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| << | < | > | >> |IndicePrefazione all'edizione 1999 V Prefazione all'edizione 1990 XXVIII 1. Soggetti di sesso/genere/desiderio 3 I. Le «donne» come soggetto del femminismo, p. 3 II. L'ordine obbligatorio di sesso/genere/desiderio, p. 11 III. Il genere: le rovine circolari del dibattito contemporaneo, p. 13 IV. Teorizzare il binario, l'unitario e oltre, p. 21 V. Identità, sesso e metafisica della sostanza, p. 26 VI. Il linguaggio, il potere e le strategie della dislocazione, p. 39 2. Il divieto, la psicoanalisi e la produzione della matrice eterosessuale 52 I. Lo scambio critico dello strutturalismo, p. 57 II. Lacan, Rivière e le strategie della mascherata, p. 64 III. Freud e la melanconia del genere, p. 84 IV. La complessità del genere e i limiti dell'identificazione, p. 96 V. Riformulare il divieto come potere, p. 105 3. Atti sovversivi del corpo 115 I. La politica del corpo di Julia Kristeva, p. 115 II. Foucault, Herculine e la politica della discontinuità sessuale, p. 134 III. Monique Wittig: la disintegrazione del corpo e il sesso fittizio, p. 157 IV. Iscrizioni corporee, sovversioni performative, p. 182 Conclusione: dalla parodia alla politica 201 Indice analitico 213 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Donna non si nasce, lo si diventa Simone de Beauvoir A rigor di termini, non si può dire che esistano «le donne» Julia Kristeva La donna non ha un sesso Luce Irigaray È il dispositivo della sessualità [...] a istituire la nozione di sesso Michel Foucault La categoria del sesso è la categoria politica che fonda la società in quanto eterosessuale Monique Wittig I. Le «donne» come soggetto del femminismo Buona parte della teoria femminista si è basata sul presupposto che esistesse un'identità, concepita attraverso la categoria delle donne, che non solo istituisce gli interessi e gli obiettivi femministi all'interno del discorso, ma anche costituisce il soggetto per il quale si cerca una rappresentanza e una rappresentazione politica. Ma politica e rappresentanza/rappresentazione sono termini controversi. Da una parte, rappresentanza funziona come termine operativo in un processo politico che cerca di allargare la visibilità e la legittimità delle donne come soggetti politici; dall'altra parte, rappresentazione è la funzione normativa di un linguaggio che si dice riveli o distorca ciò che si presuppone sia vero a proposito della categoria delle donne. Alla teoria femminista è sembrato necessario sviluppare un linguaggio che rappresentasse pienamente o adeguatamente le donne per favorire la loro visibilità politica. E questo era ovviamente importante se si pensa alla diffusa condizione culturale in cui le vite delle donne erano rappresentate in modo falsato o non erano rappresentate affatto. Di recente, questa modalità prevalente nel concepire la relazione tra la teoria femminista e la politica è stata messa in questione dall'interno dello stesso discorso femminista. Perfino il soggetto «donne» non è più inteso come qualcosa di stabile o costante. Non solo c'è una gran mole di materiali che mette in dubbio l'applicabilità del «soggetto» come candidato per eccellenza alla rappresentazione o, addirittura, alla liberazione, ma, tutto considerato, manca persino un pieno accordo su che cosa costituisca, o dovrebbe costituire, la categoria delle donne. Gli ambiti della «rappresentanza/rappresentazione» politica e linguistica stabiliscono in anticipo i criteri secondo cui i soggetti stessi sono formati, con il risultato che la rappresentanza e la rappresentazione si estendono solo a ciò che può essere riconosciuto come soggetto. In altre parole, bisogna qualificarsi come soggetto prima che la rappresentanza/rappresentazione possa essere estesa. Foucault ha mostrato come i sistemi giuridici di potere producono i soggetti che in seguito arrivano a rappresentare. Le nozioni giuridiche del potere sembrano regolare la vita politica in termini meramente negativi, vale a dire attraverso la limitazione, la regolamentazione, il divieto, il controllo e persino la «protezione» degli individui legati a quella struttura politica attraverso l'operazione contingente e revocabile della scelta. Ma i soggetti regolati da tali strutture, per il fatto di esserne soggiogati, vengono definiti e riprodotti in accordo con le esigenze di tali strutture. Se questa analisi è corretta, allora la formazione giuridica del linguaggio e della politica che rappresenta le donne come «soggetto» del femminismo è essa stessa una formazione discorsiva e dà origine a una determinata versione della politica rappresentativa. E il soggetto femminista si rivela essere costruito discorsivamente dallo stesso sistema politico che si suppone ne promuova l'emancipazione. Tutto ciò diventa politicamente problematico se si può dimostrare che quel sistema produce soggetti connotati dal punto di vista del genere lungo un asse differenziale di dominio o soggetti che si presume siano al maschile. In tali casi appellarsi acriticamente a tale sistema per l'emancipazione delle donne non può avere altro esito che quello di autoinfliggersi una sconfitta. La questione del «soggetto» è cruciale per la politica, e per la politica femminista in particolare, perché i soggetti giuridici sono immancabilmente prodotti attraverso determinate pratiche di esclusione che non si «mostrano» più una volta che la struttura giuridica della politica sia stata istituita. In altre parole, la costruzione politica del soggetto procede con determinati scopi di legittimazione ed esclusione, e queste operazioni politiche vengono efficacemente nascoste e naturalizzate da un'analisi politica che si fonda sulla struttura giuridica. Il potere giuridico inevitabilmente «produce» ciò che dice soltanto di rappresentare; è per questo che la politica deve occuparsi di questa funzione duale del potere: giuridica e produttiva. In effetti, il diritto produce e poi nasconde la nozione di «un soggetto davanti alla legge» per invocare quella formazione discorsiva come premessa fondativa naturalizzata che in seguito legittima la stessa egemonia regolamentativa di quella legge. Non basta ragionare sul modo in cui le donne potrebbero arrivare a essere più pienamente rappresentate nel linguaggio e nella politica. La critica femminista dovrebbe anche capire come la categoria delle «donne», il soggetto del femminismo, viene prodotta e delimitata dalle stesse strutture di potere attraverso le quali si cerca l'emancipazione. Di fatto porre il problema delle donne come soggetto del femminismo apre all'eventualità per cui potrebbe non esserci un soggetto che sta «davanti» alla legge, in attesa di rappresentanza/rappresentazione all'interno o da parte della legge stessa. Forse il soggetto, così come l'invocazione di un «davanti» inteso nei termini temporali di un «prima», è costituito dalla legge come fondamento fittizio della sua stessa rivendicazione di legittimità. Il fatto di presupporre, come si fa diffusamente, l'integrità ontologica del soggetto davanti alla legge potrebbe essere considerato come la traccia contemporanea dell'ipotesi di uno stato di natura, quella parabola fondativa delle strutture giuridiche del liberalismo classico. L'invocazione performativa di un «davanti/prima» non storico diventa la premessa fondativa che garantisce un'ontologia pre-sociale di persone che liberamente acconsentono a essere governate e, perciò, costituiscono la legittimità del contratto sociale. Al di là, però, delle finzioni fondative che sostengono la nozione del soggetto, si dà il problema politico cui il femminismo va incontro quando assume che il termine donne denoti un'identità comune. Invece che un significante stabile che impone l'assenso di coloro che intende descrivere e rappresentare, donne, anche al plurale, è diventato un termine problematico, uno spazio conteso, un motivo di ansia. Il fatto di chiedersi, come suggerisce il titolo di Denise Riley, Sono io quel nome? nasce dalla stessa possibilità che quel nome abbia una molteplicità di significati. Anche se si «è» una donna, ciò di sicuro non è tutto ciò che si è; il termine non riesce a essere esaustivo, non perché una «persona» che non ha ancora una connotazione di genere trascenda gli accessori specifici del proprio genere, ma perché il genere non è sempre costituito in modo coerente o costante in diversi contesti storici, e poi perché il genere interseca le modalità razziali, di classe, etniche, sessuali e regionali delle identità costituite discorsivamente. Di conseguenza, diventa impossibile separare nettamente il genere dalle intersezioni politiche e culturali in cui esso è immancabilmente prodotto e mantenuto. L'assunto politico che il femminismo debba avere una base universale, da rinvenire in un'identità che si presume esistere in diverse culture, spesso accompagna la tesi per cui l'oppressione delle donne ha una qualche forma singolare rintracciabile nella struttura universale o egemonica del patriarcato o del dominio al maschile. La nozione di un patriarcato universale è stata ampiamente criticata in anni recenti per il fatto che non riesce a dare conto del funzionamento dell'oppressione di genere nei contesti culturali concreti in cui si verifica. E quando questi diversi contesti sono stati presi in considerazione da tali teorie, si sono trovati «esempi» o «illustrazioni» di un principio universale presupposto sin dall'inizio. Questo tipo di teorizzazione femminista è stato criticato non solo in quanto tentativo di colonizzazione e appropriazione delle culture non occidentali, finalizzato ad appoggiare nozioni di oppressione prettamente occidentali, ma anche perché quel tipo di teorizzazione tende a costruire un «Terzo mondo» o persino un «Oriente» in cui l'oppressione di genere viene sottilmente spiegata come sintomatica di una barbarie essenzialmente non occidentale. L'urgenza del femminismo di sancire lo statuto universale del patriarcato, così da rafforzare l'apparenza che le sue rivendicazioni in alcuni casi siano rappresentative, ha talora condotto troppo rapidamente a una universalità categoriale o fittizia della struttura del dominio, ritenuta responsabile della produzione della comune esperienza di sottomissione delle donne. Anche se la tesi di un patriarcato universale non gode più della credibilità che aveva un tempo, la nozione di una concezione generalmente condivisa delle «donne», che ne costituisce il corollario, è stata molto più difficile da sradicare. Certo, ci sono state innumerevoli discussioni: esiste un qualcosa di comune tra le «donne» che pre-esiste alla loro oppressione oppure le donne hanno un legame tra loro solo in virtù della comune oppressione? Esiste una specificità delle culture delle donne che non dipende dalla subordinazione indotta dalle culture egemoniche maschiliste? La specificità e l'integrità delle pratiche linguistiche o culturali delle donne si definiscono sempre in opposizione a, e dunque all'interno dei termini posti da, alcune formazioni culturali predominanti? Esiste una zona della «femminilità specifica», una zona che è differenziata dalla mascolinità in quanto tale e riconoscibile nella sua differenza da una universalità, non marcata e dunque solo presunta, delle «donne»? Non solo il binarismo mascolinità/femminilità costituisce l'unico quadro di riferimento in cui quella specificità può essere riconosciuta, ma anche, per quanto riguarda tutto il resto, lo «specifico» della femminilità viene di nuovo del tutto decontestualizzato e separato analiticamente e politicamente dalla costituzione della classe, della razza, dell'etnicità, e degli altri assi di relazioni di potere che costituiscono l'«identità» e allo stesso tempo rendono inappropriata la nozione di identità singolare. Vorrei suggerire che la presunta universalità e unità del soggetto del femminismo sono significativamente minate dai vincoli del discorso rappresentazionale entro cui funziona. In effetti la prematura insistenza sulla stabilità del soggetto del femminismo, inteso come categoria uniforme delle donne, genera immancabilmente i rifiuti più diversi ad accettare tale stabilità. Questi ambiti di esclusione svelano le conseguenze coercitive e regolative di tale costruzione, anche quando questa sia stata elaborata in vista dell'emancipazione. Infatti la frammentazione interna al femminismo e la paradossale opposizione a esso da parte di «donne» che il femminismo sostiene di rappresentare, ci rivelano i limiti inevitabili di una politica identitaria. L'idea che il femminismo possa cercare una più ampia rappresentanza/rappresentazione per un soggetto che esso stesso costruisce, ha come conseguenza ironica il rischio di un fallimento degli obiettivi femministi a seguito del rifiuto di considerare í poteri costitutivi insiti nelle stesse rivendicazioni di rappresentatività. Il problema non si risolve facendo appello alla categoria delle donne per scopi meramente «strategici», perché le strategie hanno sempre significati che ne travalicano gli scopi. In questo caso, la stessa esclusione può qualificarsi come un significato consequenziale, per quanto involontario. Il femminismo, nell'adempiere al requisito proprio di una politica rappresentativa dell'articolazione di un soggetto stabile del femminismo, si espone ad accuse di grossolana rappresentazione falsata. Ovviamente il compito politico del femminismo non consiste nel rifiutare la politica rappresentativa, sempre ammesso che lo si possa fare. Le strutture giuridiche del linguaggio e della politica costituiscono oggi il campo contemporaneo del potere; perciò non si dà alcuna posizione al di fuori di tale campo, ma si dà solo una genealogia critica delle sue pratiche di legittimazione. Dunque il punto di partenza critico è il presente storico, per dirla con Marx. E il compito sta nel formulare, all'interno di questa cornice costituita, una critica delle categorie dell'identità generate, naturalizzate e fissate dalle strutture giuridiche contemporanee. | << | < | > | >> |Pagina 11II. L'ordine obbligatorio di sesso/genere/desiderioAnche se l'unità aproblematica delle «donne» viene spesso invocata per costruire una solidarietà identitaria, la distinzione tra sesso e genere introduce una scissione nel soggetto femminista. Originariamente intesa come ciò che avrebbe messo in discussione l'idea che la biologia sia un destino, la distinzione tra sesso e genere serve a sostenere la tesi che, mentre il sesso dal punto di vista biologico è variamente resistente, il genere è costruito culturalmente: di conseguenza il genere non è il risultato causale del sesso, né ha, pare, la stessa fissità. L'unità del soggetto viene così già potenzialmente contestata da quella distinzione che permette di vedere il genere come interpretazione multipla del sesso. Se il genere consiste nei significati culturali assunti dal corpo sessuato, allora non si può dire che un genere derivi univocamente da un sesso. Portata alle sue estreme conseguenze logiche, la distinzione tra sesso e genere suggerisce una radicale discontinuità tra corpi sessuati e generi culturalmente costruiti. Pur assumendo provvisoriamente la stabilità del binarismo sessuale, non ne consegue che la costruzione degli «uomini» derivi esclusivamente da corpi di sesso maschile [male] o che il termine «donne» interpreti solo corpi di sesso femminile. Inoltre, anche se i sessi appaiono aproblematicamente binari nella loro morfologia e costituzione (cosa che discuterò) non c'è ragione di assumere che anche i generi dovrebbero rimanere due. Presupporre che il sistema del genere sia binario ribadisce implicitamente la convinzione che il genere sia in relazione mimetica con il sesso, e che dunque lo rispecchi o ne sia altrimenti limitato. Se si teorizza lo statuto di costruzione del genere in quanto radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso diventa un artificio fluttuante, con la conseguenza che termini come uomo o mascolinità possono significare con la stessa facilità un corpo di sesso sia femminile sia maschile, e termini come donna o femminilità un corpo di sesso sia maschile sia femminile. Questa radicale scissione del soggetto connotato dal punto di vista del genere pone un'altra serie di problemi. Possiamo fare riferimento a un «dato» sesso o a un «dato» genere, senza prima indagare il modo in cui il sesso e/o il genere sono dati, attraverso quali mezzi? E comunque, che cos'è il «sesso»? È naturale, anatomico, cromosomico o ormonale? Un/a critico/a femminista come deve valutare i discorsi scientifici che dicono di stabilire per noi tali «fatti»? Il sesso ha una storia? Ogni sesso ha una storia differente o storie diverse? Esiste una storia di come è stata istituita la dualità dei sessi, una genealogia che potrebbe far apparire le opzioni binarie come una costruzione variabile? Il sesso, come fatto apparentemente naturale, è prodotto discorsivamente da diversi discorsi scientifici, al servizio di altri interessi politici e sociali? Se si contesta il carattere immutabile del sesso, allora forse questo costrutto detto «sesso» è culturalmente costruito proprio come lo è il genere; anzi, forse il sesso è già da sempre genere, così che la distinzione tra sesso e genere finisce per rivelarsi una non-distinzione. Non avrebbe dunque senso definire il genere un'interpretazione culturale del sesso, visto che la stessa categoria di sesso è connotata dal punto di vista di genere. Il genere non andrebbe concepito come mera iscrizione culturale di significato su un sesso già dato (concezione giuridica); il genere deve anche designare quell'apparato di produzione per mezzo del quale vengono istituiti i sessi. Ne consegue che il genere non sta alla cultura come il sesso sta alla natura; il genere è anche il mezzo discorsivo/culturale con cui la «natura sessuata» o «un sesso naturale» vengono prodotti e fissati in quanto «pre-discorsivi», precedenti la cultura, una superficie politicamente neutrale su cui agisce la cultura. Il problema della costruzione del «sesso», in quanto radicalmente non costruito, tornerà al capitolo 2 nella discussione di Lévi-Strauss e dello strutturalismo. Ma è già chiaro a questo punto che uno dei modi per fissare la stabilità interna e la struttura binaria del sesso sta nel proiettare questa sua dualità in un ambito pre-discorsivo. La produzione del sesso in quanto pre-discorsivo dovrebbe essere intesa come effetto di quell'apparato di costruzione culturale designato dal termine genere. Come va allora riformulata la nozione di genere per contemplare quelle relazioni di potere che hanno per effetto sia la produzione discorsiva di un sesso pre-discorsivo sia il suo nascondimento? | << | < | > | >> |Pagina 39VI. Il linguaggio, il potere e le strategie della dislocazioneMolta parte della teoria e della letteratura femministe ha comunque ritenuto e continua a ritenere che dietro al fare ci sia un/a «colui/colei che fa». Senza un(')agente, si sostiene, non ci può essere capacità di agire e dunque non può darsi la potenzialità per dare inizio a una trasformazione delle relazioni di dominio all'interno della società. La teoria femminista radicale di Wittig occupa una posizione ambigua nel continuum delle teorie sulla questione del soggetto. Da una parte, Wittig sembra mettere in discussione la metafisica della sostanza, ma dall'altra mantiene il soggetto umano, l'individuo, come luogo metafisico della capacità di agire. L'umanismo di Wittig assume in modo evidente che ci sia un/a «colui/colei che fa» dietro al fare, e tuttavia la sua teoria individua la costruzione performativa del genere nelle pratiche materiali della cultura, mettendo in discussione la temporalità delle spiegazioni che confonderebbero la «causa» con il «risultato». In un passo che ci mostra lo spazio intertestuale che la collega a Foucault (e svela le tracce della nozione marxista di reificazione in entrambe le teorie), Wittig scrive: Un approccio femminista materialista dimostra che ciò che consideriamo come la causa o l'origine dell'oppressione è in realtà niente altro che il marchio impresso dall'oppressore; il «mito della donna», più i suoi effetti e le sue manifestazioni nella coscienza e nei corpi appropriati delle donne. Perciò, questo marchio non preesiste all'oppressione [...], il sesso è considerato un «dato immediato», un «dato sensibile», «caratteristiche fisiche» che appartengono a un ordine naturale. Ma quello che crediamo essere una percezione fisica e diretta è solamente una costruzione sofisticata e mitica, una «formazione immaginaria». Siccome questa produzione della «natura» opera in accordo con i dettami dell'eterosessualità obbligatoria, l'emergere del desiderio omosessuale, nella visione di Wittig, trascende le categorie del sesso: «se il desiderio potesse liberarsi, non avrebbe niente a che fare con la marcatura preliminare operata dai sessi». Wittig parla del «sesso» come di un marchio, o una marcatura, che l'eterosessualità istituzionalizzata appone, una marcatura che può essere cancellata o sfumata attraverso pratiche che contestino efficacemente quell'istituzione. La sua visione, naturalmente, differisce in modo radicale da quella di Irigaray. Quest'ultima intende la «marcatura» di genere come parte di un'economia egemonica di significazione al maschile che opera attraverso meccanismi autoreferenziali di specularizzazione, che hanno virtualmente determinato il campo dell'ontologia nella tradizione filosofica occidentale. Per Wittig, il linguaggio è uno strumento o un mezzo che non è affatto misogino nelle sue strutture, ma nelle sue applicazioni. Per Irigaray la possibilità di un altro linguaggio o di un'altra economia di significazione è l'unica occasione per sfuggire alla «marcatura» di genere, la quale, per la femminilità, non è altro che la cancellazione fallogocentrica del sesso femminile. Mentre Irigaray cerca di mettere in evidenza che l'apparente relazione «binaria» tra i sessi è uno stratagemma maschilista che esclude completamente il femminile, Wittig sostiene che posizioni come quella di Irigaray consolidano l'opposizione binaria tra mascolinità e femminilità e rimettono in circolo una nozione mitica della femminilità. Riferendosi chiaramente alla critica di Beauvoir del mito dell'eterno femminino presente nel Secondo sesso , Wittig afferma: «la 'scrittura femminile' non esiste». | << | < | > | >> |Pagina 50Se c'è qualcosa di vero nell'affermazione di Simone de Beauvoir che non si nasce donna, ma lo si diventa, ne consegue che persino donna è un termine in progress, un divenire, un costruire di cui non si può dire a ragione che inizi o finisca. In quanto pratica discorsiva sempre in corso, è aperto all'intervento e alla risignificazione. Anche quando il genere sembra fissarsi nella più reificata delle forme, questa «fissazione» è essa stessa una pratica insistente e insidiosa, sostenuta e regolata da svariati scopi sociali. Per Beauvoir non è mai possibile diventare definitivamente una donna, quasi che ci fosse un telos che governa il processo di acculturazione e costruzione. Il genere è la stilizzazione ripetuta del corpo, una serie di atti ripetuti in una cornice assai rigida di regolamentazione che si fissa nel tempo per produrre l'apparenza di una sostanza, di un certo essere naturale. Una genealogia politica delle ontologie di genere, per avere successo, dovrà decostruire l'apparenza sostanziale del genere per arrivare ai suoi atti costitutivi e localizzare e dare conto delle diverse forze che presidiano l'apparenza sociale del genere. Il compito di svelare gli atti contingenti che creano l'apparenza di una necessità naturalistica, un gesto che è stato parte della critica culturale, almeno a partire da Marx, ora si accompagna al peso di dover mostrare come la stessa nozione di soggetto, intelligibile soltanto attraverso la propria apparenza connotata dal punto di vista del genere, apre a possibilità che sono state escluse forzosamente dalle diverse reificazioni del genere costituitesi in ontologie contingenti.
Il capitolo che segue indaga alcuni aspetti della descrizione
psicoanalitica e strutturalista della differenza sessuale e della costruzione
della sessualità, in particolare in relazione al potere che
ha di contestare i regimi di regolamentazione qui delineati e al
ruolo che svolge nella riproduzione acritica di tali regimi. L'univocità del
sesso, la coerenza interna del genere e il quadro binario
che si applica al sesso e al genere sono esaminati quali finzioni di
regolamentazione che consolidano e naturalizzano i convergenti regimi di potere
dell'oppressione al maschile ed eterosessista.
Il capitolo finale prende in considerazione la stessa nozione di
«corpo», non come superficie che attende la significazione, ma
come serie di confini, individuali e sociali, politicamente significati e
conservati. Non più concepibile come «verità» interiore di
disposizioni e identità, il sesso apparirà allora come una significazione
attuata in modo performativo (e dunque non «essere»);
una significazione che, liberata da una interiorità e una superficie
naturalizzate, può dare origine alla proliferazione parodica e al
gioco sovversivo dei significati di genere. Questo testo continua,
dunque, come un tentativo di analizzare la possibilità di sovversione e
dislocazione delle nozioni reificate e naturalizzate del genere, alla base
dell'egemonia al maschile e del potere eterosessista,
per fare del genere una questione, un problema, non attraverso
quelle strategie che prefigurano un oltre utopico, ma attraverso la
mobilitazione, la confusione sovversiva e la proliferazione proprio
di quelle categorie costitutive che cercano di tenere il genere al
suo posto, mimando le illusioni fondative dell'identità.
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