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| << | < | > | >> |Indice7 INTRODUZIONE di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino PARTE PRIMA: Rifiuto 15 Il 1968 come arte del Caosmos di Peppe Allegri 24 Meditazione kubrikiana sul 2068 di Franco Berardi Bifo 28 Noi che desideriamo senza fine. Il '68 come imprevisto détournement di Federico Chicchi 36 L'immaginazione, scandalo del '68 di Francesco Raparelli 41 Il rifiuto costituente di Benedetto Vecchi 52 Prime note sul rifiuto del lavoro e l'individuo sociale di Franco Piperno 59 Il marxismo eterodosso e la guerra di Eric Alliez, Maurizio Lazzarato 66 '68. Figure del lavoro di Pierre Dardot 73 La parola del '68 di Daniel Blanchard PARTE SECONDA: Affetti 85 Se non c'è lotta non c'è amore. Utopia del corpo, elogio del conflitto di Cristina Morini 92 L'esorcismo del '68. Antropotecnica della fuga del lavoro di Ilaria Bussoni 97 Sintomatologia di un sentiero interrotto di Ida Dominijanni 104 Come ci ha fatti il '68 di Letizia Paolozzi 110 Quel che resta. La materia viva dell'esistenza di Sarantis Thanopulos 115 Un inizio senza fine. Difendere il '68 di Giovanna Ferrara 119 Le relazioni nella letteratura contemporanea. Dopo o contro il '68 di Gilda Policastro 125 Make love not war. Note per una giustizia sentimentale di Federico Zappino 133 L'ec(c)o del '68 di Lidia Riviello PARTE TERZA: Creatività 143 Diotima non abita più qui di Gabriele Guercio 150 Assemblea. Sapere e creatività comuni nel lungo '68 italiano di Nicolas Martino 157 L'anno in cui la paura andò in sciopero di Claire Fontaine 162 Il '68 non è un anno di Marco Scotini 171 Il continuum globale tra arte e vita. Politica e Avanguardia di Piero Guardi 182 Contro l'arte, mentre la moltitudine delle cose accade di Elvira Vannini 191 L'insufficiente simpatia per il demonio di Andrea Colombo 195 Giallo, mistery, musical. Il nuovo romanzo storico di Paolo Virno 197 Istruzioni preliminari di Nanni Balestrini |
| << | < | > | >> |Pagina 7INTRODUZIONE
di Ilaria Bussoni, Nicolas Martino
Quello che avete davanti non è un libro di e per reduci, e non è un libro di memorie. Non è un libro nostalgico, che vuole ricordare i bei tempi andati, e non vuole celebrare una presunta migliore gioventù. Tutt'altro. Questo libro è scritto, per la maggior parte, da persone che al '68 non parteciparono, perché allora non erano, ancora, neppure nate. Filosofi, critici, storici, giornalisti, militanti, artisti e professionisti di professioni innominabili che su quell'evento riflettono per cercare di capirne l'attualità, ovvero la portata rivoluzionaria che temi, gesti e posture di allora hanno avuto nel tempo, possono avere ancora oggi, e potranno avere domani. Non è quindi un libro che guarda al passato, ma è rivolto ostinatamente al futuro. Certo molti dei saggi qui contenuti ricostruiscono minuziosamente momenti e passaggi determinanti del Maggio, ma sempre per saggiarne la portata radicale nel tempo che viene. Quali rotture ha determinato il '68 e in che misura alcune di queste continuano a risuonare ancora oggi tra le generazioni più giovani? L'uscita dalla fabbrica e il rifiuto del lavoro, la rivoluzione copernicana del conflitto di classe e della vita quotidiana, la trasformazione radicale delle relazioni tra i sessi e le generazioni, la questione del sapere e delle sue istituzioni, il rapporto con l'autorità, la salute mentale, il privato che si fa politico. La creatività come strumento di lotta, l'arte che si fa povera e militante, la bellezza che scende nelle strade e l'avanguardia che sembra finalmente farsi vita chiudono il secolo breve e aprono la strada a quel lavoro culturale diffuso che caratterizza il nostro tempo e la sua economia, le sue nuove subordinazioni e le brecce di sempre rinnovate vie di fuga. Sono queste le domande e i temi affrontanti dagli interventi a più voci di autori di generazioni diverse. [...] Per sintetizzare quanto già detto qualche riga sopra, e quanto sviluppato in questi saggi, possiamo dire che per noi il '68 è un gesto. Quello di Tommie Smith e John Carlos che alle Olimpiadi di città del Messico, occhi rivolti a terra, alzano con braccia diverse il medesimo pugno coperto da uno speculare guanto nero. Ma è anche il gesto di un braccio teso che si fa ciminiera di fabbrica o eterna sospensione della forza di gravità nel lancio di un sampietrino, come nelle serigrafie uscite dall'Atelier Populaire di Gérard Fromanger della scuola di Belle Arti a Parigi. È il dito mancante di Gian Maria Volonté, alias Ludovico Massa, operaio che in fabbrica lascia pezzi del proprio corpo, della propria vita, del proprio tempo, e che all'improvviso rivuole indietro tutto quello che gli è stato rubato, punto e basta. Ed è anche la voce di Demetrio Stratos. È l'urlo dei ragazzi che il 2 ottobre del 1968 muoiono a Piazza Tlatelolco, nel massacro che si consuma a città del Messico in occasione delle manifestazioni studentesche che precedono i giochi olimpici. È la lotta, indefessa, di Carmelo Bene contro la dittatura del testo e contro la rappresentazione. Ancora, è l'immagine delle camionette della celere a Valle Giulia e degli studenti che non scappano più. È il tempo della prassi che rovescia. È una rivista, "Quindici", diciannove numeri tra il giugno del 1967 e l'agosto del 1969, ma anche i "Quaderni Piacentini" di Piergiorgio Bellocchio. Il '68 è l'Internazionale Situazionista, e un trittico di libri-miccia, Della miseria nell'ambiente studentesco - anonimo ma scritto sostanzialmente da Mustapha Khayati -, Trattato del saper vivere a uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem e La società dello spettacolo di Guy Debord, tutti usciti nel 1967. È un dittico di Tesi, quelle della Sapienza (ovvero dell'Università di Pisa) del 1967, che avanzano la questione degli studenti come forza-lavoro in formazione, e quelle del 1969 di Hans-Jürgen Krahl, che contro l'opaca riforma habermasiana della teoria critica francofortese, da un lato, e l'apocalittica e paralizzante disperazione di Adorno, dall'altra, insiste sul ruolo immediatamente produttivo dell'intelligenza tecnico-scientifica e sulla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. È la fine di un mondo, in effetti, che apriva la possibilità di una trasformazione radicale. E infatti con il '68 inizia la fine del mondo. Ma poiché, come spiega Ernesto De Martino nella sua opera incompiuta, a finire non è mai il mondo, ma un mondo in particolare, quello che inizia a finire con il '68 è appunto un mondo, quel mondo nato dall'Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, il mondo borghese. In questo senso il '68 è una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, e quindi contro quella università, quella scuola e quel sistema educativo, contro il quale si scagliava, nel 1967, la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana e di Don Lorenzo Milani. Contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura, e contro l'organizzazione economica e istituzionale che quel mondo si era dato, con la forma di un'ortopedia sociale e disciplinare di massa. Il '68 è una rivoluzione totale che vuole farla finita una volta per tutte con quel mondo, e ogni sua espressione e manifestazione è solo l'inizio di un rivolgimento molto più complesso e articolato. È dunque una rivoluzione antiautoritaria, perché vuole mettere in discussione i ruoli, e linguistica, perché ogni mondo ha una propria lingua che si può difendere, combattere e/o reinventare. È una rivoluzione libertaria, senz'altro, perché vuole rovesciare la morale borghese, la famiglia, i rapporti tra i sessi, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana. Ma è anche, e decisamente, una rivoluzione anticapitalista, che di quel sistema economico-sociale si vuol disfare per spalancare le porte a rapporti sociali e lavorativi più liberi e giusti. Non c'è '68 senza '69, non bisogna dimenticarlo: ovvero non ci sono studenti dentro e contro l'università senza operai in lotta dentro e contro la fabbrica. In questo senso il '68 fa parte di una lunga lotta che annovera tra le sue date il 1378 del tumulto dei Ciompi, il 1525 della battaglia di Frankenhausen, il 1789 della presa della Bastiglia, il 1793 dei giacobini neri ad Haiti, il 1848 dei moti radicali in Europa e il 1871 della Comune di Parigi. Senza dimenticare il 1905 dei Soviet e il 1917 dell'assalto al Palazzo d'inverno. La presa di parola collettiva segna il declino inevitabile della rappresentanza e della rappresentazione, e anche l'artista e l'opera d'arte iniziano a essere messi radicalmente in discussione: fuori dal quadro, fuori dalle linee, un movimento che dalle fabbriche e dalle gallerie d'arte si riversa giù nelle strade. È dunque, l'abbiamo detto, l'inizio di una fine, ma è anche l'inizio di una transizione, quella da un mondo a un altro. Sì, perché, è sempre De Martino a spiegarlo, con la fine di un mondo, ne inizia uno nuovo. Con il 1968 allora, e lo si vede bene nel lungo '68 italiano che dura fino al 1978, inizia la transizione dall'immagine borghese all'immagine moltitudinaria del mondo. Il '68 è, in questo senso, l'ultima delle rivoluzioni moderne, come il '77 sarà la prima delle insurrezioni postmoderne (e la differenza tra rivoluzione e insurrezione non è una questione puramente linguistica, essendo il concetto di rivoluzione, scientificamente e politicamente, tutto dentro l'immagine borghese del mondo). È la fine del tempo, o meglio di una certa idea del tempo che scorrerebbe inesorabilmente verso il meglio, incarnata dall'idea di progresso e di modernità, e l'inizio di un altro tempo, o meglio di molti tempi differenti che si muovono contemporaneamente in molte direzioni. Il '68 allora ce n'est qu'un début, come recita uno degli slogan più famosi del maggio parigino, perché non è che l'inizio di un mondo nuovo, il nostro mondo, quello nel quale ci troviamo oggi. E questo inizio non finisce mai di ricominciare sempre daccapo, ogni giorno. Il '68, infine, è quella solenne incazzatura raccontata da Luciano Bianciardi e che, covata in solitudine negli anni del boom economico, qualche anno dopo si sarebbe incarnata nel corpo collettivo di una generazione che, da una parte all'altra dell'Oceano, imparava a cospirare, ovvero a respirare insieme. | << | < | > | >> |Pagina 24Meditazione kubrikiana sul 2068
di Franco Berardi Bifo
Il '68 è l'anno di Space Odyssey. In quel film Kubrik compie l'operazione immaginativa che meglio corrisponde alla lunga parabola del '68, se visto dalla distanza di mezzo secolo e proiettato a illuminare (oscuramente?) il XXI secolo che avanza. Kubrik evoca il grande enigma implicito nell'evento che chiamiam '68: il rapporto tra la mente dell'uomo e l'automa. È questo il tema che domina il tempo. L'automa che abbiamo costruito e ora emerge possente e ingovernabile viene per liberarci dallo sfruttamento o per sfruttarci? Viene per liberarci dall'oppressione o per opprimerci? Viene per innalzare l'umano o per cancellarlo? La sollevazione globale degli studenti segnala l'emergere dell'autocoscienza dell'intelletto generale. La scolarizzazione di massa provoca un salto evolutivo, e rende possibile la presa di parola da parte di coloro che stanno irrompendo sulla scena del sapere e della produzione tecnica e mediatica. Gli studenti in rivolta sono il soggetto cosciente dell'intelletto generale in formazione. Il divenire soggetto degli studenti contiene fin da principio le linee di sviluppo della tecnologia post-industriale e della creazione di rete, ma l'immaginazione politica procede, fin dal principio, lungo linee differenti. Il movimento del '68 è un esempio di precessione del soggettivo: contrariamente a quello che pensa la versione meccanica del materialismo storico, la soggettività non è mera sovrastruttura, anzi registra in anticipo fenomeni tecno-sociali in gestazione: il movimento degli studenti è la prima manifestazione globale, e la prima espressione di auto-coscienza della forza emergente del lavoro cognitivo. Le parole che Mario Savio pronuncia il 2 dicembre del 1964 davanti a cinquemila studenti di Berkeley delineano in modo coerente il futuro intreccio tra lavoro intellettuale, dominio economico e militare sul sapere, e ribellione del lavoro intellettuale contro questo dominio.
Noi siamo materiali grezzi che non intendono esserlo, noi non vogliamo
essere trasformati in un prodotto. Non intendiamo arrivare al punto di essere
comprati da qualche cliente dell'università, che sia il governo, che sia
l'industria, che sia il lavoro organizzato o chiunque altro. Noi siamo esseri
umani! [...] C'è un tempo in cui il funzionamento della macchina diventa così
odioso - ci rende così disgustati - che non vi si può più prendere parte,
neppure passivamente. Non resta che mettere i nostri corpi tra le ruote e gli
ingranaggi, sulle leve, sull'intero apparato, per fermare tutto. E far capire a
chi sta guidando la macchina, a quelli che ne sono i padroni, che finché non
saremo liberi non potremo permettere alla macchina di funzionare.
Il primo punto da cogliere nel discorso di Mario Savio è l'intuizione che l'Università sta diventando un'azienda, un'entità economica il cui principio dominante è il profitto. Alla metà del decennio Sessanta la relazione tra potere (militare ed economico) e conoscenza era importante nella coscienza degli studenti, dei ricercatori e degli intellettuali. Questa relazione è diventata assolutamente cruciale nei trent'anni successivi. Il secondo punto di interesse nel discorso di Savio è il sentimento di pesantezza del cuore. La conoscenza, la creatività, il linguaggio sono diventati lavoro salariato. Il cervello è la principale forza-lavoro nel processo di semiosi digitale della rete globale. Al tempo stesso però l'attività del cervello è scollegata dall'esistenza del corpo sociale. Il lavoro del cervello è sottoposto alla regola senza cuore della finanza, e questa sottomissione rende il cuore pesante. Il terzo punto che mi colpisce è il gesto che Savio suggerisce: prendiamo i nostri corpi e gettiamoli in mezzo alle leve, agli ingranaggi e le ruote dell'apparato produttivo, così da fermarlo. Ruote, ingranaggi, leve: in questo modo il movimento del '68 immagina il macchinario del potere: la vecchia fabbrica e la vecchia classe operaia erano lo scenario in cui si svolgeva per noi il conflitto sociale. Era un'immaginazione che avevamo tratto dai film di Charlie Chaplin e dal panorama industriale che invece proprio in quegli anni cominciava a declinare. Per questo la fazione egualitaria ha perduto la battaglia, per questo l'onda del 1968, per quanto abbia cambiato la vita sociale in molti aspetti, non è riuscita a smantellare la macchina dello sfruttamento. [...] Cinquant'anni dopo il '68, il progetto egualitario è naufragato con l'eredità del comunismo storico e con la solidarietà sociale minata dalla precarietà. Il progetto libertario, invece, si è incarnato nell'automa cognitivo. La cybercultura, erede della controcultura degli anni Sessanta, ha saputo alimentare la rivoluzione digitale e connettiva, ma senza saperla emancipare dalla regolazione capitalistica, dal predominio del profitto rispetto alla vita sociale. I cinquant'anni che ci separano dal '68 sono stati soltanto la prima parte di un'odissea nello spazio in cui l'uomo si confronta con il prodotto tecnico del suo sapere. Ora, mentre l'automa sottomette ogni frammento di vita intelligente, all'orizzonte si scatena la demenza dei corpi separati dal cervello. Al momento pare che Hal 9000 stia prendendo il sopravvento sull'astronave, ma nelle periferie del mondo rumoreggia la demenza. Nei prossimi cinquant'anni vedremo come il cervello umano riuscirà ad attraversare le sue tempeste. E fra cinquant'anni, volgendoci indietro, dal punto di vista della neuro-evoluzione, non della politica, giudicheremo il 1968. | << | < | > | >> |Pagina 92L'esorcismo del '68.Antropotecnica della fuga del lavoro
di Ilaria Bussoni
È possibile constatare che ogni gesto della mano può essere suddiviso in diversi movimenti di base: allungare la mano, afferrare, sostenere, cercare, inserire, lasciare. Attraverso milioni di inquadrature, si è riusciti a calcolare valori costanti di tempo per ogni movimento, successivamente trascritti su una lavagna. In tal modo si è misurata la durata di ogni manipolazione della mano con una precisione al millesimo di secondo. [...] Il profitto economico connesso a questo processo è innegabile. Di contro, occorre domandarsi se esso sia umanamente accettabile. Quella che sentiamo è una voce maschile fuoricampo che in tedesco spiega ai telespettatori della televisione di Amburgo l'introduzione, nel 1965, nelle fabbriche della Germania Ovest, di un metodo americano di controllo del lavoro, il Measured-Time-Management. Autrice del documentario dal titolo Arbeitsplatz und Stoppuhr (Fabbrica e cronometro) è l'allora "semplice" giornalista Ulrike Meinhof - poi tra le fondatrici dell'organizzazione armata Rote Armee Fraktion - la quale con un reportage dà conto di una condizione nel mondo occidentale condivisa da milioni di persone lungo un paio di decenni, tra i Sessanta e i Settanta: quella del lavoro operaio di fabbrica nel regime industriale chiamato fordismo. Che l'umano possa accettare una tale condizione, quella di adattarsi a vivere nel tempo cadenzato di una misura della produzione organizzata in catena di montaggio, che possa ambientarsi nella penombra al neon di un capannone industriale a manovrare i propri arti come appendici altrui, percependo l'adattamento del proprio corpo che progressivamente modula una sua postura abile alla ripetizione e accettando di ritagliare parti di sé da staccare e vincolare al ritmo di un processo disciplinato, non è affatto una sorpresa: in termini umani, umanamente dunque, tutto questo è stato e continua a essere accettabile. Ovvero: lo si è accettato. Fu reso tale, certo, anche grazie a un secolo abbondante di formazione del corpo operaio destinato alla fabbrica, fatto di sanzioni al suo vagabondare e di recinti apposti agli usi comuni, di ortopedie educative e sociali e griglie disciplinari non prive di un'efficace normatività... Ma ciò che sorprende, soprattutto, è che, per qualche anno, tutto questo accettabile non lo fu più. E se all'analisi è chiaro come accadde che il capitalismo riuscì via via a rinchiudere in uno stabilimento corpi umani per farne loro malgrado della forza-lavoro, tutt'ora un po' enigmatica e incomprensibile resta quell'impresa che tentò e riuscì l'evasione, con la più grande fuga di massa dal lavoro salariato cominciata nel '68, e in alcuni luoghi durata un po' di più. A leggere il mistero della grande reclusione si sono impiegati in tanti a partire da un'antropologia filosofica che ha visto in Hegel e in Marx i fondatori, poi rilanciati lungo tutto il Novecento da diverse scuole dell'emancipazione della vita operaia, tra loro varianti anche per la scelta del punto di vista: ad esempio, quella di Francoforte o dell'esistenzialismo francese che attraverso il concetto di "alienazione» hanno descritto una condizione umana che smarrisce se stessa nel rapporto con la cosa stabilito dalla relazione di produzione di capitale, da superare attraverso un esorcismo che abolisca la separazione che ha rotto l'umana autenticità e ne reintegri la pienezza; quella dell'operaismo che nel rifiuto del lavoro ha invece visto la condizione di un'"estraneità" della vita umana ai crismi del lavoro operaio e lì, nel luogo di un'ostilità al processo produttivo, nel fuori dai cancelli di fabbrica, ha trovato la "condizione indispensabile per costruire [...] una relazione finalmente umana". Nel primo caso la frontiera del lavoro di fabbrica separa il soggetto da se stesso, ne frantuma l'umana unità che finisce per trovarsi divisa tra un corpo al di qua dei cancelli e un'anima al di là; nel secondo, invece, essa si trova a rincorre quella linea di fuga rappresentata dalla sottrazione del tempo di vita dalla prestazione salariata, riassunta nell'espressione (e nel comportamento operaio) del "rifiuto del lavoro". Nel primo caso l'umano, per essere tale, dovrà ricongiungersi e ritrovare se stesso da qualche parte, in luoghi chiamati autocoscienza o talvolta persino Dio; nel secondo, l'umano si produrrà proprio mentre l'operaio scappa dal luogo di produzione. " Simone Weil temeva per la sua anima ogni volta che timbrava il cartellino per entrare in fabbrica, e avrebbe voluto lasciarla fuori per riprendersela all'uscita" scrive Mario Tronti , esprimendo così la radicale distanza di un pensiero operaista che nella "rude razza pagana, senza ideali, senza fede, senza morale" vede di contro la matrice stessa di un processo di produzione di soggettività, autonomo appunto. Insomma, a voler tagliare con l'accetta una teoria critica che attraversa il Novecento e che avrà un apice nel suo anno '68, c'è chi si chiede come si possa vivere dentro una fabbrica e chi come se ne esca a gambe levate. Ed è quanto scoprono i militanti intellettuali di fronte ai cancelli, mentre distribuiscono volantini nei quali un sapere dello sfruttamento dovrebbe fare da movente alla rivolta: il corpo operaio fugge la fabbrica anche senz'anima. La ritroverà di fuori, ma non sarà quella con la quale è entrato, come dimostrerà, soprattutto in Italia, il decennio che scandirà il lungo '68, durante il quale le forme di vita dell'autonomia operaia seppelliranno per sempre l'etica del lavoro con la quale agli operai si è dato un corpo da chiudere in fabbrica, anche grazie ai valori di quel partito che avrebbe dovuto liberarli, il comunista. Perché "il problema per i dominati non è mai consistito nel prendere coscienza dei meccanismi del dominio, ma di fabbricarsi un corpo votato a qualcosa di diverso dal dominio" spiega Jacques Rancière , che dalla lezione che nel '68 gli operai rivolgono agli intellettuali in formazione dedurrà le conseguenze di una radicale trasformazione della stessa teoria critica. E soprattutto del ruolo e dello statuto del sapere, del quale gli studenti sarebbero i detentori, inteso come leva fondamentale di disarticolazione dello sfruttamento. La fuga operaia dal recinto di fabbrica non si darà, dunque, in virtù di una conoscenza, di un momento nel quale l'autocoscienza della propria condizione renderà possibile la sutura tra ciò che il processo di produzione avrebbe scisso - un'anima, un corpo -, si darà, invece, perché la fuga stessa è il luogo di creazione di un corpo destinato ad altro che alla sua subordinazione: | << | < | > | >> |Pagina 97Sintomatologia di un sentiero interrotto
di Ida Dominijanni
Non ho "fatto", come usa dire, il '68, per limiti anagrafici. Ero una quasi-adolescente che da una buona scuola media di una città di provincia vedeva il mondo sollevarsi, e negli anni immediatamente precedenti aveva già visto cambiare la vita quotidiana, con la musica beat, le minigonne e i pantaloni al posto dei vestiti bon ton, gli amori prima clandestini portati alla luce del sole. Ma quell'anno la vita quotidiana venne afferrata dalla vita pubblica: cambiò tutto, e dappertutto. Dai fratelli e dalle sorelle maggiori che studiavano all'università arrivavano i racconti delle esistenze capovolte, dei tradimenti di classe, delle facoltà occupate, degli autori scoperti, di una potenza giovanile dilagante in tutto il pianeta, dagli Stati uniti alla Francia, dalla Germania all'Italia, da Praga al Giappone, con una forza d'urto e una autorizzazione dell'opinione pubblica a "volere l'impossibile" che oggi, in tempi di decremento demografico e di assimilazione di qualunque protesta a problema di ordine pubblico, sarebbero impensabilil. Anche a tredici anni bisognava essere sorda e ottusa per non sentirsi presa, oserei dire "chiamata", da tutto questo. A ripensarci adesso, anche per chi non ne fu attore o attrice in prima persona il '68 fu precisamente questo: una chiamata, un'assegnazione al campo degli inquieti, dei critici, degli indisciplinati, dei ribelli. Il mondo si spaccava in due, l'ordine e il disordine, e bisognava scegliere da che parte stare. Per molti e molte di noi fu una scelta definitiva. Ho "fatto" invece, da redattrice del "manifesto" e dopo, gli anniversari del '68, e ciascuno è stato diverso dall'altro, a riprova che la storia si fa sempre con gli occhi e le domande del presente. Il decennale fu un lutto più che una festa: l'anno funesto del sequestro e assassinio di Moro chiuse il "lungo '68" italiano al peggio, con il movimento anch'esso sequestrato dalla lotta armata, mentre i nuovi ribelli - i "non garantiti" del Settantasette, antenati degli attuali precari - marcavano la loro differenza all'interno del ciclo cominciato dieci anni prima e già fratturato al suo interno dalla rivoluzione femminista. Il ventennale invece fu sì un anniversario: l'aria era cambiata, il ciclo si era invertito, la controrivoluzione neoliberale era trionfalmente in marcia, gli anni Ottanta erano stati teatro di una resa di conti impietosa con il decennio precedente; si poteva cominciare a ricollocare l' evento '68 nel tempo lungo della storia, e a tracciarne un bilancio. Che fu tuttavia spiazzato, solo pochi mesi dopo, dall' evento '89, interpretato da alcuni come l'effetto ritardato del '68 mancato o represso nei regimi dell'Est europeo, e da altri, all'opposto, come la certificazione della sua definitiva sconfitta a Est e a Ovest. Come pure fu spiazzato dai fatti il trentennale, che anticipò di soli due anni l'esplosione di quel movimento no-global che del '68 pareva ereditare parecchi tratti, se non fosse stato stroncato nel 2001 dalla repressione feroce al G8 di Genova e dall'attacco alle torri gemelle di New York. Questo per dire come via via che la distanza della storia prevale sull'immediatezza ingannevole della memoria il '68 si ripresenta come evento periodizzante, imprescindibile per capire il seguito della vicenda politica e culturale globale. Cambiano altresì, via via, le contese interpretative sul '68: il '68 degli studenti e degli operai, degli studenti o degli operai; il '68 come insorgenza rivoluzionaria o come fattore di modernizzazione e democratizzazione; il '68 come fine o come inizio; il '68 come bersaglio o come anticipazione corriva della controrivoluzione neoliberale. Queste ultime due contese, in particolare, sono state al centro del quarantennale e di questo cinquantennale, caduti entrambi in tempi di agonia della politica ufficiale, il primo all'inizio, il secondo nel pieno di una crisi del neolíberalismo nella quale non sembra tuttavia maturare alcuna via d'uscita dal "realismo capitalista" , come lo chiama Marc Fisher, che ha forgiato le ultime generazioni. Lucido e tragico, il libro che Fisher ci ha lasciato in eredità aiuta a mettere a fuoco con precisione la distanza fra il '68 e il cinquantenario che stiamo celebrando. Se, come scrisse Sartre , il '68 fu essenzialmente "un'apertura del campo del possibile", il cinquantenario cade in un'epoca contrassegnata dalla chiusura del campo del possibile. Se il '68 disegnò mondi e forme di vita alternativi, oggi non sembra immaginabile alcuna alternativa al mondo che c'è. Se nel '68 ribellarsi era giusto, oggi ribellarsi, per di più contro un'autorità nel frattempo evaporata in ogni sua forma, sembra diventato impossibile, o inutile. In questo quadro ribaltato le ultime due contese di cui sopra acquistano un'urgenza diagnostica e politica pressante: ne va non di chi ha fatto il '68, ma di ciò che il '68 ha fatto di noi e di quelli venuti dopo di noi. Le due contese sono strettamente connesse. Se il '68 sia stato, come per alcuni (un nome per tutti: Mario Tronti), evento terminale - del grande Novecento, della grande politica, del Movimento operaio - o, come per altri (un nome per tutti: Toni Negri), evento inaugurale - di una nuova soggettività, di una nuova immaginazione politica, dell'esodo dal comando capitalistico - è la domanda che apre e divide il campo dell'analisi e del giudizio sul "dopo", che arriva fino a oggi ed è infestato di revisionisti: il '68 cavallo di Troia del neoliberalismo, il '68 matrice dell'antipolitica, il '68 "realizzato", in Italia, dal berlusconismo, e ancora - l'ultima che ho sentito - il '68 motore di quel distacco fra sinistra elitaria e popolo che ci ha consegnato ai Trump e ai Salvini. Quando i conti con la storia sono difficili, si fa prima a liquidarli dichiarando fallimento. | << | < | > | >> |Pagina 104Come ci ha fatti il '68
di Letizia Paolozzi
Non è la prima volta che si ripensa al '68. Al di là del successo che il palcoscenico mediatico decreta agli anniversari, al di là delle celebrazioni, quel lavoro di memoria aiuta a capire come eravamo; quanto siamo cambiati. Il giudizio, con il passare degli anni, si modifica. Interpreta gli avvenimenti in modi più sfumati, meno bellicosi; torniamo sui nostri passi per scoprire - se ce ne fosse bisogno - che le immagini vengono selezionate diversamente. Ma la conoscenza di ciò che ci ha preceduto rappresenta uno dei principali baluardi contro le derive autoritarie. Non prendiamo però il ripensamento per un'autocritica. O un ravvedimento. Piuttosto, a me sembra che voltarsi indietro rappresenti un'assunzione di responsabilità. Dopodiché, sarebbe cosa buona e giusta evitare di crogiolarsi nella testimonianza ufficiale, imbastita di retorica, del tipo: noi, bravi ragazzi abbiamo cambiato i costumi; grazie alla minigonna abbiamo dato una scossa al clima ammuffito e siamo montati sul "treno dei desideri che all'incontrario va" (Adriano Celentano cantava Azzurro). Il fatto è che non siamo stati solo questo. Per via del vizio d'origine di uno stato d'animo quasi palingenetico: astrattezza, annuncio di una nuova e gioiosa virulenza (o violenza giacché tra le due esiste un confine molto sottile) che pure si spiegano con la giovinezza, passione, intransigenza, impazienza, desiderio di rivoluzione. È pure vero che evocare il '68 costringe a mettere a fuoco abbagli, modificazioni, illusioni, realizzazioni: insomma, illumina un pezzo della propria biografia. Ma nella fotografia selezionata c'è molto in ombra. Bisogna completare l'immagine, come negli acrostici della "Settimana enigmistica". A molti/e il '68 è capitato. Non l'abbiamo fatto. Piuttosto, ci ha fatti: con la scoperta della politica. Evidentemente, un'indecifrabile scoperta vista dall'odierno osservatorio dei corifei dell'anti-politica. Eppure, l'apertura di un conflitto con l'autorità, il padrone, il padre-padrone e il prof. fu qualcosa di più "dell'immaginazione al potere". Portò parole, segni e comportamenti che intendevano rovesciare modelli consolidati. Il giovane e l'anziano vennero ai ferri corti. Benché - e questo è perlomeno curioso - il giovane prendesse a prestito dall'antico teorie piuttosto pittoresche. Narrando di Rosa Maria Bianconeri, abitante nei pressi di Caliceto, insultata da due brutti ceffi che le ripetevano: puttana fallita, Ermanno Cavazzoni le attribuisce la frase: "Voi siete arcaici cioè pieni zeppi di fesserie come un'arca di Noé". Noi, invece, nell'arca zeppa di marxismo-leninismo, maoismo, trotzkismo, anarchia, terzomondismo, ci stavamo a meraviglia. Insieme agli spettri del '68 (per parafrasare Derrida), accompagnati da un'attrezzatura antidiluviana: sampietrino (a Roma), pavé (a Parigi), bandiere rosse e nere, barricate. Automobili preferite: Citröen 2CV o 500 Fiat. Di qui il comportamento radicale, intransigente, totalitario, in una dimensione fortemente ideologica e uno stato d'animo di febbrile eccitazione. Comunque, in Italia il conflitto inizia prima. Nelle forme dure delle lotte di fabbrica. Con la battaglia di piazza Statuto a Torino tra lavoratori e polizia; i pensieri lunghi di "Quaderni rossi" e "Classe operaia". In mezzo nel '66, la solidarietà che spinge tanti "angeli del fango" a Firenze, investita dall'alluvione. Secondo me, ci fermiamo sul 1968 - un tempo sospeso o la sospensione del tempo - per comodità di ragionamento. Il decennio successivo lo segnerà l'insubordinazione collettiva. Tra le figure dell'epoca evocherei: riconquista dello spazio sociale; momentanea abolizione delle frontiere di classe; presa di parola; potere agli studenti; potere agli operai. Occupazioni, manifestazioni, scontri con i fascisti, con la polizia che è, assieme, aggressiva e repressiva. Tra esagerazioni ed espiazioni, la realtà si distingue poco. Primi interventi davanti ai cancelli della fabbrica; segue la costruzione di capannelli, il volantinaggio (scarso l'esercizio di attacchinaggio da parte delle ragazze), riunioni su riunioni. Respiriamo l'odore dell'inchiostro del ciclostile. Sono le ingiustizie del mondo ad aver interrotto il percorso "sicuro" degli studenti. La scolarizzazione di massa scuote gli equilibri. Il progresso senza fine non è più all'ordine del giorno. Buttiamo a mare le basi americane e la vecchia cultura, i lacci e i lacciuoli dell'autoritarismo. Basta con il benessere, la merce, il consumo. "Siate realisti, chiedete l'impossibile". Il dispositivo che dà la scintilla si chiama Vietnam: bruciano le cartoline precetto per protestare contro la guerra d'invasione dei marines americani. Non ha senso comunque chiudere in un pugno il Giappone degli Zengakuren, città del Messico, la Polonia, Valle Giulia. Dalle nostre parti, la contestazione tocca l'apice verso la metà dell'anno. E però "presto si moltiplicarono i segnali che il culmine della rivolta era ormai superato. Il 30 maggio il Bundestag emanò con i voti della Grande Coalizione le leggi di emergenza. A giugno De Gaulle tornò al potere. Il maggio parigino stava terminando, e ad agosto l'invasione sovietica liquidò il 'socialismo dal volto umano'". Tuttavia il '68 non rappresenta solo l'esplodere della rivolta. Pierre Bourdieu lo paragona a "un grande scossone dell'ordine simbolico". Il quale scossone provocò almeno tre vittime. L'università, con il suo progetto neocapitalistico, fondato sulla presunta neutralità della scienza e l'autoritarismo del potere accademico, la proletarizzazione degli studenti, il cambiamento della composizione sociale, la mancata riforma degli insegnamenti. Seconda vittima, il più grande partito comunista d'Occidente, il Pci. Nonostante il suo segretario, Luigi Longo, a differenza degli Amendola, compia un gesto imprevisto con l'incontro al Gramsci di alcuni studenti del movimento romano e dei protagonisti della rivista "Quindici" che ascoltavano insieme diffidenti e immedesimati nella sacralità del luogo. Scriverà su "Rinascita" il segretario del Pci: "Io non credo che un profondo rivolgimento nelle coscienze e negli orientamenti, soprattutto di larghe masse di giovani, possa avvenire in modo educato e bene ordinato: solo illusi e burocrati possono pensare in questo modo". Comunque, "i fatti" di Piazza Statuto, le riviste del marxismo critico, sono a tutti gli effetti una "provocazione". Terza vittima, le gerarchie ecclesiastiche, le istituzioni del cattolicesimo, troppo aggrappate a norme morali e prescrizioni dogmatiche. Aveva dato speranze il Concilio Vaticano II in cui la Chiesa, riformandosi, accettava il "rischio della sua destabilizzazione". Le speranze retrocedono quando, in piena rivoluzione sessuale, nel '68, Paolo VI, il 25 giugno, pubblica l' Humanae vitae, enciclica sull'amore, denunciando la contraccezione che tende a separare la sessualità dalla procreazione. La condanna della pillola ha un effetto dirompente. | << | < | > | >> |Pagina 162Il '68 non è un anno
di Marco Scotini
L'arte della fine del soggetto moderno Nonostante abbia mantenuto come nome una data (quella di un mese "gioioso" e di un fatidico anno) non è possibile ridurre il '68 a un quadro cronologico. Neppure circoscriverlo a un unico evento, o a un segmento temporale particolare, di cui oggi dovremmo celebrare il cinquantesimo anniversario. E non soltanto perché in alcuni casi - in Italia tra tutti - la sua durata equivarrebbe a quella di un intero decennio (il lungo '68). Nemmeno perché la sua irruzione imprevista e supposta "spontanea" ne porterebbe a liquidare ogni possibile precedente incubazione -cor (la breve stagione). Eppure proprio la datazione che designa l'evento (senza altra determinazione) lascia emergere la natura paradigmatica (il fatto sociale totale) che è il '68. Da un lato, è vero, questa vaghezza categoriale ne ha autorizzato una molteplicità di rappresentazioni: politiche, sociologiche, filosofiche, antropologiche, ecologiche, di genere, di costume, di classe. Chi ha parlato di rivoluzione, chi di comune, chi di rivolta studentesca, chi di breccia, chi di riforma modernista, chi di contestazione e chi di grande festa. Dall'altro lato, altrettanto vero è che neppure una definizione si è imposta come preminente su tutte le altre. Ciascuna ha mostrato la propria insufficienza in rapporto all'inedita apertura storica e all'estensione planetaria del fenomeno, trasversale a centro e periferie, a Est e a Ovest. Tanto più che l'uso esclusivo e persistente della sola datazione non fa altro che dichiarare una crisi irrevocabile del tempo: sia delle sue narrative codificate che della lingua che dovrebbe esprimerle. Là dove il contenuto è eccedente, la storia non si esaurisce in un oggetto riconoscibile (che, di conseguenza, si trasformerebbe in "passato") ma continua a sussistere allo stato potenziale, latente.
Se dunque il '68 rimane ancora innominato (senza un nome propriamente
politico) è perché le categorie moderniste del politico non
riescono a far emergere la centralità della vita come tale al suo interno.
L'insorgenza antiautoritaria e antigerarchica della vita (in tutte le
sue forme) risulta incommensurabile al potere dissociante della politica
moderna, ancorata alla forma-partito e alla forma-Stato. Piuttosto
che essere un deficit di produzione politica (come gli è sempre stato
imputato) il '68 mostra definitivamente l'inadeguatezza interpretativa
e la crisi delle categorie classiche fondate sul soggetto rivoluzionario e
sull'idea di rappresentanza statuale e giuridica. Categorie tali da impedire
ormai una lettura adeguata delle condizioni di possibilità dell'azione sociale.
Studenti e operai, personale e politico, immaginazione e
lotta, corpo e lavoro vivo, femminismo e ambientalismo, reale e possibile, sono
ugualmente convocati nella conflittualità aperta dal '68.
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