|
|
| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti 3 Introduzione 5 Capitolo 1 — Cacao 9 I ribelli vogliono il cacao 11 Vita e morte della "Caistab" 15 Gli ardori della Banca Mondiale 21 Gli americani prendono il potere 28 Una riorganizzazione militaresca 32 I soldi del cacao, nerbo della guerra 35 Che fine ha fatto il gruzzolo? 40 Epilogo 43 Capitolo 2 – Caffè 47 America centrale: la catastrofe 49 L'hold-up vietnamita 56 L'agonia degli accordi internazionali 61 Gli interessi americani prevalgono 64 Un mondo crudele 68 La resistenza dei produttori 70 La battaglia per la qualità 74 La vittoria delle multinazionali 77 Nestlé batte sullo stesso chiodo 82 Epilogo 85 Capitolo 3 – Cotone 87 Malloum, il pellegrino del cotone 90 Il cotone africano è francese 95 Il cotone americano è... universale 100 Gli africani fanno sentire la propria voce 105 I brasiliani ai posti di manovra 109 Cancún, amara vittoria ... 114 Epilogo 117 Capitolo 4 — Riso 119 Anche il Madagascar fa riciclaggio... 121 Niente riso senza navi 125 Chabert inventa il "riso errante" 128 Il riso, una telenovela! 133 Il mercato dei nasi finti 135 Lo shock delle bustarelle 139 La defezione delle multinazionali 141 Gli Stati si muovono ancora! 143 Epilogo 145 Capitolo 5 — Pepe 147 Capitolo 6 — Il miraggio dell'equo e solidale 159 Domande eque 162 Anche le multinazionali 166 Il dito che nasconde la foresta 170 Bibliografia 173 |
| << | < | > | >> |Pagina 5IntroduzioneChi non ha sugli scaffali della propria cucina una tavoletta di cioccolato, un vasetto di pepe, un pacchetto di caffè o di riso? Indubbiamente si tratta di generi alimentari ormai entrati a far parte dell'uso comune: non mancano nella vita di tutti i giorni e richiamano i luoghi esotici dove sono stati prodotti soltanto negli spot pubblicitari che dovrebbero spingere i consumatori ad acquistarli. Eppure dovremmo riflettere più spesso sulla loro origine e, come se avessimo tra le mani una lampada di Aladino, dovremmo strofinare un po' perché da ognuno di questi affiorino piano piano gli uomini e le storie che li hanno prodotti. Scartate una tavoletta di cioccolato, ci troverete così un po' di Costa d'Avorio, il principale produttore di cacao che, però, non ha mai tratto grande beneficio da questa sua ricchezza. Aprite il vasetto di pepe: dentro c'è ancora un po' di Vietnam e dei suoi contadini capaci di battere, in virtù della loro abnegazione e dedizione al lavoro, la concorrenza del resto del pianeta. Questi generi agricoli hanno una qualità e un prezzo che dipendono sostanzialmente dal clima delle zone di produzione, dall'impiego maggiore o minore dei concimi e dalla cura con cui ogni agricoltore coltiva il proprio terreno. Dalla Costa d'Avorio al Vietnam, passando per il Guatemala e la Birmania dove pure vi condurrà questo libro, i protagonisti de Il Romanzo noir delle materie prime sono i contadini, i braccianti, i produttori. Comunque si chiamino, restano per molti volti anonimi, eppure alla base di potenti circuiti economici. Da quando le fave di cacao, i grani di caffè, i sacchi di riso e le balle di cotone lasciano campi e villaggi di produzione per arrivare sugli scaffali dei nostri supermercati, passano attraverso un gran numero di intermediari, trasportatori, esportatori, trader, importatori, trasformatori e agenti di commercio. Ed è esattamente alla comprensione di questi passaggi, che poi costituiscono i circuiti economici e commerciali di cui parlavamo prima, che sono dedicate queste pagine. E alla loro evoluzione nel corso degli ultimi decenni. Parleremo di economia e di politica. Di come le colture di questi prodotti occupino ormai intere regioni, costituendo la prima fonte di sostentamento per decine di milioni di famiglie e la risorsa economica più importante per intere nazioni. Parleremo di come controllare queste colture significhi, nella magior parte dei casi, controllare la popolazione, la regione, talvolta il Paese dove si sviluppano. Perché sotto l'aratro stanno il potere economico e politico. La posta in gioco è alta. Talvolta scoppiano lotte per il controllo dei campi e degli uomini che li coltivano. Può accadere che lo scontro sia tra connazionali o tra lo Stato e una multinazionale di un altro Paese. Spesso questi popoli sono oppressi da ogni tipo di avversità, naturale o umana che sia. La vulgata terzomondista degli anni Sessanta, oggi ripresa in maniera alquanto caricaturale dal movimento altermondialista, fa dei Paesi sviluppati, delle grandi imprese che vi hanno sede, delle agenzie finanziarie internazionali i principali responsabili dei problemi che affliggono i produttori di caffè o di cacao, di cotone o di riso. Certo, l'uragano liberista che ha travolto il mondo non ha mancato di provocare danni considerevoli anche in questi Paesi. È chiaro per tutti che la deregolamentazione dei mercati crea gravi problemi quando viene, per così dire, imposta incautamente alle economie più deboli, alle amministrazioni meno efficienti, alle popolazioni meno istruite. Eppure non sempre questi problemi hanno la medesima origine: l'incompetenza, la prevaricazione, l'indolenza della classe dirigente, la mancanza di coesione sia a livello nazionaie che regionale, locale sono causa di danni ancor più gravi, che spesso l'ingenuità di militanti caritatevoli, ora che il commercio equo solidale è diventato l'ultima panacea alla moda contro la povertà, non è in grado di debellare né, tanto meno, di correggere. Il lettore potrà interrogarsi sulla pertinenza della scelta di parlare in questa sede solo di cinque prodotti agricoli, tutti coltivati nei Paesi in via di sviluppo. E potrà stupirsi, al contrario, di come qui non si parli affatto di petrolio. Fiumi d'inchiostro sono già stati versati su cataclismi politici, guerre civili o internazionali scatenate dalla presenza di grandi giacimenti petroliferi nel sottosuolo delle nazioni coinvolte: l'organizzazione del mercato petrolifero sembra, paradossalmente, sottrarsi alle mutazioni di ciò che che prende il nome di "globalizzazione". Certo, l'inesauribilità delle risorse petrolifere sembra essere sempre più incerta, ma l'organizzazione del mercato petrolifero non ha subito modificazioni sostanziali dalla crisi del 1973, dal subentro dei Paesi del Golfo Persico nella gestione della produzione e dall'affermazione del potere dell'OPEC. Le tecniche ultramoderne utilizzate per cercare gli idrocarburi sul fondo oceanico a profondità sempre più distanti dalla superficie terrestre, i modelli matematici ipersofisticati utilizzati per garantire la copertura delle operazioni di finanziamento, il ruolo crescente dei fondi di investimento nel processo di determinazione del prezzo del greggio non hanno scardinato i rapporti di forza tra Paesi produttori e Paesi consumatori. Il meccanismo descritto potrebbe sembrare di un'incongruità folle. Eppure – tutto considerato – la posta in gioco dell'industria petrolifera non incarna altrettanto bene le sfide del mondo moderno quanto le domande poste dal funzionamento perverso dei mercati del cacao, del caffè, del cotone, del riso e dei pepe. Le prove di tale funzionamento sono state qui raccolte in sei anni di cronache quotidiane... | << | < | > | >> |Pagina 9CAPITOLO 1
Cacao
In Costa d'Avorio, come ogni anno, anche il mese di settembre del 2002 aveva segnato l'inizio della raccolta di cacao, principale risorsa del Paese. L'esercito di coltivatori si era messo al lavoro. Da est a ovest, nelle piantagioni strappate anno dopo anno alla foresta, milioni di mani avevano cominciato a raccogliere le cabossidi dagli alberi. Sarebbero state aperte a colpi di macete e poi svuotate. Le fave sarebbero state lasciate al sole a essiccare per parecchi giorni, prima di venire caricate sui piccoli camion dei "pisteur", primo anello della catena di intermediari che da cinquant'anni porta sempre maggiori quantità di cacao ivoriano verso i mercati mondiali. Alcuni carichi avevano già raggiunto gli stabilimenti di Abidjan e di San Pedro, i due grandi porti commerciali del Paese. Non molto in realtà, appena trecento tonnellate al giorno. Ma il quantitativo sarebbe aumentato di lì a poco, e tutta la filiera si stava preparando. Nel loro ufficio di Abidjan, i dirigenti delle grandi compagnie americane ed europee che controllavano il settore con un occhio tenevano sotto controllo le quotazioni del cacao alla borsa di Londra e di New York e con l'altro seguivano con ansia le vicissitudini della vita politica ivoriana. Un tempo oasi di stabilità, esempio per l'intero continente africano, la Costa d'Avorio sembrava, purtroppo, voler imitare il resto della regione. Il 24 settembre del 1999 un colpo di Stato aveva rovesciato il presidente Henri Konan Bédié, costretto a fuggire dal Paese. L'autore del putsch, il generale Gueï, non era però riuscito a vincere le elezioni presidenziali tenutesi il mese di ottobre successivo. In un clima di grande agitazione, era stato eletto Presidente della Repubblica Laurent Gbagbo, un veterano della vita politica ivoriana. Ciò rassicurava solo a metà gli investitori stranieri, i quali temevano di vedere le loro attività perturbate dalla confusa situazione politica. Avevano ragione a preoccuparsi. [...] Nel frattempo, a Parigi, al Quai d'Orsay, sede del ministero degli Affari Esteri, si cerca di comprendere la situazione ivoriana. Un gruppo di professori universitari svolge uno studio per spiegare cosa ha determinato la crisi della Costa d'Avorio. Perché questo "protettorato" francese è sfuggito a qualsiasi controllo? Perché quest'oasi di stabilità cede oggi ai peggiori difetti del continente africano, alle peggiori forme di lacerazione interna? I giovani studenti francesi incalzano i professori universitari. Non conoscono il Paese già da molto tempo? Non sono specialisti soprattutto della sua economia, della sua agricoltura, del suo cacao? In un mese, il lavoro è portato a termine. E la conclusione è inappellabile: "Le riforme liberiste poco lungimiranti imposte alla Costa d'Avorio negli ultimi anni non hanno contribuito né a migliorare le condizioni di vita della popolazione rurale né ad arginare la crisi urbana. Le riforme liberiste hanno solo contribuito alla delegittimazione del ruolo dello Stato. Hanno lasciato campo libero alle frustrazioni sociali che favoriscono le derive etnonazionaliste degli anni Novanta." Queste riforme, soprattutto la privatizzazione dei grandi settori economici, non hanno provocato il crollo della Costa d'Avorio, ma ne hanno accompagnato, quasi segnato il cammino verso il baratro. Hanno fornito argomenti di lotta a coloro che non vedevano l'ora di venire alle mani. | << | < | > | >> |Pagina 43EpilogoSei anni dopo aver chiesto ad alta voce la riforma, i dirigenti della Banca Mondiale redigono un resoconto della situazione allarmante. Come il primo giorno, continuano a denunciare l'impossessarsi della ricchezza derivante dal cacao da parte dello Stato e di una piccola élite rurale attraverso una "moltitudine di istituzioni inutili che abusano dei prelievi parafiscali". Per questi dirigenti la liberalizzazione deve essere ancora realizzata. Le misure adottate tra il 1998 e il 2004 non hanno migliorato il livello di vita dei coltivatori, che continuano a percepire una parte infinitesimale del prezzo mondiale del cacao. La corruzione raggiunge livelli mai superati. Nel settembre del 2004 si pensa di aver toccato il fondo quando le innumerevoli sottrazioni di fondi, di cui si sono macchiati i dirigenti della filiera, hanno vuotato le casse. I coltivatori attendono invano alcune decine di miliardi di franchi ivoriani, frutto dei loro contributi, che avrebbero dovuto permettere di finanziare in anticipo il raccolto. I produttori si ribellano, scendono in piazza, rifiutano di consegnare le loro produzioni. Non tanto per protestare contro la diminuzione delle quotazioni mondiali quanto per ottenere dai loro dirigenti il versamento delle sovvenzioni che spettano loro per diritto. Ma i soldi sono serviti al Governo per acquistare gli aeroplani da caccia che all'inizio di novembre del 2004 se ne vanno in fumo, distrutti dall'esercito francese dopo la morte di nove soldati della forza "Licorne", con il compito di frapporsi tra i ribelli e le forze nazionali. La scomparsa della Cassa di stabilizzazione ha quindi prodotto un ulteriore elemento di destabilizzazione in un Paese gradualmente spinto dai suoi dirigenti sull'orlo della guerra civile, come testimoniano i gravi avvenimenti all'inizio del novembre 2004: la partenza in fretta e furia di numerose migliaia di cittadini francesi e la paralisi, una volta di più, delle esportazioni di cacao. In questo panorama cupo si evidenzia un solo elemento positivo: anche nei momenti peggiori della vita politica, il cacao ivoriano ha continuato a uscire dalle zone di produzione. Meglio ancora, la produzione dovrebbe continuare ad aumentare, segno, secondo gli agronomi, di una "rivoluzione verde" nel settore del cacao locale. Sei anni di disordini non hanno ancora cancellato dalla mappa politica la classe media rurale ivoriana che, eredità degli anni di Houphouët-Boigny, è ben istruita. Le sue competenze agricole sono buone e concrete. Malgrado i rischi, essa riesce a far girare ancora il principale settore economico del Paese. Ma questo non può durare in eterno. Nel frattempo, dall'altra parte della frontiera, il Ghana, dove la situazione politica è stabile e la produzione di cacao aumenta in modo consistente di anno in anno, si sta preparando a prendere il comando del settore nel giorno in cui, a forza di incompetenza, malversazioni e divisioni, la Costa d'Avorio sarà riuscita a distruggere quell'ingranaggio perfetto che ha prodotto cacao e ricchezze, almeno dall'inizio degli anni Cinquanta. | << | < | > | >> |Pagina 159CAPITOLO 6
Il miraggio dell'equo e solidale
All'inizio di marzo del 2005, essendo alla ricerca di un'immagine più moderna per agevolare il processo di privatizzazione della loro società, i dirigenti di Dagris, società cotoniera francese, convocarono una conferenza stampa. Dopo lunghi mesi di preparazione, con il sostegno dello Stato e la collaborazione di alcuni operatori del settore tessile dell'Esagono e delle solite Ong, annunciarono, con gran rullo di tamburi, il lancio di una filiera di "cotone equo e solidale" nell'Africa occidentale. Mentre la produzione mondiale superava ampiamente i 20 milioni di tonnellate, di cui un milione venuto dall'Africa occidentale, i dirigenti di Dagris e i loro accoliti si impegnavano a commercializzare, secondo procedure dette "eque", alcune decine di tonnellate di cotone. L'affare veniva presentato come foriero di grande sviluppo per quelle zone. In realtà non era che l'ultima metamorfosi di un'idea molto apprezzata da alcuni ambienti dell'opinione pubblica dei Paesi industrializzati nella quale si propone di sposare l'utile e il dilettevole: lottare contro il sottosviluppo facendo spese. Lanciato negli anni Sessanta da ambienti di ispirazione cattolica, il movimento equo e solidale è nato con la missione di diffondere l'artigianato dei Paesi del Terzo mondo. La sua ragion d'essere poggia sulla nozione di "equità" teorizzata in modo assai indefinito dal filosofo americano John Rawls. Il movimento emerge realmente, però, solo negli anni Ottanta, con le impennate del mercato del caffè. Da allora non ha mai smesso di acquistare importanza. Il principio è chiaro: chiedere ai consumatori di pagare più caro il loro pacchetto di caffè o la loro barretta di cioccolato in modo da pagare meglio il contadino che si trova all'inizio della catena produttiva, permettendogli così di condurre una vita decente. Il movimento è sostenuto da numerose organizzazioni non governative. In Europa, una delle più attive è di origine olandese. Prendendo il suo nome da un eroe della letteratura coloniale batava, l'associazione Max Havellar ha lavorato molto per far conoscere al mondo il proposito del commercio equo e solidale. Disponendo di sedi in numerosi Paesi europei, l'associazione certifica la natura equa e solidale dei pacchetti di caffè, riso o cioccolato che giungono sugli scaffali dei grandi supermercati. Si assicura che l'esportatore paghi effettivamente al contadino il prezzo stabilito. La differenza con i prezzi del mercato mondiale non è irrilevante. Mentre le quotazioni del caffè alla Borsa di New York oscillavano nel 2004 attorno ai 70 centesimi la libbra, in Nicaragua o in Guatemala, come nel resto dell'America latina, le associazioni americane o europee ritiravano il caffè di alcune cooperative o comunità contadine a prezzi due volte superiori, permettendo a questi gruppi di vivere in modo più decoroso, sviluppare reti di trasporto, magazzini, costruire scuole e consultori, fare arrivare l'elettricità e l'acqua corrente nelle case. In Messico, nello Stato di Oaxaca, una delle cooperative affiliate alle reti eque e solidali raggruppa 16 mila produttori. Lo stesso avviene a Haiti, dove la produzione del caffè non ha smesso di diminuire. Nove cooperative della regione di Cap-Haïtien, nel nord del Paese, riescono a mala pena a esportare tutti gli anni alcuni container di arabica lavata che i conoscitori descrivono di alta qualità. I fondi generati dalle vendite eque e solidali hanno permesso agli abitanti dei villaggi di costruire un ponte su di un fiume, di attrezzare alcune aule in una scuola e alcune tettoie di mattone sulla piazza del mercato per dare riparo ai commercianti locali. Tutti miglioramenti della vita quotidiana che sarebbero stati impossibili se il caffè fosse stato pagato sulla base dei prezzi mondiali. Gli uomini e le donne che ne traggono beneficio hanno la sensazione di guadagnarsi un posto sulla scena internazionale. Come contropartita, gli acquirenti di prodotti equi e solidali impongono ai loro fornitori il rispetto di un capitolato d'oneri molto rigido. È vietato il lavoro minorile, il lavoro forzato, la violazione dei diritti umani. Le cooperative, che svolgono il ruolo delicato di intermediari fra i piccoli produttori e il mercato, devono essere gestite correttamente e onestamente. Per racimolare qualche centesimo in più che si aggiunge al prezzo "equo", si consiglia anche di coltivare caffè o cacao, banane o riso nel rispetto delle norme dell'agricoltura biologica di cui si dimostrano ghiotti i consumatori delle grandi metropoli del mondo industrializzato.
[...]
Domande eque È arrivato, infine, il momento di commettere un crimine: interrogare il commercio equo e solidale, cessare di considerarlo beatamente la panacea universale. Poiché, soffocato dalle azioni di comunicazione in suo favore, regolarmente sottomesso a "settimane del commercio equo e solidale", inondato da reportage televisivi che decantano i meriti di quella o quell'altra associazione, che descrivono con tono compassionevole la disperazione dei piccoli produttori e il loro sollievo in presenza dei buoni prezzi che sono loro offerti, accecato dalle campagne di promozione dei grandi supermercati che dichiarano di vendere i pacchetti di caffè equo e solidale a centinaia di migliaia, si giunge a dimenticare i fatti: sulla scala mondiale del commercio, la nicchia "equo e solidale" non rappresenta niente. Nel 2003, il prodotto più "lavorato" dal commercio equo è stato il caffè: 19 mila tonnellate sono state portate sugli scaffali dei Paesi consumatori tramite le reti di commercio equo e solidale. Ma equivale solo allo 0,3% del raccolto annuale di caffè, che si aggira sui sei milioni e mezzo di tonnellate. Quanto ai supermercati francesi, le loro "centinaia di migliaia di pacchetti" si riassumono a poche centinaia di tonnellate. Ciò non impedisce i sostenitori del commercio equo e solidale di compiacersi delle decine di milioni di dollari generati dalla loro attività. "Al dettaglio, facciamo 500 milioni di dollari", dichiarano alcuni di loro. Ma un calcolo veloce consente di circoscrivere meglio la realtà dell'operazione. Infatti, le mille tonnellate vendute dalle filiere del commercio equo e solidale fruttano ai contadini soltanto 40 milioni di dollari in più rispetto a quanto essi avrebbero guadagnato attraverso i circuiti tradizionali. Se, come ripetono continuamente i militanti del commercio equo e solidale, la loro idea geniale riguarda 550 mila contadini, stiamo parlando di 65 dollari a testa e all'anno di 5 dollari o, se preferite, 4 euro al mese! Un risultato da brivido! [...] Nuovamente, si tocca un tasto dolente poiché, al contrario di ciò che si vuol fare credere, non sono i più poveri, i più miserabili dei produttori a trarre vantaggio dal "fair trade". Nella maggior parte dei casi, i beneficiari sono le comunità rurali più salde, le più dinamiche, quelle in cui il livello di istruzione è già elevato. Soltanto loro sono in grado di mantenere il contatto con le Ong che promuovono il commercio equo e solidale, di affrontare i problemi commerciali e i controlli tecnici obbligatori. Il commercio equo e solidale contribuisce, quindi, seppure involontariamente, a marginalizzare ulteriormente i più poveri. D'altronde, la logica del potere inerente a qualsiasi struttura umana spinge le cooperative a trattenere una grossa percentuale del prezzo equo. È vero, ciò contribuisce a rafforzare l'organizzazione e a edificare le infrastrutture collettive. Ma, all'inizio della catena, il piccolo contadino riceve, come al solito, soltanto ciò che si decide di concedergli. In media, su 140 centesimi del prezzo ufficiale di caffè per libbra, circa 50 sono incamerati dalle cooperative. Questa requisizione spiega il comportamento reticente di alcuni contadini, costatato sul campo da ricercatori, in particolare modo in Chiapas, nel Messico meridionale. Contrariamente all'idea nobilmente propagata dai suoi promotori, il commercio equo e solidale non ha nulla di rivoluzionario. Non sovverte l'ordine economico internazionale. Acquistando un pacchetto di caffè con l'etichetta Max Havellaar, non si partecipa alla costruzione, domani o dopodomani, di un mondo migliore, di un altro mondo. Presentare in questo modo la situazione è una vera e propria fregatura intellettuale. Non solo il commercio equo e solidale non è in grado di fare concorrenza ai circuiti commerciali tradizionali, ma addirittura si appoggia su questi ultimi, rimettendo solo parzialmente in causa la catena degli intermediari che contribuisce a portare i chicchi di caffè dai produttori ai consumatori.
[...]
Anche le multinazionali Sempre più numerose sono le grandi compagnie alla ricerca di un supplemento di anime da cacciare sul territorio equo e solidale. Il primo approccio si fa timidamente, alla chetichella. A metà del 2003, il quotidiano Sud-Ouest faceva l'eco della simpatica iniziativa di un fabbricante di cioccolato bordolese: stava per immettere sul mercato tavolette di cioccolato equo e solidale. Un dettaglio contraddittorio che non sarebbe sfuggito ai consumatori. Questo fabbricante di cioccolato, del resto eccellente professionista, si approvvigionava di massa e di burro di cacao - i due derivati principali delle fave essiccate e lavorate - dal principale produttore mondiale, la Suisse Barry Callebaut. Interrogato a Londra, un trader rimase a bocca aperta. La società Barry Callebaut, impegnata nel regno del commercio equo e solidale, era in pratica come Al Capone in convento. Il turbamento di questo professionista esperto, che ha girato tutti i mercati e ha vissuto in tutte le zone di produzione, si spiegava così: secondo lui, la multinazionale svizzera metteva in atto le pratiche più aggressive immaginabili sul mercato del cacao. Giocava sistematicamente al ribasso a danno dei produttori, soprattutto degli ivoriani. Nel frattempo però si faceva bella agli occhi del pubblico giocando la carta dell'equo e solidale. Da non crederci! | << | < | > | >> |Pagina 170Il dito che nasconde la forestaIn fin dei conti, il commercio equo e solidale migliora la vita di una manciata di produttori poveri. Ma il rumore creato attorno a questo fenomeno nei Paesi consumatori contribuisce a occultare i veri problemi: quelli causati dalla scomparsa dei grandi accordi internazionali e delle casse nazionali di perequazione, dove esse esistevano. Sono ugualmente passate sotto silenzio la ridistribuzione delle carte fra i Paesi produttori – a beneficio di Brasile e Vietnam, ma a danno dell'Africa e dell'America centrale – così come la diminuzione significativa del consumo nei grandi Paesi europei. Con i discorsi tranquillizzanti e caritatevoli che sono loro propri, i sostenitori del commercio equo e solidale diventano complici delle grandi multinazionali che approfittano della situazione. [...] Con ciò non significa che si debbano lasciare da soli i produttori di caffè, cacao e cotone dei Paesi tropicali ad affrontare il mercato. La deregolamentazione alla quale si assiste dai primi anni Ottanta contribuisce a rovinare i contadini e le nazioni. Dall'altra parte della catena, i consumatori acquistano meno perché la qualità del prodotto proposto è bassa. Il sistema in vigore è quindi inefficace perché male regolato. L'asimmetria dei poteri tra consumatori e produttori, che il commercio equo e solidale non affronta, non permette un buon funzionamento del mercato. La crisi tuttavia è alle porte. Si prevede che durante i prossimi anni, il peso dei fondi d'investimento speculativo aumenterà in modo molto significativo, e l'instabilità dei prezzi crescerà a vista d'occhio. Il prezzo di queste derrate avrà sempre meno a che vedere con i bisogni dei produttori, sempre più con gli imperativi dei gestori dei fondi e i loro azionisti. Sarebbe assurdo lasciare che il sistema evolva in questa direzione. Si deve urgentemente attuare una serie di misure per proteggere i contadini. Il ritorno al sistema dei contingentamenti sembra, ciononostante, impraticabile nella configurazione politica internazionale attuale. Allora, perché non esigere che i contadini produttori di caffè condividano i benefici realizzati nei Paesi industrializzati dalle grandi multinazionali? Perché non esigere che una parte delle tasse percepite dagli Stati importatori sulla base dei consumi di caffè, cacao o cotone sia destinata a un fondo, a una cassa mondiale di perequazione? L'organismo in questione esiste già. Creato dalle Nazioni Unite nel 1980 per coordinare l'azione dei fondi di regolazione che da allora sono scomparsi, il Fondo comune dei prodotti di base, al quale aveva aderito la maggior parte dei Paesi industrializzati, troverebbe nuovo slancio. I suoi regolamenti resterebbero in vigore. L'articolo 3 del capitolo II dell'Accordo che sancisce la creazione del Fondo comune dei prodotti di base non stipula forse che il suo obiettivo è di "contribuire al finanziamento delle scorte regolatrici internazionali o finanziare misure diverse dallo stoccaggio nel settore dei prodotti di base"?
Questo fondo non deterrebbe nessuna scorta, non garantirebbe nessun ruolo
regolatore dell'offerta e della domanda. I capitali sarebbero suddivisi tutti
gli anni tra i vari Paesi produttori in funzione delle loro esportazioni
passate, sotto la supervisione delle Ong impegnate a verificare la destinazione
finale delle somme. Non è vietato sognare che un'architettura internazionale di
questa portata possa garantire guadagni decenti ai produttori senza rimettere in
funzione le casse di stabilizzazione, di cui i finanziatori internazionali non
vogliono più sentir parlare. Non si tratta di prendere di petto il liberismo —
il compito sembra impossibile tanto è potente l'onda che irrompe — ma di
sistemarlo in modo che dei ricavi dell'attività economica internazionale
traggano vantaggio anche coloro che, per posizione geografica e nascita, si
trovano in una situazione di debolezza.
|