|
|
| << | < | > | >> |IndiceUno schiavo della libertà 7 Sognatore di repubbliche, letterato per caso 31 Crimini e prodezze di un pirata di stato 57 Il poeta punito per eccesso di eleganza 77 Korzeniowski è senza patate 97 Uno scrittore paga i suoi errori 111 Due radici nell'isola 125 Il Gange bagna Mauritius 139 Vite a caso 151 Ringraziamenti 169 Riferimenti bibliografici 170 |
| << | < | > | >> |Pagina 7È domenica mattina a Port Louis. Sapete com'è nei paesi tropicali, persino gli alberi sembrano dipinti di fresco. I colori si lavano nel primo bagno di luce e la gente se la prende comoda. I cattolici riempiono le chiese, gli indù e i musulmani hanno più tempo per pregare, anche se la domenica non è un giorno speciale per loro. I vagabondi senza dio siedono agli angoli delle strade a contemplare gli splendori e le miserie della vita. Ognuno è sacerdote e fedele di se stesso, può inventare un rito nuovo ogni giorno. Giù nel porto una sirena scuote l'aria pulita del mattino. L'urlo della nave risale le valli interne, l'eco rimanda sulla città un suono dimezzato. I turisti ruotano gli occhi preoccupati di perdere qualche angolo già pagato, e con un click imprigionano le luci dell'isola nel buio della scatola nera. È domenica mattina a Port Louis, la domenica del 21 febbraio 1999. Il tempo è buono. Sulla Repubblica di Mauritius regna la calma. Ma nel carcere di Alcatraz è successo un fatto che sta per sconvolgere la quiete dell'isola. La polizia tenta ostinatamente di nasconderlo. Alla fine però deve arrendersi. Certe cose non si possono chiudere in un cassetto. Verso mezzogiorno la notizia evade dal carcere. Si aggira per le strade con la forza brutale di una tragedia antica. Urta contro i muri, si infila nei telefoni, rimbalza da una parte all'altra dell'isola. La voce diventa un urlo. Kaya è morto! Le case di legno e lamiera si svuotano, le strade si riempiono. I creoli sono i primi a raccogliere il grido. Kaya è morto! A loro si uniscono altri diseredati. Ma non ci sono solo poveri per le strade. Alla protesta partecipano anche persone che non sono disposte a mantenere i privilegi ad ogni costo. Nelle prime ore del pomeriggio su tutta l'isola la gente si riunisce nelle piazze, sotto i boschetti di palme, sulle spiagge. È gente attonita, gente inorridita, gente infuriata. Kaya è morto! La polizia non può più tacere. Il comunicato ufficiale rende noto che Kaya è morto per le ferite che si è inflitto da solo, battendo la testa contro il muro, in preda a una crisi di astinenza. Non è possibile accettare una versione come questa. La rabbia oramai è un'onda che diventa sempre più alta. Prima o poi dovrà trovare una costa dove abbattersi. La società dell'isola è scossa, il cuore dei creoli è entrato in fibrillazione. Verso sera una folla rumorosa circonda la stazione di polizia a Rose Hill. I poliziotti sparano lacrimogeni. Volano pietre, volano pallottole. La gente rovescia i veicoli, sfonda le vetrine. La battaglia è cominciata. A Rose Hill, a Port Louis, a Roche Bois, a Beau Bassin e in altre parti dell'isola gli scontri si moltiplicano. Kaya è morto! Scende la notte e porta un po' di calma nelle strade, ma non nell'anima ferita dei creoli. Li chiamano creoli qui gli abitanti di origine africana. Pochi di loro vanno a dormire. Il giorno seguente gli scontri riprendono con maggior violenza. I trasporti sull'isola sono interrotti, le attività portuali funzionano a ritmo ridotto. Vengono incendiati autobus, camion delle guardie municipali. La polizia spara. Un altro creolo cade colpito a morte. È Berger Agate, un musicista amico di Kaya. La rabbia riesplode. Gli scontri sono sempre più violenti. Altre stazioni di polizia vengono attaccate con bombe molotov e pietre, le strade sono bloccate. C'è il pericolo di una vera insurrezione popolare. Il primo ministro Navin Ramgoolam chiede di incontrare madame Véronique Topize, la vedova di Kaya, e lancia un appello alla nazione. Promette verità e giustizia. A Candos anche il presidente della Repubblica scende tra la folla per pacificare gli animi e promette verità e giustizia. Il mercoledì una folla imponente si raduna a Roche Bois per i funerali di Kaya. È lui stesso che canta, le sue canzoni vengono diffuse dagli altoparlanti. Uno dei suoi amici prende il microfono e invita la gente a unire la sua voce a quella di Kaya. È una grande festa. Bisogna credere che Kaya stia cantando ancora, anche se il suo corpo massacrato è lì dentro una cassa. Alla cerimonia due ministri vengono cacciati dalla folla, l'arcivescovo di Port Louis viene applaudito. A calmare gli animi si leva l'appello alla pacificazione di madame Kaya: «Che la musica sostituisca la violenza!» Il popolo dei creoli ancora una volta accetta di deviare sulle vie dei canti la propria rabbia. Gli africani di Mauritius cercano di abituarsi all'idea che Kaya è morto e nessuno potrà più resuscitarlo. Dovranno accontentarsi della musica che ha creato e rinunciare a quella che avrebbe potuto fare se una sua imprudente testata contro il muro non l'avesse portato alla morte. Joseph Reginald Topize, noto con il nome di Kaya, era il musicista più popolare dell'isola. Fuori da Mauritius aveva avuto una fortunata tournée in Francia e in Inghilterra. Era nato il 10 agosto del 1960 a Roche Bois, un quartiere povero alla periferia di Port Louis. Suo padre era pescatore, sua madre lavorava come donna di servizio. Kaya era cresciuto presso uno zio paterno e fin da ragazzo aveva dovuto arrangiarsi con piccoli lavori. A sedici anni aveva capito che la musica sarebbe diventata il centro della sua vita. Suonava la chitarra e aveva cominciato a esibirsi con brani di Santana e dei Deep Purple. Nel 1982 con alcuni amici aveva fondato il gruppo "Racine-Tatane", prendendo il nome di un principe malgascio ribelle esiliato a Mauritius. Nel 1986 aveva cominciato a essere apprezzato nell'area dell'Oceano Indiano. Kaya aveva trovato una sua strada personale creando il seggae, una fusione del ritmo musicale di Mauritius, il sega, con il reggae dell'amatissimo Bob Marley. Nel 1989 era uscita la sua prima cassetta, Seggae nou lamizik. Erano seguite altre produzioni e la sua popolarità era cresciuta continuamente. Nel 1990 un concerto di Kaya allo stadio di Rose Hill aveva radunato quasi quarantacinquemila persone. Una bella folla per un'isola che conta un milione di abitanti. Qualche giorno prima dei fatti che abbiamo raccontato, Kaya aveva partecipato a una manifestazione del Mouvement Républicain, il partito più radicale dell'isola. Il raduno era stato organizzato per chiedere la liberazione dei cittadini incarcerati con l'accusa di aver consumato marijuana. In quel periodo la metà dei detenuti dell'isola si trovava in carcere per questo reato. Kaya durante la manifestazione aveva fumato in pubblico una sigaretta di marijuana. La polizia non aspettava altro. In nome dell'ordine aveva colto l'occasione per punire un crimine intollerabile, quello di cantare la libertà. | << | < | > | >> |Pagina 17La vicenda di Kaya affonda le radici nella grande tragedia del popolo africano, nelle drammatiche sopraffazioni che hanno funestato la sua esistenza nei secoli passati.Tutto ebbe inizio con uno dei capitoli più scellerati della storia occidentale. Bisogna risalire al Seicento, quando molti stati europei, per aumentare il loro benessere, incoraggiarono la politica coloniale e lo sfruttamento di altri uomini che non erano riusciti a costruirsi armi sofisticate per difendersi. Nacque la pratica dello schiavismo. Una delle pagine più vergognose per quell'Europa che noi ogni tanto, arrotondando la bocca, chiamiamo "culla di civiltà". I negrieri, la deportazione degli africani e il loro sfruttamento disumano nelle colonie, pesano sul nostro passato e sul presente di milioni di persone, che sono i figli di quello sradicamento violento. Anche qui, sull'isola Mauritius, questo piccolo fazzoletto di terra perso nell'Oceano Indiano, la pratica dello schiavismo conobbe momenti di tragica espansione. A subire maggiormente la persecuzione furono i popoli che non avevano saputo sviluppare sistemi di difesa efficaci ed erano diventati preda dei negrieri europei. La sorte degli africani è un po' come la sorte di uno strano uccello che viveva a Mauritius e che è scomparso perché non aveva elaborato nessuna tecnica di risposta alle aggressioni. Era stato chiamato dodo dai marinai olandesi del Settecento, ai quali non era sembrato vero che quell'uccello fosse incapace di volare, incapace di difendersi con gli artigli e con il becco e che quindi rimanesse totalmente a disposizione di chi voleva approfittarne. In olandese dodo vuole dire stupido. Perché la nostra cultura ritiene stupido chi non sa difendersi, non chi aggredisce. L'unico ad aver dato ai dodo una dignità, sia pure solo letteraria, fu Lewis Carroll , che in Alice descrive questo uccello in atteggiamento da grande pensatore. Il dodo era stato sterminato già nel Settecento. Oggi le sue caratteristiche vengono studiate sui resti di qualche scheletro trovato dai naturalisti. E il dodo è diventato un simbolo che rappresenta l'isola. Ma è anche la metafora di chi non elabora difese, di chi vive in pace sperando di essere lasciato in pace. È il simbolo di tutti i "dodo" del mondo che vengono calpestati semplicemente perché sono calpestabili. I neri d'Africa furono presi come i dodo. Per tacitare le coscienze i colonizzatori favorirono strane teorie. Modesti pensatori decretarono che gli uomini con la pelle nera in realtà non avevano l'anima, e quindi appartenevano a una razza inferiore. Dissero che erano più vicini alle bestie che all'essere umano. Ma quello che venne fatto loro non si fa nemmeno alle bestie. Altri "pensatori" cercarono la differenza in particolari demenzialmente sofisticati, come il chirurgo inglese Charles White – il nome sembra un destino – che argutamente faceva osservare come solo le donne bianche fossero in grado di arrossire. Nessuno gli chiese se il pudore fosse una qualità dell'anima o della pelle. A cominciare i traffici umani su questa terra erano stati gli olandesi, che si erano insediati per primi sull'isola e l'avevano battezzata con il nome che ancora porta, Mauritius. Nel 1639 era stato nominato governatore dell'isola Adrian van der Stel. Gli olandesi avevano cominciato a importare schiavi dal Madagascar per far lavorare la terra dei primi coloni. Avevano introdotto la canna da zucchero, ma non erano mai riusciti a trarre un profitto economico dalla colonia. Si erano dedicati di più all'arte del commercio e non furono capaci di organizzare una vera produzione agricola. Nel 1710 distrussero le loro costruzioni e lasciarono l'isola. I francesi, che avevano già preso possesso di Reunion e Bourbon, furono tentati di impadronirsene. Il capitano Dufresne d'Arsel si recò a Mauritius, confermò che l'isola era oramai abbandonata dagli olandesi e propose alla Francia di prenderne possesso. Fu così che Mauritius, nel 1715, prese il nome di Île de France. L'agricoltura e il commercio vennero sviluppati, ma sempre ricorrendo all'ignobile traffico umano. I vascelli dei negrieri partivano dalle coste del Madagascar, del Senegal e più raramente dell'India e della Malesia. L'atteggiamento verso gli schiavi era tutt'altro che civile da parte dei civilissimi coloni francesi. Per avere un'idea delle condizioni di vita di questi poveri esseri umani, strappati dalla loro terra e portati nell'inferno, bisogna leggere il Voyage à l'Île de France di Bernardin de Saint-Pierre. | << | < | > | >> |Pagina 24Gli inglesi, già dai primi anni della loro amministrazione, avevano pensato di risolvere il problema della schiavitù favorendo una forte migrazione dall'India. Sappiamo che questi poveri lavoratori, ingannati, trovarono condizioni di poco migliori di quelle degli schiavi. L'emancipazione fu un cammino lungo, fatto di lotte sociali e di conquiste graduali. Vi contribuì anche qualche francese illuminato come Remy 0llier. Ma furono gli indiani a portare avanti con maggior determinazione le battaglie politiche, anche perché nel frattempo erano diventati la maggioranza nell'isola e puntavano all'indipendenza.I discendenti dei lavoratori venuti dall'India hanno dato un contributo decisivo allo sviluppo delle lotte per i diritti civili. Nei primi del Novecento formarono il Partito Laburista, che per anni fu il più attivo nelle conquiste sociali. Dalle fila di questo partito emerse Seewoosagur Ramgoolam, oggi considerato il padre della patria, che guidò il primo governo locale nel 1968, quando l'Inghilterra concesse l'indipendenza a Mauritius. Ma in tutte queste vicende i poveri africani sono sempre rimasti un po' in disparte. Non riescono mai ad approfittare della libertà. La loro è quasi una resa alla dittatura dei più forti, che in ogni parte del mondo li ha visti e li vede sottomessi ed emarginati anche dopo la fine della schiavitù. Oggi i figli di questa povera umanità straziata vivono sull'isola. E portano sulla pelle i segni di un'umiliazione arcaica. Arrancano ancora per uscire dal pozzo degli orrori in cui sono stati gettati i loro padri più di due secoli fa. Portano sulle spalle le tare di un dislivello che il tempo non è riuscito a colmare. Hanno negli occhi il rimprovero per un risarcimento che non è mai avvenuto. Sono i creoli. Per capire il significato della parola creolo su quest'isola, bisogna spogliarsi delle definizioni che si possono trovare su un normale dizionario. Nella Repubblica di Mauritius creolo significa africano, discendente dei poveri disperati che si consumarono per arricchire una classe di colonizzatori senza scrupoli e senza anima. Ora i creoli si sentono emarginati anche dagli indiani, antichi compagni di schiavitù divenuti classe dominante dell'isola. Non hanno tutti i torti. | << | < | > | >> |Pagina 97Insegnami a navigare nei fiordi del caso. Malcolm Lowry, Il pellegrino Il veliero australiano Otago è fermo da molti giorni nel porto di Bangkok. Il calendario segna la metà di gennaio dell'anno 1888. Ma le date, sulla linea dei tropici, lasciano spazio a un'idea circolare della stagnazione eterna. L' Otago forse è prigioniero di avvenimenti che il destino distribuisce ai frequentatori degli oceani, forse è dominato dall'umana follia che il caso sparge sugli atlanti del mondo a occhi chiusi. L'equipaggio è bloccato in attesa di un ordine che non arriva. Compaiono invece febbri tropicali, colera e dissenteria. Ma la malattia più difficile da spiegare si è impadronita del capitano. Non comunica con i suoi uomini tranne che per qualche comando bizzarro. Ogni tanto, di notte, sale sulla tolda e dà l'ordine di serrare una vela, poi ridiscende sottocoperta e si mette a suonare il violino. L'ultima notte il capitano getta il violino dall'oblò. Il mattino seguente viene trovato morto nella sua cabina. Il comando della Otago viene affidato dagli armatori australiani, attraverso un agente di Bangkok, al capitano Józef Teodor Konrad Korzeniowski, un ufficiale di trentun anni, che è fermo a Singapore per una serie di capricci del caso. Qualche tempo prima un pezzo di alberatura dell' Highland Forest lo aveva colpito alla schiena costringendolo a tre mesi di immobilità. Poi si era rimesso in mare accettando un incarico sulla Vidar. Infine era rimasto a Singapore in cerca di un nuovo imbarco. Józef Teodor Korzeniowski è un giovane capitano già provato dalle vicende della vita. È nato in Polonia da genitori appartenenti alla piccola nobiltà terriera. Suo padre era un uomo animato da sentimenti patriottici, ma anche da una grande passione letteraria che lo aveva portato a tradurre Shakespeare e Hugo. Ancora ragazzo Józef Teodor Korzeniowski perde la madre e poco dopo anche il padre. Rimane sotto la tutela dello zio Tadeusz Bobrowski, che provvede ai suoi studi a Cracovia. Ma il ragazzo ha in testa spazi più vasti di quelli delle aule dei licei. Ha letto molti libri di mare e di avventura. È stato influenzato da suggestioni letterarie e sogna di navigare. Nei viaggi sugli oceani pensa di trovare i segreti del mondo, i misteri delle anime in fuga, i mutamenti delle psicologie spaesate, la metafisica immanente degli uomini in cerca di una geografia parallela, di un territorio esterno alle mappe della crosta terrestre. Lo zio Tadeusz cerca di ostacolare la sua inclinazione verso i pericoli del mare. Ma il giovane Józef è irremovibile. Via di qua, via di qua, sembra ripetergli una voce ossessiva. Per assecondare quel richiamo insistente deve salire su una nave e lasciare che siano le rotte del caso a servire le pietanze della conoscenza. Solo girando per gli oceani e visitando i porti del mondo il giovane polacco pensa di poter assecondare la sua vocazione, che è quella di scrivere. Si trasferisce a Marsiglia e si imbarca sulla Mont-Blanc, che lo porta alla Martinica. L'anno dopo è marinaio sulla Saint-Antoine, diretto alle Antille. Il periodo di Marsiglia rimane ancora pieno di misteri e di ombre. In quegli anni il giovane marinaio polacco fa contrabbando di armi e attraversa turbolenze spaventose che lo portano a un tentativo di suicidio. Ma di queste vicende parlerà poco. Si saprà qualcosa da chi ebbe modo di frequentarlo allora. Il giovane Korzeniowski ha una tempra forte. Riesce a uscire dal gorgo nero dei cattivi pensieri e compie il passo decisivo nelle sue aspirazioni di navigatore. «Essere marinaio britannico e non altro», era stato il desiderio proclamato a Cracovia. E nel 1878 finalmente il sogno si avvera. Riesce a farsi arruolare dalla marina mercantile inglese. Incominciano i grandi viaggi. Józef Teodor Korzeniowski ha scelto di navigare perché vuole diventare Joseph Conrad. E sta per riuscirci. Nei suoi vagabondaggi raccoglie i materiali per scrivere Tifone, Il compagno segreto, La linea d'ombra, Cuore di tenebra e altri capolavori. L'anno successivo a queste vicende, rientrato a Londra, terminerà il suo primo libro, La follia di Almayer. Erano tempi, quelli, in cui per diventare scrittori non occorreva una laurea a Oxford, un master a Harvard e un corso di scrittura creativa tenuto da un autore di best seller. Il linguaggio veniva raccolto ai bordi delle strade, nei porti, dentro le stanze dei bordelli, nelle stive maleodoranti di una nave alla deriva. Lì si potevano trovare alfabeti consumati, parole spaiate, bestemmie da trivio, deliri mistici, poetiche dimenticate. I materiali lessicali venivano frammentati con il pestello dentro anime robuste e miscelati con passione. La poltiglia, una volta versata sulla pagina, andava a comporre storie prodigiose, fioriture letterarie impossibili da riprodurre con altri metodi. Mosso da una forte ansia di conoscenza e di ricerca Józef Teodor Korzeniowski viene così a trovarsi al comando dell' Otago. Ma prima di lasciare il porto di Bangkok, mentre vengono completate le operazioni di carico, il caso dà vita ad altri due o tre colpi di scena. Lo steward di bordo muore di una malattia tropicale. Viene sostituito da un cinese che subito scappa portando via al comandante Korzeniowski trentadue sterline. Poi il primo ufficiale deve essere ricoverato in ospedale per una misteriosa malattia e non vuole che lo si abbandoni a terra. Quando finalmente la nave può lasciare il porto, nelle ottocento miglia che percorre per raggiungere Singapore tutto l'equipaggio, tranne il capitano e il cuoco, si ammala di febbri tropicali. A Singapore il capitano Korzeniowski deve sostituire i marinai malati. Poi finalmente riesce a portare la nave a Sydney. Giunge in Australia ai primi di maggio. Gli armatori decidono di rinnovare la loro fiducia proponendogli un incarico mercantile per Mauritius. Dopo due mesi di navigazione l' Otago giunge in vista dell'isola. «Fin da quando si era levato il sole ero andato scrutardo all'avanti. Il bastimento scivolava dolcemente sul mare liscio. Dopo una traversata di sessanta giorni anelavo di avvistare il mio approdo, una fertile e leggiadra isola dei Tropici. I più entusiasti tra i suoi abitatori si compiacciono di dipingerla come la "Perla dell'Oceano". E chiamiamola pure Perla. È un nome adatto. Una perla che distilla molta dolcezza sul mondo. Questo non è che un mezzo per informarvi che vi cresce una canna da zucchero di primissima qualità. Tutta la popolazione della Perla vive per quella e di quella. E io ci andavo per un carico di zucchero, nella speranza che il raccolto fosse stato abbondante, ed i noli fossero elevati. Il signor Burns, mio ufficiale di bordo, avvistò la terra per primo; e ben presto mi ritrovai estasiato davanti a quella azzurra, torreggiante apparizione, quasi diafana contro la luminosità del cielo: una mera emanazione, il corpo astrale di un'isola, sorta per salutarmi da lungi. È fenomeno raro una simile apparizione della Perla a sessanta miglia di distanza. E io mi chiesi quasi sul serio se non fosse quello un fausto presagio, se ciò che avrei trovato in quell'isola non sarebbe stato così felicemente eccezionale come quella stupenda visione fantasmagorica che così pochi marinai avevano avuto il privilegio di cogliere». Così Mauritius appare a Conrad il 30 settembre del 1888, quando l' Otago giunge a Port Louis. Così la descrive nel suo bellissimo racconto Un briciolo di fortuna. | << | < | > | >> |Pagina 115Non appena sbarca, nota subito la varietà di popoli che abitano quella terra. È incantato dalla vegetazione lussureggiante, che mette in contrapposizione alla desolata aridità dell'India.Sull'isola va a Pamplemousses a rendere omaggio allo scrittore che lo ha preceduto di un secolo e che per gli abitanti è ancora una specie di bibbia, Bernardin de Saint-Pierre. «Apparentemente c'è stato un solo avvenimento rilevante nella storia di Mauritius, e quell'avvenimento non è mai accaduto», scrive Twain riferendosi a Paul et Virginie. Vede scene tratte dal romanzo persino sui ventagli e in altri posti impensabili. Si rende conto che sull'isola il libro è oggetto di culto. La gente è molto orgogliosa della propria terra. Pensa di abitare nel posto più bello del mondo. Mark Twain coglie immediatamente questo eccesso di consapevolezza e ironizza sugli indigeni creando uno dei suoi paradossi. Secondo loro, scrive Twain, «prima venne creata l'isola Mauritius, poi il Paradiso. E il Paradiso venne fatto prendendo a modello Mauritius». Questa battuta la si può leggere in Following the Equator. Ma la sua ironia, che mirava a mettere in rilievo l'esagerato orgoglio locale, venne subito presa e ribaltata in positivo dagli abitanti dell'isola. Ora la si trova spesso nei programmi turistici elevata a slogan tuttora insuperato per magnificare Mauritius. Sullo stesso tema Twain crea un'altra delle sue ironiche battute. «Se gli fate vedere una foto del duomo di Milano», dice riferendosi agli indigeni, «vi diranno che la costruzione è stata copiata dalla loro giungla». | << | < | > | >> |Pagina 125Sull'autobus che mi porta a La Preneuse conosco Léon, un ragazzo creolo poco più che ventenne. Fa il cameriere nel ristorante di un hotel del nord. Sta tornando a casa per il suo giorno di riposo. La mattinata è piena di sole e il paesaggio che scorre fuori dal finestrino è fatto di piccoli villaggi, lunghe distese verdi, tratti di costa bellissimi. L'autobus è mezzo vuoto. Una signora molto grossa davanti a noi ha occupato tre sedili con i suoi pacchi. Sulle ginocchia tiene una gabbia con un gatto pezzato bianco e rosso. Per un po' temo che possa trattarsi di Bernardin, ma si vede che è molto più vecchio. E poi indossa macchie di taglia diversa da Bernardin. Magari è suo padre, penso. «Ti piace lavorare negli alberghi?» chiedo a Léon. «Mi piace? Non so... Sono contento di fare qualcosa che non mi piace fare...» Lo guardo perplesso. «Senza il lavoro sarebbe più dura vivere...» mi spiega. «Cosa ti piacerebbe fare?» «Le cose che vorrei fare so che non le potrò mai realizzare. Però ci sono cose che mi piacciono e che forse potrei riuscire a fare...» «Per esempio?» «Il cameriere sulle navi... Mi piacerebbe vedere paesi lontani, conoscere persone diverse...» «E quali sono le cose che pensi non riuscirai mai a fare?» Esita un po'. «Io nuoto bene... Mi sarebbe piaciuto diventare un campione di nuoto, andare in giro per il mondo a fare le gare...» «Pensi sia molto difficile?» «Occorrono allenamenti e io devo lavorare tutto il giorno... Avrei dovuto andare via di qua, trasferirmi in qualche paese che ha squadre importanti...» «Dove ti piacerebbe vivere?» «Per noi vivere è difficile dappertutto. Mio padre tagliava la canna da zucchero qui. È emigrato in Australia, ora taglia la canna da zucchero là... Però mi piacerebbe vedere altri paesi... Poi tornare qui...» Un velo di malinconia scende sul viso di Léon. Subito torna a illuminarsi. Ha una bella faccia sorridente. Gli sorride persino la camicia, piena di fiori e di colori. È alto, snello, con una muscolatura solida. «Tu dove stai andando?» mi chiede. «A La Preneuse... conosci La Preneuse?» «Sì, un mio zio abitava a La Preneuse...» «Sai perché si chiama La Preneuse?» dico. Subito mi mordo le labbra per questa cattiva abitudine di pretendere che gli altri sappiano ciò che sappiamo noi. Infatti Léon non sa perché si chiama La Preneuse. Ed è giusto che non lo sappia. Noi veniamo qui, fabbrichiamo la nostra sporca storia, poi ce la scriviamo a modo nostro e infine vorremmo che chi l'ha subita la imparasse anche. «Niente di importante», gli dico. «La Preneuse era il nome di una nave francese che si è impegnata in una battaglia contro gli inglesi, qui... Ma sono cose di tanti anni fa, che se non fossero avvenute sarebbe stato meglio per tutti...» «Per questo c'è ancora il cannone, lì?» chiede Léon. «Sì, per questo!» Fuori scorre un tratto di spiaggia molto bello. Il sole cade sulla laguna frantumandosi in milioni di scintille. Vedo un grande mare di luce. Sembra di poter scorgere il segreto del tempo, l'inafferrabile idea di eternità mi appare per un attimo nello specchio accecante dell'oceano. Com'è possibile pensare che questi bagliori spariranno per sempre inghiottiti dal buio siderale? Da qualche parte dovrà rispuntare un giorno o l'altro tutta questa luce... «Conosci la spiaggia di Belle Mare?» chiede Léon vedendomi incantato dal paesaggio. «Sì, ci sono stato». «Prima lavoravo lì, al Surcouf Village Hotel...» «Sai perché...» Mi mordo le labbra in tempo. «Sai perché sono stato a Belle Mare?» mi correggo. Stavo ancora per chiedergli se sapeva perché il suo hotel si chiama Surcouf. «Sei stato al tempio indù?» domanda lui. «Sì, sono stato al tempio indù...» «Sai perché l'hotel si chiama Surcouf?» mi chiede. Se avessi immaginato che lo sapeva glielo avrei chiesto io per dargli la soddisfazione di rispondermi. «Non lo so...» Gli do almeno la soddisfazione di non sapere. «Surcouf era un famoso pirata...» dice Léon orgoglioso della sua cultura. «Ah! Adesso dedicano gli hotel anche ai pirati... Ma tu non lavori più lì...» «No, lavoro a Grand Bay, adesso». L'autobus ferma a Bambou. La donna del gatto scende con la gabbia e tutti i suoi pacchi. Léon vuole che gli spieghi bene cosa sto facendo qui. «Sì, ho sentito parlare di Paul et Virginie qui sull'isola...» dice. «A Mahébourg, dove ho fatto le scuole elementari, una maestra francese parlava sempre di Baudelaire... Leggeva delle poesie in classe...» «Ti piacevano?» «Non capisco bene tutta questa importanza che voi attribuite ai poeti. La maestra francese guardava il libro, alzava gli occhi al soffitto e recitava la poesia... poi ce la ripeteva due o tre volte... E si meravigliava perché noi bambini non ci alzavamo da terra come lei...» «Non ti davano emozioni quelle poesie?» «Sì, qualche volta. Ma mi sembrava esagerata l'importanza che la maestra dava ai poeti. Diceva che Baudelaire era un gigante e aveva sofferto molto. Mi domandavo se valeva la pena di soffrire tanto per scrivere le poesie... È così difficile mettere assieme bene delle parole?» «Non molti riescono a mettere assieme le parole come faceva Baudelaire...Tu ami la musica?» «Sì, tutti noi amiamo la musica...» «Tu ritieni Bob Marley un gigante? Ti commuovi di fronte alle canzoni di Kaya? La musica per te...» «Sì, la musica sì..» «Per altre persone la musica delle parole ha lo stesso effetto dei suoni...» «Forse non capisco la musica di sole parole...» «Anch'io non riesco a capire la musica come la capisci tu... Voi non ascoltate la musica, siete la musica...» «Gli europei sono più vicini alla parola... Per noi è diverso... per questo io faccio fatica a capire che possa essere così difficile mettere assieme le parole come Baudelaire...» «Tu ti esalti vedendo una gara di nuoto... Eppure il vincitore viene acclamato per aver staccato di un decimo di secondo il nuotatore che lo segue... Ci sono poeti che staccano di un decimo di secondo altri poeti... Baudelaire creò un distacco di cento anni con alcuni poeti suoi contemporanei...» «Che nuotatore, Baudelaire!» Léon fa una risata allegra e mi batte una mano sulla spalla. Purtroppo l'autobus è arrivato a La Preneuse. Mi dispiace lasciare Léon. La sua estraneità alle nostre certezze è una spinta a ripensare le cose partendo da un altro punto di vista. | << | < | > | >> |Pagina 130Giù in fondo il capo La Bonne Chute si allunga verde nell'oceano. Le onde battono al largo contro la barriera corallina. Il tempo si dilata, gli orologi chiudono gli occhi. Si aprono spazi infiniti per rivangare i pensieri di una vita, per togliere le erbacce dal passato, per ridisegnare le aiuole. Tutto tornerà a ricrescere come prima, ma in queste piccole eternità che si formano nella mente ognuno può godere il proprio giardino come lo ha sognato.Steso sulla sabbia ripenso al discorso di Léon. La sua diversità apre nuove prospettive alle ricerche che sto facendo qui. Forse è vero. Forse eccediamo nell'attribuire sacralità a certe figure della nostra cultura. La mitizzazione dei personaggi letterari ha finito per far perdere la testa a qualche mente fragile. Ci furono geni che si immolarono sulle fiamme dell'incomprensione attribuendo un valore assoluto alla propria arte, un valore pari a quello della vita. In tutto ciò spesso vi era qualcosa di eccessivo. La sacralità della missione artistica alla fine toccò anche figure modeste, che si sacrificarono sull'altare dell'incomprensione non avendo creato qualcosa che meritasse di essere compreso. Le riflessioni di Léon sono utili in questi giorni in cui mi sto occupando della figura di Malcolm de Chazal. Filosofo, poeta, pittore, ha passato la sua vita su quest'isola in attesa di un riconoscimento che non gli arrivò mai. Soffrì di solitudine culturale ma non si decise mai a portare il suo talento nei luoghi dove avrebbe potuto raccogliere attenzioni maggiori. Attese, inutilmente, che fosse il mondo a venire da lui a riconoscerlo. Non riuscì a capire che se anche avesse creato il Macbeth o la Cappella Sistina, le sue opere non sarebbero mai riuscite a varcare l'oceano. Rimase sull'isola fino alla morte, avvenuta a Vacoas nel 1981. | << | < | > | >> |Pagina 137Ho scritto le mie riflessioni su queste due figure così diverse sdraiato sulla spiaggia di La Preneuse. Ora chiudo il quadernetto degli appunti.Il sole scotta sulla pelle. Mi spoglio e scendo nel verde dell'acqua diventando verde io stesso. Il mare scioglie interi castelli di storie costruiti dagli operosi ingegneri della riflessione. Non riescono mai a rimanere inattivi, loro. È come se le onde entrassero dentro la testa a sciacquare i detriti di una discarica di pensieri franati. Torno a stendermi sulla spiaggia, svuotato. Dopo un'immersione nell'acqua sono altro. Mi sento trasformato, rinato, come diceva Eliade. | << | < | > | >> |Pagina 138Forse ha ragione Léon. Vale la pena di affannarsi tanto per mettere assieme delle belle parole? E poi? E poi affannarsi ancora, attendere che gli altri si accorgano di chi ha scritto quelle belle parole...Povero de Chazal, si è lasciato divorare dall'ansia di raccogliere riconoscimenti più vasti. E intanto le ore dell'attesa prendevano un sapore amaro che rischiava di avvelenare tutto il resto. Per lui le gioie che l'isola offriva ogni giorno perdevano di fascino, come accade spesso con le cose che ci stanno accanto, che ci sembrano dovute. Le trasparenze del mare e il respiro del sole non bastavano a placare le ansie insopprimibili delle sue ambizioni. Le cascate di colori che ogni giorno cadevano nei suoi occhi non potevano risarcirlo per la mancanza di pinacoteche. Le musiche del vento e degli uccelli dell'isola non riuscivano a sostituire i discorsi e le acclamazioni delle accademie. È facile dire che ci si potrebbe accontentare del mare e del sole quando si passa una giornata in riva al mare. Diventa più difficile dirlo quando si ha davanti una vita intera in riva al mare.
De Chazal ha avuto molto dalla sua isola, ma voleva
altro. Voleva che il mondo gli dicesse quanto erano grandi i suoi libri. Forse,
come dice Léon, dava un valore sproporzionato all'arte di mettere assieme le
parole. Così non riuscì a godersi il privilegio di non essere costretto a
fare il cameriere per vivere, come il povero Léon.
|