Autore Mark Fisher
Titolo Realismo capitalista
EdizioneNero, Roma, 2018, Not , pag. 154, cop.fle.sov., dim. 11x17x1,2 cm , Isbn 978-88-8056-005-0
OriginaleCapitalist Realism: Is There No Alternative?
EdizioneJohn Hunt, London, 2009
PrefazioneValerio Mattioli
TraduttoreValerio Mattioli
LettoreRiccardo Terzi, 2018
Classe politica , lavoro , economia politica , destra-sinistra , sociologia , filosofia , critica d'arte , cinema , musica









 

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Indice


    Prefazione                                                              7


1.  Č più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo  25

2.  Che succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?       43

3.  Il capitalismo e il reale                                              50

4.  Impotenza riflessiva, immobilizzazione e comunismo liberale            58

5.  6 ottobre 1979: «non fare entrare niente nella tua vita»               74

6.  Tutto ciò che è solido si dissolve nelle public relations:
    stalinismo di mercato e antiproduzione burocratica                     86

7.  «...se potessi osservare il sovrapporsi di una realtà con l'altra»:
    il realismo capitalista come forma onirica e disturbo della memoria   110

8.  «Non esiste un collegamento preciso»                                  123

9.  Super-tata marxista                                                   136



 

 

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Pagina 25

1.
Č PIŮ FACILE IMMAGINARE
LA FINE DEL MONDO
CHE LA FINE DEL CAPITALISMO



In una delle scene chiave de I figli degli uomini, il film di Alfonso Cuarón del 2006, il protagonista Theo (interpretato da Clive Owen) fa visita a un amico alla centrale elettrica di Battersea, ormai un incrocio tra un ufficio governativo e una collezione d'arte privata. Tesori come il David di Michelangelo, Guernica di Picasso o il maiale gonfiabile dei Pink Floyd, sono conservati in un edificio che è a sua volta uno stabile storico ristrutturato. Sarà il nostro unico sguardo sulla vita delle élite, rintanate lì dentro per proteggersi dagli effetti di una catastrofe che ha provocato la sterilità di massa: da generazioni, non nascono figli. Theo domanda all'amico che senso ha mettersi a collezionare tante opere d'arte, visto che nessuno potrà più vederle: il pretesto non possono essere le nuove generazioni, per il semplice motivo che non ce ne saranno. La risposta è nichilista ed edonista assieme: «Molto semplice: non ci penso».

A rendere interessante una distopia come I figli degli uomini è il fatto che riflette in maniera puntuale la temperie del tardo capitalismo. Quello che ci troviamo di fronte non è il classico scenario totalitario di titoli distopici come V per Vendetta, il film di James McTeigue del 2005: d'accordo, nel romanzo di P.D. James da cui è tratta la pellicola di Cuarón la democrazia è sospesa e il paese è retto da un autoproclamato Governatore; ma la sceneggiatura del film, tutto questo lo lascia saggiamente sullo sfondo. Per quel che ne sappiamo, le misure autoritarie che intuiamo dalla trama possono essere state attuate all'interno di una cornice ancora democratica, almeno nominalmente. La cosiddetta guerra al terrore ci ha già preparato a simili sviluppi; la normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d'emergenza è diventata un'eventualità semplicemente impensabile: quand'è che la guerra potrà davvero dirsi conclusa?

Guardando I figli degli uomini ho inevitabilmente pensato alla frase di volta in volta attribuita a Fredric Jameson o Slavoj Žižek , quella secondo la quale è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Č uno slogan che racchiude alla perfezione quello che intendo per «realismo capitalista»: la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l'unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un'alternativa coerente. Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l'emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sembra un'estrapolazione o un'esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria. In quel mondo come nel nostro, ultra-autoritarismo e Capitale non sono in alcun modo incompatibili: i campi d'internamento e le caffetterie in franchise coesistono in tutta tranquillità. Ne I figli degli uomini lo spazio pubblico è abbandonato, popolato da null'altro che immondizia e animali in libertà (una scena particolarmente suggestiva è ambientata in una scuola ormai a pezzi dentro la quale troviamo una renna che corre). I neoliberali, ovvero i realisti capitalisti per eccellenza, hanno più volte celebrato la distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni ufficiali, ne I figli degli uomini non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo militare e poliziesco. (A proposito: se ho parlato di aspirazioni «ufficiali» è perché l'ideologia neoliberale, nonostante ami da sempre scagliarsi contro lo Stato, è proprio sullo Stato che ha surrettiziamente contato. Il fenomeno è stato particolarmente evidente durante la crisi del 2008, quando - come da indicazione degli ideologi neoliberali - gli Stati si sono precipitati in soccorso del sistema bancario.)

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Perché la cultura si trasformi in una serie di pezzi da museo non c'è bisogno di attendere un futuro alla I figli degli uomini. Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella «equivalenza» che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia, o Il Capitale di Marx. Provate a passeggiare per il British Museum: vedrete oggetti privati di ogni vitalità riassemblati come sul ponte di qualche astronave alla Predator, e potrete così godervi una potente rappresentazione di questo processo. Nella conversione di pratiche e rituali in puri oggetti estetici, gli ideali delle culture precedenti diventano strumento di un'ironia oggettiva e si ritrovano trasformati in artefatti. In questo senso, il realismo capitalista non è semplicemente un particolare tipo di realismo; è più il realismo in sé e per sé. Come gli stessi Marx ed Engels osservarono nel Manifesto del Partito Comunista:

[Il Capitale] ha spento le più celesti estasi del fervore religioso, dell'entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo filisteo, nelle fredde acque del calcolo egoistico. Ha trasformato la dignità personale in valore di scambio, e al posto delle tante e inalienabili libertà conquistate a caro prezzo ha stabilito un'unica, spregiudicata libertà: quella del commercio. In una parola, allo sfruttamento camuffato da ragioni politiche e religiose ha sostituito lo sfruttamento più scoperto, spudorato, diretto e brutale.

Il capitalismo è quel che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine.

Eppure proprio la trasformazione dell'ideale in estetica, del coinvolgimento attivo in spettatorialità, andrebbe considerata una delle virtù del realismo capitalista. Rivendicando, per dirla con Badiou , di averci «liberato dalle "fatali astrazioni" ispirate dalle "ideologie del passato"», il realismo capitalista si presenta come uno scudo in grado di proteggerci dai pericoli di qualsiasi ideale o credenza. L'atteggiamento di ironica distanza così tipico del capitalismo postmoderno, dovrebbe immunizzarci dalle seduzioni di ogni fanatismo. Abbassare le nostre aspettative è il piccolo prezzo da pagare per essere messi al sicuro da terrore e totalitarismi, o almeno così ci dicono. «Viviamo in una contraddizione», ha osservato Badiou:

Ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari. Per giustificare il loro conservatorismo, i partigiani dell'ordine costituito non possono davvero dire che questo stato sia meraviglioso o perfetto. E quindi hanno deciso di dire che tutto il resto è orribile. Certo, dicono, non vivremo in un paradiso, ma siamo fortunati a non vivere in un inferno. La nostra democrazia non sarà perfetta, ma è meglio di una dittatura truculenta. Il capitalismo è ingiusto, d'accordo. Ma non è criminale come lo stalinismo. Lasciamo che milioni di africani muoiano di AIDS, ma non rilasciamo dichiarazioni nazionaliste e razziste come Milošević. Uccidiamo iracheni coi nostri aerei, ma non tagliamo mica gole con i machete come in Ruanda.

Il «realismo» è qui analogo alla prospettiva al ribasso di un depresso che crede che qualsiasi stato positivo, qualsiasi speranza, non sia altro che un'illusione pericolosa.

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In sostanza, ci sono tre ragioni per le quali a «postmodernismo» preferisco un termine come realismo capitalista. Innanzitutto negli anni Ottanta, quando Jameson avanzò le sue tesi, al capitalismo c'erano ancora delle alternative, almeno a parole. Quello che invece stiamo affrontando adesso è un più profondo e pervasivo senso di esaurimento, di sterilità culturale e politica. Negli Ottanta, per quanto ormai prossimo al collasso, esisteva ancora un socialismo che si definiva «reale». In Gran Bretagna le linee di faglia dell'antagonismo di classe si manifestarono in maniera palese grazie a un evento come lo sciopero dei minatori tra il 1984 e il 1985: la loro sconfitta fu anzi un momento cruciale per lo sviluppo del realismo capitalista, significativo tanto dal punto di vista simbolico quanto nei suoi effetti pratici. La chiusura delle miniere venne in effetti sostenuta proprio sulla base che tenerle aperte non fosse «economicamente realistico», mentre i minatori vennero relegati al ruolo di ultimi attori di un romanzo d'appendice in salsa proletaria e destinato al fallimento. Gli anni Ottanta furono il periodo in cui per il realismo capitalista si lottò fino a riuscire a imporlo; anni in cui la dottrina thatcheriana del There Is No Alternative - «non c'è alternativa»: il perfetto slogan realista capitalista - si trasformò in una spietata profezia che si autoavvera.

In secondo luogo, il postmodernismo è in qualche modo figlio del modernismo. Il lavoro di Jameson sul postmodernismo iniziava con una messa in discussione dell'idea, cara ad Adorno e soci, che il modernismo possedesse un potenziale rivoluzionario in virtù soltanto delle sue innovazioni formali. Quello che invece Jameson aveva notato era l'assorbimento di temi modernisti all'interno della cultura popolare: pensiamo all'improvviso uso che delle tecniche surrealiste fece la pubblicità. Nello stesso momento in cui le forme peculiari del modernismo venivano assorbite e commercializzate, il credo modernista - la sua supposta fiducia nell'elitismo e il suo modello culturale monologico dall'alto verso il basso - venne messo in discussione e rigettato in nome della «differenza», della «diversità» e della «molteplicità». Il realismo capitalista non intrattiene più un confronto di questo tipo col modernismo: al contrario, dà per scontata la sconfitta del modernismo al punto che il modernismo stesso diventa un oggetto che può periodicamente tornare, ma solo come estetica congelata, mai come un ideale di vita.

Infine, dalla caduta del muro di Berlino è passata un'intera generazione. Negli anni Sessanta e Settanta il capitalismo ha dovuto affrontare il problema di come contenere e assorbire le energie che provenivano dal suo esterno. Adesso ha il problema opposto: avendo incorporato con fin troppo successo quanto gli era esterno, come potrebbe mai continuare a funzionare senza un «fuori» da colonizzare e di cui appropriarsi? In Europa e negli Stati Uniti, per la maggior parte delle persone sotto i vent'anni l'assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l'orizzonte del pensabile. Jameson osservava con orrore il modo in cui il capitalismo si è sedimentato nel nostro inconscio: che il capitalismo abbia colonizzato i sogni delle persone è oggi un dato di fatto talmente accettato da non meritare più alcuna discussione.

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3.
IL CAPITALISMO E IL REALE



L'espressione «realismo capitalista» non l'ho inventata io: è stata già utilizzata negli anni Sessanta da un gruppo di artisti pop tedeschi, e poi da Michael Schudson nel suo libro del 1984 Advertising, The Uneasy Persuasion. In entrambi i casi si trattava di riferimenti parodistici al realismo socialista: ma quello che c'è di nuovo nel mio utilizzo del termine è il significato più ampio - persino esorbitante - che personalmente gli attribuisco. Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. Č più un' atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l'educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l'azione.

Ora: dal momento che il realismo capitalista sembra dipanarsi senza fratture o strappi, e visto che le attuali forme di resistenza appaiono tanto impotenti e disperate, in che modo possiamo davvero contrastarlo? Una critica morale al capitalismo che enfatizzi le modalità in cui questo produce sofferenza altro non farebbe che rinforzare il capitalismo stesso: la povertà, la fame, le guerre, possono essere presentati come aspetti inevitabili della realtà, mentre il desiderio di eliminare tanta sofferenza potrebbe facilmente essere derubricato a ingenuo utopismo. L'unica maniera per mettere in discussione il realismo capitalista è mostrare in qualche modo quanto sia inconsistente e indifendibile: insomma, ribadire che di «realista» il capitalismo non ha nulla.

Inutile dire che quello che viene considerato «realistico», quello cioè che sembra plausibile dal punto di vista sociale, è innanzitutto determinato da una serie di decisioni politiche. Qualsiasi posizione ideologica non può affermare di aver raggiunto il suo traguardo finché non viene per così dire naturalizzata, e non può dirsi naturalizzata fino a quando viene recepita in termini di principio anziché come fatto compiuto. Di conseguenza il neoliberismo ha cercato di eliminare la stessa categoria di principio, di valore nel senso etico della parola: nel corso di più di trent'anni il realismo capitalista ha imposto con successo una specie di «ontologia imprenditoriale» per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all'educazione, andrebbe gestito come un'azienda.

Come ricordato da tanti teorici radicali - siano essi Brecht, Foucault o Badiou - ogni politica di emancipazione deve puntare a distruggere l'apparenza dell'«ordine naturale», deve rivelare che quello che ci viene presentato come necessario e inevitabile altro non è che una contingenza, deve insomma dimostrare che quanto abbiamo finora reputato impossibile è, al contrario, a portata di mano. Vale la pena ricordare che anche quello che oggi va sotto la voce «realistico» fino a non molto tempo fa era ritenuto «impossibile»: l'ondata di privatizzazioni a cui abbiamo assistito dagli anni Ottanta in poi sarebbe stata semplicemente impensabile appena un decennio prima; allo stesso modo, l'attuale panorama politico-economico (sindacati allo sbando, imprese pubbliche denazionalizzate) difficilmente sarebbe stato concepibile nel 1975. Al contrario, quello che un tempo veniva considerato possibile per definizione è oggi condannato come irrealistico: come ha amaramente osservato Badiou, «"modernizzazione" è il nome che viene dato a una definizione rigida e servile del possibile. Queste "riforme" puntano invariabilmente a trasformare in impossibile quanto a suo tempo era fattibile (per i più) e a rendere redditizio quello che non lo era (per le oligarchie dominanti)».

[...]

Viene quindi da pensare che una prima strategia contro il realismo capitalista potrebbe partire dall'evocazione di quei «reali» che sottendono la realtà per come il capitalismo ce la presenta.

Uno di questi è la catastrofe ambientale. Certo, a prima vista le questioni ecologiche non danno esattamente l'idea di essere un «vuoto non rappresentabile» per la cultura capitalista: più che inibiti, argomenti come i cambiamenti climatici e la minaccia dell'esaurimento delle risorse vengono essi stessi sfruttati dalla pubblicità e dal marketing. Č però un modo di trattare la catastrofe ambientale che illustra alla perfezione il tipo di fantasia su cui poggia il realismo capitalista: l'assunto che le risorse siano infinite, che la Terra altro non sia che un guscio da raschiare, e che qualsivoglia problema verrà risolto dal mercato. Una versione di questa fantasia è proprio Wall-E: il film suggerisce l'idea che sia possibile una crescita infinita del Capitale, che il Capitale sia in grado di proliferare senza manodopera (sull'astronave Axiom tutte le mansioni vengono svolte da robot), che l'esaurimento delle risorse sia null'altro che un intoppo temporaneo e che alla fine, dopo il giusto periodo di recupero, il Capitale potrà di nuovo terraformare e ricolonizzare il pianeta.

Nella cultura del tardo capitalismo però, la catastrofe ambientale figura solo come una specie di simulacro, anche perché le sue reali implicazioni restano troppo traumatiche per essere assimilate dal sistema. Il senso profondo delle critiche mosse dagli ecologisti sta nel suggerire che non solo il capitalismo non è l'unico sistema percorribile, ma che proprio il capitalismo minaccia di distruggere l'intero ambiente umano. La relazione tra capitalismo e disastro ecologico non è né casuale né accidentale: la necessità di espandere costantemente il mercato e il feticcio della crescita stanno lì a significare che il capitalismo è, per sua natura, contrario a qualsiasi nozione di sostenibilità.

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4.
IMPOTENZA RIFLESSIVA,
IMMOBILIZZAZIONE
E COMUNISMO LIBERALE



A differenza dei loro predecessori degli anni Sessanta e Settanta, oggi gli studenti britannici sembrano essere politicamente disimpegnati. Se in Francia gli studenti non hanno mai smesso di protestare contro le politiche neoliberali, i loro omologhi britannici - che pure subiscono una situazione incomparabilmente peggiore - paiono come rassegnati al loro destino. Ora: io credo che non si tratti né di apatia, né di cinismo; piuttosto, è quella che chiamo impotenza riflessiva. Gli studenti cioè sanno che la situazione è brutta, ma sanno ancor di più che non possono farci niente. Solo che questa consapevolezza, questa riflessività, non è l'osservazione passiva di uno stato delle cose già in atto: è una profezia che si autoavvera.

L'impotenza riflessiva corrisponde a un'implicita visione del mondo comune a molti giovani britannici, e si lega a patologie estremamente diffuse. Tantissimi adolescenti con cui ho lavorato soffrivano di problemi di salute mentale o di difficoltà di apprendimento, e la depressione è endemica: è d'altronde la condizione che il servizio sanitario nazionale si trova ad affrontare più spesso, senza dire che coinvolge persone sempre più giovani. Č anche impressionante il numero di studenti che soffre di qualche forma di dislessia. Non è esagerato affermare che, nella Gran Bretagna tardo capitalista, il solo essere adolescenti rischia di equivalere a una forma di malattia. Una tale patologizzazione pregiudica qualsiasi possibilità di politicizzazione: privatizzare questi disturbi, trattarli come se fossero provocati da null'altro che qualche squilibrio chimico o neurologico dell'individuo, o come se fossero il semplice risultato del retroterra familiare, significa escludere a priori qualsiasi causa sociale sistemica.

Molti dei giovani studenti in cui mi sono imbattuto sembravano calati in uno stato che definirei di «edonia depressa». Di solito la depressione è caratterizzata da uno stato di anedonia, ma la condizione alla quale mi riferisco descrive non tanto l'incapacità di provare piacere, quanto l'incapacità di non inseguire altro che il piacere. La sensazione è che «manchi qualcosa», ma questa non si traduce nella considerazione che tale misterioso e introvabile appagamento possa essere raggiunto solo al di là del principio di piacere: si tratta in buona misura di una conseguenza dell'ambigua situazione in cui versano gli studenti, stretti tra il vecchio ruolo di soggetti di un'istituzione disciplinare e il nuovo status di consumatori di servizi.

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Provate a chiedere agli studenti di leggere più di un paio di frasi e loro vi risponderanno che non ce la fanno: e ricordatevi che stiamo parlando di studenti con un'istruzione superiore. La recriminazione più comune, è che è noioso. Solo che l'oggetto della lamentela non è tanto il contenuto scritto dei materiali, quanto il banale atto di leggere. Non si tratta soltanto del tradizionale torpore adolescenziale, ma dell'inconciliabilità tra una giovane generazione post-alfabetizzata e «troppo connessa per riuscire a concentrarsi», e le logiche limitanti e concentrazionarie di un sistema disciplinare in decadenza. Essere «annoiati» significa semplicemente venire esiliati dallo stimolo e dall'eccitamento comunicativo degli SMS, di YouTube, del fast food; significa essere costretti a rinunciare, anche solo per un momento, al flusso costante di una zuccherosa gratificazione on demand. Ci sono studenti che vorrebbero Nietzsche allo stesso modo in cui vorrebbero un hamburger: quello che non colgono - ed è un fraintendimento alimentato dalle logiche del sistema consumistico - è che l'indigeribilità, la difficoltà, è Nietzsche.

Un esempio: una volta ho chiesto a uno studente perché mai indossava gli auricolari in classe. Ha risposto che non era un problema, perché tanto non stava ascoltando musica. In un'altra lezione invece, dalle sue cuffie arrivava musica a volume bassissimo, senza però che lui le indossasse. Quando gli ho chiesto di spegnerla ha replicato che lui nemmeno la sentiva. Perché indossare delle cuffie senza musica, perché suonare musica senza cuffie? La risposta è che la sola presenza degli auricolari sulle orecchie, o la consapevolezza che - pur senza sentirla - c'era comunque della musica che stava suonando, lo rassicurava del fatto che la matrice era sempre lì, a portata di mano. E poi, in un esempio classico di interpassività, la musica stava comunque suonando: anche se lui non riusciva a sentirla, c'era pur sempre il lettore che poteva godersela al posto suo. Anche l'utilizzo degli auricolari è un particolare indicativo: la musica pop non viene vissuta per il suo potenziale impatto sullo spazio pubblico, ma relegata a «ediPodico» piacere consumistico e privato che ci trincera dalla socialità.

L'essere imbrigliati nella matrice dell'intrattenimento porta come conseguenza un'interpassività nervosa e agitata, un'incapacità di concentrarsi e focalizzare alcunché. Il modo in cui gli studenti non riescono a mettere in relazione il loro attuale deficit d'attenzione coi fallimenti che verranno, la loro inettitudine nel tradurre il tempo in una narrativa coerente, è sintomo di qualcosa di più che la mera demotivazione. A tornare sinistramente alla memoria è l'analisi di Jameson in Postmoderno e società dei consumi. Per Jameson, le teorie di Lacan sulla schizofrenia offrono un «suggestivo modello estetico» per la comprensione di come le soggettività vengono frammentate dinanzi all'emergente complesso industriale dell'intrattenimento: «una volta spezzatasi la catena significante, lo schizofrenico lacaniano è ridotto a un'esperienza di puri significanti materiali; in altre parole, a una serie di presenti puri e scollegati nel tempo». Così scriveva Jameson alla fine degli anni Ottanta, vale a dire quando è nata la maggior parte dei miei studenti: quella che oggi frequenta le aule scolastiche, è insomma una generazione emersa all'interno di una cultura astorica e segnata da interferenze antimnemoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microporzioni digitali.

Se la cifra della disciplina è il lavoratore-prigioniero, quella del controllo è il debitore-tossico. Il cyber-Capitale agisce creando dipendenza nei suoi stessi utilizzatori, e questo lo capì bene già William Gibson: in Neuromante , quando Case e gli altri cowboy del cyberspazio si sconnettono dalla matrice provano un senso di stordimento misto ad allucinazioni tattili, e la stessa dipendenza da speed di Case è chiaramente il surrogato di una forma ben più astratta di anfetamina. Se insomma la sindrome da deficit di attenzione e iperattività è una patologia, si tratta allora di una patologia peculiare del tardo capitalismo: una conseguenza dell'essere connessi a quei circuiti di controllo e intrattenimento che caratterizzano la nostra cultura consumistica e ipermediata. Allo stesso modo, in molti casi quella che chiamiamo dislessia altro non è che post-lessia: gli adolescenti processano dati densamente affollati di immagini senza alcun bisogno di saper leggere davvero; il riconoscimento degli slogan è tutto quello che serve per navigare il piano dell'informazione online e mobile. «La scrittura non è mai stata retaggio del capitalismo. Il capitalismo è profondamente analfabeta», sostengono Deleuze e Guattari nell' Antiedipo; «il linguaggio elettrico non passa né per la voce né per la scrittura: l'elaborazione dei dati può fare a meno di entrambe». Da qui, ecco forse il motivo per cui tanti imprenditori di successo sono dislessici, anche se resta da capire se questa efficienza post-lessicale sia la causa o l'effetto della loro affermazione.

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Č sorprendente come le pratiche di tanti di questi «immobilisti» invertano a loro modo quelle di un altro gruppo di persone che aspirano a dipingersi come eredi del Sessantotto: i cosiddetti «comunisti liberali» alla George Soros o alla Bill Gates, che all'avida ricerca del profitto uniscono la retorica dell'impegno ecologista e della responsabilità. Al di là delle loro preoccupazioni sociali, i comunisti liberali pensano che il lavoro vada (post)modernizzato, o meglio ancora reso «smart»: spiega Žižek che «essere smart significa essere dinamici e nomadi contro qualsiasi burocrazia centralizzata. Significa credere nel dialogo e nella cooperazione contro qualsivoglia autorità centrale. Credere nella flessibilità contro la routine. Nella cultura e nella conoscenza contro la produzione industriale. Nell'interazione spontanea e nell'autopoiesi contro le rigide gerarchie».

Presi assieme, gli immobilisti (con la loro ammissione implicita che il capitalismo non potrà mai essere rovesciato, e che nei suoi confronti non si può tentare altro che opporre resistenza) e i comunisti liberali (per i quali gli eccessi immorali del capitalismo vanno temperati dalla filantropia e dalla beneficenza) danno il senso di come le potenzialità politiche dell'oggi siano circoscritte proprio dal realismo capitalista. Se gli immobilisti ricorrono a forme di protesta dal sapore sessantottesco in nome della resistenza al cambiamento, i comunisti liberali sposano energicamente la causa della «novità». Žižek ha senz'altro ragione quando fa notare che il comunismo liberale, anziché essere una specie di correttivo progressista dell'ideologia capitalista ufficiale, è esso stesso l'ideologia dominante del capitalismo contemporaneo: «flessibilità», «nomadismo» e «spontaneità» sono gli imperativi gestionali che caratterizzano tutta la società del controllo postfordista. Ma il problema è che qualsiasi opposizione alla flessibilità e alla decentralizzazione rischia di essere come minimo controproducente: battersi in nome dell'inflessibilità e della centralizzazione non è esattamente il massimo dell'entusiasmo...

Ad ogni modo, resistere al «nuovo» non è una causa che la sinistra possa o debba abbracciare. Il Capitale è stato molto attento e scrupoloso quando si è trattato di ragionare su come mandare in frantumi la vecchia classe operaia; mentre dall'altra parte altrettanta riflessione non c'è stata né su quali tattiche adottare sotto il postfordismo, né su quale nuovo linguaggio sviluppare per far fronte alle condizioni che lo stesso postfordismo impone. Mettere in discussione l'appropriazione capitalista della categoria del «nuovo» è importante; ma al tempo stesso rivendicare il «nuovo» non può significare adattarsi alle condizioni in cui già ci troviamo: in quello siamo già riusciti benissimo, e sappiamo bene che «riuscire ad adattarsi con successo» è la principale strategia dell'ideologia manageriale.

Un'importante rettifica del rapporto che intercorrerebbe tra Capitale e novità arriva dalla ripetuta associazione tra i termini «neoliberismo» e «restaurazione» proposta da Badiou come da David Harvey. Per entrambi, dal punto di vista politico il neoliberismo non annuncia nulla di nuovo: semmai segna un ritorno al privilegio e al dominio di classe. Scrive Badiou che «in Francia la parola restaurazione indica il periodo in cui, nel 1815, tornò il Re dopo la Rivoluzione e Napoleone. Noi ci troviamo in un periodo simile. Il capitalismo liberale viene oggi visto, assieme al suo sistema politico di riferimento (ovvero il parlamentarismo), come l'unica soluzione naturale e accettabile». Harvey suggerisce che la neoliberalizzazione vada concepita come un «progetto politico per ristabilire le condizioni dell'accumulazione di capitale e restaurare il potere delle élite economiche». Ancora Harvey dimostra come, in un'epoca comunemente descritta come post-politica, la lotta di classe non si sia interrotta; piuttosto, è stata combattuta da un lato soltanto: quello dei ricchi.

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5.
6 OTTOBRE 1979:
«NON FARE ENTRARE NIENTE
NELLA TUA VITA»



Racconta il boss del crimine Neil McCauley in Heat, il film di Michael Mann del 1995: «Un tizio un giorno m'ha detto: non avere affetti. Non fare entrare nella tua vita niente che tu non possa piantare in trenta secondi netti se fiuti la polizia dietro l'angolo». Uno dei modi più semplici per cogliere la differenza tra fordismo e postfordismo è mettere a confronto il film di Mann e i gangster movie girati da Francis Ford Coppola e Martin Scorsese tra il 1971 e il 1990. In Heat i colpi non vengono messi a segno da «famiglie» legate al Vecchio Continente, ma da bande senza radici che si muovono in una Los Angeles tutta superfici cromate, cucine di design, autostrade in serie e diners notturni. Č come se il colore locale, l'aroma delle cucine, gli idioletti culturali, insomma tutto quanto stava alla base di film come Il padrino o Quei bravi ragazzi fosse stato rivestito, coperto da una mano di vernice. La Los Angeles di Heat è un mondo senza storia né punti di riferimento, uno sprawl griffato dove i segni del territorio sono stati rimpiazzati da una teoria infinita di catene commerciali tutte identiche tra loro. I fantasmi della Vecchia Europa che infestavano le strade di Coppola e Scorsese sono stati esorcizzati, sepolti sotto qualche caffetteria in franchise assieme alle vecchie faide, alle rivalità rancorose, alle vendette appassionate. Sul mondo di Heat si può imparare molto già da un nome come «Neil McCauley»: suona anonimo, sembra preso da un passaporto falso, è un nome che non ha storia (anche se, ironicamente, pare richiamare quello dello storico inglese Lord McCaulay). Vuoi mettere con «Corleone»? Mica è un caso se il Padrino prendeva il nome del suo paese d'origine.

Tra i personaggi interpretati da Robert De Niro, McCauley è forse quello che più si avvicina alla personalità dell'attore: uno schermo, un messaggio cifrato, senza profondità, freddamente professionale, l'essenza più pura dell'esercizio, della ricerca, del Metodo («faccio quello che faccio meglio»). McCauley non è un boss della mafia, non è il capo borioso che governa una gerarchia barocca retta da codici tanto solenni e misteriosi quanto quelli della Chiesa cattolica, scritti nel sangue di migliaia di faide. I componenti della sua banda sono professionisti, sono imprenditori-speculatori dai modi concreti, sono tecnici del crimine i cui principi stanno all'esatto opposto della lealtà alla famiglia cara a Cosa Nostra. A queste condizioni, qualsiasi legame familiare sarebbe d'altronde insostenibile; come ricorda McCauley al detective Vincent Hanna (interpretato da Al Pacino): «Se sei sempre appresso a me e dove vado io vai anche tu, come puoi pretendere di riuscire a tenerti una moglie?»; essendo l'ombra di McCauley, Hannah è costretto a rifletterne lo stato di indeterminatezza, di perpetua mobilità.

Come un qualsiasi gruppo di azionisti, la banda di McCauley è tenuta assieme dalla prospettiva del guadagno futuro: qualsiasi altro legame sarebbe un extra facoltativo e quasi certamente pericoloso. Il loro è un accordo temporaneo, pragmatico e trasversale: sanno che ciascuno di loro è parte intercambiabile di una macchina, che nulla è dovuto e che niente è destinato a durare. A loro confronto, i vecchi goodfellas sembrano quasi dei pantofolai sentimentalisti, tenacemente aggrappati a comunità morenti, a territori condannati all'estinzione.

L'ethos abbracciato da McCauley è lo stesso che Richard Sennett analizza in L'uomo flessibile: le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, il fondamentale studio sui cambiamenti affettivi causati dalla riorganizzazione postfordista del lavoro. Č una condizione ben riassunta dallo slogan «niente è a lungo termine»: se in passato i lavoratori potevano acquisire un singolo bagaglio di capacità e da lì aspettarsi di progredire verso l'alto sui binari di una rigida gerarchia organizzativa, adesso ai lavoratori viene richiesto di apprendere periodicamente capacità nuove, a seconda di come si muovono da un'organizzazione all'altra, da un ruolo all'altro. E dal momento che l'organizzazione del lavoro viene decentralizzata, e che le vecchie gerarchie piramidali vengono sostituite da nuove reti trasversali, a essere premiata è la «flessibilità».

In un'involontaria eco della battuta che McCauley rivolge ad Hanna («Come pretendi di riuscire a tenerti una moglie?»), Sennett sottolinea l'intollerabile stress che sulle dinamiche familiari provoca una tale condizione di instabilità permanente. I valori da cui la vita in famiglia dipende - riconoscenza, fiducia, impegno - sono precisamente gli stessi che il nuovo capitalismo ritiene obsoleti. Eppure, visti gli attacchi che vengono portati alla sfera pubblica e lo smantellamento di quelle reti di sicurezza a suo tempo garantite dal vecchio «Stato assistenziale», proprio la famiglia viene sempre più identificata come un rifugio dalle pressioni di un mondo costantemente segnato dall'instabilità.

La situazione in cui versa la famiglia nel capi- talismo postfordista è contraddittoria nello stesso modo in cui aveva previsto il marxismo tradizionale: il capitalismo ha bisogno della famiglia (in quanto strumento essenziale per la riproduzione e la cura della forza lavoro; perché allevia le ferite psichiche inferte da condizioni socioeconomiche fuori controllo), eppure contemporaneamente ne mina le fondamenta (impedendo ai genitori di trascorrere tempo con i propri figli; alimentando la tensione di coppia nel momento in cui i partner diventano l'unica fonte di consolazione affettiva reciproca).

Stando all'economista marxista Christian Marazzi , il passaggio dal fordismo al postfordismo porta una data precisa: 6 ottobre 1979. Quel giorno la Federal Reserve portò i tassi d'interesse al 20%, spianando la strada alla cosiddetta supply-side economics che avrebbe modellato la realtà economica in cui tuttora siamo immersi. L'innalzamento dei tassi d'interesse non si limitò a contenere l'inflazione, ma rese possibile una riorganizzazione dei modelli di produzione e distribuzione: la «rigidità» della linea di produzione fordista cedette il posto alla «flessibilità», una parola che a qualsiasi lavoratore di oggi farà correre un brivido di immedesimazione lungo la schiena. Questa flessibilità è stata a sua volta definita da una deregolamentazione del Capitale e del lavoro, che ha portato a una crescente esternalizzazione e precarizzazione della manodopera e a un sempre maggior numero di lavoratori impiegati su base temporanea.

Come Sennett, Marazzi riconosce che se da una parte la condizione postfordista richiede una maggiore cibernetizzazione dell'ambiente di lavoro, dall'altra è proprio da tale cibernetizzazione che questa nuova condizione emerge. Nella fabbrica fordista, tute blu e colletti bianchi venivano brutalmente separati da strutture fisiche che, all'interno dello stesso edificio, rispondevano a mansioni diverse: costretti in ambienti rumorosi e sorvegliati a vista da dirigenti e supervisori, i lavoratori potevano comunicare tra loro soltanto durante le pause, al bagno, alla fine della giornata lavorativa o nei momenti di sabotaggio, per il semplice motivo che la comunicazione interrompeva la produzione. Ma sotto il postfordismo la catena di montaggio si trasforma in «flusso di informazioni». Č insomma proprio comunicando che la gente lavora. Per dirla con Norbert Wiener , comunicazione e controllo si legano a vicenda.

Lavoro e vita diventano così inseparabili. Persino quando sogni ti ritrovi il Capitale alle costole. Il tempo smette di essere lineare e diventa caotico, puntiforme. Il sistema nervoso viene ristrutturato allo stesso modo della produzione e della distribuzione. Per funzionare, in quanto elemento della produzione just in time, devi saper reagire agli eventi imprevisti e imparare a vivere in condizioni di instabilità assoluta (o «precarietà», come da orribile neologismo). Periodi in cui lavori si alternano a periodi in cui sei disoccupato. Costretto a una fila infinita di impieghi a breve termine, non riesci a pianificare un futuro.

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L'ontologia oggi dominante nega alla malattia mentale ogni possibile origine di natura sociale. Ovviamente, la chimico-biologizzazione dei disturbi mentali è strettamente proporzionale alla loro depoliticizzazione: considerarli alla stregua di problemi chimico-biologici individuali, per il capitalismo è un vantaggio enorme. Innanzitutto, rinforza la spinta del Capitale in direzione di un'individualizzazione atomizzata (sei malato per colpa della chimica del tuo cervello); e poi crea un mercato enormemente redditizio per le multinazionali farmaceutiche e i loro prodotti (ti curiamo coi nostri psicofarmaci).

Che qualsiasi malattia mentale possa essere rappresentata come un fatto neurologico è chiaro a tutti. Ma questo non ci dice nulla sulle cause. Se per esempio è vero che la depressione generalmente comporta un basso livello di serotonina, allora quello che va spiegato è perché in determinati individui il livello di serotonina sia basso. Farlo però richiede una spiegazione sociale e politica: ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista.

Infine, intravedere un parallelismo tra l'incremento dei disturbi mentali e i nuovi modelli di valutazione per le prestazioni dei lavoratori è tutto tranne che eccentrico. Č su questa «nuova burocrazia» che ci concentreremo adesso.

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La capacità di quel dirigente di migrare in maniera tanto liscia da una realtà all'altra mi ha ricordato in maniera fortissima La falce dei cieli di Ursula K. Le Guin. Č un romanzo su un uomo, George Orr, i cui sogni diventano letteralmente realtà; ma come da tradizione, i sogni realizzati si trasformano in fretta in traumi e catastrofi. Quando per esempio Orr viene convinto dal suo psichiatra, il dottor Haber, a sognare di risolvere il problema della sovrappopolazione, una volta sveglio si ritrova in un mondo in cui miliardi di persone sono state spazzate via da un'epidemia; come notato da Jameson nella sua analisi del romanzo, questa epidemia è «un evento fino a quel momento inesistente che trova velocemente posto nella nostra memoria cronologica del recente passato».

Buona parte della potenza de La falce dei cieli deriva proprio da come riesce a rendere queste false memorie retrospettive, i cui meccanismi sono al tempo stesso estremamente familiari (dopotutto, li sperimentiamo ogni notte quando sogniamo) e inusitatamente strani: come potremmo mai credere a eventi che si susseguono - quando addirittura non coesistono - in così aperta contraddizione gli uni con gli altri? E però Kant, Nietzsche e la psicoanalisi ci insegnano che l'esperienza del risveglio, così come quella onirica, dipende proprio da queste messe in scena: se il reale è insostenibile, ogni realtà che andiamo a costruire sarà una tela di contraddizioni. A differenziare Kant, Nietzsche e Freud dallo stanco cliché del «la vita è sogno», è la percezione che i nostri falsi ricordi siano consensuali: l'idea che il mondo in cui viviamo sia una solipsistica illusione o una proiezione partorita dall'interno delle nostre menti, anziché disturbarci ci consola, perché combacia con le nostre fantasie infantili di onnipotenza. Ma il pensiero che la nostra cosiddetta interiorità debba la sua esistenza a un consenso fittizio porta con sé il peso dell'enigma, del mistero, del perturbante. In La falce dei cieli questo livello ulteriore di imperscrutabilità si manifesta quando Orr viene chiamato a trasformare in realtà i sogni degli altri: dapprima del dottor Haber, che cerca di controllare e manipolare le capacità di Orr, e poi dell'avvocatessa Heather Lelache. Cosa significa quindi vivere attraverso i sogni realizzati di qualcun altro?

[Haber] non riusciva a continuare a parlare. Lo sentiva: lo spostamento, l'arrivo, il cambiamento. Anche la donna lo sentì. Sembrava spaventata. Stringendo come un talismano la collana che portava al collo, fissava sgomenta fuori dalla finestra in preda allo shock e al terrore. [...] Che effetto avrebbe avuto sulla donna? Avrebbe capito, sarebbe impazzita, cosa avrebbe fatto? Avrebbe conservato entrambi i ricordi, com'era successo a lui, quello vero e quello nuovo, quello vecchio e quello vero?

E quindi: Heather è infine impazzita? Ma certo che no: dopo alcuni istanti di sbigottimento Heather Lelache accetta il mondo «nuovo» come quello «vero», semplicemente rimuovendo il punto di sutura. La strategia di accettare senza domande l'incommensurabile e l'insensato è da sempre la tecnica sui cui regge la sanità mentale in quanto tale; ma nel tardo capitalismo - quell'«impasto informe di tutto quanto è già stato» in cui l'invenzione e la rottamazione delle finzioni sociali è tanto rapida quanto la produzione e lo smaltimento delle merci - è una tecnica che gioca un ruolo speciale.

In una tale condizione di precarietà ontologica, dimenticare diventa una strategia di adattamento.

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Se i disturbi della memoria ci forniscono un'efficace analogia per i glitch del realismo capitalista, la distorsione onirica è il modello da cui il realismo capitalista trae il suo funzionamento così liscio e vellutato. Quando noi sogniamo, dimentichiamo, ma dimentichiamo anche che stiamo dimenticando; dal momento che le lacune e le carenze della nostra memoria sono come ritoccate via, queste non ci perseguitano né ci tormentano. Il sogno insomma dà forma a una coerenza basata su false memorie, che copre anomalie e contraddizioni: è da qui che Wendy Brown prende spunto quando nota come sia proprio l'attività onirica l'esempio migliore per comprendere le forme di potere contemporanee. Nel saggio American Nightmare: Neoconservatism, Neoliberalism, and De-democratization, Brown smonta l'alleanza tra neoconservatorismo e neoliberismo su cui ha poggiato la variante americana del realismo capitalista perlomeno fino al 2008, dimostrando come l'uno e l'altro si muovano da premesse che non sono solo divergenti, ma direttamente contraddittorie:

Come possono incrociarsi una razionalità espressamente amorale sia nei mezzi che nei fini (il neoliberismo) e una che invece è esplicitamente morale e normativa (il neoconservatorismo)? Come può un progetto che svuota il mondo di significato, che scredita e sradica la vita per sfruttare apertamente il desiderio, intersecarsi con un programma centrato sulla fissazione e la costrizione dei significati, sulla conservazione di stili di vita determinati, sulla repressione e la regolamentazione del desiderio? Come possono il sostegno a una governabilità modellata sull'impresa e un ordinamento sociale fondato sull'interesse personale convivere con il sostegno a una governabilità modellata sull'autorità della Chiesa e un ordinamento sociale fondato sul sacrificio e la lealtà dei figli verso i padri, ovvero quella stessa struttura fatta a pezzi dal capitalismo più sfrenato?

Questa evidente incoerenza sul piano della cosiddetta «razionalità politica» non pregiudica però la simbiosi sul piano della soggettività politica. Brown nota come, sebbene mossi da impostazioni tra loro diversissime, neoliberali e neoconservatori abbiano collaborato ai fini di un'indebolimento della sfera pubblica e della democrazia, partorendo un cittadino assoggettato che cerca le soluzioni non nei processi politici, ma nei prodotti. Come spiega Brown:

Soggetto che sceglie e soggetto governato dall'alto, sono tutto tranne che opposti. Gli intellettuali della scuola di Francoforte (e prima ancora Platone) hanno teorizzato l'aperta compatibilità tra scelta individuale e assoggettamento politico, descrivendo soggetti democratici capaci di accettare forme di tirannia politica e di autoritarismo proprio perché rapiti da una sfera di scelta e soddisfazione del bisogno che scambiano per libertà.

Interpretando un po' i ragionamenti di Brown, potremmo ipotizzare che a tenere assieme questa bizzarra sintesi di neoconservatorismo e neoliberismo sia stato innanzitutto il loro spauracchio comune: il cosiddetto «Stato-balia» e tutti quelli che ne dipendono. E però, nonostante tutta la sua retorica antistatalista, a ben guardare il neoliberismo non è contrario allo Stato in sé (come abbiamo già ricordato a proposito degli aiuti bancari del 2008), quanto ad alcuni particolari utilizzi delle sue risorse. Nel frattempo, lo Stato forte tanto caro ai neoconservatori è stato confinato alle funzioni militari e di polizia, in diretta antitesi a uno Stato sociale accusato di minare la responsabilità morale degli individui.

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Questo problema viene affrontato da una prospettiva diversa in un saggio di Campbell Jones sul «soggetto che deve provvedere al riciclo dei rifiuti». Nel domandare «chi è che deve provvedere al riciclo», Jones inverte la natura di un imperativo che oggi è dato talmente per scontato che metterlo in questione pare senza senso, se non addirittura immorale. Ognuno di noi è chiamato a riciclare. Nessuno, indifferentemente dalle proprie convinzioni politiche, può opporsi a un tale dovere. Che noi ricicliamo viene quindi posto come un imperativo pre o post-ideologico: in altre parole, è una richiesta che si colloca nell'esatto spazio in cui l'ideologia sempre svolge il proprio ruolo.

Il soggetto chiamato a riciclare presuppone però che la struttura non sia chiamata a riciclare: trasformando il riciclo dei rifiuti in una responsabilità «di tutti», la struttura demanda le sue responsabilità ai consumatori, mentre a sua volta si ritira nell'invisibilità. Ma in un momento in cui il richiamo alla responsabilità etica degli individui diventa tanto spudorato - Judith Butler , nel suo Frames of War, parla di «responsabilizzazione» - quello che serve è al contrario puntare sulla struttura nei suoi aspetti più totalizzanti. Anziché affermare che ognuno - vale a dire ogni uno - di noi è responsabile per i cambiamenti climatici e che tutti dobbiamo fare la nostra parte, sarebbe più appropriato dire che nessuno lo è, ed è proprio questo il problema. La causa della catastrofe ecologica è una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabilità. Il soggetto che servirebbe - un soggetto collettivo - non esiste: ma la crisi ambientale, così come tutte le altre crisi globali che stiamo affrontando, richiede che venga costruito. E però l'appello all'intervento etico immediato, che specie nella cultura britannica si è fatto largo quantomeno dal 1985 (quando il sentimentalismo consensuale del Live Aid rimpiazzò l'antagonismo dello sciopero dei minatori), rinvia continuamente l'emergere di un tale soggetto.

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Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile I figli degli uomini. Senza un'alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l'inconscio politico-economico.

Anche se è chiaro che la crisi non porterà da sola a nessuna fine del capitalismo, ha avuto comunque l'effetto di sciogliere in parte una certa paralisi mentale. Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato «detriti ideologici»; è un nuovo anno zero, e c'è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni. Uno dei difetti della sinistra è il suo eterno attaccamento ai dibattiti storici, la sua tendenza a tornare in continuazione su roba tipo Kronštadt o la NEP piuttosto che pensare alla pianificazione e all'organizzazione di un futuro in cui credere davvero. Il fallimento delle precedenti forme di organizzazione politica anticapitalista non deve essere causa di disperazione; serve semmai lasciarsi alle spalle quella sorta di attaccamento romantico alla politica del fallimento, al comodo ruolo della minoranza sconfitta. La crisi è un'opportunità: ma va trattata come una straordinaria sfida speculativa, come lo stimolo per un rinnovamento che non sia un ritorno. Come ha energicamente insistito Badiou, un anticapitalismo efficace deve essere un rivale del Capitale, non una reazione a esso. Tornare alla territorialità precapitalista è impossibile. Al globalismo del Capitale, l'anticapitalismo deve opporsi ricorrendo al suo più puro, autentico universalismo.

Che una sinistra sinceramente rinvigorita occupi con fermezza il nuovo terreno politico che ho qui tratteggiato in via molto generica è fondamentale. Non esiste niente che sia innatamente politico: la politicizzazione richiede un agente politico che trasformi il dato-per-scontato in una messa-in-palio. Se il neoliberismo ha trionfato assorbendo i desideri della classe operaia post-sessantottesca, allora una nuova sinistra potrebbe cominciare dal lavoro su quei desideri che il neoliberismo ha generato, ma che è incapace di soddisfare. Ad esempio, la sinistra dovrebbe rivendicare la sua capacità di riuscire in quello in cui il neoliberismo ha fallito per primo: una massiccia riduzione della burocrazia. Serve una nuova battaglia sul lavoro e su chi lo controlla: l'affermazione dell'autonomia del lavoratore (contro il controllo di manager e dirigenti) assieme al rifiuto di un certo tipo di occupazioni (come le eccessive pratiche di valutazione che sono diventate tanto centrali nel lavoro postfordista). Questa è una battaglia che può essere vinta, ma solo se a prendere forma sarà un nuovo soggetto politico. Resta aperta la questione se le vecchie strutture (come i sindacati) saranno in grado di coltivare una simile soggettività, o se piuttosto non avremo bisogno di organizzazioni politiche radicalmente nuove.

E ancora: contro il managerialismo abbiamo bisogno di nuove forme di lotta e di protesta. Insegnanti e docenti dovrebbero ad esempio ripensare tattiche come gli scioperi o il blocco degli scrutini quando il loro unico risultato è danneggiare gli studenti: nel college in cui insegnavo, quando si trovavano davanti a uno sciopero i dirigenti erano contenti, perché risparmiavano sulle retribuzioni mentre i disagi per il college restavano trascurabili. Piuttosto, quello di cui abbiamo bisogno è una ritirata strategica da quelle mansioni che colpiscono innanzitutto manager e dirigenti, a cominciare da quegli ingranaggi di autosorveglianza che non hanno alcun impatto sull'offerta educativa, ma senza i quali il managerialismo non potrebbe esistere. Al posto delle manifestazioni simboliche e spettacolari su cause pur nobilissime come quella palestinese, è tempo che i sindacati degli insegnanti mettano in scena proteste ben più immanenti e che colgano l'opportunità data dalla crisi di liberare i servizi pubblici dall'ontologia aziendale: se nemmeno le aziende riescono a essere gestite come aziende, perché mai dovrebbero farlo i pubblici servizi?

Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale. La proliferazione di certi tipi di malattia mentale invita inoltre a un nuovo e diverso tipo di austerità, un tema che emerge anche dalla crescente urgenza con la quale dobbiamo confrontarci col disastro ambientale: niente contraddice l'imperativo costitutivo del capitalismo alla crescita continua più dell'idea di distribuire in maniera controllata i beni e le risorse. Anche perché sta diventando scomodamente chiaro che né il mercato, né l'autoregolamentazione dei consumatori riusciranno a evitare la catastrofe ambientale.

A questa nuova ascesi ci spingono motivi libidinali oltre che pratici: Oliver James, Žižek e Supernanny ci hanno dimostrato come la licenza senza limiti porti all'infelicità e alla disaffezione; e allora è probabile che siano le limitazioni che vengono poste al desiderio a stimolare (anziché attenuare) il desiderio stesso. E poi, un qualche tipo di razionamento sarà in ogni caso inevitabile: il nodo diventa allora se queste limitazioni verranno gestite collettivamente o se verranno imposte con mezzi autoritari quando sarà già troppo tardi. Che forme dovrà assumere questa gestione collettiva è un'altra questione aperta, ma può essere risolta solo attraverso la pratica e la sperimentazione.

La lunga e tenebrosa notte della fine della storia va presa come un'opportunità enorme. La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista significa che persino il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi. L'evento più minuscolo può ritagliare un buco nella grigia cortina della reazione che ha segnato l'orizzonte delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile.

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