Autore Guido Caldiron
Titolo WASP
SottotitoloL'America razzista dal Ku Klux Klan a Donald Trump
EdizioneFandango, Roma, 2016, Documenti 68 , pag. 316, cop.fle., dim. 13,5x20,5x2,2 cm , Isbn 978-88-6044-494-3
LettoreRiccardo Terzi, 2017
Classe paesi: USA , destra-sinistra












 

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Indice


Introduzione                                          7


Capitolo I      L'odio a stelle e strisce            31

Capitolo II     Dichiarazione di guerra a Obama     134

Capitolo III    The Donald, un eroe populista       205


Note                                                285


 

 

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Pagina 7

Introduzione


Donald Trump può davvero diventare il 45° presidente degli Stati Uniti d'America? Per tentare di dare una risposta a questa domanda si deve necessariamente cercare di andare oltre le definizioni del personaggio che sono state proposte da quando si è aggiudicato con un ampio margine di consensi le primarie del Partito repubblicano per la corsa alla Casa Bianca. Questo perché lo stile, la retorica e le proposte del miliardario newyorkese, che si è arricchito costruendo grattacieli su cui svetta il suo nome a lettere dorate prima di trasformarsi in un popolare personaggio televisivo, rimandano certamente a quegli atteggiamenti razzisti, sessisti, xenofobi e ispirati all'opportunismo e, forse, ad una personalità narcisistica che gli sono stati attribuiti, al pari di una indubbia capacità da imbonitore assortita dall'abilità, per chi detiene uno dei patrimoni più consistenti del paese, di presentarsi come un "americano medio", un uomo dai gusti semplici che, al pari di milioni di suoi concittadini ama il wrestling ed è attratto dalle teorie cospirative più bizzarre; non a caso, come notato da diversi osservatori, una delle frasi ricorrenti della sua campagna è stata "there is something going on", più o meno "c'è qualcosa sotto" o "qualcosa sta succedendo", pronunciata per annunciare eventuali brogli nel caso di una sua sconfitta, in relazione alle condizioni di salute della sua rivale o all'indomani di un fatto di sangue che ha scosso il paese.

Ma tutto ciò non basta a spiegare l'entità assunta dal fenomeno di cui è protagonista, il fatto che nello spazio di poco più di un anno sia riuscito a sbaragliare tutti i tenori della destra, compresi quelli di casate a loro modo celebri come i Bush, e a dar vita a una sfida di proporzioni inaspettate e per certi versi inaudite per una donna che ha attraversato una lunga stagione di battaglie politiche complesse e coraggiose, che affondano le loro radici nel sostegno di molti progressisti bianchi al movimento per i diritti civili degli afroamericani, ben al di là del fatto di essere una ex First Lady e di aver fatto parte dell'amministrazione guidata da Barack Obama, vale a dire Hillary Clinton.

O meglio, proprio la sua natura di outsider della politica ha consentito a Trump di intercettare quegli umori anti-establishment che hanno caratterizzato dapprima il confronto all'interno di ciascun partito e quindi la campagna per le presidenziali e che saranno ricordati, quale ne sia l'esito finale, come la vera "cifra" di queste elezioni. "Sarò la vostra voce, la voce di chi non ne ha", ha affermato il tycoon nel discorso di accettazione della nomination repubblicana, pronunciato in occasione della kermesse del Grand Old Party di Cleveland. Così, secondo la sintesi proposta dal noto politologo Larry Sabato, "in questa campagna elettorale Trump rappresenta la rabbia intensa e l'alienazione di grandi segmenti del suo partito. Odiano Obama, i loro stessi leader, l'immigrazione illegale e un sacco di altre cose. Trump dà una voce a tutto questo".

Allo stesso modo, e in questo caso potenzialmente ben al di là del campo della destra, il miliardario ha puntato tutto sulla possibilità di intercettare le paure di un paese che per certi versi è tornato a respirare il clima del dopo 11 settembre, subendo nello spazio di meno di un anno e mezzo ben tre attentati significativi ispirati dalla rete del terrorismo jihadista: prima le stragi di San Bernardino in California e Orlando in Florida e quindi, a soli 50 giorni dal voto, una serie di azioni, che fortunatamente i terroristi sono riusciti a portare a termine solo in parte, tra New York, il New Jersey e il Minnesota, conclusesi con decine di feriti. Un contesto nel quale Trump si è proposto come il "leader duro e deciso di cui il paese ha bisogno per fermare tutto questo", addossando all'amministrazione Obama e alla sua rivale, che ne ha fatto parte, la responsabilità di non aver saputo proteggere abbastanza gli americani.

Più in generale, il miliardario che propone alle inquietudini dei propri concittadini la sua biografia di uomo di successo come una sorta di annuncio di un nuovo possibile "sogno americano", all'insegna del "io ho vinto, potete vincere anche voi", sembra approfittare di una fase della vita politica e sociale statunitense segnata profondamente da alcuni fenomeni che hanno sì investito il paese da lungo tempo, ma che spesso hanno subito di recente una drammatica e ulteriore accelerazione.

Si tratta da un lato dei costi sociali delle trasformazioni conosciute dal capitalismo americano negli anni che hanno visto affermarsi la globalizzazione dei mercati e la progressiva finanziarizzazione dell'economia, cui si devono aggiungere gli esiti della crisi del 2008, che hanno contribuito a fare di quella americana una delle società più diseguali del pianeta; temi su cui ha posto l'accento quello che è stato per molti verso l'altro grande protagonista di questa campagna elettorale, il senatore socialista del Vermont, Bernie Sanders.

Di fronte alla perdita dei posti di lavoro e alla concorrenza straniera, Trump ha proposto lo slogan ambiguo dell'"American First", insieme giusta denuncia di accordi e trattati internazionali che hanno sottratto risorse e possibilità al paese, ed evocazione di una pericolosa "preferenza nazionale", interna, foriera di discriminazioni e annuncio di una nuova possibile caccia alle streghe. Il tycoon, ha spiegato Robert Reich, studioso e già segretario al Lavoro durante la presidenza Clinton, si rivolge soprattutto al ceto medio e alla working class, "che si stanno trasformando in una classe ansiosa perché hanno elevatissime probabilità di finire in miseria". Due terzi dei cittadini americani "vivono con i soldi contati e la stragrande maggioranza rischia di perdere il posto di lavoro da un momento all'altro. Le reti di sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che perdono il lavoro non ha nemmeno diritto alla disoccupazione. Il governo non fa nulla per proteggere il lavoro", per "impedire alle aziende di delocalizzarre all'estero o che, qui da noi, si sfrutti il lavoro degli immigrati clandestini che vengono pagati molto meno degli americani". In questo senso, per Reich, "le proposte di Trump sono pura demagogia, ma probabilmente se non ci fosse lui ci sarebbe qualche altro imbonitore pronto a sfruttare la paura delle persone".

D'altro canto, non si può sottovalutare l'inquietudine che sembra caratterizzare almeno una parte della comunità bianca, con le cui aspettative, speranze e sogni si è di fatto identificata per oltre due secoli e mezzo la storia stessa del paese, sfidata nel suo primato demografico e culturale dalla forte crescita delle minoranze, principalmente dei latinos, e attraversata, proprio durante gli otto anni della prima presidenza di un politico afroamericano, dal riemergere di forti, ed evidentemente mai sopite fino in fondo, tensioni razziali.

Da questo punto di vista, The Donald, il soprannome da star che è stato affibbiato al tycoon anni fa e che lui proprio per questo non sembra disdegnare, appare più come il sintomo che non la causa di quel malessere profondo che scuote l'America e che si esprime sempre più spesso attraverso una sorta di stato d'animo rabbioso che rischia di generalizzarsi. Piuttosto, ciò in cui il candidato repubblicano ha dato prova delle sue capacità, è l'aver saputo attizzare costantemente questa rabbia, indicando, spesso in facili capri espiatori, come gli immigrati messicani o i musulmani, e perché no i rifugiati dalla Siria, i responsabili del malessere percepito da molti e alimentando il sospetto, i pregiudizi, l'odio, fino a produrre una ulteriore e pericolosa radicalizzazione del dibattito pubblico. Allo stesso modo, ha parlato all'animo più squisitamente razzista del paese, assicurandosi il seguito degli adepti del "white nationalism", compresi gli eredi del Ku Klux Klan, evocando "invasioni di massa di clandestini" lungo i confini meridionali, ma ricorrendo anche al linguaggio cifrato di "legge e ordine" per stigmatizzare, in maniera meno esplicita, i neri. Inserendosi così, a suo modo, in quel fenomeno che ha fatto da sempre del razzismo, e dell'uso dei temi razziali per regolare conflitti ed equilibri all'interno del paese, una delle caratteristiche della storia americana: ciò che si è cercato di descrivere in questo volume.

Trump ha inoltre agitato vecchi fantasmi dell'immaginario nativista e wasp e il suo annuncio di "voler rendere di nuovo grande l'America" è suonato a molti osservatori come un messaggio in codice per chi vorrebbe che il paese "tornasse ad essere bianco". Un atteggiamento più che ambiguo, adottato nel pieno di uno dei momenti più difficili vissuti dal paese negli ultimi anni, segnato dalla strage continuata di giovani neri per mano delle forze dell'ordine e dal permanere di discriminazioni meno visibili ma non per questo meno terrificanti, come quanto è emerso di recente a Flint, un città povera e a maggioranza nera del Michigan, dove dal 2014 la locale amministrazione repubblicana ha chiuso un occhio sul fatto che l'acqua potabile fosse gravemente contaminata dal piombo e avesse provocato forme di avvelenamento e di disturbi gravi in particolare per migliaia di bambini. Un contesto nel quale l'intellettuale afroamericano Ta-Nehisi Coates denuncia come molti americani bianchi credano ancora che si possa "correttamente organizzare una società" in base al colore della pelle degli individui e come "l'America bianca è un'associazione schierata a protezione del suo potere esclusivo per il controllo dei nostri corpi".

Ma se "il fenomeno Trump" appare per certi versi come il prodotto specifico di due crisi maggiori, e tra loro spesso intrecciate, con cui l'America si trova a fare i conti, una di natura sociale e l'altra dal profilo almeno in apparenza "identitario", sembra rimandare anche a quel populismo di destra europeo i cui esponenti guardano non a caso con malcelata speranza al prossimo 8 di novembre. La sua promessa di un muro da erigere alla frontiera con il Messico evoca le barriere che vorrebbero fermare i migranti nel Vecchio Continente, la sua idea di cacciare gli stranieri e isolarsi da mondo rimanda in modo pressoché esplicito alla Brexit.

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Un esercito di poveri


Come detto, il successo di Trump si può spiegare prima di tutto come uno degli effetti della situazione economica e sociale degli Stati Uniti. La crisi dei mutui subprime, che iniziò a sconvolgere il sistema bancario, e quindi quello finanziario, tra il 2007 e il 2008, come effetto dell'implosione della bolla immobiliare che si era creata nel corso di più di un decennio, e che avrebbe prodotto una recessione pressoché senza precedenti, per l'America è stata infatti anche e soprattutto un disastro sociale di proporzioni talmente vaste da evocare il crollo di Wall Street del 1929. In seguito, l'amministrazione Obama ha cercato di ricreare i posti di lavoro andati persi, ma in tanti non hanno più ritrovato lo status di prima della crisi; si sono dovuti accontentare di stipendi più bassi e, spesso, di occupazioni precarie. Buona parte dei posti creati negli ultimi anni sono in settori che si caratterizzano per i salari bassi, come il commercio al dettaglio, i ristoranti, gli alberghi. Perciò, malgrado negli ultimi anni la ripresa ci sia effettivamente stata, come sottolinea il giornalista Andrew Spannaus, è andata in larga parte a vantaggio di "una classe benestante che copre il 25-30% della popolazione", mentre dall'altra parte c'è "la maggioranza degli americani che non solo non fa progressi nelle sue condizioni, ma spesso va addirittura indietro. In media il potere d'acquisto reale della popolazione è pressoché uguale a quello del 1979". Inoltre, come ha sottolineato lo scrittore afroamericano Thomas Chatterton Williams, per altro tra i sostenitori del candidato democratico otto anni fa, "una delle lezioni della presidenza Obama è che i progressi fatti in questo tempo non sono stati distribuiti in modo uguale. In quest'epoca contrassegnata da crescenti disparità non esistono soltanto 'due Americhe', una ricca e l'altra povera, ma ci sono anche 'più Americhe', sia tra i bianchi come tra i neri, degli universi sociali distinti nei quali le diseguaglianze non hanno fatto che aumentare".

Per capire lo stato d'animo attuale di molti elettori statunitensi si deve infatti considerare come la crisi del 2008 si sia di fatto inserita in un contesto che vedeva già da tempo sotto attacco sia i livelli occupazionali che quelli relativi al reddito delle famiglie. Secondo l'Economic Policy Institute, vicino agli ambienti sindacali, il paese ha perso qualcosa come 5 milioni di posti di lavoro tra la fine degli anni Novanta e il 2014, di cui 800 mila in conseguenza dalla delocalizzazione di alcune produzioni oltre la frontiera messicana, nelle famose maquilladoras, o comunque a causa della concorrenza al ribasso inaugurata dal mercato globale. Contemporaneamente, in un paese dove nel corso degli ultimi decenni, anche in conseguenza delle politiche fiscali della destra che fin dai tempi di Ronald Reagan hanno favorito in ogni modo i più abbienti e i maggiori gruppi imprenditoriali, cercando invece di tagliare il più possibile welfare e assistenza, le diseguaglianze sociali si sono fatte sempre più marcate. Se nel periodo compreso tra il 1999 e il 2014, anche le condizioni del ceto medio sono scese in picchiata, come rivela una indagine del Pew Research Center su un campione di famiglie di 229 aree metropolitane, che indica come i redditti della middle-class si siano considerevolmente abbassati, negli Stati Uniti c'è oggi un vero e proprio esercito di oltre 47 milioni di poveri, pari al 15% della popolazione. Un dato che non ha pari in nessun altro paese sviluppato.

Perciò, anche se non coinvolge tutte le componenti della società americana, il carattere per certi versi diffuso della crisi può essere documentato attraverso molti parametri. Ad esempio, il giovane sociologo Matthew Desmond che ha indagato la situazione abitativa del paese a partire dalla realtà di Milwaukee, spiega come in seguito alla crisi dei subprime oltre 2 milioni di famiglie americane abbiano perso la loro casa e ben 20 milioni di persone, talune anche per scelta ma molte altre per necessità, vivano ormai in quartieri, o in vere e proprie cittadine fatte solo di mobile homes. Lo Joint Center for Housing Studies dell'Università di Harvard indica inoltre come più di 11 milioni di famiglie spendano la metà delle loro entrate solo per sostenere i costi relativi alla casa.

Quanto alla possibilità di una uscita se non rapida perlomeno prossima da questa situazione, appare decisamente improbabile. Come ha del resto spiegato l'economista Robert J. Gordon, autore di The Rise and Fall of American Growth, ascesa e caduta della crescita americana, un volume che ha segnato recentemente il dibattito sull'argomento, mettendo in guardia sul fatto che la generazione più giovane potrebbe essere la prima della storia del paese a non riuscire a superare il livello di vita dei propri genitori. E che, al contempo, se, come sembra, nulla è destinato cambiare perlomeno nell'immediato, le diseguaglianze sociali all'interno degli Stati Uniti sono destinate ad approfondirsi ancor di più. Osservata in una prospettiva storica, è come se la situazione economico-sociale stesse andando a ritroso. Nel senso che se dopo il crack del '29, l'avvento delle politiche del New Deal e quindi lo sforzo produttivo sostenuto durante e dopo la Seconda guerra mondiale, avevano spinto tutti i salari verso l'alto, "oggi, solo chi si trova nella parte superiore della piramide con cui si può definire schematicamente lo stato della ricchezza e delle risorse, può sperare di beneficiare di un aumento di reddito. Molti altri vedono i loro salari ristagnare, mentre aumenta il part-time e il lavoro precario e ci sono sempre meno posti pagati decentemente per la classe operaia".

In questo contesto non pochi osservatori, anche tra coloro che hanno avuto delle responsabilità precise nel favorire quegli aspetti della globalizzazione che hanno inciso sull'impoverimento dei lavoratori americani e sulla perdita di milioni di posti di lavoro, ammettono oggi che questa drammatica situazione è il frutto di tali politiche. Come l'economista di Harvard, Larry Summers, già consigliere economico di Reagan e poi segretario al Tesoro di Bill Clinton che spiega: "Abbiamo le prove che la globalizzazione ha aumentato le diseguaglianze all'interno degli Stati Uniti, ha aumentato le opportunità riservate ai più ricchi e ha esposto i lavoratori a una competizione più serrata".

Oltre alla difficile situazione economica, come detto, l'ascesa di Donald è stata però favorita in modo determinante anche da un altro fattore; da quella che si potrebbe definire nei termini di una "crisi di senso".

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Maschi bianchi arrabbiati


Se la storia americana, fin dall'epoca coloniale e per oltre un secolo e mezzo, è stata largamente dominata dai cosiddetti Wasp, white anglo-saxon protestant, vale a dire i bianchi di ascendenza anglosassone e protestante, e in seguito, perlomeno a partire dal periodo compreso tra le due guerre mondiali, dal prendere corpo di una più ampia "comunità bianca" che ha via via incluso anche molti gruppi di immigrati di altre fedi, a cominciare da quella cattolica, provenienti prevalentemente dall'Europa centro-settentrionale e quindi anche meridionale, compresi i nostri connazionali, negli ultimi anni si sono moltiplicati i segnali che annunciano un prossimo cambiamento di fondo nelle componenti della popolazione statunitense, tale da metterne definitivamente in discussione gli equilibri tradizionali.

In particolare, già i risultati del Censimento americano del 2010, sulla base delle percentuali di crescita demografica previste per le diverse comunità, hanno indicato come entro il 2050 i bianchi "caucasici" perderanno il loro primato numerico a favore delle minoranze, in particolare quella ispanica, cresciuta del 43% negli ultimi dieci anni, e che entro lo stesso anno dovrebbe arrivare a raccogliere circa un terzo della popolazione statunitense. Un "sorpasso" che sebbene per poco, il 50,4% del totale, si è già realizzato tra i nuovi nati a favore del complesso dei gruppi etnici diversi dai bianchi, ancora una volta soprattutto latinos, afroamericani e asiatici. Un cambiamento per certi versi "rivoluzionario" che a detta degli studiosi potrà contribuire nel paese ad altre trasformazioni significative. Come ha sintetizzato William H. Frey, demografo del Brookings Institution, "si tratta di un'inversione di tendenza importante che segna il passaggio della società americana a una cultura pienamente globalizzata e multietnica".

Se questi dati non sembrano a prima vista in grado di suscitare alcun tipo di preoccupazione, se non, probabilmente, tra gli adepti del suprematismo bianco che, per quanto pericolosi, rappresentano una esigua minoranza del paese, quelli diffusi lo scorso anno dalla National Academy of Sciences, invitano invece a riflessioni ben più serie. Riguardano infatti la diffusione di un certo numero di "comportamenti a rischio", di patologie mortali e dei casi di suicidio proprio tra la parte meno garantita della popolazione bianca. Frutto della ricerca di due economisti dell'Università di Princeton, Angus Deaton e Anne Case, l'indagine è partita da un'analisi del rapporto potenzialmente esistente tra il benessere economico, il senso di realizzazione individuale e il numero di suicidi nelle società occidentali. Ci si è resi così conto che negli Stati Uniti, nel periodo compreso tra il 1999 e il 2013 e tra coloro che svolgevano lavori manuali o saltuari e avevano a stento terminato le scuole superiori, vi fosse stato un incremento significativo dei casi. Complessivamente, il tasso di mortalità della parte più povera della popolazione bianca americana, in particolare nella fascia di età compresa tra i 45 e i 54 anni, è aumentato nel corso dell'ultimo decennio di un +134 ogni 100mila individui; e questo, oltre che per i casi di suicidio, come conseguenza di patologie legate all'abuso di alcol e droga. "Nessun altro paese sviluppato e ricco vive una condizione simile. Nell'ultimo mezzo secolo, dopo le morti dovute al consumo di tabacco, solo l'Aids aveva provocato qualcosa di simile", ha sottolineato Deaton. Quanto ai motivi di fondo addotti per spiegare questo aumento della mortalità tra i settori impoveriti o marginali della comunità bianca, gli studiosi parlano, oltre che del diffondersi delle dipendenze, di una perdita di status e di un progressivo declassamento. Perciò, spiega il responsabile dell'indagine, "anche se questa "epidemia" di suicidi, di casi di overdose e di patologie "sociali" ha preso avvio prima dell'inizio della crisi finanziaria, è possibile metterla in relazione con la crescente insicurezza economica che domina la vita di tanta gente. Molti bianchi che appartengono alla generazione del baby-boom, e che hanno perciò tra i 40 e i 50 anni, si sono improvvisamente resi conto che la loro vita non sarebbe più stata migliore di quella dei loro genitori". Considerazioni cui si può aggiungere, come fa la storica dell'Università della Louisiana Nancy Isenberg, autrice di un recente studio sulle componenti più umili della working class bianca, spesso definite con il termine dispregiativo di "white trash", che circa metà dei poveri americani, vale a dire oltre 20 milioni di persone, rientrano attualmente in tale categoria.

Questi elementi servono a inquadrare meglio quello che è un fantasma ricorrente della politica americana perlomeno da due decenni, vale a dire i cosiddetti "maschi bianchi arrabbiati" che hanno rappresentato una parte consistente, anche se non l'unica, degli elettori che si sono mobilitati in favore di Donald Trump in occasione delle primarie repubblicane. E che, spiega il sociologo Michael Kimmel, "esprimono in forme sempre più aggressive il loro risentimento nei confronti dei profondi cambiamenti economici, sociali e politici che hanno trasformato il paese nel corso degli ultimi decenni". Individui che si sentono in qualche modo defraudati, privati senza motivo di qualcosa che apparteneva loro: in particolare di "quei privilegi di razza e di genere che hanno caratterizzato a lungo i membri maschili della working class bianca". In questo senso, la trasformazione demografica del paese, la fine delle tradizionali gerarchie razziali, i "nuovi" diritti acquisiti prima dalle donne e quindi da gay e lesbiche, come la precarizzazione lavorativa e la perdita di status, sembrano aver prodotto in questa componente tutt'altro che marginale della comunità bianca un senso di ansia e frustrazione che già durante gli anni di Obama si sono espresse attraverso una radicalizzazione politica a destra, poi assecondata da molti dirigenti del Partito repubblicano. Ma che, suggerisce ancora lo studioso, emerge talvolta anche nelle storie personali dei giovani bianchi del ceto medio responsabili di eccidi apparentemente senza senso in scuole e college. In ogni caso, si tratta di un fenomeno che oggi, come ha notato il noto econonista liberal e commentatore della politica statunitense, Paul Krugman , alimenta senza alcun dubbio anche la campagna di The Donald: "Il sostegno di Trump è fortemente correlato con le tensioni razziali: è un movimento di uomini bianchi arrabbiati perché non dominano più la società americana come una volta".

Prima di ripensarci e dirsi convinto che le cose, alla fine, potrebbero non andare poi così male, il regista Michael Moore , una delle icone della sinistra americana, all'indomani della sonora affermazione del tycoon nelle primarie del Gop ha postato in rete un breve testo proprio per spiegare i motivi per i quali questi maschi bianchi arrabbiati rischiano di diventare determinanti nella possibile vittoria di quello che ha definito come un "miserabile, ignorante, pericoloso pagliaccio part-time, e sociopatico a tempo pieno". Il fatto che a favore di Trump siano schierati i sostenitori più rabbiosi e determinati dell'intero corpo elettorale, secondo Moore potrebbe anche fare la differenza: "Quali fan impazziti si sveglieranno alle cinque del mattino il giorno delle elezioni, incitando le persone per tutto il giorno finché l'ultimo seggio elettorale non sarà chiuso e assicurandosi che tutti i Tom, i Dick e gli Harry avranno espresso il loro voto? Già, proprio così. È questo l'estremo pericolo che stiamo correndo". Inoltre, in alcuni dei cosiddetti Swing State, potenzialemente decisivi per la corsa alla Casa Bianca, come la zona industriale del Midwest, il clima appare al regista molto simile a quello che ha fatto da sfondo al referendum con cui la Gran Bretagna ha deciso di lasciare l'Unione Europea. "Da Green Bay a Pittsburgh, questa America, amici miei, è come il centro dell'Inghilterra: al verde, depresso, in difficoltà, le ciminiere che punteggiano la campagna con la carcassa di quella che chiamiamo Middle Class". Da queste parti, lavoratori arrabbiati, amareggiati, ingannati dalla politica di entrambi i partiti maggiori, non vedono l'ora di opporsi "a quelli che hanno distrutto il loro Sogno Americano". E ora, "l'Outsider, Donald Trump, è arrivato a dare una ripulita. Non dovete essere d'accordo con lui! Non deve nemmeno piacervi! È la vostra Molotov personale da lanciare ai bastardi che vi hanno fatto questo! Mandate un messaggio! Trump è il vostro messaggero!". Infine, c'è l'ombra del conflitto razziale e di genere che scuote i maschi della working class. Moore immagina di scrutare nelle loro menti e di riuscire a tradurre i pensieri più inconfessabili che vi albergano. "Dopo aver sopportato per otto anni un uomo nero che ci diceva cosa fare, dovremmo rilassarci e prepararci ad accogliere i prossimi otto anni con una donna a farla da padrone?". E, ancora, "la nostra era patriarcale, durata 240 anni, sta arrivando alla fine. Una donna sta per prendere il sopravvento! Com'è successo?".

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Populismo globale


"Cominciano le espulsioni", titola il Boston Globe. Donald Trump, dritto nei suoi stivali, lo ha affermato durante il suo discorso alla nazione: la cacciata dei clandestini procederà così velocemente, ha detto, da "dare le vertigini". Altre notizie seguono nel resto della prima pagina: "Soldati americani rifiutano di uccidere le famiglie dei membri dell'Isis", "Una nuova legge sulla diffamazione colpirà i corruttori della morale dei media", "I mercati crollano mentre si annuncia una prossima guerra commerciale". Infine, un trafiletto segnala che il presidente è in lizza per il Nobel per la pace.

Le primarie del Partito repubblicano erano ancora in pieno svolgimento quando il popolare quotidiano del Massachusetts ha scelto di pubblicare una falsa prima pagina, datata 9 aprile 2017, in cui dava conto di come il nuovo inquilino della Casa Bianca stesse mettendo in pratica alcune delle promesse fatte nel corso della recente campagna elettorale. Obiettivo dichiarato dell'iniziativa, impedire che il tycoon di New York diventasse il candidato del Gop alla presidenza. Anche se, a ben guardare, per quanto razzisti, violenti e "politicamente scorretti" appaiano i propositi di Trump, non guidano certo le scelte della più grande democrazia del mondo, almeno per il momento, ma sono da tempo al centro del dibattito, e talvolta delle scelte popolari come dell'azione di governo, di un buon numero di paesi europei.

Perciò, se in molti, non solo nel nostro paese, hanno voluto tracciare una sorta di parallelo tra la "discesa in politica" del miliardario newyorkese e quella del 1994 di Silvio Berlusconi, sul New York Times Frank Bruni ha sostenuto che il "primo Trump" sia stato proprio il Cavaliere, simile al tycoon per l'ostentazione della propria ricchezza come simbolo di successo, per proporre il proprio modello imprenditoriale alla guida della "cosa pubblica", come per "lo sciovinismo e la mancanza di tatto nelle questioni razziali", l'ascesa dell'outsider repubblicano sembra rimandare direttamente soprattutto alla crisi politica che sostiene oggi il successo del populismo di destra in tutta Europa.

Da questo punto di vista, il voto degli Stati Uniti arriva dopo la Brexit, che è stata anche e soprattutto un successo della destra populista e anti-immigrati, alla vigilia della replica delle presidenziali austriache che vedono competere in buona posizione gli eredi politici di Jörg Haider, a pochi mesi dalla corsa per l'Eliseo della prossima primavera, che vede la leader del Front national, Marine Le Pen, in testa nei consensi dei francesi, e dalle elezioni politiche tedesche del settembre del 2017, che potrebbero presentare un inedito duello tra i democristiani della cancelliera Merkel e la nuova destra identitaria e xenofoba dell'Alternative für Deutschland. Non a caso, molti esponenti di queste formazioni si sono affrettati a esprimere il loro sostegno a Trump o a cercare di incontrarlo. Il segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, ha raggiunto un comizio del tycoon a Philadelphia, l'olandese Geert Wilders, alla testa del Partij voor de Vrijheid, partito per la libertà, ha partecipato alla Convention di Cleveland. Nigel Farage, già leader dell'United Kingdom Independence Party, che insieme a una componente dei conservatori ha guidato la campagna vittoriosa per la Brexit, ha preso parte a una tappa della campagna elettorale di Trump, prendendo la parola accanto a lui a Jackson, nel Mississippi, di fronte a una folla di più di 10mila persone. "All'inizio, ha detto Farage, venivano dati per perdenti, ma poi il giorno del referendum siamo riusciti a schiacchiare l'establishement: anche voi potete farlo l'8 di novembre". Quanto al premier ungherese Viktor Orbán, che le barriere alle frontiere che il tycoon sta promettendo ora ha già cominciato a costruirle da tempo e si prepara a incassare un ampio sostegno tra i suoi concittadini proprio in un referendum "pro-muro", non ha avuto che parole di elogio per il candidato repubblicano; mentre un suo collaboratore ha confidato, "Trump incarna gli stessi valori patriottici nei quali crede il nostro capo di governo". E la già citata Marine Le Pen, fino ad ora uno dei simboli più forti di questa corrente identitaria transnazionale, ha detto di apprezzare di lui ciò "che piace anche agli americani: il suo essere un uomo libero, svincolato da Wall Street, dal suo partito, dai mercati e dalle lobby".

Se nello stile di Trump sembra di cogliere l'eco di alcune caratteristiche proprie alla destra americana già del periodo del maccartismo, in particolare l'"anti-intellettualismo", che si esprime nel rifiuto e nel timore nei confronti del pensiero critico e della complessità, come dello "stile paranoico", che rimanda all'idea che un nemico o una forza potente agiscano contro gli interessi del paese – concetti entrambi analizzati negli anni Sessanta dallo storico Richard Hofstadter – tutto ciò appare oggi connaturato, almeno in parte in modo analogo a quanto accade con i populisti europei, alla definizione di una sorta di "anti-globalismo di destra" che mescola politica, economia e temi sociali nel nome dell'identità. Un tema che incrocia quello della critica del "sistema". Trump parla in questo senso ai dimenticati dalla globalizzazione, agli sconfitti, a coloro che pensano di essere stati lasciati indietro o che intravedono il rischio di perdere ciò che hanno, spesso privilegi compresi; si rivolge, come ha spiegato il guru repubblicano dei sondaggi Frank Luntz a The Nation, "alle paure degli americani che hanno perduto la fiducia nelle élite, si tratti di quelle politiche come di quelle economiche". E la prima battaglia, da questo punto di vista, l'ha vinta proprio facendosi interprete delle critiche e della disillusione della base del Gop nei confronti della stessa leadership del partito.

Se per più di trent'anni, come descritto nel 2004 dal politologo Thomas Frank in un celebre libro sui meccanismi di manipolazione ideologica subiti dall'elettorato popolare bianco, i repubblicani sono riusciti a conquistare il cuore degli appartenenti alla working class agitando davanti ai loro occhi il drappo rosso dei "valori", il no ai diritti delle donne e degli omosessuali, e del razzismo, per poi condurre sistematicamente delle politiche economiche che hanno sfavorito proprio i lavoratori manuali e la classe media a beneficio dei milionari e delle holding finanziarie e imprenditoriali, oggi le cose sembrano cambiate. Al netto delle proposte razziste di Trump o del fatto che molti dei suoi seguaci siano dei fanatici, lo stesso Frank sottolinea, anche sulla scorta di un'inchiesta condotta dal sindacato AFL-CIO tra alcune migliaia di lavoratori bianchi della zona di Cleveland e Pittsburgh, spesso ex elettori democratici, che "le priorità per chi si dice pronto a votare per lui sono dei buoni posti di lavoro, quindi i temi economici e, solo al terzo posto l'immigrazione". Allo stesso modo, "molti dicono di apprezzare il fatto che ha annunciato che prenderà a pugni quei dirigenti industriali che hanno provocato o permesso la chiusura o il trasferimento all'estero di una fabbrica". Questo, conclude il ricercatore, "mentre, pensate la perversione, il nostro partito di sinistra (i democratici, nda) ha scelto da tempo di voltare le spalle alle preoccupazioni di queste persone, per diventare la tribuna dei professionisti illuminati".

Malgrado si tratti con ogni evidenza di un giudizio fin troppo netto e definitivo nei confronti del partito di Hillary Clinton, è chiaro come un problema, talvolta sottostimato, si stia ponendo da questo punto di vista. A 17 anni esatti dal novembre del 1999 che segnò, con le manifestazioni di Seattle contro il Wto, la nascita del movimento altermondialista, nel novembre del 2016 è per molti versi il prototipo di una critica da destra della globalizzazione che contraddistingue uno dei candidati alla guida degli Stati Uniti. Non solo, se otto anni fa era all'insegna del "change", il cambiamento possibile, che il primo presidente afroamericano e progressista faceva il suo ingresso alla Casa Bianca, oggi l'idolo della nuova destra, e dei reality show, Donald Trump brandisce lo slogan di un ritorno a un passato mitico e a una grandezza perduta: "Make America Great Again".

Così, se è la distanza e il rigetto degli elettori nei confronti dell'intera classe politica a caratterizzare prima di tutto questo voto, il noto sondaggista Peter Hart segnala che "per la prima volta nella storia Usa il 55-60% degli americani dice di avere sentimenti negativi verso entrambi i candidati", l'immagine di Hillary Clinton appare per molti versi come quella di una "candidata dell'establishment" che "non fa sognare, non ispira", come accadde per Obama nel 2008. Una situazione resa dal filosofo e attivista afroamericano Cornel West attraverso un'immagine impietosa: "Trump è un razzista recidivo (...) un neofascista in fasce; questo è un pericolo concreto", ma, "di fronte a lui c'è Hillary Clinton disastrosa paladina del neoliberismo".

Nell'appeal che il candidato repubblicano mostra di possedere nei confronti del ceto medio impoverito come della working class bianca, non c'è però spazio solo per i messaggi razziali, più o meno espliciti che siano, o per l'evocazione di simboli e parole d'ordine identitarie da contrapporre a un mondo sempre più complesso e interconnesso. In questo senso, Trump evoca infatti prima di tutto una sorta di ricostruzione di un mondo perduto, spazzato via dalle trasformazioni sociali come dai cambiamenti intervenuti nei costumi del paese: annuncia la cacciata di milioni di immigrati irregolari ma anche un ritorno alla grandezza del paese che è fatto di salari sicuri e di famiglie coese.

E non a caso, nell'affrontare questo aspetto del suo successo, forse il più insidioso e potenzialmente imprevedibile dal punto di vista dei risultati elettorali, il critico Leon Wieseltier, figlio di sopravvissuti alla Shoah e a lungo firma di punta di New Republic, ha citato le immagini del film Il cacciatore di Michael Cimino, straordinario e crudo affresco del mondo operaio americano e dei suoi protagonisti all'indomani della guerra del Vietnam. Un mondo che, scrive Wieseltier, "è stato frantumato e perduto". Mentre le basi economiche dello stile di vita di questi operai "sono state distrutte prima dalla spietata logica della globalizzazione e poi dalla recessione e da questa ripresa incredibilmente irregolare. Le lusinghe dell'economia digitale gli sono passate accanto e li hanno superati". Ed è in questo contesto che "da legittimi, alcuni risentimenti sono diventati tossici, accogliendo nella loro orbita intolleranza e falsità. L'indignazione, un sentimento politico positivo, è degenerata trasformandosi in rancore e odio. Un numero incredibile di americani sembrano concedersi più al complottismo che alla riflessione" e lo stesso dibattito sulle scelte politiche da assumere è sopraffatto "dalle ferite della memoria collettiva, recenti e antiche". Così, gli esponenti della working class che hanno vissuto e vivono tutt'ora questo sentimento di abbandono hanno trasformato il loro risentimento in una "voglia di autoritarismo"; al punto che "senza l'entusiasmo di milioni di americani disperati e illusi, Trump non sarebbe arrivato da nessuna parte, e noi non staremmo vivendo questa grave crisi storica".

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Capitolo I

L'odio a stelle e strisce




Nascita di una nazione


"La schiavitù è il più temibile di tutti i mali che minacciano l'avvenire di quel paese." Per noi "che abbiamo avuto la fortuna di nascere in mezzo a uomini simili a noi per natura ed eguali per legge" è difficile "immaginare lo spazio insuperabile che separa il negro d'America dall'europeo". Anche perché, "non vi è un solo africano che sia venuto liberamente sulle rive del nuovo mondo; tutti quelli che vi si trovano sono schiavi o affrancati". Perciò, anche in futuro gli americani non si libereranno mai fino in fondo della perversa eredità di tutto ciò, e questo alla luce del fatto che "voi potete rendere il negro libero, ma non potete fare in modo che egli non resti sempre uno straniero di fronte all'europeo". Abolito il sistema schiavista si dovranno "ancora distruggere tre pregiudizi assai più inafferrabili e tenaci di esso: il pregiudizio del padrone, il pregiudizio di razza e infine il pregiudizio del bianco".

Malgrado, al pari di molti suoi influenti contemporanei, non nutrisse alcuna particolare empatia per i neri o interesse per il loro destino, quando nel 1831 il filosofo e giurista francese Alexis de Tocqueville compì il suo celebre viaggio negli Stati Uniti da cui avrebbe tratto quello studio sulla democrazia americana considerato a tutt'oggi un classico del pensiero politico, mostrò di non avere dubbi. Il paese avrebbe dovuto fare ogni sforzo per liberarsi del lascito ingombrante dello schiavismo che come un veleno ne corrodeva dall'interno la società, ipotecandone il futuro. I pregiudizi razziali erano insiti non solo in quel sistema di sfruttamento, ma anche nei suoi presupposti ideologici e "morali". Lo stesso Thomas Jefferson , considerato a ragione come uno dei fondatori della democrazia americana e che fu all'inizio dell'Ottocento il terzo presidente del paese dopo essere stato il braccio destro di George Washington, contestava, da proprietario di schiavi, la legittimità della schiavitù, ma riteneva che i neri fossero inferiori rispetto ai bianchi. E ne avrebbe anzi incarnato una delle contraddizioni più evidenti e gravide di conseguenze pericolose lungo l'intera storia nazionale. Gunnar Myrdal , il politico socialdemocratico e premio Nobel per l'economia svedese autore di un'opera monumentale sull'argomento, parlerà della "questione razziale" come della "maledizione" degli Stati Uniti.

Per capire fino in fondo come costruzioni sociali, meccanismi culturali e atteggiamenti emotivi basati sul pregiudizio, la paura e l'odio possano mostrarsi ancora attivi e potenti negli Stati Uniti, si dovrà perciò ripercorrere almeno per sommi capi il lungo viaggio compiuto dal razzismo all'interno di quella società. Se Donald Trump incarna per molti aspetti il lato oscuro della politica americana, ma una linea basata sulla paura, il sospetto e l'ansia, che al di là delle specificità del momento politico e soprattutto sociale, appare tutt'altro che inedita, allo stesso modo intolleranza, pregiudizi e discriminazioni hanno rappresentato fin dalla nascita degli Stati Uniti l'altra faccia della possibile ricerca di una democrazia universalista e del Melting Pot. Come suggeriva Tocqueville, è perciò dalla genesi di tutto questo che si deve partire se si vuole capire davvero dove ci troviamo ora.

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Capitolo III

The Donald, un eroe populista




La corsa all'oro della famiglia Trump


Se c'è una massima che Donald Trump dovrebbe scolpire a lettere d'oro sulla sommità dei numerosi grattacieli che possiede in giro per il mondo, a cominciare da quelli che hanno plasmato l'attuale skyline di Manhattan, suonerebbe più o meno così: "Dell'importanza della famiglia, negli affari come in politica". Perché se è vero che anche nella sua corsa alla presidenza degli Stati Uniti, come del resto in passato, il miliardario newyorkese non ha mai fatto mistero del debito di riconoscenza che lo lega in particolare alla figura del padre, o non ha mancato di schierare moglie e figli intorno a sé, per meglio corrispondere al prototipo del difensore dei valori della tradizione che vuole incarnare agli occhi degli elettori conservatori e questo malgrado sia un puro prodotto di una delle metropoli-mondo più liberal e disinibite dell'intero pianeta, lo storytelling trumpiano si nutre incessantemente del mito del self-made man che deve tutto, e soltanto, alla propria determinazione.

Eppure, malgrado sia questa l'immagine di sé che il candidato repubblicano intende accreditare, Trump deve molto, se non tutto, alla propria famiglia. Certo, ha saputo sperimentare e innovare, ma che nella sua scalata al successo e alla notorietà sia partito da zero, è decisamente opinabile. Come ha scritto uno dei suoi biografi, il giornalista Michel D'Antonio, vincitore del Pulitzer nel 1984, Trump sa soprattutto "far girare i soldi, più che crearli". Perciò, per capire chi sia davvero l'uomo che si candida a guidare la Casa Bianca, non si potrà prescindere dal rivolgere almeno uno sguardo al suo albero di famiglia.

In questo senso, la prima immagine che compare nell'album dei Trump è quella di Friedrich Drumpf, il nonno paterno di Donald e fondatore della "dinastia", emigrato in America nel 1885, a soli 16 anni, da una zona rurale della Germania. In un'epoca in cui un newyorkese su quattro aveva ancora origini tedesche, il ragazzo lavorerà per anni presso un barbiere suo connazionale nella zona del Lower East Side di Manhattan dove viveva il grosso della comunità teutonica. Malgrado in casa si parli rigorosamente tedesco, man mano che ci si avvicina alla Grande guerra il nome Friedrich si trasformerà in Frederick e anche il cognome diverrà prima Trumpf e quindi Trump. Dopo la Seconda guerra mondiale e la denuncia degli orrori nazisti, la famiglia si dirà di origine svedese; una mossa dettata secondo alcuni dalla presenza di molte famiglie ebree tra i colleghi costruttori, come tra i propri clienti.

Alla fine, i Trump raggiungeranno il riconoscimento sociale che tanto anelavano, ma non prima che il loro capostipite si sia lanciato in un'avventura grazie alla quale comincerà ad accumulare la prima fetta di quel patrimonio che consentirà in seguito a Donald di diventare uno dei padroni di New York.

A partire dal 1891 e per una decina d'anni, Trump si trasferisce nella zona settentrionale della costa pacifica, l'ultimo segmento del selvaggio West, brulicante di cercatori d'oro e avventurieri di ogni sorta dove, dapprima a Seattle e nella zona mineraria di Monte Cristo, sempre nello Stato di Washington, e quindi nella cittadina canadese di Bennett, nel vicino Klondike, apre un paio di ristoranti con annesse camere ad ore e sale per il gioco d'azzardo che diventeranno rapidamente molto popolari tra i tanti disperati accorsi nella zona alla ricerca di facili guadagni. Dopo essersi recato in Germania all'inizio del nuovo secolo per prendere moglie ed essere stato espulso come "traditore", in virtù della sua nuova cittadinanza americana, ciò che il nipote vuole fare ora con milioni di immigrati latinos che vivono negli Stati Uniti, Frederick rientra nella Grande Mela e si lancia nell'acquisto di terreni e nei primi investimenti immobiliari nella zona del Queens.

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L'idolo di Manhattan


Nato il 14 giugno del 1946 a New York, Donald John Trump ama presentarsi come un "ribelle", un "duro", un ragazzo dotato di un carattere irruento che avrebbe preso a pugni almeno un insegnante. Sta di fatto che a 13 anni i genitori lo spedirono alla New York Military Academy. "Ci rimasi fino al diploma, e lungo la strada imparai molto sulla disciplina e su come incanalare la mia aggressività in modo utile", spiegherà il miliardario. I suoi studi sarebbero proseguiti alla Fordham University, l'ateneo fondato dai gesuiti nel Bronx, e quindi alla prestigiosa Wharton School of Finance dell'Università della Pennsylvania, considerata un importante biglietto da visita per un futuro imprenditore. "Per me – dirà Trump – quella laurea non significa molto, ma un sacco di gente con cui faccio business la prende molto sul serio". Più che il giusto titolo di studio, per il futuro del giovane Donald, sfuggito alla leva per il Vietnam, pare per un difetto ai talloni, sarà però ancora una volta determinante il nome di famiglia.

Mentre nel paese divampano le proteste giovanili e le rivolte razziali, di cui lui non sembra nemmeno avvedersi, quasi la sua fosse ancora "una giovinezza degli anni Cinquanta" come nota uno dei suoi biografi, il ragazzo debutta al fianco del padre in quella che ribattezzerà in seguito come Trump Organization; nel 1972, poco più che venticinquenne conclude la sua prima vendita immobiliare. Il figlio del costruttore del Queens ha però un solo sogno: quello di sbarcare a Manhattan.

Dalla casa di famiglia si trasferisce in un appartamento tra la 75a e la Third Avenue e si lancia alla conquista, immobiliare, della Grande Mela. Nel 1976, con l'acquisto, in una partnership con la Hyatt Corporation, dell'Hotel Commodore, uno storico albergo della città adiacente alla Grand Central Station, all'epoca emblema della crisi sociale e dell'abbandono in cui versa una parte del centro cittadino, inizia la sua ascesa nel mondo degli affari newyorkesi. Seguirà di lì a qualche anno un altro colpo a effetto: compra da Tiffany un grande magazzino di 11 piani sulla Fifth Avenue che sarà ristrutturato e elevato fino a 68 piani. Si tratta della futura Trump Tower, dove oggi il miliardario vive con la sua famiglia, ha sede il quartier generale delle sue imprese e rappresenta uno dei simboli della sua stessa scalata al "vertice" del paese. Anche se, come ha segnalato tra gli altri il Washington Post, sembra che per la sua realizzazione siano stati utilizzati degli operai polacchi senza permesso di soggiorno; allo stesso modo, per la realizzazione di un'altra celebre opera, in Florida, Trump si sarebbe avvalso di manodopera irregolare rumena.

Mentre New York inizia a emergere dalla crisi che l'ha colpita in quel periodo al pari di altre grandi metropoli del paese – la Grande Mela perderà oltre un milione di abitanti, soprattutto appartenenti al ceto medio bianco, che si trasferiranno nei sobborghi residenziali di fronte all'aumento della criminalità e delle tensioni razziali –, soprattutto in virtù dei buoni rapporti che intrattiene con il municipio, Trump riesce, nell'arco di un decennio, ad acquistare, ristrutturare, e spesso rivendere con ampio margine di guadagno, oltre una decina di grandi immobili solo a Manhattan; nel 1980 la sua impresa ristrutturerà anche la celebre pista di pattinaggio sul ghiaccio di Central Park. Intanto, il suo impero comincia a espandersi al resto del paese con l'acquisto di un noto casinò di Atlantic City, della proprietà di Mar a Lago, a Palm Beach, in Florida, attraverso la costruzione di edifici altissimi e lussuosi da Chicago alla California e, via via, con il lancio di una compagnia aerea e l'ingresso nel settore dei campi da golf.

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