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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione di Corrado Clini PARTE PRIMA 13 Introduzione di Elio Cadelo 21 La scienza e la natura di Luciano Pellicani 35 La natura di Edoardo Boncinelli 39 La comprensione delle leggi della natura 47 Il rapporto natura-cultura 49 Chi crede ancora nell'unità della natura? di Claudio Bartocci 49 Introduzione 50 Caratteristiche dell'impresa scientifica 52 Fisica, biologia, matematica: alcune considerazioni 57 Conclusione 59 Natura e ideologia di Giulio Giorello 59 Il valore della scienza 61 Probabilismo e fallibilismo 63 Contro «l'eterna minorità» 65 «Poteri della natura» 66 Contro natura? 69 L'economia e la natura di Ignazio Musu 69 La natura e gli economisti 73 I limiti dello sviluppo, le risorse naturali esauribili e la sfida energetico-ambientale 76 Sostenibilità e risorse naturali rigenerabili 79 Crescita economica e preservazione della natura: lo sviluppo sostenibile 83 Politiche ambientali e mercato per una società sostenibile 88 Riferimenti bibliografici 89 Cosa ci insegnano gli studi sul clima? di Vittorio M. Canuto 99 Conclusioni 101 Oltre il nostro sistema solare: 50 anni di astronomia dallo spazio di Giovanni Bignami 106 I prossimi cinquant'anni nello spazio 113 Cambiamenti nel concetto di natura di Giorgio Parisi 113 Una cosa è certa: non abbiamo tempo 114 La natura non è al nostro servizio 115 La natura non solo non è immutabile, ma può cambiare molto velocemente 117 La natura è fragile 119 Le risorse della natura sono limitate 120 La natura: bene di tutti da preservare o risorsa a disposizione del primo venuto? 122 La natura non è una fonte energetica illimitata 125 Questioni epistemologiche, metodologiche ed etiche della geofisica per una rinnovata politica della ricerca di Enzo Boschi 125 La nascita della geofisica 126 Il pianeta Terra come sistema complesso 128 Una risposta alle questioni del nostro tempo 130 La via per un nuovo rapporto tra l'uomo e la natura 131 Rapporto tra ricerca e società: la divulgazione scientifica 132 Geofisica e geoetica 135 Un clima naturale? di Antonio Navarra 135 Un esperimento involontario 136 Per una considerazione scientifica del clima 141 Modelli e oracoli 143 Naturale o artificiale? 143 Una specie di conclusione 145 Note tecniche e spunti di riflessione di Luigi Rossi 145 L'idea di natura è oggi distorta dall'uso improprio del linguaggio di tutti i giorni. La scienza può aiutarci a ricostruire il concetto di natura in termini unitari? 152 Il nostro mondo è un mondo artificiale. Tutto ciò che ci circonda è stato costruito dall'uomo: l'uomo ha operato con la natura o contro la natura? 159 Conclusioni 160 Bibliografia essenziale 161 Ecologia: riflessioni su una disciplina sintetica di Antonio Moroni 162 La realtà dell'ambiente 187 L'idea di natura di Tullio Regge PARTE SECONDA 199 I limiti della scienza e le sfide della natura 249 Gli autori |
| << | < | > | >> |Pagina 21È universale opinione che ciò che ha conferito all'Occidente la sua specifica identità culturale, differenziandola profondamente da tutte le altre civiltà, è stata la rivoluzione scientifica. Questa è iniziata a partire dal momento in cui si è affermata l'idea secondo la quale il grande libro della Natura è scritto in caratteri matematici. Anticipata da Leonardo da Vinci e formulata con la massima chiarezza da Galileo, questa idea ha rappresentato una svolta di portata storica. Grazie ad essa, l'Occidente non solo ha potuto costruire il prodigioso edificio della conoscenza scientifica; ha anche istituzionalizzato un potentissimo metodo per manipolare i fenomeni naturali e assoggettarli alla volontà e ai bisogni dell'uomo. Suggestionato da una tachigrafica tesi di Max Weber — secondo la quale il «disincanto del mondo» sarebbe iniziato con il profetismo ebraico –, Max Scheler ha perentoriamente affermato che «il monoteismo creazionistico giudaico-cristiano e la sua vittoria sulla religione e sulla metafisica del mondo antico fu senza dubbio la prima fondamentale possibilità per porre in libertà la ricerca sistematica della Natura. Fu un mettere in libertà la Natura per la scienza in un ordine di grandezza che forse oltrepassa tutto ciò che fino a oggi è accaduto in Occidente. Il Dio spirituale di volontà e lavoro, il Creatore, che nessun greco e nessun romano, nessun Platone e nessun Aristotele conobbero, è stato la maggiore santificazione dell'idea del lavoro e del dominio sopra le cose infraumane; e nel medesimo tempo operò la più grande disanimazione, mortificazione e razionalizzazione della Natura che abbia mai avuto luogo in rapporto alle culture asiatiche e dell'antichità». Difficile condividere un simile punto di vista, una volta che si tenga presente che il primo disincanto del mondo – la nascita del logos nelle poleis della diaspora greca – si è verificato in un contesto culturale affatto estraneo alla tradizione giudaica, così come fu affatto estranea alla tradizione giudaica la prima rivoluzione scientifica: quella che prese corpo nella civiltà ellenistica. Lucio Russo ha puntigliosamente documentato che nella città di Alessandria, durante il III secolo a.C., furono poste le basi della «scienza esatta», vale a dire dell'insieme delle teorie che vengono definite mediante tre postulati. Il primo è che le affermazioni della teoria non riguardano gli oggetti del mondo reale, ma enti ideali. Il secondo, che la teoria ha una struttura rigorosamente deduttiva: essa è basata su pochi enunciati fondamentali (assiomi, postulati o principi), sugli enti della teoria e su un metodo unitario e universalmente accettato per dedurre un numero illimitato di conseguenze. Il terzo, che la teoria è applicabile al mondo reale mediante regole di corrispondenza fra gli enti ideali e gli oggetti concreti. Non avendo le regole di corrispondenza alcuna garanzia assoluta, il metodo per controllare la validità degli asserti teorici è quello sperimentale. Questi i tratti essenziali della «scienza esatta» elaborata dalla civiltà ellenistica. La quale riuscì anche a mostrare che i modelli costruiti nel laboratorio ideale erano in grado di generare una tecnologia scientificamente orientata. Sennonché, il nesso fra sviluppo scientifico e sviluppo tecnologico non fu percepito dalle élite intellettuali dell'impero romano. Queste, pur affascinate dalla cultura greca, fecero cadere nell'oblio l'intero patrimonio della scienza ellenistica. Ancora più estranea allo spirito scientifico si rivelò la forma mentis forgiata dai Padri della Chiesa, centrata sul contemptus mundi e, pertanto, totalmente indifferente al sapere scientifico e al suo fall-out tecnologico. E infatti, lungo tutto l'Alto Medioevo, nella cristianità occidentale, come in quella orientale, «la scienza risultò virtualmente estinta». Del resto, come avrebbe potuto essere diversamente? Nella Bibbia il desiderio della conoscenza è vietato, poiché «l'uomo non è creato per una vita teoretica, conoscitiva, contemplativa: l'uomo è creato per una vita nell'obbedienza, come un bambino»; di qui la condanna della «scienza profana» e delle arti mondane, a meno che «queste cose, originatesi dalla ribellione umana, vengano consacrate al servizio di Dio [...]. Il sapere umano, se consacrato al servizio di Dio, può essere un bene, ma, in assenza di tale dedizione, è ribellione. | << | < | > | >> |Pagina 49All'inizio del Novecento, in quel grande classico del pensiero scientifico moderno che è La science et l'hypothèse, Jules-Henri Poincaré scriveva: Osserviamo anzitutto che ogni generalizzazione presuppone in una certa misura la credenza nell'unità e nella semplicità della natura. Per l'unità non può esservi difficoltà. Se le diverse parti dell'universo non fossero come gli organi di uno stesso corpo, non agirebbero le une sulle altre, ma si ignorerebbero a vicenda; e noi, in particolare, non ne conosceremmo che una sola. Non ci dobbiamo dunque chiedere se la natura è una, ma come essa sia una. Il secondo punto, invece, non è altrettanto agevole. Non è sicuro che la natura sia semplice. Possiamo comportarci come se lo fosse senza incappare in qualche rischio?
Oggi, trascorso un secolo segnato da scoperte fondamentali e rivoluzioni che
hanno mutato in maniera radicale la nostra concezione
del mondo che ci circonda, ben pochi scienziati avrebbero l'ardire di
impiegare con altrettanta disinvoltura il termine «natura» e, nel caso,
si guarderebbero bene dall'accompagnarlo a sostantivi compromettenti quali
«unità» e «semplicità». Questo imbarazzo non è dettato
da ragioni — per così dire — di prudenza filosofica, né da una deliberata scelta
terminologica in favore del termine «mondo» (il quale, per altro, è non meno
accuratamente evitato) e neppure da una
qualche sorta di pudore o di presunta neutralità che spingerebbe gli
scienziati a riferirsi soltanto a «fatti» o a «fenomeni» (come se ciò
fosse possibile). Crediamo, piuttosto, che, nei cento anni che ci separano da
Poincaré, il termine «natura» sia divenuto intrinsecamente
problematico a causa delle caratteristiche specifiche che ha assunto
l'impresa scientifica nel suo rapido e tumultuoso sviluppo.
Sebbene i media tendano a presentare la scienza — più che altro allo scopo di demonizzarla o, al contrario, di esaltarne le «magnifiche sorti, e progressive» – come un colossale monolito, essa si presenta oggi come una galassia senza centro costituita da miriadi di centri di attività, un sistema altamente complesso in cui sono in gioco forze contrastanti, per così dire, centrifughe e centripete. Da una parte, infatti, la direzione della ricerca conduce inesorabilmente all'intreccio e alla compenetrazione delle varie discipline, secondo una tendenza di disgregazione delle tradizionali barriere metodologiche e concettuali. Si pensi a una figura come Max Delbrück, che fino ai trent'anni svolse ricerche in meccanica quantistica per poi passare alla biologia e ottenere, nel 1969, il premio Nobel per la Medicina in riconoscimento delle sue ricerche sul batteriofago; oppure al caso di John von Neumann, i cui fondamentali contributi spaziano dalla logica matematica alla meteorologia, dall'analisi funzionale alla computer science. Gli esempi si potrebbero facilmente moltiplicare: chimici, biochimici e biologi armati di più che solide conoscenze di fisica, fisici che si permettono audaci incursioni nella biologia (come Erwin Schrödinger ) o che trovano in questa disciplina fonte di ispirazione per nuove idee, matematici versatili come Alan Turing, Stanislaw Ulam, Benoit Mandelbrot, Misha Gromov, Steve Smale. Molti recenti e vitali settori di ricerca, inoltre, nascono come risultato di incroci, innesti o ibridazioni: si pensi all'intelligenza artificiale e alle scienze cognitive, alla cosiddetta teoria del caos e alle sue applicazioni, ai complex networks, alla bioinformatica, al quantum computing, all' imaging biomedico computerizzato. Quello che André Weil ebbe occasione di osservare a proposito del proprio specifico campo di interesse — la matematica —, ossia che «rien n'est plus fécond que [les] obscures analogies, [les] troubles reflets d'une théorie à une autre, [les] furtives caresses, [les] brouilleries inexplicables», pare potersi riferire a tutto il sapere scientifico, nel suo erratico procedere. Dall'altra, tuttavia, la pratica dello scienziato professionista quale si osserva nella quotidianità del suo laboratorio, regolata da una rigida compartimentazione del lavoro di ricerca e guidata dalla logica ferrea del publish or perish, delinea un'inclinazione sempre più accentuata verso l'iperspecialismo. Gli articoli scientifici, nella stragrande maggioranza dei casi, adottano uno stile volutamente criptico, inaccessibile non solo ai profani ma anche ai colleghi che lavorano in settori di ricerca contigui: come scrisse, con il consueto humour, Gian-Carlo Rota, «un matematico esperto di equazioni alle derivate parziali pseudo-paraboliche in domini quasi-convessi mai si abbasserà a essere compreso dagli specialisti di equazioni alle derivate parziali quasi-paraboliche in domini pseudo-convessi». Al di là di questi eccessi di esoterismo, vi è un'altra ragione – forse più preoccupante – per cui gli articoli scientifici non costituiscono un'efficace mezzo di comunicazione tra scienziati che lavorano in ambiti disciplinari diversi. Lo scientific paper, almeno nella sua forma tradizionale, non discute con chiarezza le ipotesi implicite e tende a occultare la prospettiva critica, metodologica e problematica; insomma — come si spinse ad affermare il biologo inglese Peter Medawar — «[it] is a fraud in the sense that it does give a totally misleading narrative of the processes of thought that go into the making of scientific discoveries». Considerando questi aspetti — e altri che tralasciamo, come quelli relativi alla formazione dei futuri scienziati —, la transdisciplinarità dell'impresa scientifica contemporanea appare allora quasi una chimera, o tutt'al più un buon proposito. I ricercatori si trovano a utilizzare, sì, strumenti teorici e risultati sperimentali di provenienza disparata — uno spizzico di matematica, un briciolo di fisica, qualche granello di biologia ma senza una reale apertura di orizzonti e senza che a ciò corrisponda un'accresciuta capacità di comprensione o di integrazione dei vari elementi in un quadro unitario.
Alle radici di questo stato di difficoltà, di cui molti hanno voluto
sottolineare anche il carattere paradossale, si possono forse individuare —
azzardando una prima diagnosi d'urgenza, senza dubbio
non definitiva — alcune ragioni profonde che concernono lo statuto
della scienza in quanto tale. Si deve infatti constatare la forte anomalia
costituita da un sapere scientifico che, pur nel suo avanzare
incessante e impetuoso fino a farsi talora disordinato e prettamente
serendipitous,
non è ancora pervenuto a strutturare, nemmeno in via
di ipotesi provvisoria, un'immagine del mondo globalmente e coerentemente
fondata — una concezione della natura.
La fisica teorica, con le formidabili costruzioni concettuali della relatività generale e della meccanica quantistica, ha certamente allargato in maniera considerevole la nostra comprensione dei fenomeni naturali, ma queste due teorie, malauguratamente, appaiono refrattarie a essere inglobate in un unico formalismo, più generale, che le comprenda entrambe. In effetti, il cosiddetto modello standard (che incorpora in un quadro coerente la teoria elettrodebole e la cromodinamica quantistica), nonostante la straordinaria accuratezza delle sue previsioni (predictions) sperimentali, non solo non include la gravitazione ma dà luogo a concetti di spazio e tempo che appaiono in aperto conflitto con la teoria della relatività generale di Einstein. La teoria delle stringhe (string theory) nacque in maniera abbastanza fortuita, e si sviluppò per fornire una teoria alternativa al modello standard. Verso la fine degli anni sessanta del secolo scorso Gabriele Veneziano ebbe l'idea di modellizzare l'interazione nucleare forte usando piccole stringhe vibranti unidimensionali, invece di particelle puntiformi. Nonostante la sua originalità, e malgrado le semplificazioni che sembrava apportare alla teoria, il tentativo di Veneziano (ulteriormente precisato da contributi di Yoichiro Nambu, Leonard Susskind e altri fisici) si scontrava con varie difficoltà apparentemente insormontabili. Verso la metà degli anni settanta, tuttavia, John Schwarz e Joél Scherk ripresero l'intuizione di Veneziano per edificare una teoria quantistica della gravità. La proprietà fondamentale di una stringa — aperta, cioè, simile a un pezzettino di spago, oppure chiusa come un anello — è di vibrare in infiniti modi diversi: i differenti modi di vibrazione di una stringa danno origine, secondo la relazione tra massa ed energia stabilita dalla relatività speciale, a varie masse e a varie cariche di gauge (gauge forces), quelle associate alle varie particelle mediatrici delle interazioni fondamentali. In particolare, se la stringa è chiusa e ha lunghezza dell'ordine della lunghezza di Planck (10^-33 cm) e tensione dell'ordine della massa di Planck, il suo spettro di vibrazione contiene una particella di massa 0 e spin 2, che può essere interpretata come il gravitone. La precisazione dei dettagli matematici della teoria delle stringhe, nel corso degli anni ottanta, è stata merito principalmente degli sforzi di Schwarz, Michael Green e Edward Witten. Le stringhe (parliamo ora di stringhe chiuse) evolvono, vibrando, in uno spazio-tempo astratto (a 10 dimensioni) e in tal modo descrivono superfici bidimensionali, che i matematici chiamano superfici di Riemann (punturate). Purtroppo, dopo i primi successi iniziali, questa ambiziosa teoria – nella sua più recente formulazione detta M-teoria (che prevede, in realtà, uno spazio-tempo a 11 dimensioni) – sembra essere arrivata a un punto morto, vittima, per così dire, della sua stessa ricchezza: dà infatti origine a un numero infinito di universi possibili. Oltre a ciò, la sua intrinseca non sperimentabilità – giacché le altissime energie che servirebbero a darne una «prova sperimentale» sono de facto impossibili da ottenersi in laboratorio – lascia perplessi quanti ancora credono alla fondamentale correttezza di un metodo galileiano, seppure debitamente emendato. D'altro canto, i sostenitori di teorie rivali – in particolare, i fautori della cosiddetta loop quantum gravity – non sembrano avere frecce migliori al loro arco. In realtà, con quest'impasse della fisica teorica – nonostante gli straordinari successi che non sarebbe possibile mettere in dubbio – è tutto un arsenale di convinzioni e di schemi metodologici a essere messo in scacco. Che cosa sono lo spazio e il tempo? In che misura si riesce a salvaguardare la nozione di determinismo? Gli effetti non locali che si osservano nell' entanglement quantistico conducono, come riteneva Einstein, a paradossi insanabili? Dovremmo pensare all'universo nel suo complesso come a una macchina che elabora informazione, secondo il paradigma proposto, tra gli altri, da Seth Lloyd? In che senso possiamo parlare di «leggi fondamentali», universali e immutabili? In effetti, come scrive il fisico americano Lee Smolin, le ambizioni del vecchio riduzionismo, secondo le quali tutte le leggi della fisica possono essere dedotte da un insieme di leggi fondamentali valide a livello microscopico, si devono considerare ormai tramontate. Al contrario, è assai probabile che le masse e le costanti di accoppiamento delle par ticelle elementari siano determinate da processi che coinvolgono l'intero universo. Un così gran numero di interrogativi in attesa di risposta, e la mancanza di «principi» (così li avrebbe chiamati Poincaré) unanimemente riconosciuti e accettati, suggerisce la possibilità (o forse la necessità) di mutamenti di prospettiva: da teorie fondate eminentemente su descrizioni «locali» a teorie che privilegino aspetti «globali», da un riduzionismo dissennato a un olismo assennato, da concezioni prudentemente «deterministiche» a concezioni coraggiosamente «non lineari». E molti fisici, quasi per forza di cose, in cerca di nuove idee, rivolgono la loro attenzione ad altre discipline, in primis alla biologia. | << | < | > | >> |Pagina 59È in virtù della scienza e dell'arte che hanno valore le civiltà. Ci si è meravigliati della formula: la scienza per la scienza; ma vale più dell'altra: la vita per la vita, se la vita non è che miseria; e anche dell'altra: la felicità per la felicità, se si crede che tutti i piaceri siano della stessa qualità [...]. Ogni azione deve avere uno scopo. Dobbiamo soffrire, dobbiamo lavorare, dobbiamo pagare il biglietto, ma per assistere allo spettacolo; o almeno perché gli altri possano un giorno assistervi. Tutto ciò che non è pensiero è puro nulla. E invero, non ci è dato pensare che il pensiero e tutte le parole di cui disponiamo per parlare delle cose non possono esprimere che pensieri; dire che vi è qualcosa di diverso dal pensiero è dunque un'affermazione che non può avere senso. E tuttavia — strana contraddizione per quelli che credono al tempo — la storia geologica ci mostra che la vita non è che un breve episodio tra due eternità di morte, e che, in questo stesso episodio, il pensiero cosciente non è durato e non durerà che un momento. Il pensiero non è che un lampo in mezzo a una lunga notte. Questo lampo, però, è tutto. Così il grande matematico e fisico (nonché filosofo) Jules-Henri Poincaré, che tra i suoi meriti annovera quello di aver esplorato le basi matematiche della relatività – sia ristretta sia generale – indipendentemente da Albert Einstein.
Paiono qui essenziali tre aspetti: 1) l'asserzione del valore civile
dell'impresa tecnico-scientifica; 2) l'affermazione dell'ineludibilità
del pensiero; 3) il riconoscimento della finitezza umana come condizione della
responsabilità. A prima vista, sembrerebbe difficile coniugare la dichiarazione
del valore civile della scienza (vedi 1) con
il motto, all'apparenza politicamente disimpegnato,
la scienza per la scienza.
Però, non abbiamo qui a che fare con un ingenuo appello a
una qualsivoglia fede nella scienza (anche se Poincaré è stato talvolta
frainteso proprio su questo punto). Piuttosto, Poincaré sottolinea, con la
consueta intelligenza e chiarezza, come solo nella e dalla
pratica tecnico-scientifica la ricerca tragga alimento e giustificazione.
Per il matematico francese è ovvio che «ogni azione deve avere uno
scopo» e dunque lo scopo della scienza non può che essere la scienza stessa. Si
tratta di un circolo
vizioso?
No, semmai
virtuoso:
è nella pratica che prende corpo lo spirito critico che rende al contempo
fallibile,
ma non vano, ogni nostro tentativo di comprensione e di azione nel
mondo della natura
– un mondo che, piaccia o non piaccia, include il mondo dell'uomo. In questo
senso è davvero
ineludibile
l'atteggiamento critico che contraddistingue la crescita della conoscenza
scientifica. La congiunzione dei tre punti 1, 2, 3 consente di
ritrovare le radici naturali del pensiero e di innestare l'intera vicenda
umana nel quadro più generale della storia dell'Universo.
Abbiamo usato l'aggettivo fallibile non a caso. Più o meno nel periodo in cui Poincaré maturava la sua concezione del valore della scienza, l'americano Charles Sanders Peirce delineava una coerente dottrina del fallibilismo. Così scriveva: Tutto il ragionamento positivo consiste per natura nel giudicare la proporzione di qualcosa all'interno di un'intera collezione per mezzo della proporzione trovata in un campione. Di conseguenza, vi sono tre cose che non possiamo mai sperare di raggiungere con il ragionamento, ovvero la certezza assoluta, l'esattezza assoluta, l'universalità assoluta. Non possiamo essere assolutamente certi che le nostre conclusioni siano anche approssimativamente vere, in quanto il campione potrebbe essere completamente diverso dal resto della collezione. Non possiamo pretendere di essere neppure probabilmente esatti, in quanto il campione non consiste che di un numero finito di esempi e ammette soltanto valori particolari della proporzione cercata. Infine, anche se potessimo stabilire con certezza ed esattezza assolute che il rapporto tra uomini peccatori e tutti gli uomini è di 1 a 1, resterebbe ancora spazio tra le generazioni infinite degli uomini, per un qualche numero finito di uomini senza peccato, senza per questo violare la proporzione. Questa analisi del problema dell'induzione (cioè dell'estrapolare dal «campione» all'intera collezione che ci interessa), che nulla ha da invidiare a quella classica di David Hume, è una premessa per quell'atteggiamento probabilistico e «relativistico» che contraddistingue una parte notevole del pensiero critico del Novecento, a cominciare dai pragmatisti americani per finire con le tesi formulate in Probabilismo (1931) dal matematico italiano Bruno de Finetti. In questa sede sarà sufficiente delineare una delle conclusioni di Peirce circa la portata del suo fallibilismo: A dir la verità quasi chiunque lo darà per buono finché non comincerà a rendersi conto di ciò che è implicito in quell'assunto – e allora molti si tireranno indietro. Non sarà ammesso da persone del tutto incapaci di riflessione filosofica. Non sarà ammesso appieno da quegli spiriti imprenditoriali che si sono sviluppati esclusivamente nella direzione dell'azione e che sono abituati a rivendicare un'infallibilità pratica nelle questioni di affari. Questi uomini ammetteranno l'inevitabile fallibilità di ogni opinione con una certa prontezza, ma faranno sempre un'eccezione per le loro. La dottrina del fallibilismo sarà anche negata da chi teme le sue conseguenze nella scienza, nella religione e nella moralità. Ma mi prenderò la licenza di dire a questi signori piuttosto conservatori che, per quanto competenti possano rivelarsi nel dirigere gli affari di una chiesa o di qualche altra corporazione, è meglio che non tentino di gestire nello stesso modo la scienza. Il conservatorismo – nel senso del terrore per le conseguenze – è totalmente fuori luogo nella scienza, che al contrario è sempre stata spinta in avanti dai radicali e dal radicalismo, nel senso dell'impazienza di portare le conseguenze all'estremo. Non però da un radicalismo arcisicuro, bensì da un radicalismo che tenta esperimenti. La qualificazione «che tenta esperimenti» è essenziale. Un punto di vista «arcisicuro» significherebbe che la ricerca ha una fine! Ma come osservava (1934) Bruno de Finetti, quella sicurezza sarebbe dannosa sia per i filosofi sia per gli scienziati: per i filosofi che si cullerebbero nell'illusione di aver trovato una verità definitiva; per gli scienziati che smetterebbero semplicemente di... investigare. Ma de Finetti chiariva subito che questa sua critica non pretende di dimostrare l'impossibilità di giungere a una verità che non abbia mai più bisogno di ritocchi: un simile intento sarebbe contraddittorio, ché esso consisterebbe proprio nello stabilire una tale verità. Vuol mostrare invece quanto siano facili le illusioni e mettere in guardia contro di esse, vuol sconsigliare l'inutile imprudenza di farsi garanti di una certa concezione per tutta l'eternità, quando il domani può smentirla, e quando il suo successo dipende dall'intrinseca sua capacità di affermarsi e durare in un certo periodo, capacità che non si può modificare, come con un colpo di bacchetta magica, con il semplice espediente di conferirle la qualifica di "verità assoluta". E de Finetti concludeva, con spirito genuinamente pragmatistico, «che conviene abbracciare il punto di vista favorevole alla possibilità indefinita di progresso», in quanto teneva vantaggiosamente aperta la ricerca ed evitava i danni della stagnazione. | << | < | > | >> |Pagina 66Ne consegue per Mill che vanno distinti «due significati princidi nella parola Natura. In un senso, essa significa tutti i poteri esistenti sia nel mondo esteriore che in quello interiore, e tutto quel che accade per mezzo di questi poteri. Nell'altro senso essa significa non già tutto quello che accade, ma soltanto ciò che accade, senza l'opera, o senza l'opera volontaria e intenzionale, dell'uomo». La chiarezza di quest'ultima distinzione rivela l'abuso linguistico di chi gioca sull'ambiguità di locuzioni come secondo natura o contro natura quando la posta è la libertà della ricerca o la stessa autonomia in campo morale. Notava Mill: Sebbene non si possa forse trovare alcuno, oggi, il quale, come gli scrittori istituzionali dei secoli passati, adotti il cosiddetto Diritto Naturale quale fondamento dell'etica, e si sforzi in modo conseguente di ragionare a partire da esso, tale parola e quelle affini vanno annoverate ancora oggi fra i termini che hanno un gran peso nelle argomentazioni morali. Il fatto che un qualsiasi modo di pensare, di sentire o di agire sia "secondo natura", è considerato come un solido argomento a favore di esso. Se si può dire in maniera abbastanza plausibile che "la natura ingiunge" alcunché, la maggior parte delle persone considererà giustificato il farlo; e viceversa si ritiene sufficiente l'accusa che un'azione sia contraria alla natura per toglierle qualsiasi pretesa di essere tollerata o scusata; e il termine "contro natura" non ha cessato di essere uno degli epiteti più ingiuriosi. Mill aveva messo su carta le sue riflessioni nella seconda metà dell'Ottocento (più precisamente, 1850-1858 e 1868-1870; ma i Saggi furono pubblicati postumi nel 1875). Pressoché cent'anni dopo, nel 1972, licenziando una riedizione dei Saggi, così commentava Ludovico Geymonat il fatto di «rimettere in circolazione» l'opera in lingua italiana: È fin troppo noto che – in diretta connessione con la profonda crisi in atto nella democrazia italiana, e non solo italiana – sta diffondendosi rapidamente in larghi strati della nostra cultura un clima di sorda sfiducia nella ragione e di rinnovate, spesso confuse, aspirazioni a forme di conoscenza di carattere mistico-intuitivo. Orbene, le lucide, sottili, rigorose analisi milliane possono offrire, a mio parere, una favorevole occasione di serio ripensamento a quanti sembrano inclini a lasciarsi trarre in inganno da tale pericoloso clima. Sia lecito aggiungere che, quando Mill scriveva che difficilmente nel suo tempo qualcuno avrebbe mai adottato esplicitamente il Diritto Naturale quale fondamento dell'etica, egli peccava (forse) di ottimismo: lo aveva ben capito Geymonat, consapevole del ritardo civile della fragile democrazia del nostro paese e preoccupato della crescente pressione esercitata «tempestosamente [...] da numerosi predicatori di nuovi messaggi religiosi (inquadrati, o meno, in una precisa ortodossia dogmatica)». Resta comunque il fatto che il funzionamento di quel meccanismo ideologico era già lucidamente smascherato da Mill: Coloro che elevano la Natura a modello di azione, non ne fanno una semplice espressione verbale; essi non intendono che tale modello, comunque esso sia, debba venir chiamato Natura; essi ritengono di dare certe informazioni intorno a ciò che è in realtà il modello dell'azione. Infine, Mill «illuministicamente» non mancava di denunciare l'equivoco di fondo sottostante al linguaggio dei moralisti ispirati al Diritto Naturale: quello di violare la cosiddetta «legge di Hume», poiché pretendevano di fondare su «ciò che è» (la Natura) «la norma e il modello di ciò che dovrebbe essere» (il Diritto). Quanti germi di totalitarismo porti con sé tale violazione è cosa nota. Meno però si tende oggi a realizzare quanto la critica illuministica e fallibilistica abbia contribuito a emancipare l'etica da questa ideologia e lo studio spregiudicato delle questioni naturali da ogni ipoteca moralistica. È mia speranza che queste brevi osservazioni contribuiscano alla nostra «impazienza per la libertà». | << | < | > | >> |Pagina 113La civiltà umana deve fare urgentemente scelte drammatiche che influenzeranno profondamente il suo futuro e forse la sua stessa sopravvivenza. Potrebbe anche decidere di non fare nessuna scelta, ma in realtà anche questa sarebbe una scelta, forse la più disastrosa. I nodi da affrontare sono legati all'effetto sempre più grande che le attività di origine antropica hanno sull'ambiente planetario e alla limitatezza delle risorse disponibili. Già una quarantina d'anni fa il Club di Roma aveva lanciato il suo autorevole grido d'allarme, facendo previsioni che, nonostante la loro schematicità, si sono sostanzialmente realizzate. Tuttavia, quest'inizio di consapevolezza non ha prodotto gli effetti auspicabili e, in prima approssimazione, il mondo è andato avanti come se nulla fosse. Se proviamo a guardarci dall'esterno e consideriamo gli avvenimenti degli ultimi quarant'anni in una prospettiva storica di lungo periodo, abbiamo l'impressione di vedere un grande bastimento che, scendendo lentamente sul fiume, si avvicina a orride cascate. L'orchestra continua a suonare, i passeggeri a danzare, il capitano a dormire, qualche passeggero, tra i più accorti, cerca di remare controcorrente, ma senza effetti apprezzabili. Chissà come ci giudicheranno i nostri pronipoti?
Uno dei motivi, forse il principale, di questa cecità collettiva, è la
nostra lentezza a cambiare idee che sono radicate nella tradizione,
anche se sono insostenibili dal punto di vista scientifico e non saremmo in
grado di difenderle in una discussione pubblica (o forse non proverremmo nemmeno
farlo). Sono idee che abbiamo ereditato, appreso, quasi senza accorgercene, da
bambini, che utilizziamo quasi inconsciamente e che trasmettiamo ai nostri
figli. Una di queste è l'idea di Natura e della sua relazione con l'uomo.
Fino a pochi secoli fa la Natura era considerata immutabile: le specie erano nate esattamente uguali a quelle attuali (secondo alcuni studiosi la creazione era avvenuta poco prima del 4000 a.C.), il mondo (per alcuni il migliore dei mondi possibili) era stato creato al servizio dell'uomo, il re dell'Universo; Universo che girava intorno al suo centro, il nostro pianeta. Pian piano l'uomo è stato detronizzato, nonostante le resistenze accanite di molte religioni, resistenze che, ahimè, durano ancora al giorno d'oggi, non solo da parte di alcuni protestanti, ma più recentemente anche da parte di cattolici.
Ormai è diventato un luogo comune che il centro dell'Universo
non è più la terra, non è più il nostro sole o la nostra galassia: siamo
da qualche parte, alla periferia di una galassia che non ha niente di
particolare. Tuttavia continuiamo ad agire come se non ci rendessimo conto che
la terra non è stata fatta per noi, né noi per la terra, e
che la nostra comparsa su questo pianeta è un accidente storico, dovuta a
un'evoluzione casuale e a una catena di eventi, ciascuno dei
quali era estremamente improbabile. Abbiamo difficoltà a renderci
conto che l'Universo è sostanzialmente indifferente alla nostra esistenza e che
noi dobbiamo saldare i conti con l'ecosistema terrestre,
che non era affatto preparato alla nostra venuta.
Le manchevolezze delle nostre idee sulla Natura non finiscono qui: ormai l'evoluzione della vita su questo pianeta, evoluzione durata quattro miliardi di anni, è considerata un fatto comunemente accettato, a parte le residue resistenze, anche se temo che questa realtà non sia stata veramente interiorizzata. Tuttavia, il tempo lunghissimo di questa evoluzione (sono passati 69 milioni d'anni da quando i dinosauri scomparvero da questo pianeta e furono sostituiti dai mammiferi) tende a farci considerare la Natura come sostanzialmente immutabile, in quanto i cambiamenti sembrano essere avvenuti su scale di tempo incomparabilmente più lunghe delle generazioni umane. Questa visione di una Natura che non fa salti è sostanzialmente sbagliata. È vero che i tempi dell'evoluzione darwiniana (ovvero mutazioni casuali sulle quali opera la selezione naturale) sono molto lunghi e i tempi necessari per formare nuove specie di mammiferi si aggirano tipicamente sulle centinaia di migliaia d'anni. Ma la natura non si evolve solo mediante la lenta creazione di nuove specie. Le specie non sono monadi: vivono in comunità con altre specie, fanno parte di una catena alimentare, formano ecosistemi locali che contribuiscono all'ecosistema planetario. Le specie non si evolvono, coevolvono in un ambiente che spesso resta costante. Gli ecosistemi comprendono decine di migliaia di specie che interagiscono tra di loro formando un equilibrio normalmente stabile. Tuttavia, la lenta evoluzione darwiniana delle specie (che è guidata dal miglioramento della fitness della singola specie) può portare l'ecosistema fuori dall'equilibrio. In questo caso l'ecosistema collassa rapidamente e l'evoluzione darwiniana non è più in grado di tornare indietro (specialmente nei tempi veloci richiesti): si forma un nuovo equilibrio con altre specie che colonizzano il territorio e parte delle vecchie specie si estingue, almeno localmente. Abbiamo quindi periodi di lenta evoluzione dell'ambiente, ovvero di stasi, inframezzati (o punteggiati, come si dice con un inglesismo alla moda) da rapidi periodi di estinzioni di massa. Questa evoluzione per gli ecosistemi ricorda la teoria di Gould e Eldredge sugli equilibri punteggiati (punctuated equilibria) per l'evoluzione delle singole specie. Il paragone più calzante è con la geofisica: il lento scorrere delle faglie continentali (l'equivalente dell'evoluzione darwiniana) provoca pian piano l'accumulo di tensioni che, quando superano un valore critico, distruggono l'equilibrio locale: le faglie si muovono con estrema velocità fino a raggiungere un nuovo punto di equilibrio e questo movimento rapido è chiamato terremoto dagli umani. In realtà la terra si muove sempre, normalmente molto lentamente, in maniera impercettibile, e solo ogni tanto molto velocemente.
Se guardiamo con molta attenzione le statistiche dei terremoti registrati
dagli strumenti, scopriamo che ci sono un gran numero di
terremoti molto piccoli, seguiti senza soluzione di continuità da terremoti un
poco più grandi, ma meno frequenti, fino ad arrivare ai
terremoti (a volte catastrofici) che percepiamo con i nostri sensi, che
sono solo la punta dell'iceberg. Nello stesso modo un ecosistema
può avere frequenti cambiamenti, in cui solo una piccola parte delle
specie viene eliminata e solo molto raramente cambiamenti catastrofici in cui
avvengono estinzioni su grande scala. Dato che i vari ecosistemi del pianeta
sono collegati l'uno con l'altro, una serie di cambiamenti nei singoli
ecosistemi si può propagare all'ecosistema globale e provocare estinzioni di
massa a livello planetario che segnano
il passaggio da un'era geologica alla successiva (ovviamente anche
eventi esterni, come la caduta di un asteroide sulla terra o eruzioni
vulcaniche, possono dare una mano a provocare estinzioni di massa,
tuttavia forse questi sono l'eccezione, e non la regola).
Nonostante l'ecosistema globale sia apparentemente stabile, è
molto più fragile di quello che noi possiamo pensare. Purtroppo è
praticamente impossibile stimare quanto siamo vicini alla soglia per
un cambiamento catastrofico, in quanto, come per i terremoti, è molto difficile
individuare eventi precursori che possano servire da segnale. La storia passata
ci insegna molto poco: vediamo solo dei cambiamenti praticamente repentini,
senza segni premonitori.
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