Copertina
Autore Chiara Cappelletto
Titolo Neuroestetica
SottotitoloL'arte del cervello
EdizioneLaterza, Roma, 2009, Universale 892 , pag. 204, cop.fle., dim. 11x18x1,5 cm , Isbn 978-88-420-8899-8
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe scienze cognitive , teoria dell'arte , mente-corpo , filosofia
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Indice



1.  Lavori in corso                                       3

2.  Neurocritica dell'arte: dalle lesioni all'opera      16

    - Neurocritica dell'artista, p. 18
    - Neurocritica dell'opera d'arte, p. 37

3.  Neuroestetica: leggi, corpi e fantasmi               49

    - L'occhio del cervello, p. 49
    - Le ragioni dei sensi, p. 69

4.  Neurostoria dell'arte: lo storico artista            84

5.  Il corpo invisibile dell'immagine                   110

6.  Il cervello artista: i neuroni specchio             125

7.  Lavori al bivio                                     148

    Note                                                157

    Bibliografia                                        185

    Sitografia                                          189

    Indice dei nomi                                     193


 

 

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Pagina 3

1.
Lavori in corso



Tra il 1504 e il 1507, all'Ospedale di Santa Maria Novella a Firenze, Leonardo da Vinci iniettò cera fusa in un campione di ventricoli cerebrali, per riportarne il calco e disegnarne con precisione le circonvoluzioni impresse sulla cera. Da allora l'arte e la scienza hanno preso strade diverse. La loro distanza dipende non tanto dal ruolo che vi giocano l'immaginazione e la logica della creazione o della scoperta – né dalla diversità degli strumenti, di pennello e microscopio –, quanto piuttosto dal modo in cui sono recepite e studiate, e dall'accoglienza che è loro riservata. James Elkins lo chiama «il problema della matita»: chi affronta un saggio letterario, il resoconto di uno scavo archeologico, una critica d'arte, può leggere di filato, abbandonandosi al ritmo della narrazione; il lettore di un testo scientifico deve invece svolgere in prima persona gli esperimenti e le formule proposte. Finisce così che, se chiediamo a umanisti pur eccelsi che cosa sia la seconda legge della termodinamica, riceviamo una risposta risentita che ne rivendica l'ignoranza. Lo raccontava Charles Snow nel 1963, senza omettere come gli ingegneri – inglesi! – considerassero il tentativo di leggere Dickens un obolo più che sufficiente da pagare alla cosiddetta cultura. Ne nacque Le due culture, un testo che ragiona della contrapposizione tra umanisti e scienziati e della loro reciproca diffidenza. Snow vi si faceva portavoce di un'opinione diffusa: ancora oggi viene citato da chi cerca di superare tale divario, quasi a memento della qualità della nostra impreparazione.

Giulio Preti in Italia gli ha obiettato nel 1968 che il problema non è però la ricezione della cultura, e che l'opposizione tra umanisti e scienziati non è antropologica; dipende invece da «due diverse scale di valori, due diverse nozioni di verità, due diverse strutture del discorso». Due forme di sapere, due stili di linguaggio alternativi, due modi di mettere in comune l'esperienza, se non due territori di libertà intellettuale fra loro lontani, da cui si accede a saperi che si presentano – appunto – come eterogenei, rispondendo a distinte condizioni di pensabilità: è la separazione tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito» che regola la cultura europea a partire dall'Ottocento fino a un passato molto prossimo, quasi a ieri. Le espressioni sono canonizzate nel 1883 da Wilhelm Dilthey, che nel suo contrattacco al positivismo scrive: «Finché nessuno affermerà d'esser capace di dedurre quell'insieme di passione, di creatività poetica, di pensiero inventivo che chiamiamo vita di Goethe dalla conformazione del cervello o dalle proprietà del corpo di Goethe, e di rendere così quell'insieme meglio conoscibile, la posizione autonoma di una siffatta scienza [dello spirito] non sarà contestata».

Goethe è con Hegel lo spartiacque dopo il quale, secondo Ernst Cassirer, la crisi in cui si trovano scienza e filosofia si esprime con chiarezza proprio nel rapporto che si è stabilito tra scienze della natura e della cultura. L'origine di questa separazione – le prime sono incapaci di produrre senso, le seconde di produrre significato – si può rintracciare nella fatticità delle scienze positive che nella Crisi delle scienze europee Husserl, senza metterne in dubbio i successi, riconduce alla mossa con la quale Galileo ha matematizzato la natura; dopo di lui la scienza procede costruendo modelli, non necessariamente unici – si pensi alla convivenza di geometria euclidea e non euclidea –, che danno vita a una lunga catena di verifiche particolari per le ipotesi via via avanzate: si formano così quelle mere «scienze di fatto» che creano meri «uomini di fatto», mentre la filosofia si ritrova spossessata di un metodo per rintracciare una verità certa.

Questa «disanima» delle scienze, in cui ben si esprimerà l'opposizione di mente e corpo definita da Cartesio, è ciò che – ironicamente – proprio le neuroscienze mettono ora in dubbio: la razionalità in quanto tale è emotiva, il pensiero logico dell'uomo che pensa, vuole e sceglie è incarnato. Una ragione pura, astratta dalla materialità del corpo e dell'ambiente naturale e sociale, priva di contraddizioni, impermeabile alle sollecitazioni di emozioni e contesti, produrrebbe secondo il neurobiologo Antonio Damasio un'intelligenza patologica e strategie di vita incoerenti: «La strategia fredda sostenuta da Kant (fra gli altri) ha molto più a che vedere con il modo in cui pazienti colpiti da lesioni prefrontali si adoperano per decidere, che con il modo di operare dei soggetti normali». Occorre allora, è lo scienziato a parlare, «esplorare quali siano le connessioni fra neurobiologia e cultura».

Non che gli umanisti abbiano mai finto che il mondo fosse abitato da angeli, né lo pensava Dilthey: «La vita spirituale di un essere umano è una parte, isolabile solo per astrazione, dell'unità vivente psicofisica in cui si configura un'esistenza e una vita umana». In un mondo ormai scisso, il contrasto non dipende però più dalle condizioni effettive dell'esistenza, quanto dal punto di vista con cui si guarda la vita: empirico per le scienze della natura, trascendentale per quelle dello spirito. La fatticità materiale che individuano le prime e l'attività spirituale che colgono le seconde sono tra loro incommensurabili.

Tale incommensurabilità non è figlia né della rivoluzione scientifica né di quella industriale, come vorrebbe Snow. In essa sembra invece esprimersi un nucleo polemico originario – di cui Galileo e Cartesio sono un'importante espressione – che a diverso titolo ha dato il ritmo al sapere occidentale, all'alternarsi delle domande, delle sfide, delle scuole. I1 duello è antico e molti sono i duellanti. Cominciarono Platone e Aristotele. Nella celeberrima Scuola di Atene, Raffaello raffigura il primo mentre indica con un dito alzato il cielo e le forme immutabili del sapere e della verità, e il secondo glielo pone accanto mentre avanza col braccio abbassato e la mano aperta a imitare l'estensione della terra che quasi accarezza come fonte e oggetto della conoscenza. Una variazione della disputa sarà nel Novecento quella tra i «rigorosi» analitici, amministratori di un linguaggio astratto e logico, e i continentali, pensatori «vaghi» del vissuto in prima persona. Una contrapposizione che evoca la lontana querelle secentesca tra il partito dei Moderni, investigatori, critici e progressisti, e quello degli Antichi, eruditi, studiosi delle passioni e conservatori.

Questo conflitto, che pur assume talvolta un sapore mitologico, è tuttora vivo e all'opera. Lo ritroviamo, sotto forma di contrasto epistemologico, nel dialogo che il neurologo Jean-Pierre Changeux e il filosofo Paul Ricoeur hanno tentato nel 1998, convinti che «il fossato che istituzionalmente separa le scienze della vita dalle scienze umane e sociali è catastrofico». Partendo dal dualismo semantico e ontologico dei due fronti del sapere, che si esprimono nell'antagonismo mente/corpo, oggi definito mind-body problem, Changeux si chiede però «in che misura si può radicare il normativo nell'evoluzione biologica e nella storia culturale dell'umanità», mentre Ricoeur preferisce parlare «di una ricerca di adeguamento tra un sapere in evoluzione e un'esperienza molto più evoluta di questo sapere», ed ecco risuonare la polarità di nomotetico e idiografico, universale e particolare, oggettivo e soggettivo, ripetibile ed eccentrico: scientifico e umanistico, di nuovo. Che entrambi gli studiosi individuino nell'arte il punto di sintesi è indizio di un problema, non di una soluzione.

Certo, la storia del pensiero è fatta di smottamenti carsici tanto quanto di battaglie campali, come quelle in cui nel Novecento l'ermeneutica vince contro il positivismo in Francia, ma il neopositivismo batte l'ermeneutica negli Stati Uniti... Tutta l'economia dei termini «precursore» ed «epigono» testimonia come il ritmo del sapere sia assai più pendolare – anche all'interno di uno stesso autore – che progressivo. Kant nel 1786, cinque anni dopo la prima edizione della Critica della ragion pura, scrive che per orientarmi nello spazio buio di una stanza ho bisogno del «sentimento di una differenza nel mio proprio soggetto, vale a dire la differenza tra mano destra e mano sinistra», e specifica che è per analogia con questo sentimento soggettivo della distinzione che la ragione trova spazio per un oggetto da intuire, quando non trova l'oggetto concettualmente definito. Gli studi del barone Jakob Johann von Uexkόll, biologo e studioso del comportamento animale, e la loro ricezione sono un esempio emblematico di tale movimento del pensiero: saranno menzionati da Martin Heidegger, padre dell'ermeneutica, che di lui ricorda le «riflessioni di principio biologico-geologiche», mentre Merleau-Ponty li leggerà in chiave anticartesiana nelle lezioni sulla natura, e Gilles Deleuze in Spinoza. Filosofia pratica, un lavoro dedicato al filosofo prediletto da Damasio, ricorderà il barone per avere studiato il mondo degli animali sotto la categoria dell'«affetto».

Topica è d'altra parte già la figura di Galileo. Perché Galileo Galilei ignora scientemente la prima legge di Keplero per la quale il sistema planetario è eliocentrico, le orbite sono ellittiche – e non circolari – e il Sole è uno dei due fuochi? Perché, spiega lo storico dell'arte Erwin Panofsky in Galileo critico delle arti, sceglie il cerchio rinascimentale contro l'ellissi manieristica, come predilige l'Ariosto di contro al Tasso, l'immagine chiara contro l'anamorfosi; non solo: considera circolari i movimenti delle ossa del corpo umano, contrariamente a Keplero che ragionava sulla direzione rettilinea dei movimenti dei muscoli. Galileo – disegnatore di talento – ha su ciò la stessa posizione di Leonardo nel Trattato sulla pittura mentre nega i contributi del collega astronomo. Panofsky mostra bene come tanto l'accettazione delle ellissi da parte di Keplero quanto il loro rifiuto da parte di Galileo dipendessero da preferenze culturali a priori: Galileo è sì più quantitativo e meno animistico di Keplero, più moderno, ma infine agisce in lui una preferenza stilistica.

Un tentativo di dare un resoconto ordinato di tale dinamica polemica semplifica, dunque, e forza la questione: il primo abbozzo di una teoria del neurone non è forse di Freud, padre della psicoanalisi, che aveva iniziato come neurobiologo, pubblicando studi sul sistema nervoso e progettando un metodo istologico per la colorazione delle sue vie? Paul Feyerabend, filosofo della scienza, non si è basato sulla Industria artistica tardoromana di Alois Riegl per sostenere come tanto l'arte quanto la scienza si sviluppino secondo stili?

La matassa è aggrovigliata, e se è vero che ci sono lavori che tentano di fare da ponte, ciò che accade per lo più è che la scienza spiega l'arte, nel senso in cui la teoria dei colori di Chevreul spiega La Grande Jatte di Seurat, o l'arte spiega la scienza, come nella storia delle raffigurazioni anatomiche. Potrebbe essere utile decidere se guardare alla storia delle discipline o invece al mondo che le discipline descrivono, ma subito verrebbe sollevata la ragionevole obiezione che non esiste nessun oggetto di discorso indipendente dal discorso al cui interno se ne discute.

La partita resta dunque aperta, e tuttavia negli ultimi anni il regime del sospetto diffuso si è attenuato di molto e lo scontro si è fatto amichevole. Gli scienziati riflettono numerosi sulle arti, e l'attenzione che «il resto del mondo» rivolge alla scienza è ampia – si pensi al successo dei festival che le sono dedicati –, e non generica. Sono le scienze del corpo a sedurre sempre più: la medicina e le neuroscienze. Se ER, CSI Las Vegas, Dr. House sono gli attuali teatri di anatomia, 3 libbre – il peso medio di un cervello umano – apre il mondo della neurologia allo spettatore televisivo; sono telefilm che ci dicono di una curiosità diffusa, paradossalmente un po' magica, e forse di un'ansia latente: dov'è l'essenza intima dell'uomo, la mia, quella di chi amo?

Come un meridiano di Greenwich, il prefisso «neuro» scandisce così molto del sapere contemporaneo, e forse si deve ammettere un neuro turn. Non si spiega altrimenti perché nel 2007 i laboratori Lancóme abbiano deciso di pubblicizzare una ricerca svolta in collaborazione con l'Università della California con il nome di battaglia di «neurocosmetica», mentre l'anno prima potevamo leggere nell'allegato di un quotidiano un articolo intitolato Un lifting ai neuroni?, in cui si suggeriva una ginnastica per tenerli in forma: la «neurobica». La prima rivista non specializzata che pubblicò, con lo scetticismo degli inizi, alcune immagini di una PET del cervello, analoghe a quelle cui siamo ormai abituati, è stata l'edizione americana di «Vogue»: era il 1983 e le modelle avevano i capelli cotonati. Dettagli di culinaria della cultura, forse, ridondanza di parasaperi. O forse indizi di una «neurocultura», secondo la definizione che troviamo in un articolo su «Nature» del 2008, dedicato a un festival di neuroestetica, il Brainwave Festival di New York. Una neurocultura che traduce e aggiorna, in una direzione ancora incerta, l'antagonismo tra le due scienze, la tensione tra l'ineffabilità delle espressioni dell'anima e la – presunta – oggettività del corpo. Non è per caso che Leonardo è un'icona dei nostri giorni, come il mostruoso Frankenstein, il meccanico Terminator e l'innocente pecora Dolly.

Questo elemento di interpolazione del materiale sensibile e immaginativo in cui l'artefatto e il corpo proprio del vivente si confondono, accennando a un tratto sintetico, è lo sfondo sul quale tra il 1994 e il 1995 si staglia la pubblicazione di tre testi dedicati all'arte, i cui autori hanno maggior frequentazione con i quesiti posti dallo studio del cervello di quanto non ne abbiano con le opere: sono i neuroscienziati Semir Zeki, in Inghilterra, Changeux in Francia e Lamberto Maffei con Adriana Fiorentini in Italia. Si conoscono per i lavori precedenti, ma qui le ricerche, pur concomitanti, sono autonome. A loro si accompagna, ancora nel 1994, Damasio negli Stati Uniti, il cui L'errore di Cartesio non è propriamente un testo rivolto all'arte, ma sarà ampiamente utilizzato, quasi in modo applicativo, da teorici e storici, senza che quest'uso fraintenda lo spirito del lavoro: direttore del Brain and Creativity Institute della University of Southern California, Damasio confesserà che il sogno suo e di sua moglie Hanna, neuroscienziata come lui, è «trovare il modo di applicare all'arte la nuova scienza della mente e del cervello che sta emergendo dalla neurobiologia».

Il 1994 è dunque l'anno di avvio della neuroestetica, ovvero di una «neurologia dell'estetica» che consenta di comprenderne «le basi biologiche», come la definirà Zeki, per il quale «siamo all'inizio di una grande impresa». Lamberto Maffei, che come Zeki parla di «cervello visivo», si pone in una prospettiva analoga, scrivendo che neurofisiologia e neuropsicologia «non offrono soluzioni, ma pongono le basi per avanzare ipotesi, [...] per colmare il fossato tra conoscenze scientifiche e arti visive». Θ l'inizio di un lavoro cui dà un contributo importante anche Vilayanur S. Ramachandran, che qualche anno dopo, nel 1999, propone una «teoria neurologica dell'esperienza estetica», e nella pubblicazione delle conferenze tenute nel 2003 per un ciclo di Reith Lectures annunciava l'uscita di The Artful Brain. Lo spirito pionieristico di queste prime ricerche è forte, ed è condiviso anche da Changeux, il quale invita a «proseguire sulla strada intrapresa da Gombrich attraverso una riflessione sulle eventuali basi neuronali del piacere estetico e della creazione artistica da una parte, e dall'altra sull'evoluzione della pittura».

Il riferimento a Hans Gombrich è significativo; lo storico dell'arte è infatti, insieme a Rudolf Arnheim, un riferimento importante di questo ambito di studi, che se da un lato – ed è l'aspetto principale – nasce come sviluppo delle neuroscienze in un settore per loro ancora ignoto, dall'altro tiene a collocarsi sulla scia dei lavori di psicologia, in particolar modo della Gestaltpsychologie, sviluppatasi tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, tenendo conto della loro influenza nel campo della storia dell'arte e dell'estetica, in particolare delle arti visive, nonostante musica e letteratura godano di grande attenzione. Questa ambizione a iscriversi all'interno di una storia culturale contrasta tuttavia con il carattere dei contributi che le neuroscienze stanno proponendo.

Le scoperte e le ipotesi di lavoro che emergono attingono infatti all'esperienza in prima persona che gli scienziati fanno nei loro laboratori come nelle gallerie, alla cronaca dei seminari, dei convegni e delle pubblicazioni – prevalentemente su riviste di lingua inglese –, testimoniando quanto ci sia ancora da esplorare. Gli autori di tale letteratura, troppo giovane per aver subito il vaglio del tempo e della cernita critica, sono prevalentemente scienziati che pubblicano, spesso a più firme, i risultati degli esperimenti condotti in centri di ricerca. Non solo buone domande, allora, ma anche spesso risposte efficaci: questo dato di realtà è fondamentale per un settore basato in ampia misura su esperimenti di laboratorio sofisticati e costosi, per i quali si devono ottenere finanziamenti, privati o pubblici che siano.

Θ un modo di produzione e diffusione del sapere molto lontano da quello degli storici, anche dell'arte, dei filosofi e degli studiosi di estetica, che solo da poco stanno infatti iniziando a prendere la parola: lavoratori per lo più solitari che siedono alla scrivania affrontando oggetti mentali il cui tempo è l'eternità, pur attenuata dalla saggezza della storia delle idee, guardano con qualche perplessità a testi che rendono conto di esperimenti dai quali si ricava che l'emisfero destro è meno abile del sinistro nel riconoscimento e nella memorizzazione di dipinti surrealisti e che i destrimani hanno una «preferenza estetica» per le immagini che manifestano un movimento orientato da sinistra verso destra. Se è vero che già Wφlfflin nel 1928 registrava la preferenza a guardare un quadro partendo da sinistra, la sua prospettiva di indagine era descrittiva, non causalistica.

Simili affermazioni sembrano invece collocare inconsapevolmente le opere d'arte in uno spazio astratto e in un presente ipertrofico che mette in imbarazzo il movimento del pensiero e i ritmi degli affetti: le leggi della visione o la – presunta – regola della patologia neurologica dominano, rendendo indistinti il vicino e il lontano. Vogliamo dire che Donatello era miope quando abbozzò l'ornamento dell'organo di Santa Maria del Fiore a Firenze, mentre Luca Della Robbia aveva una vista perfetta quando lavorò di fino le superfici dei due angeli nudi, oggi perduti, per l'altro organo dirimpetto, o non era invece proprio Donatello il più abile dei due? Scrive il Vasari: «...deono molto avere avvertenza gli artefici; perciocché la sperienza fa conoscere che tutte le cose che vanno lontane, o siano pitture o siano sculture o qualsivoglia altra somigliante cosa, hanno più fierezza e maggior forza se sono una bella bozza che se sono finite».

La comunità degli studiosi che vengono da una tradizione umanistica diffida così di un orizzonte di pensiero e di ricerca portatore, forse, di stimoli interdisciplinari, ma foriero, senz'altro, di molta ambiguità e più di qualche approssimazione, innanzitutto per il rischio di un riduzionismo grossolano: che cosa ne sanno i tessuti del nostro cervello dell'attesa che ci consuma in coda al Louvre, e poi della fretta con cui ci dirigiamo decisi verso la sala nota, sprezzanti delle decine di meraviglie esposte nei corridoi che attraversiamo rapidi, e infine del pudore che una volta arrivati quasi ci impedisce di alzare lo sguardo verso la Venere di Milo? Maffei e Fiorentini sostengono che il tentativo di spiegare l'esperienza estetica con la neurofisiologia e la neurochimica non è un'ipotesi riduzionistica perché «tutti gli eventi della sfera dell'emotivo e del cosciente sono da riportare, in ultima analisi, al sistema nervoso», il che tuttavia lascia intendere che non è riduzionistico perché non c'è altro oltre il sistema nervoso, dunque non c'è nulla da ridurre.

In questa diffidenza per l'imperio del quantitativo si trascura però che – pur data la distinzione tra scienze della natura e dello spirito – molti dei principali filosofi anche del Novecento si sono valsi delle conoscenze che la scienza forniva sul corpo e la mente, innanzitutto perché, come scrive nel 1942 Cassirer, «un oggetto culturale ha bisogno sempre di un sostrato fisico-materiale». Friedrich Nietzsche legge studi sulle comete, la chimica, il moto e l'energia, l'universo e la fisica; quando nella Gaia scienza del 1882 critica la musica di Wagner, dichiara che le sue «sono obiezioni fisiologiche», che riguardano la libertà del suo piede di saltare, del suo cuore di battere, della sua circolazione sanguigna di fluire contribuendo alla vitalità del corpo, e svilupperà un'estetica fisiologica fino agli ultimi frammenti postumi. Henri Bergson dedica il secondo capitolo di Materia e memoria del 1896 a discutere le tesi dei neurologi suoi contemporanei, e con un interesse specifico: l'afasia di Wernicke. Maurice Merleau-Ponty si varrà criticamente dei contributi della psicologia della Gestalt nella Fenomenologia della percezione del 1945.

I testi inaugurali dell'estetica come disciplina non sono meno generosi di riferimenti: Jean-Baptiste Du Bos svolge nelle Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura del 1719 una teoria climatica e fisiologica del genio, dato che «le caratteristiche della nostra mente e le nostre inclinazioni dipendono molto dalla qualità del nostro sangue» e «le qualità del sangue dipendono molto dall'aria che respiriamo»; un'analoga attenzione non mancherà in Hyppolite Taine, il quale nella Filosofia dell'arte del 1865 descriverà il «carattere essenziale» dell'Olanda – che l'arte dovrà manifestare – partendo dal clima, dal suolo, dalla flora e dalla fauna. Edmund Burke assume le conoscenze della fisiologia dell'epoca nella quarta parte dell' Inchiesta sul Bello e il Sublime del 1759, in cui del bello e del sublime ricerca le «cause efficienti», tra le quali è degno di nota il principio della successione di elementi tra loro uguali per taglio, dimensione e colore, come in una teoria di colonne uniformi, che mandano all'occhio «impulsi» che si rafforzano progressivamente mentre si osserva una colonna dopo l'altra. Nel 1774 Diderot addirittura stenderà gli Ιléments de physiologie.

Di contributi scientifici si vale poi tutta l'estetica psicologica di area tedesca a cavallo tra la fine dell'Otto e i primi del Novecento, sviluppata da Gustav Theodor Fechner in Zur experimentalen Δsthetik (1871), da Robert Vischer e dal padre Friedrich Theodor, da Johannes Volkelt e Theodor Lipps che nel 1906 definisce l'estetica una «disciplina della psicologia applicata». Riferimento per loro imprescindibile è la psicofisiologia di Hermann von Helmholtz, che nei suoi ultimi anni, era il 1892, pronuncia un discorso su Goethe all'assemblea generale della Goethe-Gesellschaft di Weimar e ne ricorda i contributi poetici e scientifici, difendendo l'analogia fra intuizione artistica e scientifica. L'assunto generale di questa costellazione di pensatori è espresso da August Schmarsow: «Ogni configurazione artistica che l'uomo possa mai tentare necessita di un sostrato sensibile derivante dal possesso del comune patrimonio ereditario di madre Natura. Questo è appunto l' aisthesis, quella ricettività del nostro sistema nervoso, tenuta in così grande considerazione dai pensatori greci, nei confronti di stimoli ai quali dobbiamo tutte le nostre sensazioni e quindi le nostre esperienze vissute».

Certo l'estetica heideggeriana o quella critica francofortese dissentirebbero, ma è il corpo come originario, l'anima incarnata in un ambiente abitato da esseri viventi e occupato da oggetti maneggevoli, il plesso di possibilità sensibili che ciascun uomo è, a essere il destinatario non solo di molta parte dell'estetica ma dei contributi migliori della neuroestetica. Se scienza ed estetica divergono perché la scienza si occupa di ciò che è e accade, e l'estetica di ciò che può essere e accadere, discutendo i processi performativi e morfologici con cui il mondo impegna l'uomo in una realtà condivisa, consaputa, con-patita, tuttavia espungere dal discorso filosofico il piano della spiegazione, della necessità del nesso di causa-effetto, non significa avere una concezione del pensiero soggettiva e relativistica, mentre la conoscenza del dato è compatibile con una concezione plastica del sapere, che anzi ne viene arricchita.

Θ in questa prospettiva che la neuroestetica può venire utilmente discussa, tenendo presente come Cassirer notasse che ciascuno dei due ambiti del sapere «richiede una strumentazione concettuale estremamente sottile e complicata, che in un caso è assicurata dai concetti di cosa e di legge, nell'altro da quelli di forma e di stile» ed è la forza di questi ultimi a «rendere possibile la rinascita, la 'palingenesi' della cultura stessa». Bisognerà comprendere se il loro eventuale incontro sia fruttuoso, o non conduca a nulla più di un fraintendimento; resta che il termine «neuroestetica» ancora non compare alla voce «soggetto» nei motori di ricerca del catalogo unico delle biblioteche italiane o della Library of Congress, né in quello della British Library o della Bibliothèque Nationale de France, nonostante la letteratura relativa sia sì disordinata, ma sempre più abbondante.

In ogni caso, qualsiasi cosa essa sia, la neuroestetica catalizza l'interesse e i fondi di studiosi, enti, fondazioni e centri di ricerca, dal Getty Museum ai programmi ESF dell'Unione europea. Se nella primavera del 1995 si è svolto a Bruxelles «Einstein meets Magritte: An Interdisciplinary Reflection in Science, Nature, Art, Human Action and Society», organizzato alla luce della convinzione che arte e scienza partano entrambe dal livello originario dell'esperienza, dal 1999 l'Unesco porta avanti un programma interdisciplinare alla ricerca delle corrispondenze tra arte e scienza, e i curatori dell'edizione «Monumenta 2008» al Grand Palais di Parigi, dedicata a Richard Serra, hanno chiamato Changeux a discuterne l'opera Promenade: il neurologo – cha ha tenuto corsi di neuroestetica al Collège de France dal 2003 alla fine del suo insegnamento attivo nel 2006 – ha analizzato le enormi pareti dello scultore americano a partire dalla soggettività dello spettatore e dalla sua risposta neuronale.

La ricchezza variegata di questo sapere in formazione si può allora ordinare lungo tre assi, talvolta attraversati dai medesimi contributi: la neurocritica dell'arte, la neurostoria dell'arte e la neuroestetica propriamente intesa, che si occupa tanto dell'indagine di problemi di natura visiva quanto della discussione delle capacità che il corpo possiede per interpretare il reale.

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3.
Neuroestetica:
leggi, corpi e fantasmi



La ricerca di principi e regolarità che orientino la percezione dell'opera e del fruitore è l'obiettivo principale della neuroestetica, in cui è possibile riconoscere due linee guida fondamentali. La prima indaga essenzialmente l'ambito della visione: le condizioni in cui si vede, le preferenze e i criteri che ordinano il mondo visivo, assunto come un fenomeno autosufficiente per il quale quadro e panorama sono in primo luogo «fatti visivi», giochi per l'occhio tra loro di egual valore. La seconda si rivolge invece al rapporto di scambio tra il soggetto fruitore che percepisce e il mondo che viene percepito e rispetto al quale l'arte detiene una posizione privilegiata: ci fa vedere di più e, vedendo di più, vediamo cose nuove. La stessa visione è inoltre creativa, unisce suoni a colori, posture a parole, mostrandoci la metaforicità del reale e, per suo tramite, la capacità metamorfica del nostro stesso corpo sensibile.


L'occhio del cervello

Alla prima linea di ricerca appartiene Semir Zeki. In un saggio pubblicato di recente nel principale testo di neuroscienze della visione, il neurologo, cui si deve il conio del termine «neuroestetica» nel 1999, scrive che la visione del colore è interessante come oggetto di studio perché «capire come il cervello costruisce i colori lascia senz'altro intuire in modo significativo i processi cerebrali che sottostanno all'estetica nel senso dei greci antichi, quale acquisizione della conoscenza attraverso í sensi». Il termine «estetica», aesthetica, dal greco aisthesis, «sensazione», lo aveva coniato nel 1735 Baumgarten, che quindici anni dopo emancipò quest'ambito del sapere da uno stato di minorità scientifica, relegato com'era a esprimere la volubilità dell'impressione sfuggente e instabile dei sensi, scrivendo che l'estetica è «la scienza della conoscenza sensibile». L'affinità tra le due enunciazioni non è fortuita.

Senza dubbio l'indagine svolta da Zeki si colloca nella tradizione baumgarteniana che riconosce valore gnoseologico al dominio del sensibile: la sensibilità apre un varco sul mondo, attraverso il quale si può pervenire alla conoscenza intellettuale, ma che è anche di per sé portatore di conoscenza. La neuroestetica non costituisce però l'ultimo stadio dell'associazionismo inglese o dell'estesiologia tedesca, una loro versione «massimalista», o il pieno sviluppo della lezione di Arnheim, per il quale le forme percettive e pittoriche sono «il midollo stesso del pensiero in sé», né è l'aggiornamento della massima nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu tramite le tecniche di imaging cerebrale. Piuttosto, essa svolge in direzione spesso normativa un progetto teorico a base biologica il cui medium è l'arte, tanto che secondo Rollins l'arte stessa «è una scienza; una scienza dei sensi», affermazione che prelude a una concezione iperestesica dell'arte: arte = estetica.

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Di altro parere è però Zeki, e per tre ragioni: la prima è il ruolo dell'inconscio e del suo potere, che tuttavia viene citato ma non discusso; la seconda è l'ipotesi «che la stimolazione fisiologica di specifiche aree visive possa creare esperienze estetiche», e sebbene il neuroscienziato conceda che ciò non significa che l'esperienza estetica dipende in toto dall'attività cerebrale, questa precauzione si dissolve nel corso delle sue ricerche; la terza ragione è che l'immagine è completamente emancipata dal suo oggetto: «fondamentalmente, un'immagine non può rappresentare un oggetto; lo può fare solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti e lo ha collocato all'interno di una classe specifica. Un'immagine può semplicemente imitare l'oggetto in un suo aspetto particolare». Lo dimostrerebbe Magritte nell' Uso della parola, in cui una pipa dall'aspetto iperrealistico campeggia sopra la scritta «Questo non è una pipa», mettendo in atto il fallimento della rappresentazione pittorica.

Tuttavia, quello che mette in atto Magritte è il fallimento della rappresentazione figurativa come strumento efficace per narrare organicamente il significato di un evento, non per rendere visivamente presente l'apparenza fenomenica dei corpi. La pipa è una pipa, la mela una mela, la bombetta una bombetta in immagine, tanto che Max Ernst ha definito il suo lavoro come «il metodo detto del dormiente temerario accompagnato dall'esattezza fotografica». Diverso sarebbe dire che una pittura espressiva ed energetica non rappresenta nulla, nel senso che non rimanda a, non sta per, non è segno di nulla, come nulla indicano i disegni di Congo e Betsy o i monocromi di Yves Klein. In questo caso, comunque, l'immagine neppure imita alcunché. Infine, si può dire che l'immagine non rappresenta l'oggetto perché non ne condivide il concetto: un tavolo – superficie piana e parallela al suolo da cui dista la lunghezza di una gamba circa, appoggiata a un sostegno e adatta per sostenere oggetti di diverso tipo – non è l'immagine bidimensionale di un tavolo che teniamo tra le mani, né le equivale. Così come non posso portare in tavola la bottiglia dipinta da Morandi, o comprare le mele di Cézanne. Si dovrebbe insomma affrontare la discussione dello statuto dell'immagine, in particolare pittorica: che cosa è un'immagine artistica in quanto tale, ovvero un'immagine che non è fantastica, chimerica, non è un oggetto materiale che condivide lo spazio dell'osservatore? Zeki tace.

Il neurologo non ne tematizza infatti lo statuto finzionale, dove la finzione discrimina invece i piani di realtà, dimenticando che l'opera d'arte come tale è sì sensibilmente reale, ma non è essenzialmente reale. Reale è la tela inchiodata al telaio di cui vedo le porosità sotto al pigmento, ma la conchiglia che sorregge la Venere di Botticelli non serve a preparare un piatto di cappesante gratinate. Jacob e Jeannerod ne sono ben consapevoli, e ricordano anzi che la capacità di vedere un'immagine come un'immagine è proprio ciò che distingue l'uomo dall'animale, e che il make-believe – con riferimento a Walton – sotteso alla fruizione dell'arte visiva non è principalmente un fenomeno percettivo. Senza considerare poi la declinazione culturale e antropologica di questa distinzione, per cui già nel mondo greco si facevano copie dei dipinti da esporre nelle case e nei giardini, il che significa che l'immagine era autonoma dalla sua funzione rituale o rammemorativa, un'autonomia che attraverserà tutto il dibattito iconoclasta nelle sue molteplici riprese e ancora attirerà – tra gli altri – l'attenzione di Moritz Geiger negli anni Venti del Novecento.

In un saggio dedicato al Significato psichico dell'arte, il fenomenologo mette in luce – contro l'estetica psicologica – come l'esperienza estetica vissuta di un'opera d'arte autonoma integri e trasformi i singoli vissuti percettivi della realtà – cromatico, acustico, figurativo... – in un'esperienza che riguarda il soggetto esistenzialmente, e non pragmaticamente: l'opera lo turba, lo emoziona, lo sconvolge, lo placa, lo rasserena. Di fronte alla Madonna del parto di Piero della Francesca, accanto agli specchi acustici di Anish Kapoor, ascoltando le Variazioni Goldberg di Bach, circondato dai mosaici della chiesa di San Marco a Venezia, io mi sento vivo senza usare le opere per uno scopo quale che sia. Altrimenti, l'uomo sarebbe una rana, alcune cellule nervose della cui retina si eccitano solo quando un corpo scuro delle dimensioni di un insetto si muove rapido su uno sfondo relativamente immobile. Θ la fine del moscerino.

D'altra parte, se si ritiene con Zeki che il cervello ha il compito di raggiungere la conoscenza del mondo, e che anzi la ragione per cui vediamo è proprio acquisire una tale conoscenza, estraendo «informazioni sugli aspetti essenziali, costanti del nostro universo visivo a partire da una massa di dati in continuo cambiamento», allora l'arte, in quanto «prodotto dell'attività del cervello visivo», non può che essere una funzione del cervello che a sua volta deve «acquisire conoscenza non solo dell'oggetto, volto o scena particolari rappresentati sulla tela, ma – tramite un processo di generalizzazione – della classe di appartenenza del singolo oggetto, volto o scena». Ne discende l'equazione percepire = pensare, le cui due vere e proprie «leggi supreme» sono costanza e astrazione – che forse contrastano l'esempio dei bambini ciechi di Maffei e Fiorentini, discusso nel capitolo precedente.

La verginità dell'occhio e l'innocenza primitiva dell'artista sono dunque secondo Zeki un mito non perché, come ritengono Ruskin, Gombrich e poi Goodman, un occhio ingenuo non è in grado di vedere e una mano ineducata non saprebbe dipingere, ma perché, al contrario, il cervello si esercita immediatamente a scannerizzare la realtà. Vale una sorta di «costrizione alla fruizione» di scene visive, per la quale la distinzione tra soggetto percipiente e oggetto percepito cade, dato che il soggetto è tale in quanto percipiente di un percepito in sé e per sé. L'opera è allora trasparente al mondo, ma ciò la dissolve: non solo nessuna differenza tra arte e illustrazione, ma nessuna differenza tra arte e natura, tra artistico ed estetico, e la battaglia è antica. Si perde, così, tanto il potenziale simbolico dell'arte quanto la sua capacità metamorfica e disvelativa, la facoltà che le è propria di lasciar immaginare verità compossibili. Scriveva Malraux: «Ogni carciofo porta in sé una foglia d'acanto e l'acanto è ciò che l'uomo avrebbe fatto del carciofo se dio gli avesse chiesto consiglio».

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Θ qui all'opera un nucleo concettuale di natura eidetica, già affrontato con Zeki e che Ramachandran da parte sua tenta di cogliere per via empirico-induttiva: se un topo deve discriminare tra un quadrato e un rettangolo e viene educato a scegliere quest'ultimo, risponderà tanto più facilmente a rettangoli molto lunghi e sottili, ne coglierà cioè la rettangolarità, che con espressione indiana chiama rasa, l'essenza. Rasa è, ad esempio, la femminilità di una statua, come il bronzo della dea Parvathi del periodo Chola (XI sec. d.C.) della collezione privata del neurologo. Per definire il principio essenziale che ordina la natura contingente della molteplicità di enti che si modificano, si rovinano, deperiscono, muoiono e scompaiono quali sono gli uomini, le cose, gli animali e le piante, ovvero il mondo della nostra esperienza, Platone parlava di un'idea formale stabile e permanente, ma Antistene gli obiettò di vedere molti cavalli, e nessuna cavallinità. Allo stesso modo, quando all'inizio dell'Ottocento Goethe schizza sulla carta davanti a Schiller la pianta originaria che intende come un'idea di cui si può avere esperienza e che si offre all'intuizione, l'amico gli ribatte: «Questa non è esperienza, questa è un'idea». La tensione che ritorna in contrapposizioni simili è quella tra la contingenza di un'esperienza fattuale di cui si è protagonisti in prima persona e la perfezione di una definizione concettuale protetta dagli assalti della storia, del tempo e delle inclinazioni personali. Se però, in una direzione opposta a quella di Zeki, si assume l'idea non come la rappresentazione di un complesso reale e stabile, ma come lo schema dinamico dei corpi effettivamente esistenti, che sono vivi e mobili, allora i principi normativi che si useranno per descriverli terranno di necessità conto dell'esperienza che se ne fa e a cui sono soggetti. Da questa prospettiva, mi sembra, si può intendere con profitto la ricerca di Ramachandran, che riconosce con ciò anche il valore emotivo degli universali dell'arte.

Θ un riconoscimento cui il neurologo perviene nel momento in cui con i suoi principi intende chiarire perché le configurazioni che rispondono a queste leggi ci soddisfano. Tale domanda presuppone un criterio teleologico, che era invece sostanzialmente assente nella teoria della Gestalt. Per capire gli attributi della mente dell'uomo bisogna dare conto di tre variabili: la «logica della funzione», ovvero le leggi che governano il fenomeno visivo; «il fondamento evolutivo», ovvero la ragione per cui le leggi hanno la forma che hanno; l'«hardware» neuronale, ovvero il modo in cui il cervello media le leggi in questione: per dipingere una sfera si disegnerà un cerchio che sia chiaro nella parte superiore, perché «le aree visive del cervello partono dall'innato 'assunto' che il sole splenda dall'alto» e, siccome il sole è fonte di luce, la luce che proviene dall'alto illumina le parti convesse e lascia in ombra le cavità della metà inferiore.

Queste tre variabili dipendono a loro volta dalle tre ragioni per cui l'uomo si impegna nell'arte: generare simulazioni interne e immagini mentali allena ad affrontare la vita, come se ci si esercitasse in una parte; l'emergenza dell'arte afferma l'individualità; riconoscere oggetti procura piacere al corpo. Se dunque in Zeki la domanda cardine è «Perché mai vediamo?», con Ramachandran la domanda diventa finalmente «Perché mai guardiamo un'opera d'arte?». Perché ci piace, è infine la semplice risposta che l'estetica ha sempre saputo fornire e che la neuroestetica talvolta dimentica, nonostante anche Changeux la ribadisca, suggerendo che il piacere estetico è il risultato dell'opera e dipende da una mobilitazione concertata di insiemi di neuroni localizzati a più livelli di organizzazione del cervello, dal sistema limbico alla corteccia frontale.

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7.
Lavori al bivio



Alla fine di questa lunga disamina di artisti cerebrolesi, quadri degenerati, cervelli spettatori, corpi virtuali, testimonianze storiche incorporate nei capitelli, visualizzazioni scientifiche a forma di camelia e neuroni allo specchio, la neuroestetica si rivela un nome di battaglia che raccoglie linee di ricerca specifiche, le quali condividono però molti presupposti e aprono ad almeno due prospettive di indagine.

Innanzitutto va sottolineata una certa indiscrezione dello sguardo con cui i neuroscienziati osservano tanto le immagini del cervello e i neuroni quanto i quadri e i corpi. Un'indiscrezione che spariglia le regole del gioco del sapere umanistico, per come è stato condotto fino ad oggi. La filosofia infatti è sì una disciplina del pensiero talvolta anche implacabile nei confronti del genere umano, rigorosa nella sua edificazione metafisica e radicale nelle sue demistificazioni, ma è anche accorta nei confronti del singolo uomo, e di lui, lungo i secoli, si è presa cura l'estetica, studiandone la mobilità delle passioni, l'intelligenza del sentimento e la mutevolezza del corpo. In quel pensiero in formazione che è la neuroestetica, sviluppata finora soprattutto da neuroscienziati e interessata più alla classificazione dei dati sperimentali che non alle loro condizioni di pensabilità, l'esperienza vissuta di ciascuno viene invece derubricata a materiale utile per l'anamnesi. Questa è però solo una ragione in più perché la filosofia si esponga nel dibattito, mentre Michel Onfray lamenta a ragione il disinteresse prevalente tra filosofi ed estetologi per i processi cerebrali, e commenta il tratto ideologico che può assumere un richiamo oltranzista alla Critica della ragion pura di Kant o all'approccio idealistico di matrice hegeliana.

Resta che le indagini neuroestetiche si sviluppano in prevalenza a partire dalla ricerca di informazioni utili per la diagnosi delle patologie e la loro cura, valendosi di un approccio sperimentale, induttivo e quantitativo, scientifico in senso pieno, sebbene alcune applicazioni propongano ardite vie ipotetiche che eludono la possibilità di smentita. Si rimuove così uno dei criteri che la scienza stessa si è data per garantire la propria attendibilità: una teoria deve essere falsificabile. D'altra parte, l'unico evento a non avere controprova è la nostra vita vissuta, e proprio la vita è il materiale d'indagine cui la neuroestetica si rivolge direttamente, talvolta attraverso paradossali indagini post mortem, a resuscitare artisti sepolti da tempo, assumendone la fisicità in modo astratto, come se il loro corpo, per il solo fatto di essere stato un organismo biologico che come tale ci è noto, potesse dire la verità attraverso epoche e paesi.

Tale passaggio diretto dalla vita all'opera d'arte mette al bando il tema della finzione. Kant scriveva nell' Antropologia pragmatica che se qualcuno s'accorge che un altro lo sta osservando nel tentativo di esplorarne la mente, o si sentirà imbarazzato, nel qual caso non potrà mostrarsi come è in realtà, o cercherà di mascherarsi, e non vorrà essere riconosciuto per quello che è. Θ un comportamento che ciascuno può sperimentare, e che non solo conferma l'importanza dell'educazione sociale dello sguardo filosofico sull'uomo, ma esprime il ruolo della simulazione, della mistificazione e dello svelamento quali cardini dell'indagine intellettuale, che valgono tanto più nel campo della produzione artistica, cioè di opere che imitano o evocano per qualche via l'uomo.

La neuroestetica dell'arte visiva assume invece l'opera come un test fisiologico e comportamentale, e si rivela in tal modo l'ultima tappa di quella aspirazione alla trasparenza che ha animato gran parte del sapere occidentale: comprendiamo una cosa quando il linguaggio con cui la si descrive è chiaro, la visione che se ne ottiene limpida, la verità che la caratterizza aderisce al suo oggetto che si lascia conoscere per intero. Lo stesso varrebbe per la conoscenza di sé, e le tecniche di brainimaging fungono da pratiche speciali di introspezione visualizzata. Il setting degli esperimenti nei quali i soggetti vengono classificati per età, sesso, preparazione e capacità rilevanti per il compito da eseguire, neutralizza inoltre la qualità biografica dell'autore e del fruitore. Nel caso della neurostoria, ciò accade poi in un modo specifico: considerando come condizione primaria per la produzione di uno stile il fatto che l'ambiente naturale, sociale e storico si incorporano nell'uomo, essa produce un nuovo luogo sperimentale, che è lo spazio del corpo in quanto tale con il suo funzionamento neurobiologico. L'artista, figura che siamo soliti considerare geniale o almeno eccentrica, risulta allora piuttosto un esecutore anonimo la cui produzione è giustificabile da un punto di vista cerebrale, e lo stile è ridotto a struttura figurativa, cromatica e cinetica.

A fronte di tale anonimia della produzione artistica, dilaga la supremazia del mero ordine del visivo, che la neuroestetica accredita, indifferente per lo più all'ambito del sapere linguistico e discorsivo. Ne consegue che lo statuto artistico dei manufatti umani tende a sfumare: l'esemplarità dell'arte si dissolve portando con sé la questione dell'imitazione e della riproduzione della natura, e íl loro antico antagonismo. Viene così meno ogni problema di catalogazione delle opere che non abbia come riferimento il tema, l'oggetto, la figura del dipinto: paesaggio, casa, quadrato. Di più, un tale ordine del visivo non è necessariamente relativo al modo in cui le cose appaiono; i meccanismi cerebrali della visione sembrano poter produrre «impressioni mentali» che generano proprietà fenomeniche in assenza di un reale materiale percettivo, in assenza cioè di corpi che si diano a vedere.

Nemmeno una simile dissoluzione dell'arte figurativa nel processo percettivo obbliga tuttavia a sottoscrivere necessariamente una concezione rozzamente innatista, come si potrebbe ritenere in un primo momento, per la quale il cervello – trattato troppo spesso come materia neutra, unisex — guarderebbe l'opera in solitudine senza bisogno di educazione, cultura e perseveranza. Sono anzi le stesse neuroscienze a squalificare questa opzione. Se infatti, ad esempio, la connessione della retina dell'occhio con la corteccia visiva primaria, l'area V1, è determinata geneticamente, l'esposizione dell'occhio a un mondo da vedere è però decisiva per il suo corretto funzionamento, cosa che d'altra parte sapevamo almeno fin dal dibattito settecentesco che aveva coinvolto Locke e Molyneux: un cieco dalla nascita operato in età adulta saprà intendere come corpi le macchie colorate e le ombre che vedrà? No, era e continua ad essere la risposta. Se dunque, per un verso, l'elaborazione culturale è vincolata dalla conformazione cerebrale, dall'altro «il cervello della nostra specie sarebbe uno specialista della ricombinazione mentale, evoluto allo scopo di sfruttare al meglio la quota cognitiva dell'aggiornamento neuronale». La neuroestetica pensa quindi a una con-formazione di mente, corpo e ambiente sotto la nozione di plasticità cerebrale, ed è senz'altro una delle linee di indagine più interessanti.

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