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| << | < | > | >> |IndicePROLOGO 11 Conferenza al vertice sull'eucarestia 13 VENEZIA 21 I. Bartolomeo Carranza a Hurtado de Mendoza 23 II. Ospiti indiscreti 26 III. L'estro di un uomo solo 32 IV. La discrezione di Arlenio 38 ALLA CORTE PAPALE 41 V. «La vendetta che haviamo fatta» 43 TOLEDO 49 VI. «Haereo» 51 VII. Scacco al «Rey» 57 VIII. Il vecchio 59 IX. «Lucem non aspicient» 67 X. «Bonitas ipsa» 73 XI. Il compagno inatteso 78 DA TOLEDO A ROMA 83 XII. L'unghia del leone 85 XIII. Come arrivare prima o poi dalla Spagna ad Anversa passando per Roma 90 AUGUSTA 101 XIV. Augusta 103 XV. L'amico luterano 109 ANVERSA 115 XVI. La traduzione 117 XVII. La riabilitazione 128 XVIII.Due in uno 135 XIX. La dedica nascosta 140 XX. Una scelta di vita? 146 XXI. I manoscritti erano due 150 XXII. Convertire Casaubon 155 ULTIMO ATTO 163 XXIII.Juan de Mariana a Paolo V 165 XXIV. Del rischio di scrivere direttamente al pontefice 169 XXV. Colloquio in carcere 178 Note e schiarimenti 185 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Dalla tipografia editrice di Augusta «All'insegna del pino» giunsero il primo maggio dell'anno 1600 a Fontainebleau i primi fogli di stampa, in uno splendido greco appositamente fuso, della Biblioteca di Fozio. A Fontainebleau incominciava in quel giorno, alla presenza del re di Francia, una grande conferenza, di cui già la modalità destava emozione. Dopo circa un secolo di conflitti, dopo un Concilio lacerante e sangue versato senza risparmio per la fede in una spirale di ferocia implacata, sembrava quello l'inizio di un nuovo modo di contendere. Non ancora si profilava all'orizzonte lo spettro della guerra, che durò trent'anni e imbarbarì l'Europa. La discussione pubblica, piuttosto che l'anatema scagliato da lontano nel presupposto che è impossibile, e forse inutile, cercare di intendersi: tale l'emozionante esperienza di quel giorno a Fontainebleau. Simboleggiata quasi fisicamente dallo spettatore supremo e di maggior riguardo, Enrico IV re di Francia e di Navarra, convertito pur tra tante polemiche, e pacificatore, con un editto di tolleranza emanato a Nantes, del suo insanguinato paese. Erano campioni delle due parti: da un lato il cardinale Jacques Davy Du Perron, anch'egli ugonotto convertito, grande plasmatore di anime, confessore privato del re; e sull'altro versante un teologo calvinista e notabile nella roccaforte protestante di Saumur, Philippe Du Plessis-Mornay, ex cattolico ma convertito fanciullo mentre la madre era rimasta ostinatamente cattolica. Al tempo in cui Enrico IV era ancora soltanto Enrico di Navarra, e ugonotto, Du Plessis era stato l'uomo a lui più vicino. Il cambio di fronte del sovrano aveva scompigliato la trama politica, ma non gli affetti di Du Plessis, pur sempre grato al sovrano per l'editto. Voltaire diceva di lui che era «l'uomo più virtuoso del partito protestante». E non era però del tutto un complimento. Nel canto IX dell' Henriade maliziosamente sogghignava: «Son exemple instruisait bien mieux que ses discours». In una tenzone argomentativa forse questo era un inconveniente. Ai lati del sovrano sedeva un manipolo di «commissari» da lui scelti con opportuno dosaggio. Tra i quali spiccava, per la parte dei riformati, Isacco Casaubon. Anni prima, Enrico IV l'aveva fatto venire da Montpellier a Parigi, al Collège de France, quasi a risarcimento tardivo dello scempio del corpo di Pietro Ramo nella notte di San Bartolomeo. Quella nomina aveva fatto scalpore. Si era mosso il pontefice per fare le sue rimostranze al re, che aveva investito di sì alte funzioni un «eretico ostinato». Comunque Casaubon, che non rimase per molto al suo posto, tra la gelosia dei colleghi e l'ostilità dei gesuiti, era stato ben presto nominato, e lautissimamente stipendiato, bibliotecario regio. La conferenza essendo incentrata sulla divergenza massima, quella sull'eucarestia, non era casuale che il solerte tipografo di Augusta, luterano, avesse tempestivamente inviato il novissimo Fozio a Fontainebleau, al re cristianissimo che oltre tutto proteggeva col suo privilegio quella primizia del patriarca greco. Proprio sull'eucarestia infatti quello che si leggeva in Fozio rischiava di inquietare non poco la parte cattolica e dava man forte ai riformati. Ma l'autorevole parola di Fozio non bastò. L'abilità dialettica del cardinale prevalse. Anche il commissario Casaubon, quantunque schierato, sul metaforico campo di battaglia, dalla parte dei riformati, opinò contro Du Plessis. E la cosa fece molto scalpore. Per parte sua Du Plessis continuò a produrre postume confutazioni dell'avversario in tomi ponderosi ma poco attraenti. | << | < | > | >> |Pagina 32Per parte sua Hurtado era sempre più incline a pensare che tutti i libri, per una ragione o per l'altra, portano a confliggere con l'autorità; specie quando di autorità ce n'è più d'una, o quando addirittura varie autorità si combinano o si coalizzano. Studiava Aristotele. Che cosa di più 'ortodosso' in un tempo in cui Pietro Ramo alla Sorbonne era perseguitato perché sfidava pubblicamente e confutava l'autorità di Aristotele? Ma soprattutto lo attraevano i romanzi degli antichi. Per il divertimento in sé degli intrecci, dei quali notava che nulla di simile era stato ancora escogitato dai moderni, e poi anche perché l'invenzione romanzesca, così simile al racconto storico e però così diversa rispetto al vincolo di verità, consentiva una libertà che altri generi di scrittura non consentivano. L'accortezza doveva essere magari, per chi volesse cimentarvisi, di far circolare anonimi quei frutti. Oltre tutto, lo stile dei romanzi essendo di necessità diverso da quello adoperato per altre scritture, l'anonimato poteva, sperabilmente, divenire impervio anche per il più occhiuto censore. A Venezia aveva saputo che la gloriosa e ben sorvegliata Biblioteca della Repubblica racchiudeva in due copie un libro del quale si favoleggiava che contenesse interi brani di altri libri ormai perduti: la cosiddetta Biblioteca di Fozio. Quando lo imprestavano, dietro forte cauzione, i bibliotecari veneziani ne scrivevano nei registri di prestito il titolo in latino in vari modi, segno che un titolo vero e proprio non ci doveva essere al principio dell'opera, ma per lo più la indicavano come «Photius de his quae legit» o più semplicemente «Photio». Hurtado aveva domandato in prestito uno dei due esemplari, al fine di farlo ricopiare e aggiungere questa 'perla' alla sua collezione greca. Quando il «Photio» fu presso di lui, il suo intraprendente Arlenio, scorrendo attentamente l'indice del manoscritto, notò che vi erano capitoli che per il suo datore di lavoro erano una vera benedizione del cielo: il romanzo di Eliodoro e quello, ben più audace, di Achille Tazio, peraltro anche un po' di aristotelici quali Temistio e Giovanni Filopono (non importa se il primo non era cristiano e sicuramente eretico era il secondo). E notò anche Flavio Giuseppe, che poteva interessare lui. Fece ricopiare subito quei capitoli e pochi altri: Eliodoro e Achille Tazio, e anche quasi tutti gli autori compresi tra l'uno e l'altro. Poco dopo Hurtado fece ricopiare tutto il resto. | << | < | > | >> |Pagina 135Ed eran due in uno e uno in due. Inferno, XXVIIINon è facile decrittare Schott, anche quando cita, o rende identificabili, le sue fonti. Ma vi è una fonte che è da lui totalmente sottaciuta e che è invece quella principale, sulla quale si basa, potremmo dire, l'impalcatura stessa dei suoi Prolegomeni. Intere pagine della Prefazione all' Epitome che Mariana aveva composto per la stampa, e che invece non fu pubblicata, ritornano di peso in questi Prolegomeni. Talvolta singole parole o frasi sono lievemente ritoccate, ma il corpo della ricostruzione storico-biografica, la rivendicazione della correttezza dottrinale di Fozio, nonché la sintetica diagnosi di come sorse e si formò la Biblioteca sono, verbum de verbo, quelle di Juan de Mariana. Con la sola, macroscopica, variante che pur partendo dalla diagnosi di Mariana (la Biblioteca come opera incompiuta e forse neanche destinata alla pubblicazione) Schott approda inopinatamente, e con molta verve argomentativa, alla conclusione opposta: che cioè la Biblioteca non fu l'opera di un vinto, raccolto ormai nell'estremo ritiro, ma l'opera di un giovanissimo Fozio, ancora allo stato laicale ed ancora indenne dall' aulica ambitio. (Argomento stravagante se è vero che, proprio da laico, come Schott stesso non manca di notare, Fozio aveva rivestito altissimi incarichi appunto «aulici», politici). Che i Prolegomeni racchiudessero questo segreto si poteva forse sospettare, o comunque si poteva essere indotti a sospettarlo per una singolare circostanza che è sempre sfuggita ai non molti lettori della magnifica prosa di André Schott: e cioè la puntuale discussione, da parte di Schott, di una opinione della quale non viene mai svelato l'autore. C'è invero in quelle pagine una costante polemica sul punto che più sta a cuore a Schott – anticipare la data della Biblioteca – contro qualcuno che non è mai nominato, e che invece è il suo interlocutore principale. «Fatta salva l'amicizia» dice ad un certo punto «non posso tuttora indurmi ad accedere alla veduta di alcuni eruditi (quidam homines eruditi) i quali pensano che Fozio, quando per la seconda volta dovette abdicare al patriarcato, nella situazione favorevole dell'isolamento, si sia messo a scrivere la Biblioteca, e che abbia fatto ciò perché la consolazione degli studi letterari sorreggesse il suo animo afflitto»: «secessus opportunitate, cum iterum abdicare Patriarchatu coactus esset, invitatum ad scribendum accessisse». Orbene queste sono esattamente le parole con cui Mariana esprimeva nella Prefazione all' Epitome la sua diagnosi sulla genesi della Biblioteca. È dunque quidam homines eruditi una vaga circollocuzione che cela il nome di colui, Juan de Mariana, il cui inedito è nelle mani di Schott mentre scrive questi tormentati Prolegomeni. | << | < | > | >> |Pagina 155Sui sacramenti, Lutero s'è allontanato dai padri, Zwingli da Lutero. Calvino ha abbandonato entrambi, e quelli che ne hanno scritto dopo hanno voltato le spalle a Calvino. Di questo passo, quale sarà la fine di tutto ciò? Casaubon a Jan WtenbogaertScatenata dall'assassinio di Enrico IV, la polemica antigesuitica divampava: e al centro della polemica era il De rege di Mariana. Anche miti studiosi come Casaubon si gettarono nella mischia. Nel caso suo, con la morte violenta di Enrico IV si era spezzata l'abile tela che il cardinale Du Perron stava tessendo per portare pian piano Casaubon ad abiurare il calvinismo: sin da quando, dieci anni prima, nello scontro dialettico tra Du Perron e l'ugonotto Du Plessis-Mornay, Casaubon aveva opinato in favore di Du Perron, irritando i protestanti. Stroncato Enrico IV da mano cattolica fanatica, Casaubon, premuto dall'ambasciatore inglese, ha lasciato Parigi ritirandosi nella protestante Londra, in adesione al pressante invito di Giacomo I, e sia pure con la promessa fatta, partendo, a Maria de' Medici che sarebbe ritornato (percepiva una ricca pensione dal re di Francia). L'improvviso accesso polemico antigesuitico che aveva infiammato l'animo di Casaubon, ed aveva preso corpo nella lettera aperta a Fronton le Duc (pubblicata invero per volontà di Giacomo I, non di Casaubon, il quale di Fronton era amico), aveva suscitato reiterate e molteplici reazioni in campo cattolico, non solo gesuitico. Anche Hendryk Van Put (Puteanus), l'amico di Schott, si è mobilitato con una replica In Isaaci Casauboni ad Frontonem Ducaeum Epistolam (Lovanio, 1612) che si apre con insinuanti e solo all'apparenza deferenti parole: «Cosa di punto in bianco abbia trascinato dalla quiete alla pugna Isacco Casaubon, uomo – se si guarda all'attività letteraria – grande, se si considerano i suoi costumi, non male; cosa lo abbia sottratto alle Muse scaraventandolo nella mischia; cosa lo abbia portato dall'autocontrollo al furore, preferisco sospettarlo piuttosto che dirlo apertamente». | << | < | > | >> |Pagina 182Il tema che svolse fu che nessuno deve sentirsi 'al sicuro' e al riparo, che a nessuno deve essere concesso per ruolo o per rango di dormire tranquillo. Perché la Compagnia è qualcosa di assai più che l'insieme dei singoli compagni. Cadere, o poter cadere, in disgrazia per errori che si può anche non aver commesso, o che sono apparsi tali, o che non ci si avvede di aver commesso, è la normalità. Deve essere la normalità. Ecco perché, pur sapendosi innocente, Ignazio aveva accettato al tempo suo la detenzione, impostagli dagli inquisitori.
Persino gli errori dei papi noi correggiamo serbando intatto il nostro
vincolo di obbedienza. Solo chi ha inteso questo ha conseguito la 'libertà'.
Altri potranno in futuro adottare, e magari per stanchezza poi dismettere,
questo costume. Stancarsi, a noi non è concesso. Su questo abbiamo fatto leva
quando Lutero e gli altri hanno brandito contro di noi la parola 'libertà',
propugnandone un uso banalmente individuale. La libertà non è mia o tua; la
libertà è, se è contemporaneamente di tutti. È per questo che libertà e
necessità coincidono. Ciò che le menti deboli, affette da individualismo,
stentano a intendere. Ai posteri lasceremo detto: «Noi non si poté essere
gentili» e loro capiranno e penseranno a noi con indulgenza.
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