sorta di salto ontologico. Posso capirlo, certo non giustificarlo!

GIORELLO Persino importanti evoluzionisti hanno visto all'opera nel passaggio dall'animale non umano all'uomo una misteriosa scintilla che distanzierebbe Homo sapiens dal resto del vivente. Ma per me «la scintilla» non viene dal cielo. È emersa (e non la chiamerei nemmeno scintilla) dalla stessa storia evolutiva, con il linguaggio e con la competenza tecnica. E storia, sì, vuoi dire contingenza. Peraltro, l'invenzione di congegni che emulano la necessità della natura avviene con modalità imprevedibili. Se c'è una cosa che non riusciamo a predire sono gli sviluppi delle nuove idee nella scienza, le applicazioni geniali in campo tecnologico, gli elementi di tecnica che cambiano profondamente la nostra vita. Quasi sempre sbagliamo quando cerchiamo di anticipare l'impresa tecnico-scientifica, cioè la nostra comprensione dell'ambiente e la nostra azione efficace su di esso.

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BONCINELLI Dal nostro punto di vista non ne vale la pena; non è che in linea teorica non sia possibile, è che non ci pare opportuno spendere così tanto tempo e fatica. E stai sicuro che neanche fra due secoli io (o meglio qualche mio discendente) sarò (sarà) in grado di identificare la struttura fine di un fenomeno del genere sotto il profilo causale. Quelli che a suo tempo hanno criticato Jacques Monod perché aveva introdotto il caso a fianco della necessità, non hanno capito che il caso non è un attore, ma è solo la mancanza di conoscenza delle cause.

D'altra parte lo stesso determinismo, a ben guardare, è tutta una questione di previsione e predizione. O si dà alle parole un significato metafisico e indipendente dal metodo che può essere usato per accertare l'esistenza delle entità pertinenti — e io non sono d'accordo — o è necessario darne una definizione operativa che tenga conto della metodologia che le fonda. Dire che un fenomeno è completamente determinato, cioè deterministico, vuol dire che è sempre possibile predire e prevedere a che cosa porterà e che fine farà. Se ciò non è possibile, si ha un indeterminismo; se è sempre possibile, in saecula saeculorum, si ha un determinismo assoluto; se è possibile per qualche tempo ma non da qui all'eternità, si ha un determinismo limitato, né nullo né assoluto, il solo che la scienza odierna riesca a contemplare. Se la mettiamo su questo piano, il concetto di determinismo e quello di casualità condividono lo stesso fondamento: la nostra maggiore o minore conoscenza dei meccanismi e delle cause. Non occorre insomma farne un caso!

GIORELLO Dunque, caso è solo l'etichetta che usiamo per indicare un complesso di attori che non vogliamo o possiamo specificare: il termine denota un insieme di aspetti raggruppati da una somiglianza di famiglia, solo perché non troviamo per loro una spiegazione adeguata o economica. Ma sono d'accordo con te nel rendere giustizia a Monod. Anche se io sono portato a dar ragione a chi sottolinea come proprio la complessità, cui tu prima ti richiamavi, ci inviti a prospettare sia l'evoluzione del vivente sia lo sviluppo dei singoli più come processi probabilistici che come mero intreccio di caso e necessità. Senza addentrarmi qui nelle basi del calcolo delle probabilità (la nostra «logica dell'incerto»), mi basta sottolineare che il ricorso a esso implica un'opzione tra determinismo e indeterminismo. Stiamo sempre parlando dei nostri umani e limitati modi di conoscere, non della struttura del reale in sé. Persino il determinista Spinoza concedeva agli umani l'impiego delle probabilità nella ricerca della verità e nella decisione razionale. Mi sembra un buon punto di partenza per saggiare la portata del tentativo di cercare il presupposto della libertà nella nostra ignoranza epistemica.

BONCINELLI Voglio spendere ancora due parole in difesa di Monod. Lui parla di caso e di necessità. Sul caso abbiamo detto abbastanza; ma che cosa intende per necessità? Intende quella serie di principi fisici, chimici e biologici che fanno andare avanti la baracca della vita, prima al livello molecolare, poi cellulare e infine dell'organismo. Qui le regole, ancorché statistiche, sono ferree. Altrimenti, io e te non ci saremmo! Con il solo caso non si andrebbe avanti. Il caso regola tante cose, soprattutto nel tempo, della filogenesi e dell'ontogenesi; ma non ce la potrebbe mai fare da solo. Allora la biologia molecolare ci mostra come, con l'aiuto della temperatura mite che regna su questa Terra, con pochi fondamentali principi si possa fare andare avanti la vita. È strano il destino del libro di Monod: per un biologo, soprattutto molecolare, si tratta di ovvietà; per molti altri si tratta di falsità o di ipotesi arrischiate! La verità è che pochi hanno letto il suo celebre testo.

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Pagina 156

BONCINELLI Questo è il problema che un comportamentista chiamerebbe della pseudospeciazione. Gli animali distinguono i consimili dalle altre specie, quando possono. Ma Homo sapiens non si accontenta di distinguere gli uomini dai non uomini: sarebbe troppo semplice! Sa bene che la tribù accanto è fatta anch'essa di uomini; però, fa di tutto per dimostrare che quelli non sono veri uomini, o almeno non lo sono completamente; come fanno, del resto, i popoli «civilizzati» quando indicano come «barbari» tutti gli altri. Questo desiderio della specie umana di frazionarsi in «pseudospecie», quelle che si sono anche chiamate «razze», è un tratto che gli animali non hanno, almeno non mi risulta; certo, gli animali che hanno un marcato comportamento sociale distinguono gli appartenenti del loro gruppo dagli altri. Solo che non dicono – anche perché non parlano – che quelli non sono, poniamo, dei lupi o che quelli non sono, poniamo, degli scimpanzé; però, si comportano, di fatto, come se quelli fossero una specie da attaccare, magari da predare. E possono essere anche violenti; però, noi umani ci mettiamo un tocco in più, con il favore del nostro intelletto. In fondo, a pensarci bene, le ideologie non sono che un modo ritualizzato di distinguere le varie tribù, le «razze».

GIORELLO Sarebbe questo un tratto specifico che ci distinguerebbe dagli altri animali? Bel tratto! Una capacità di pseudospeciazione che porta al tribalismo o al razzismo...

BONCINELLI Ma è anch'essa una fonte, per altro, di riti e miti; e va già bene che questa tendenza evolva in qualche forma di elaborazione mitica o rituale. Altrimenti, la sua manifestazione diretta porterebbe all'esclusione dell'altro in modalità più dirompenti e distruttive. Resta il fatto che si tratta di un'esigenza fortissima dell'essere umano. Nel lungo periodo di formazione o se preferisci di «educazione sentimentale» che caratterizza l'animale uomo, questi ha bisogno di identificarsi e di identificare le sue idee e i suoi principi comportamentali. Si creano allora, ci dicono gli psicologi dell'età evolutiva, il gruppo del «noi» e quello del «loro». Per crescere e formarsi adeguatamente occorre confrontarsi e differenziarsi. In questo non c'è nulla di male. Il male viene quando questa dicotomia o questo insieme di dicotomie diviene stabile, rigido, ineluttabile e si appiglia alle differenze più varie e pretestuose. Oltre che giocherellone, l'uomo è animale snob per vocazione. Quando ci sono differenze di colore della pelle, di altezza, di capelli ecc. è piuttosto facile dire: «Quelli sono diversi». Quando non ci sono diversità evidenti, si eseguono non poche contorsioni emotive e intellettuali, e si inventa così la classe, la religione, la propensione al denaro, il famoso «buon gusto» o «cattivo gusto» e via discorrendo. L'ebreo, per chi è antisemita, è avido e vendicativo, come se gli altri esseri umani non lo fossero... Povero Shylock, che vuole la sua libbra di carne in riparazione dei tremila ducati che ha prestato a un insolvente commerciante veneziano! Ricordiamoci dello sfogo della sua vittima, Antonio, Il mercante di Venezia. Non perdete tempo a discutere con un ebreo, dice: «È come disputare con il lupo sul perché abbia strappato alla pecora l'agnello. È come proibire ai pini di montagna di agitare la cima e di stormire quando li investe la raffica del vento.» (Atto IV, Scena I). Forse, è questa invettiva a rappresentare meglio di ogni altra il grumo di volgari stereotipi che il conformismo ha cucito addosso agli Ebrei.

GIORELLO Eppure, è proprio Shakespeare, artista dell'ambiguità, che può permetterci di arrivare al nocciolo della questione per bocca del «lupo» Shylock: «Un ebreo, non ha occhi? Non ha mani, un ebreo, membra, corpo, sensi, sentimenti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dalle stesse medicine, scaldato e gelato dalla stessa estate e inverno di un cristiano? [...] Se ci pungete, non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci fate torto, non ci vendicheremo? – Se siamo come voi in tutto il resto, vi somiglieremo anche in questo». (Atto III, Scena I). L'intolleranza contro il diverso evoca, per contrasto, la consapevolezza della comune umanità.

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Pagina 165

GIORELLO Ma tutto questo discorso sulla coscienza – e in particolare sul pensiero verbale e non verbale – non ci riporta, per contrasto, all'inconscio? O dobbiamo lasciare giocare con l'inconscio solo gli psicoanalisti?

BONCINELLI Non dovremmo affaticarci troppo a definire l' inconscio; piuttosto, vale la pena di definire la coscienza. Se escludiamo quella piccola lente, quella piccola goccia di olio che galleggia sul brodo dell'inconscio, quella bolla superficiale che chiamiamo coscienza, che ci resta? Ci resta tutto il complesso delle attività del sistema nervoso centrale, se non di più. Lo puoi chiamare corpo, e sicuramente lo è; ma questo irrita non pochi santoni della cultura. Tante volte, per esempio, mi sono sentito sgridare dagli psicoanalisti che non amano chiamare corpo l'inconscio, anche se è difficile pensare che l'inconscio sia qualcosa di diverso. Ma essi preferiscono addentrarsi in un mondo tutto loro, a metà strada tra corpo e coscienza, che comunque ha finalità, progetti e strategie. Ah, lo «psichismo»!

GIORELLO Una di quelle parole tanto ambigue...

BONCINELLI ...e vuote di significato. Mi arrischio in una possibile definizione d'inconscio, e propongo una metafora della coscienza che ho delineato una decina di anni fa. Come tutti i cultori di informatica sanno, l'informazione si può elaborare in modo seriale o in modo parallelo. Il primo prevede l'elaborazione dei dati un passo dietro l'altro in un procedimento sequenziale: dopo il passo 15 si esegue il 16, dopo il passo 381 il passo 382. È ciò che facevano tutti i computer fino a quarant'anni fa e, ancor oggi, i nostri PC. Esiste poi il modo parallelo, che procede compiendo molte operazioni contemporaneamente, in parallelo appunto. Molti supercomputer usano oggi il modo parallelo e qualcuno pensa che in futuro questa sarà la regola. Il vantaggio è la velocità: compiendo molte operazioni in parallelo si guadagna indubbiamente tempo.

Ebbene, tutto il nostro sistema nervoso procede in modo parallelo. I vari processi nervosi e mentali corrono, gli uni accanto agli altri: dalla vista dei colori a quella delle forme, dall'udito al tatto, dall'olfatto al richiamo selettivo dei ricordi. Quando però dico (e prima ancora penso): «Questo orologio è nero», questo è un processo seriale o se preferiamo sequenziale. Per prendere coscienza di qualcosa – e fino a che questo contenuto di coscienza dura –, un certo numero di processi spontaneamente paralleli sono costretti a divenire seriali. Per me la coscienza è un gigantesco «imbuto» che costringe un certo numero, un «mazzetto» di processi paralleli a divenire seriali per un certo lasso di tempo. Poiché dopo un attimo tutto ridiventerà parallelo, piuttosto che di un imbuto si dovrebbe parlare di una «clessidra»: prima parallelo, poi seriale, poi di nuovo parallelo. L'attimo della coscienza coincide con la strozzatura della clessidra, che dura, lo sappiamo, solo qualche secondo. È anche questa una metafora, ma da prendere sul serio (spero!), di quelle che hanno, come tutte le buone metafore, conseguenze di rilievo. Resta il problema: tutti quei processi nervosi paralleli che in un dato istante non fanno parte della strozzatura della mia coscienza istantanea, non potrebbero rappresentare l'inconscio? E dovrebbero essere tutti allo stesso livello, o ci sarebbe una gerarchia? Se riteniamo, come credevano i grandi empiristi di lingua inglese – o, per certi versi, lo stesso Condillac – che dietro l'apprendimento e il pensiero ci siano delle associazioni, allora potremmo supporre che degli infiniti processi paralleli che mi passano in questo momento «per la mente» solo un mazzetto sia costituito da quelli coscienti; tutti gli altri – e sono la stragrande maggioranza – sono lontani dalla coscienza. Ma ce n'è un gruppetto formato da quelli che sono prossimi alla soglia della coscienza; e prossimi vuol dire che, se si allarga un po' la coscienza, ne vengono inclusi. Se le cose stanno così, possiamo di volta in volta definire una sorta di preconscio che è l'insieme delle cose di cui non ho coscienza ora, in questo momento; ma, per così dire, sono le prime in lista per la possibile presa di coscienza. Quest'idea non potrebbe far sposare (anche se forse sarebbe un matrimonio un po' posticcio) una teoria neurofisiologica con l'idea freudiana di inconscio? In fondo, tutta l'idea freudiana si può riassumere nell'asserzione che nella nostra psiche non tutto è conscio.

GIORELLO Tu parli di una sorta di fascio di processi che si dispiega in un continuo; e, direi, un estremo di questo continuo è rappresentato dai processi che noi chiamiamo consapevoli, addirittura coscienti; mentre chiameremo inconsci quei processi che si allontanano da questo estremo. Non so cosa ne pensino gli psicoanalisti, che hanno scordato il «materialismo» di un certo Freud! Comunque, sia gli uni sia gli altri processi hanno il carattere di radicarsi nel corpo.

BONCINELLI Esatto.

GIORELLO Siamo stati tutti viziati dal dualismo cartesiano, dalla concezione cioè che nel corpo come struttura estesa sia collocato un punto inesteso che rappresenta l'Io che, anzitutto, pensa. Si è usciti dalla trappola, come la chiama Antonio Damasio, mostrando che questo Io che pensa può essere considerato non tanto autore ma effetto dei processi che tu hai evocato, molti dei quali sono inconsci nel senso che hai chiarito. Ma non mi basta. Io sarei portato a considerare la mente, conscia o inconscia che sia, non tanto come questa individualità cartesiana, la sostanza inestesa di natura spirituale, quanto come un attributo del corpo stesso, della corporeità. Preferirei partire dall'idea di una mente che è, allo stesso tempo, incorporata ed estesa; e solo dopo domandarmi se mai ci sia una libertà di questa mente.

BONCINELLI Esiste soltanto il corpo: il corpo è fatto di cellule, di circuiti nervosi e di molecole, ed è in tale corpo, in particolare nel cervello, che si svolge tutta una serie di processi. Fino a questo punto non vedo niente di transmateriale, niente di diverso dalla descrizione dei tanti eventi che osserviamo in natura. Certo, il cervello umano è particolarmente complesso, lo abbiamo detto più volte. A meno che non vogliamo sostenere che la quantità si converta in qualità (che pure sembra qui una constatazione abbastanza plausibile), dobbiamo convenire che restiamo comunque nella materia. Resta la questione della mia percezione della mia personale coscienza fenomenica: dico la mia, e non, poniamo, la tua. Io la tua la posso forse osservare con una macchina, o discutendo con te, o controllandoti come faccio con un cane o con uno scimpanzé; mutatis mutandis, tu puoi fare lo stesso con me, ma io su di me non ho uno strumento per osservare dal di fuori la mia interiorità, se non quella di subirla o di viverla secondo il mio punto di vista. Ti sembrerò drastico, ma per me il mondo è costituito solo da due entità: tutto fuorché la percezione della mia coscienza fenomenica istantanea, da una parte; quella stessa, dall'altra.

GIORELLO Tagli il mondo in due con una scissione che non sarebbe dispiaciuta a Monsieur Descartes.

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BONCINELLI Mi pare che da Spinoza tu sia passato a Hume.

GIORELLO In un certo senso, è così. Ma sul piano epistemologico non ci vedo alcun contrasto. L' abitudine o, se preferisci, la consuetudine spiegano la «legalità» naturale o sociale, ma non è detto che la giustifichino. Prendi ora il cosiddetto diritto naturale. La mia sensazione è che il diritto di natura sia qualcosa su cui conveniamo pressoché all'unanimità in condizioni normali; ma riesco difficilmente a concepire una natura messa lì, di fronte a me, che ci dà degli ordini, seguendo i quali deriveremmo i nostri comportamenti «retti». Per esempio, non riesco a capire che cosa mai si voglia dire quando si asserisce che una famiglia monogamica è «più naturale» di una famiglia poligamica, o un rapporto eterosessuale è «più naturale» di un rapporto omosessuale. E se poi i difensori dell'eterosessualità o del matrimonio monogamico scoprissero drammaticamente (per loro) che nella maggior parte delle specie animali, compresi i primati superiori, domina la poligamia oppure ci sono casi frequenti di omosessualità? Cambierebbero le proprie idee? Quel che non riesco a intendere, a livello più sofisticato, è l' estensione di una locuzione come «diritti naturali». Per esempio, i Dieci Comandamenti esprimono «diritti naturali», magari per contrapposizione? Perché dovrebbe essere un diritto naturale non essere ucciso (Quinto Comandamento)? In natura osserviamo spesso distruzioni sia interspecifiche sia intraspecifiche; d'altra parte, non poche tradizioni morali e religiose, che si dichiarano contrarie alle uccisioni, si rivelano disposte ad ammettere una serie di eccezioni: si può uccidere per autodifesa, per la patria, per proteggere un minore ecc. E quando si cominciano ad aggiungere tutte queste qualificazioni – più o meno a buon mercato – la naturalità è andata a farsi benedire.

BONCINELLI Mi dispiace criticare il diritto naturale, che ha rappresentato un tempo una grande e faticosa conquista del pensiero umano. Però, ho sempre avuto anch'io difficoltà a capire di cosa si stia parlando quando lo si nomina. Intanto, mi infastidisce professionalmente il fatto che molti, parlando di leggi di natura, non abbiano la più pallida idea di come funzioni la natura e quali ne siano i processi. E questo lo trovo disonesto, oltre che poco soddisfacente; ma, supponendo pure che questi pretesi «saggi» siano al corrente di quel che succede in natura, la domanda è: quale natura? La natura di cento milioni di anni fa, in cui non c'era non solo l'uomo ma nemmeno il profumo dell'uomo? La natura di qualche milione di anni fa, in cui c'era, forse, qualche «omaccione» che si aggirava per le selve? La natura di quarantamila anni fa, quando qualche essere «più umano» ha iniziato a incidere o dipingere qualcosa su pareti rocciose? O la natura per l'uomo di oggi? Homo sapiens è natura, certamente, perché ha le radici nella natura. Ma l'ha trasformata su di sé e intorno a sé; dunque, di quale natura stiamo parlando?

GIORELLO Però, è spesso in nome della Natura (persino con l'iniziale maiuscola) che si impongono i più bizzarri divieti sia alla ricerca tecnico-scientifica sia alla libera fioritura dei diversi esperimenti di vita. Forse, varrebbe la pena di delineare uno schema generale circa l'idea di natura, distinguendo differenti accezioni del termine.

BONCINELLI Sì. Per me, in primo luogo, esiste una visione tangibilissima della natura come insieme delle cose che ci circondano in questo momento, che sono prevalentemente ma non esclusivamente di origine organica: alberi, prati, fiori, animali, cielo, mare, Sole, Luna e stelle, osservati in tutte le possibili condizioni atmosferiche. Parliamo abitualmente di una natura definita in questo modo, che possiamo designare come natura_1; ma occorre tener presente che spesso si considerano incluse in essa molte cose che sono, in realtà, il risultato della millenaria interazione dell'uomo, cioè della sua cultura, con la natura vera e propria – che potremmo designare come natura_0 – come il frumento, il granturco, le ciliege, i piselli, l'uva, le pecore, le mucche e via discorrendo, tutte entità che senza l'opera dell'uomo non ci sarebbero. Questa è la natura della quale parliamo ancor più spesso e che tendiamo a contrapporre all'uomo e alla sua cultura. C'è poi una natura, chiamiamola natura_2, vista come reggitrice e ordinatrice della immensa varietà dei processi biologici, la cui azione ha portato tra le altre cose alla natura_0, ma anche all'uomo e in definitiva all'attuale natura_1. È una Natura davvero degna della maiuscola, questa volta, la cui azione è stata ipotizzata e cantata da tempi immemorabili e che ha ispirato innumerevoli riflessioni poetiche, da Mimnermo a Leopardi. Ma che cosa c'è dietro questo concetto, che ha tutte le caratteristiche di una amorevole personalizzazione? Non solo non esiste una volontà, ma non esiste neppure una forza centrale che realizzi tutto questo. Ciò che a noi può apparire come una forza organizzata è l'effetto del concorso di un numero enorme di fenomeni naturali, piuttosto che la loro causa. Questa natura_2 è, insomma, l'insieme delle leggi della biologia e soprattutto il risultato del processo evolutivo. E veniamo al terzo significato, il più ampio di tutti, della parola natura, diciamo natura_3, come entità ancora più astratta e omnipervasiva che regge i moti dell'intero universo, animato e inanimato, con la forza delle sue leggi, le cosiddette «leggi di natura» appunto.

GIORELLO Con questo abbiamo puntualizzato cosa intendere per legalità naturale. A essa, certo, non sfugge nemmeno Homo sapiens o faber, se preferisci. Ma in questa tua ricostruzione razionale hai seguito un iter epistemologico, partendo proprio dalle nostre generalizzazioni induttive circa la natura_1, passando poi alla natura_2 che è quella che ricaviamo dalla lezione di Darwin — e solo alla fine hai introdotto la struttura universale della legge fisica, cioè la natura_3.

BONCINELLI Lo ammetto. Il cammino storico è proceduto, a dire il vero, nel senso opposto. Prima viene la natura_3, poi, probabilmente soltanto su questo pianeta, la natura_2 e infine l'attuale natura_1, mentre la natura_0 non rappresenta che un costrutto ipotetico. Anche lo status di queste tre idee di natura è diverso. La natura_3 è un insieme di leggi, per quel che ne sappiamo universali (ma chi lo ha mai direttamente controllato?); la natura_2 è un meccanismo esplicativo, specifico, locale e semiempirico; mentre la natura_1 coincide con tutto quello che esiste al momento sulla Terra. Nessuno sa che cosa potrebbe essere, infine, la natura_0; eppure, buona parte dei discorsi che si ascoltano oggi vertono sulla differenza, variamente ricostruita, fra natura_1 e natura_0.

GIORELLO Questo è il punto più delicato. Il grado zero della natura è un'idea limite — un «costrutto ipotetico», come dici tu stesso —, al di là delle possibilità di controllo empirico. E quando si ha a che fare con costrutti del genere, è facile che si insinui l'elemento ideologico.

BONCINELLI Il nostro discorso va, dunque, attentamente precisato. L'etologia ci ha insegnato moltissimo sugli animali, anche se, a dire le cose come stanno, da specie a specie le condizioni sono differenti; quindi, dobbiamo capire se vogliamo imitare le formiche, i formichieri o i castori! Le cosiddette «verità della natura» sono verità da specificare. Concedo che è insoddisfacente psicologicamente il pensare che non ci siano affermazioni di base, sulle quali essere tutti d'accordo; forse, un giorno ci saranno; per il momento non ci sono, come hai detto tu. Di fatto, non è per nulla scontato che cosa sia una norma, e non è scontato proprio perché le norme cambiano. Riemerge qui l'opposizione tra relativismo e non relativismo. Come spesso ripeto, relativista non è chi non ha idee; relativista è chi è disposto a cambiarle! Quindi, se io stesso ho difficoltà col concetto di legge di natura, ne ho ancor di più con quello di norma naturale; tuttavia, da fragile essere umano, ho la sensazione che mi farebbe piacere se ci fosse un gruppetto di tre, quattro, cinque «cose» assolutamente indubitabili. Probabilmente, questa è un'illusione, è l'effetto di un condizionamento: come il mio corpo mi fa credere di essere libero, così mi fa credere che esistano delle verità di base, magari assolutamente intoccabili. L'uomo, in fondo, istituisce il sacro — cioè l'intoccabile, l'indiscutibile — rimandando alle leggi di natura come a una sorta di sostituto dell'istinto. Gli animali hanno l'istinto, e stanno tranquilli: «sanno» sempre cosa fare. L'uomo ha avuto la tracotanza e la presunzione di pensare, di avere una coscienza, e, pur essendo dotato di istinti come tutti gli altri animali, può passare sopra di essi, almeno entro certi limiti. Ma ha paura della libertà, e intanto si trova davanti a un'infinità di possibilità; siccome un'infinità di scelte spaventa, si inventa precetti, si inventa il sacro, che è un sostituto intellettuale collettivo dell'istinto animale. Mi pare evidente che, di fatto, tutti o quasi soffriamo della libertà. Ne siamo orgogliosi, ma ne soffriamo perché abbiamo bisogno di falserighe, e disperatamente le cerchiamo, al punto di reificarle e pensare che esse siano là fuori, come cadute dall'iperuranio di Platone o dettate da Dio a Mosè sul Sinai.

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