Copertina
Autore Romolo Giovanni Capuano
Titolo 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2013, Eretica speciale , pag. 238, cop.fle., dim. 15x21x1,3 cm , Isbn 978-88-6222-345-4
LettoreElisabetta Cavalli, 2014
Classe libri , comunicazione , religione
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Indice


     Introduzione                                                    3

     111 errori di traduzione                                        5

  1) Quel frutto proibito. Anzi sconosciuto                          7
  2) Un pomo un po' troppo invadente                                 9
  3) Salvatore Quasimodo traduce il Vangelo di Giovanni             11
  4) Il Dio vendicativo                                             13
  5) Mi chiamo Giuseppe e faccio il falegname                       15
  6) Non uccidere?                                                  17
  7) Quell'oscuro desiderio del Decalogo                            19
  8) Eunuchi per il regno dei cieli. O della Chiesa                 21
  9) Le corna di Mosè                                               23
 10) Separare, non creare                                           25
 11) Quel pericoloso terrorista chiamato Cristo                     26
 12) Barabba? Chi era costui?                                       29
 13) La donna fu creata da una costola dell'uomo?                   31

     [...]

 92) Quelle scomode scarpe di cristallo                            192
 93) Il fascino di una traduzione "sbagliata"                      194
 94) Il re degli ontani..., pardon, degli elfi                     196
 95) Qui sta il busillis                                           198
 96) Per una traduzione Martin perse la cappa                      200
 97) Imputato Geoffrey Chaucer: stupratore o sequestratore?        203
 98) Millenari equivoci filosofici                                 204
 99) Sangue reale?                                                 206
100) Attenti al marketing 1                                        208
101) Attenti al marketing 2                                        211
102) Questione di colore                                           214
103) L'errore che spogliò la reginetta del suo titolo              215
104) Il poligono dei veleni di Quirra                              217
105) Come ostacolare la ricerca medica con un errore di traduzione 219
106) Un'isola... dei cavoli                                        221
107) Un dono per sbaglio                                           222
108) Un errore di pronuncia e scatta l'amore                       224
109) La saggezza dei proverbi                                      226
110) La direzione di un pollice                                    227
111) Il colmo degli errori di traduzione                           230

     Conclusioni                                                   232


 

 

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Pagina 3

Introduzione


Un tempo tradurre una parola della Bibbia in un modo piuttosto che in un altro poteva costare la vita. Uomini come Wycliffe e Tyndale ebbero molti problemi con la Chiesa per le loro traduzioni. Nel 1428, i resti del corpo di John Wycliffe, che pure era morto di morte naturale nel 1384, furono riesumati e bruciati, mentre le sue ceneri furono sparse nel fiume Swift, dopo che il Consiglio di Costanza (1415) lo ebbe dichiarato eretico. Pure i suoi libri furono bruciati. La Chiesa non gli aveva perdonato di aver tradotto la Bibbia.

Anche l'umanista, tipografo, editore e traduttore francese Etienne Dolet pagò per le sue opere: nel 1546 fu condannato al rogo per ateismo, blasfemia, sedizione e pubblicazione di libri proibiti. Fra l'altro, per aver tradotto uno dei dialoghi di Platone. Secondo l'accusa, la sua traduzione instillava nel lettore la sfiducia nell'immortalità dell'anima.

Eccessi degli antichi, direte. Oggi le cose vanno molto meglio. Se non che...

1988. Salman Rushdie pubblica i suoi Versetti satanici, un libro che ben presto diviene un bestseller mondiale. A guastare le cose interviene una fatwa che condanna a morte lo scrittore e tutti quelli che hanno a che fare con il suo libro. I Versetti satanici sono giudicati blasfemi e, in quanto tali, punibili con la sanzione estrema. Guai a chi osa tradurre o far tradurre il libro maledetto. Il traduttore giapponese Hitoshi Igarashi è assassinato a coltellate l'11 luglio 1991. L'editore francese Christian Borgois e la sua famiglia vivono per mesi protetti dalla polizia. Il traduttore italiano scampa a molte coltellate nel 1991. Il traduttore turco si salva a stento. L'editore norvegese William Nygaard è ferito con tre colpi di proiettile l'11 ottobre 1993. Varie morti si verificano in India, Pakistan ed Egitto. Tutto questo a causa del libro.

Casi estremi. Eccezioni che confermano la regola, ripeterete cocciuti. Ma la regola qual è?

Qualche anno fa mi trovavo a un convegno in cui uno dei relatori parlava in inglese di gufi, civette e altri animali della notte. Improvvisamente, dietro di lui, viene proiettata l'immagine di un enorme barbagianni. Barnowl dice correttamente il relatore. "Gufo" traduce malamente l'interprete ("gufo" in inglese si dice owl). Dalla platea si alza uno spettatore inviperito. «Buffone» grida contro il palco. «Quello è un barbagianni, non un gufo». Ci vuole tempo per spiegargli che si è trattato di un errore di traduzione. La tensione nell'aria farà fatica a disperdersi. Tutto per un banale errore di traduzione.

La verità è che per un errore di traduzione si può morire. O compromettere qualcosa di importante. Come dimostrano le storie (vere) di cui si occupa questo libro. Che parla di parole di una lingua rese malamente in un'altra, cattive trascrizioni, virgole spostate, parole travisate o udite male. Intenzionalmente o casualmente. Errori reali o presunti. Sviste che hanno causato terremoti, fatto cadere governi, creato inimicizie o favorito accordi. Reso felici o infelici esseri umani.

Non solo.

Leggendo queste pagine, imparerete come, grazie a un errore di traduzione, Nerone sia diventato miope, Lutero abbia inventato una religione, il presidente americano Truman abbia deciso di bombardare il Giappone, alcune persone innocenti siano finite in galera, la gente creda nelle cose più strane e una piazza sia diventata rossa.

«Countries have gone to war after misinterpreting one another» dice Silvia Broome, alias Nicole Kidman, nel bel film di Sydney Pollack The interpreter (2005). Che cosa significa? La traduzione la lascio a voi. Non vorrei commettere errori. Di questi tempi!

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Pagina 7

1) Quel frutto proibito. Anzi sconosciuto


Qual è il frutto proibito che Adamo ed Eva mangiarono nel Giardino dell'Eden? La mela, facile. La domanda sembra così banale che perfino un bambino saprebbe rispondere. Sbagliando, naturalmente. Perché la faccenda è più complicata di quanto sembri. Per rendercene conto, basta leggere i passi del libro della Genesi in cui si fa menzione dell'albero del bene e del male, l'albero dal quale proviene il famigerato frutto.

In Genesi 2, 9, ad esempio, si legge (Bibbia CEI):

Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male.

Più avanti troviamo:

Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire". (Gen 2, 16-17)

La scena madre che dovrebbe rivelarci l'identità del frutto proibito è però narrata in Genesi 3, 1-7. Leggiamola con attenzione:

Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: "È vero che Dio ha detto: 'Non dovete mangiare di alcun albero del giardino'?". Rispose la donna al serpente: "Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: 'Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete'". Ma il serpente disse alla donna: "Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male". Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

È inutile che leggiate per l'ennesima volta il brano. Di mela non si parla. E allora perché siamo tanto convinti che il frutto proibito del Giardino dell'Eden sia proprio una mela?

Cominciamo col dire che non sempre si è stati di questo avviso. Nel Testamento di Adamo, apocrifo del Vecchio Testamento, Seth domanda al padre Adamo quale sia stato il frutto che ha causato la sua perdizione. E Adamo risponde che è un fico. E un fico si vede rappresentato anche in alcuni monumenti dell'arte cristiana primitiva. Di questa opinione sono inoltre famosi rabbini ebrei. Il buon senso ci dice che, esaminando la rapidità della scena descritta in Genesi 3, 6-7, che culmina con l'intreccio delle foglie di fico, è probabile che i nostri due progenitori abbiano afferrato la prima cosa a portata di mano per coprirsi. E, dal momento che si trovavano vicino all'albero del bene e del male...

Tuttavia, sulla faccenda, la fantasia umana si è sbizzarrita in forme imprevedibili. Alcuni rabbini hanno indicato l'uva. Altri il grano (e di grano parlano anche alcuni commentatori musulmani). Il Talmud di Babilonia parla del cedro. Mentre si è ipotizzata anche la melagrana (che, nonostante il nome, non è nemmeno lontanamente imparentata con la mela), una delle qualità di frutta più coltivate nell'antichità. Comunque sia, si ritiene molto improbabile che il frutto possa essere stato la mela, se non altro per ragioni botaniche. Se accogliamo il presupposto che il Giardino dell'Eden fosse collocato in una regione del Medio Oriente, qui non c'è un clima favorevole alla crescita della mela che noi conosciamo.

Torniamo, dunque, alla domanda iniziale. Perché crediamo che il frutto dell'albero del bene e del male sia una mela? Una spiegazione condivisa da molti è che, quando la Bibbia fu tradotta in latino, la parola malum contenuta in "albero del bene e del male", che significa sia "male" sia "mela" (anche se la prima è mălum, la seconda è mālum) abbia indotto qualche copista antico nell'errore di preferire la seconda interpretazione alla prima, con le conseguenze che tutti sappiamo. Potrebbe essere accaduto nel Medioevo, quando i segni vocalici si affievolirono molto, così che malum venne a indicare indifferentemente sia "mela" sia "male". Un'altra ipotesi è che quando, sempre nella versione latina, il serpente dice: «Eritis sicut Deus, scientes bonum et malum» («Sarete come Dio, conoscendo il bene e il male»), la parola malum sia, per qualche motivo, retrocessa di quattro righe e si sia venuta a trovare nelle mani di Eva sotto forma di mela.

Per altri l'origine del fatto sarebbe diversa. Secondo Plants of the Bible, di H.N. Moldenke, un ruolo cruciale lo ebbero gli artisti medievali e rinascimentali. Basti pensare a Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre di Pieter Paul Rubens (1577-1640), nel quale sembra proprio che il frutto che Eva è nell'atto di cogliere sia una mela. La mela era inoltre, per i popoli pre-cristiani, il simbolo dell'amore e del sesso, nonché della discordia (basti pensare all'omonimo "pomo" che gettò il panico fra le dee dell'Olimpo). Tutti simboli negativi per i cristiani e, quindi, facilmente associabili alla "caduta" e alla "perdizione". Simboli a parte, una cosa è chiara. Non importa quale fosse il frutto proibito. Ciò che importa è che, almeno secondo la mitologia cristiana, senza di esso, noi non saremmo qui. Allora, grazie mela. O fico. O melagrana. O...

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Pagina 17

6) Non uccidere?


Ogni credente conosce i dieci comandamenti. Per la Chiesa cattolica sono i princìpi basilari cui attenersi obbligatoriamente per raggiungere la salvezza eterna. Violarli significa commettere peccato. E anche reato, in alcuni casi. Basti pensare ai comandamenti contro il furto e l'omicidio.

È altresì noto che il decalogo fu consegnato direttamente da Dio a Mosè, come dicono Esodo 20 e Deuteronomio 5. Se però si confrontano le versioni offerte dall'Antico Testamento con quella diffusa dalla Chiesa cattolica, le differenze balzano agli occhi (il che solleva almeno qualche dubbio sull'immodificabilità della parola di Dio). Tanto per fare due soli esempi, il secondo comandamento del decalogo deuteronomico – "Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra" – non compare affatto nel decalogo cattolico, con grande beneficio della secolare tradizione iconografica che ha fatto la fortuna comunicativa della Chiesa (si sa che un'immagine rende più di mille parole). Il quarto comandamento, invece, – "Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato" – è diventato più genericamente "Ricordati di santificare le feste", con conseguente spostamento del giorno sacro dal sabato alla domenica.

Ma dubbi sorgono anche a proposito di alcuni comandamenti la cui comprensione dovrebbe essere lineare. Prendiamo il quinto (sesto nella versione dell'Antico Testamento): "Non uccidere". Sembrerebbe un divieto chiaro, senza "se" e senza "ma". In realtà, le cose non stanno così.

Il verbo ebraico ratsach, adoperato nell'originale, non si riferisce a qualsiasi tipo di uccisione, ma solo a quella ingiusta, illegale, ad esempio l'uccisione di un membro del proprio gruppo di appartenenza. Ne consegue, a contrario, che uccidere un membro di altri gruppi, soprattutto se nemici, è non solo ammesso, ma raccomandato. Di ciò vi è traccia anche nel sesto comandamento presente nel Corano, che suona: «Non ucciderai nessuno di quelli che Allah ti ha proibito di uccidere, se non per giusta causa». Altro che altissimo precetto morale, dunque. Siamo di fronte a un modo arcaico di dividere il mondo – amici contro nemici – che porta a vedere chiunque non appartenga al proprio gruppo sociale come nemico, nemmeno degno di essere considerato umano. Saranno le traduzioni successive a limare tale poco cristiana caratteristica, relegando nel dimenticatoio il significato originale di ratsach.

Se le cose stanno così, hanno sostenuto alcuni interpreti, allora anche eventi efferati come il genocidio e lo sterminio di massa e perfino la pena di morte possono, in determinate condizioni, essere giustificati. Né il comandamento può essere inteso come un appiglio per rifiutare il servizio militare. Considerando che anche Gesù chiedeva di obbedire ai comandamenti, è evidente che la religione del "porgi l'altra guancia" non ne esce bene. Certamente, la Bibbia riconosce dignità diverse a diversi tipi di omicidio, come è evidente in Numeri 35, dove l'omicidio non intenzionale e la vendetta sono ammessi senza punizione.

Al giorno d'oggi, pochi conoscono le implicazioni paradossali del quinto (o sesto) comandamento. La maggior parte di noi intende il divieto "non uccidere" in maniera assoluta e non è disposta a cedere a compromessi per un atto percepito come ignobile e contrario a ogni regola del vivere civile. Come siamo lontani dalla cultura di quelle tribù nomadiche presso le quali fu in principio formulato il divieto. Anche se con le nostre traduzioni errate, facciamo di tutto per dimenticare questa distanza.

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Pagina 21

8) Eunuchi per il regno dei cieli. 0 della Chiesa


La tradizione del celibato dei sacerdoti cattolici risale a tempi molto antichi, anche se non così indietro, se si pensa che solo nel XII secolo esso divenne un obbligo affine a quello che conosciamo oggi (sebbene solo per il clero latino). È sicuramente uno degli aspetti più discussi della teologia cattolica, contestato come residuo del passato o come un'interpretazione forzata di alcuni passi biblici da altre confessioni cristiane.

Il testo fondamentale al quale si ispirano le gerarchie cattoliche per dare forza al principio del celibato è la frase contenuta in Matteo 19, 12, che recita:

Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca. (Bibbia CEI)

Il brano non è chiarissimo. Se i più sono d'accordo nel ritenere che il termine "eunuchi" debba intendersi metaforicamente (ricordiamo, però, che il teologo Origene si castrò perché prese un po' troppo alla lettera la frase), rimane l'incertezza su cosa voglia comunicare questa metafora. Di certo la fondazione del celibato sacerdotale è un'interpretazione buona come quella di chi vi legge un vago discorso a favore della castità (anche matrimoniale) o del candore spirituale.

Per la teologa Uta Ranke-Heinemann non vi sono dubbi. Qualsiasi cosa significhi il termine "eunuchi" (in greco eunuchoi) nel contesto del verso evangelico, esso è sempre stato tradotto male e non vuol dire "celibi" o "non atti al matrimonio". Basta leggere l'intero capitolo 19 del Vangelo di Matteo per rendersi conto che l'affermazione attribuita a Gesù è in realtà la risposta all'interrogativo «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?» che apre il capitolo stesso. Ciò di cui Gesù sta parlando allora non è il celibato, ma il divorzio. E a questo proposito enuncia una tesi scandalosa per i suoi tempi maschilisti, in cui bastava la minima mancanza da parte della moglie perché il marito potesse ripudiarla. Questa tesi è espressa con le parole: «Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un'altra, commette adulterio». I discepoli, abituati ai costumi sessisti dell'epoca, obiettano, non capiscono. E a questo punto Gesù esprime la sua famosa sentenza. Ma – ribatte Ranke-Heinemann – non è probabile che qui si stia parlando della rinuncia all'adulterio? Dell'invito a rivedere completamente i rapporti tra uomo e donna su un piano più egualitario? Ciò sarebbe confermato anche dall'obiezione degli apostoli i quali, di fronte a tale novità, controbattono che allora sarebbe meglio non sposarsi. La ratio di questa replica sta nel fatto che, se si applicasse la tesi di Gesù, gli uomini perderebbero la propria libertà sessuale e, con essa, la possibilità di sbarazzarsi a piacimento delle mogli. Ricordiamo, infatti, che per gli ebrei del tempo, adulterio significava una cosa per gli uomini e un'altra per le donne. Commetteva adulterio solo l'uomo che aveva un rapporto sessuale con una donna già sposata; per la donna, invece, ogni evasione dal matrimonio era causa di divorzio.

Ecco perché, secondo Ranke-Heinemann, il messaggio di Gesù è stato travisato: perché impartiva un colpo secco alla morale maschilistica e sessuofobica dell'epoca. Meglio farlo passare per altro. Ad esempio, per il fondamento di una dottrina, come quella del celibato, che faceva comodo alla Chiesa.

In ogni caso, non c'è alcuna ragione per tradurre eunuchoi con "celibi". Per quanto metaforici si voglia essere. È degno di nota, però, come un errore di traduzione possa fondare un'intera tradizione religiosa. E, con essa, un'intera morale sessuale.

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Pagina 26

11) Quel pericoloso terrorista chiamato Cristo


È un libro curioso quello di David Donnini, intitolato Cristo. Una vicenda storica da riscoprire, pubblicato nell'ormai lontano 1994. Curioso non solo per le ipotesi a proposito dell'identità di Gesù, ma anche perché tali ipotesi sono elaborate a partire dall'analisi di alcuni clamorosi errori di traduzione su cui vale la pena soffermarsi. Cominciamo col dire che David Donnini non è un accademico paludato, ma ha dedicato molti anni all'indagine critica dei vangeli con risultati apprezzati anche dagli specialisti. Le sue tesi sono certamente ardite e, in effetti, Donnini ha la correttezza di definirle ipotesi. Su chi non ha conoscenze eccelse di storia del cristianesimo, esercitano un indubbio fascino che, a tratti, dà le vertigini.

Secondo lo studioso, Gesù non era un banale predicatore religioso: all'epoca ce ne erano molti e non subivano certo il destino crudele toccato a lui. Gesù era il capo di una setta partigiana, un combattente sovversivo e dissidente il cui obiettivo era la liberazione di Israele dal dominio romano. Una sorta di anticipatore della rivolta del partito ebraico degli Zeloti contro le autorità romane che nel periodo 66-70 d.C. costò la distruzione del tempio di Gerusalemme a opera del generale romano Tito. Gli evangelisti, secondo Donnini, hanno consapevolmente modificato, attraverso una sistematica opera di censura, le identità dei protagonisti del racconto neotestamentario, di cui hanno anche alterato toni e motivi ispiratori allo scopo di spoliticizzare i Vangeli e celare la loro verità di fondo: Gesù era un terrorista, condannato a morte per il reato di sovversione contro il dominio imperiale. Insieme ai suoi seguaci, era in procinto di organizzare un atto di forza contro il presidio romano e le autorità ebraiche nel solco della tradizione messianica. In sostanza, Gesù non era dissimile, quanto a pensieri e azioni, da un combattente palestinese contemporaneo. Egli fu condannato prima dagli ebrei, che non volevano esporre la nazione al rischio di una rappresaglia romana, e poi dai romani stessi in base al loro diritto come un ribelle politico. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché fu arrestato da un'ingente coorte di soldati romani (le coorti dell'epoca erano costituite da 5-600 soldati), che non avrebbe avuto ragione di intervenire se si fosse trattato di un pacifico predicatore; perché fu necessario l'intervento di Giuda, che ebbe il compito di avvertire i sacerdoti al momento in cui la sommossa stava per iniziare; perché Gesù fu crocefisso, considerando che la crocifissione era riservata dai romani ai ribelli.

Ma a occultare la vera identità di Gesù e dei suoi seguaci contribuiscono, secondo Donnini, soprattutto le mistificazioni linguistiche sparse nei Vangeli, che, in alcuni casi, prendono la forma di intenzionali errori di traduzione. Errori, in particolare, sui nomi dei discepoli del Cristo. E questa è la parte più sorprendente del testo di Donnini, che svela le alchimie linguistiche cui è ricorso il Cristianesimo delle origini per fornire una versione totalmente falsa della vicenda di Gesù.

Facciamo qualche esempio. In un passo del Vangelo secondo Matteo, Gesù si rivolge a Pietro chiamandolo "Simone, figlio di Giona" Il testo greco riporta Simon bar Zona, in cui "figlio di" è reso con bar, termine aramaico, e non con uios, termine usato frequentemente nei Vangeli quando un personaggio è definito "figlio di...". Nei manoscritti antichi del Vangelo di Matteo compare, però, l'espressione "Simon Bariona" e in aramaico barjona vuol dire "combattente, partigiano". "Simone figlio di Giona" cela dunque in realtà l'identità di "Simone il partigiano". Lo stesso meccanismo agirebbe nel caso di altri apostoli. Come quello che i Vangeli di Marco e Matteo definiscono "Simone cananeo". "Cananeo" è in realtà qanana ("zelota"), sinonimo di barjona. Anche Taddeo nasconde delle sorprese. Il suo nome è solo un titolo, dal momento che in ebraico non è un nome proprio, ma un aggettivo che significa "coraggioso": altro termine più adatto a un combattente. Il vero nome di Tommaso, invece, è Giuda, del quale alcuni manoscritti antichi riportano la variante qanana, di cui già abbiamo conosciuto il significato. Gli apostoli fratelli Giacomo e Giovanni sono soprannominati in aramaico "figli del tuono", epiteto utilizzato anche per Pietro, secondo antiche versioni del Vangelo di Marco. Insomma, riandando all'origine aramaica di questi nomi e traducendoli di conseguenza, scopriamo, secondo Donnini, che quelli di Gesù non erano semplici discepoli religiosi, ma una vera e propria setta di sovversivi politici, pronti a far saltare in aria Israele come una polveriera. E tutto questo lo apprendiamo dalla traduzione corretta dei quattro Vangeli.

Non so se le ipotesi di Donnini corrispondano a verità. È affascinante però che un testo importante come la Bibbia possa comunicare messaggi così diversi secondo la traduzione adottata. Un tempo Donnini avrebbe corso il rischio di soccombere, per le sue idee. Oggi le cose, per sua fortuna, sono molto diverse.

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Pagina 132

63) I terroristi che volevano mettere a ferro e fuoco Roma dopo averla avvelenata


A spulciare le cronache dell'Italia post-settembre 2001, si rimane sbalorditi dal numero di individui di lingua araba accusati di pianificare attività terroristiche, imprigionati e poi scarcerati perché "il fatto non sussiste". Si tratta, nella maggior parte dei casi, di equivoci drammatizzati dal panico, da informazioni infondate e dalla convinzione che, dopo le Torri Gemelle, Londra e Madrid, Roma sarebbe stata il prossimo bersaglio dell'inafferrabile Al Qaeda. Nonostante la sindrome da imminente catastrofe, però, in più di dieci anni dal fatidico 11 settembre 2001, nessun attentato è stato compiuto in Italia né sono state rilevati piani terroristici concreti contro il nostro Paese.

In compenso, abbiamo assistito a decine di indagini abortite, ipotesi investigative clamorosamente smentite, prove inconfutabili rivelatesi confutabili, intercettazioni chiarissime diventate all'improvviso incomprensibili. Uno dei casi più surreali è raccontato dai giornalisti Carlo Bonini e Giuseppe D'Avanzo in un articolo del gennaio 2004 pubblicato su "Repubblica" Il caso riguarda tre iracheni di etnia curda – Muhamed Ahmad Isa, Muhamed Salah Faysal e Kadir Ali Hemin – arrestati l'1 marzo 2002 alla stazione Termini di Roma, mentre erano in procinto di salire su un treno per Parigi, con la grave accusa di pianificazione di un attentato terroristico con uso di armi e cianuro. I tre sono incastrati da un'intercettazione ambientale del 20 febbraio 2002 registrata nei locali di un centro di preghiera. Secondo le note dei carabinieri, si tratta di una conversazione in italiano tra tre uomini della durata di 3 minuti e 36 secondi.

Ecco il testo del verbale così come trascritto dai carabinieri e riportato da Bonini e D'Avanzo:


«Per me sono venuti~».
«Sono venuto da lì».
«Dove sono? Possiamo prenderla?».
«Passiamo a prendere le ARMI».
«Che armi?».
«Le armi sotto».
«Entriamo a piedi?».
«lo già lo so ~ via Celimontana».
«Quindi dirai che hai lo stesso indirizzo».
«Chiedigli che panni uso io».
«Mi aiutano, non ho il vestito».
«Via dello Statuto ~ via Quattro fontane».
«Ciprian, questo è veleno!».
«~ Vuole prendere CIANURO!».
Terza persona sullo sfondo: «SUDATINA!».
«~ Chi potrebbe farlo!».

Per quanto un po' confuso, il testo fa effettivamente riferimento ad armi e veleno. Incominciano ad affiorare però delle incongruenze: i carabinieri affermano che la conversazione si è svolta in italiano, ma i tre iracheni non parlano italiano. Inoltre, dopo le perquisizioni di prammatica, non sono trovati su di loro né armi né cianuro. Ma questi "dettagli" sono ritenuti ininfluenti.

La scoperta che manda tutto all'aria è fatta il 16 settembre 2002 da Antonio D'Arienzo, perito nominato dalla difesa di ufficio. D'Arienzo rivela che la conversazione non è in italiano, è di difficile comprensione e non include riferimenti ai nomi delle strade menzionate nella trascrizione dei carabinieri. A questo punto, il gip Giovanni De Donato, insospettito, dispone una seconda perizia d'ufficio alla quale partecipano lo stesso D'Arienzo e una consulente di lingua araba, curda e irachena. I risultati, davvero impressionanti, rivelano che, effettivamente, i dialoghi non sono in italiano; che a parlare sono più di tre persone; che non c'è alcun riferimento ad armi o veleno; che le parole ciprian e sudatina sono termini curdi che significano "Come viene chiamato" e "Domani no" Insomma, l'accusa di terrorismo è fondata sul nulla.

Poco dopo, i tre iracheni sono assolti per non aver commesso il fatto e tornano liberi il 19 novembre 2002, dopo ben nove mesi di carcerazione preventiva.

L'articolo di Bonini e D'Avanzo continua esponendo altri casi di intercettazioni abborracciate e indagini fasulle, che sono costati mesi di carcere a cittadini stranieri colpevoli solo di parlare lingue ancora misteriose per noi.

Di chi la colpa? Della paura fobica che ha colto le civilissime nazioni occidentali dopo l'11 settembre? Della diffidenza che nutriamo verso gli stranieri, sempre sospettabili di ogni malefatta perché appunto stranieri? Dell'incompetenza delle forze dell'ordine nell'affrontare nuovi fenomeni criminali? Qualsiasi sia la risposta, un consiglio agli stranieri residenti in Italia: imparate la nostra lingua presto e bene. Se non altro, fatelo per legittima difesa.

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65) La terribile peste nera


Abituati come siamo a catastrofi apocalittiche continuamente annunciate e mai avveratesi, dai nomi di volta in volta sempre più esotici (Millennium bug, Mucca pazza, Sars, influenza aviaria, suina e via dicendo), facciamo fatica a credere che in passato il genere umano sia stato colpito da morbi realmente terribili che seminavano morte, panico, disperazione e avevano un impatto devastante sul livello demografico, sociale e perfino culturale di intere popolazioni.

Uno di questi fu sicuramente la Peste nera (in inglese Black death), una spaventosa pestilenza che si abbatté sull'Europa tra il 1347 e il 1352 con conseguenze tragiche. Secondo alcune stime, la popolazione europea prima della peste era di 80 milioni di persone; dopo la peste era ridotta a 55 milioni. In Italia ebbe gli effetti più funesti, arrivandovi sulle navi genovesi provenienti dal Mar Nero. Messina, e dunque la Sicilia, furono colpite per prime. Da lì il morbo si diffuse poi nel resto del Paese. Si ipotizza che essa abbia avuto origine in Cina e che la prima città europea a essere infettata sia stata Caffa in Crimea. Poche città riuscirono a sfuggire alle sue grinfie. Il suo radicamento nell'immaginario fu talmente forte che perfino la letteratura dell'epoca ne rimase contagiata: basti pensare allo straordinario Decameron di Giovanni Boccaccio.

Quello che è certo è che per diversi secoli (secondo alcune fonti almeno fino al XVIII secolo) l'epidemia non si chiamò "Peste nera". I contemporanei parlavano di "grande pestilenza" o "grande moria". Il nome latino con cui era conosciuta all'epoca era "pestis atra". Ora, atra può voler dire "nera"; ma in questo caso il significato prevalente era un altro: "funesto, orribile, lugubre, infelice, misero". La traduzione corretta di "pestis atra" dovrebbe dunque essere qualcosa come "peste orribile". E allora perché "nera"?

Una spiegazione rimanda alla credenza secondo cui i cadaveri degli appestati erano neri, quasi fossero stati bruciati o rinsecchiti dal morbo. In realtà, le cronache del tempo parlavano di febbre, brividi, bubboni, rigonfiamenti, macchie di vario colore (tra cui il nero), ma non di corpi neri. E oggi è noto che il colore nero esteso a tutto il corpo non è tra i sintomi del male. Altre spiegazioni vedevano l'origine della malattia nell'apparizione di un'inquietante cometa nera o di un improbabile uomo su un cavallo nero. Un'altra spiegazione, piuttosto diffusa, cita invece un errore di traduzione compiuto probabilmente da alcuni cronisti danesi e svedesi e ripreso, in seguito, da intellettuali come il medico tedesco J.F.K. Hecker nell'Ottocento, il cui articolo sull'argomento, intitolato La morte nera, fu tradotto in diverse lingue, contribuendo a imporre in maniera definitiva l'espressione (secondo Hecker, però, l'origine del nome va cercata nelle macchie nere che la pestilenza lascia sul corpo delle sue vittime).

È probabile che sia stato proprio il nome "peste nera" ad aver alimentato la leggenda secondo cui i corpi degli appestati fossero come carbonizzati. Un interessante esempio di come una traduzione errata possa plasmare la rappresentazione del fenomeno che descrive.

L'Ottocento contribuirà anche a isolare il batterio responsabile del male grazie ad Alexandre Yersin, in cui onore sarà chiamato Yersinia pestis. Oggi sappiamo molto di questa malattia e di come sconfiggerla. Nel Trecento, invece, la pestilenza cominciò e terminò come un flagello divino.

Se però è improbabile che il bacillo di Yersin si farà ancora vivo in maniera così prepotente, continuiamo a subire il terrore di eventi del genere. Come testimoniano i continui allarmi-bufala strombazzati dai media.

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66) La miopia di Nerone


Di Nerone si è detto di tutto. Che era un incendiario, un pazzo, un sadico crudelissimo, un artista, un musicista. Un mangiatore compulsivo di porri.

Perfino che fosse miope. Ma lo era davvero? La risposta è quasi certamente negativa. E allora perché manuali e siti dedicati alla storia dell'ottica riferiscono invariabilmente di questo difetto visivo dell'imperatore romano?

Alla base c'è probabilmente un errore di traduzione. La fonte è una frase di Plinio il Vecchio contenuta nella sua Storia naturale (vol. V, libro XXXVII, p. 64):

Nero princeps gladiatorum pugnes spectabat in smaragdo.

Il fisiologo tedesco dell'Ottocento Hermann Von Helmholtz , considerato il padre dell'ottica contemporanea, tradusse così la frase nel suo Manuale di ottica fisiologica:

L'imperatore Nerone guardava attraverso uno smeraldo il combattimento dei gladiatori.

Questa traduzione lascia intendere che Nerone avesse bisogno dello smeraldo come di una sorta di occhialino da vista per correggere un difetto visivo. In realtà, in seguito dall'ablativo vuol dire "nel"; non "attraverso". Plinio, cioè, voleva dire che Nerone osservava i combattimenti in uno specchio di smeraldo concavo, che serviva soprattutto a risparmiare agli occhi l'abbagliamento del sole e i riflessi dell'arena. Il colore verde dello smeraldo serviva inoltre a riposare la vista, anche se ciò non va preso come conferma di una eventuale miopia.

Sempre nell'Ottocento, l'errore fu diffuso da altre personalità della cultura. Ad esempio, Ernest Renan ci mise del suo quando scrisse l' Anticristo (1873), dove si legge:

Dato che era miope, [Nerone] era solito portare nell'occhio, quando seguiva i combattimenti dei gladiatori, uno smeraldo concavo che gli serviva da occhiale.

Da lì numerosi testi divulgativi contribuirono a propagare lo sbaglio, che di fatto entrò a far parte del senso comune e, quindi, dato per scontato. Ciò è evidente anche da un'incisione di Emile Desbeaux del 1891 che mostra l'imperatore con il monocolo mentre segue i gladiatori insanguinati dall'alto dell'arena. Notate come, in quest'ultimo caso, lo specchio sia divenuto un monocolo. Secondo altre fonti, invece, Nerone era addirittura ipermetrope, perché ammiccava frequentemente.

Lo specchio concavo per ammirare le gesta dei gladiatori era comunque uno strumento d'ingrandimento abituale per i romani, e non va considerato un vezzo di Nerone. Che dunque non era miope.

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68) Propaganda di guerra 2


Le leggende sulle atrocità compiute dal nemico sono una costante di tutte le guerre combattute e ancora più di quelle moderne, in cui lo sviluppo delle comunicazioni ha permesso un livello di diffusione delle notizie inconcepibile fino a pochi secoli fa. La Prima guerra mondiale rappresenta, in questo senso, un vero e proprio spartiacque perché mai, fino ad allora, la propaganda si era dedicata con tanto zelo a costruire voci raccapriccianti sul nemico allo scopo di rinsaldare il consenso interno e favorire la rappresentazione dell'avversario come spietato.

Tra il 1914 e il 1918, tra i Paesi in lotta contro la Germania, la propaganda fu particolarmente efficace nel creare una serie di leggende spaventose riguardanti le "malefatte" dei soldati tedeschi. Molta fortuna ebbe la diceria secondo cui questi erano soliti tagliare le mani dei bambini belgi sia per impedire che potessero in seguito maneggiare un fucile sia per semplice crudeltà. Altre voci sostenevano che i tedeschi mutilassero le infermiere, chiudessero le miniere belghe per seppellirci vivi i minatori, tagliassero la lingua ai loro prigionieri.

Una leggenda che cominciò a diffondersi con molta persuasione verso la fine della guerra, e che poi si seppe essere stata messa in circolazione dal Servizio di informazioni britannico del generale Charteris, voleva che i tedeschi usassero i cadaveri dei loro nemici per farne glicerina, sapone e lubrificanti vari. La notizia contribuì a creare un clima di profondissimo odio nei confronti della Germania e fu creduta da tantissime persone che, perfino dopo la fine della guerra, giurarono sulla sua veridicità a dispetto dell'origine dichiaratamente propagandistica. La leggenda trasse alimento anche da un clamoroso errore di traduzione così riportato in un libro dello storico Cesare Bermani:

Carlo Rösner, tedesco, aveva pubblicato nel "Lokal Anzeiger": «Passiamo attraverso Evergnicourt. L'aria è greve come se fosse bruciata della calce. Gli è perché passiamo dinanzi alla Kadaververwertungsanstalt. Il grasso ricavato dai Kadaver si trasforma in olii lubrificanti e tutto il resto è macinato nel mulino delle ossa che, ridotte in polvere, vengono mescolate al cibo dei porci o usate come concime. La teoria che ispira il nostro esercito è che nulla deve andare perduto».

L'articolo di Rösner non si riferiva a cadaveri umani, ma a carcasse di animali. In tedesco, infatti, kadaver si riferisce ai corpi degli animali morti, mentre il cadavere umano si chiama leiche. La notizia fu però male interpretata dai giornalisti, non è chiaro se intenzionalmente o per superficialità, e contribuì ad avvalorare la credibilità della leggenda. Se gli stessi tedeschi parlavano di lubrificanti estratti dai kadaver, qualcosa di vero doveva pure esserci!

Si può aggiungere altro. Nonostante l'errore fosse stato fatto notare da più commentatori,

durante la guerra la contesa si era però ampliata «con l'intervento dei filologi delle due parti, gli uni a dimostrare che, sì, Kadaver in generale vuol dire carogna, ma che nel libro tal dei tali del secolo XVIII a pagina tale era usato anche per gli esseri umani, gli altri ad accusarli di essere bestie e di non aver capito mai nulla della Kultur germanica. I soliti testimoni senza nomi erano chiamati in causa, per confermare l'una o l'altra delle due versioni...

Per ironia della storia, la menzogna sui tedeschi che, durante la Prima guerra mondiale, ricavavano glicerina, sapone e burro dai cadaveri nemici, si trasformò in realtà nel corso della Seconda guerra mondiale. Pensiamo solo all'uso esteso dei forni crematori, agli esperimenti disumani praticati sui prigionieri dei campi di concentramento e allo sfruttamento massiccio dei cadaveri nei lager.

Chi credesse, poi, che l'invenzione di storie di atrocità sia cosa del passato, farebbe bene a ricredersi. Basti ricordare che, durante la prima guerra del Golfo, originata dall'invasione irachena del Kuwait, gli Stati Uniti, per giustificare il proprio intervento di fronte all'opinione pubblica americana, escogitarono la storia dei neonati kuwaitiani strappati dagli ospedali e fatti crudelmente morire; storia poi rivelatasi falsa, ma che permise, nel breve periodo, la costruzione di un clima favorevole all'entrata in guerra e soprattutto l'elaborazione dell'immagine degli iracheni come esseri impietosi e crudeli.

Da questo punto di vista, possiamo ben dire che la storia non ci ha insegnato niente, se non che gli esseri umani rimangono vittime sempre dei medesimi trucchi della propaganda.

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71) La crociata dei fanciulli che non erano fanciulli


Tra gli episodi più curiosi che hanno segnato quell'epopea straordinaria, immortalata da letteratura e cinema, conosciuta con il nome di èra delle crociate, contraddistinta, in parte, da un fortissimo anelito religioso e, in parte, da una brama cruenta di conquista e di soppressione dell'altro perché diverso, uno in particolare spicca per la sua evanescenza leggendaria, che ne ha fatto un caso storico ancora oggi dibattuto.

Si tratta di un fenomeno verificatosi nell'anno 1212 e comunemente noto come "crociata dei fanciulli": una crociata sui generis come non ce ne furono altre, i cui protagonisti hanno un'identità precaria anche agli occhi degli storici. Secondo la versione più documentata da studi recenti, in quell'anno migliaia di persone, lasciandosi alle spalle ogni cosa, decidono di partire dalla Germania alla volta di Gerusalemme con l'unica motivazione di eseguire la volontà di Dio. Li comanda un certo Nicola, un birraio ispirato dalla visione di un angelo che lo spinge all'azione e dalla convinzione che Dio separerà le acque dei mari per aiutare il gruppo nell'impresa così come aiutò gli ebrei a fuggire dagli egiziani. Il movimento non riesce a raggiungere i propri scopi. Lungo la strada dalla Germania al sud dell'Italia, si sfalda. Molti ci ripensano, altri ripartono delusi. Alla fine solo in pochi proseguono imperterriti, imbarcandosi a Brindisi per le terre degli infedeli, dove cadono vittime dei pirati e sono venduti ai saraceni. Parallelamente alla storia di Nicola, si snoda la storia di Stefano, un pastore francese che, ponendosi a capo di un folto gruppo di persone con le stesse motivazioni di Nicola, segue un destino simile a quello del correligionario tedesco, compresi sfaldamento della compagnia, delusione e ripartenza di molti crociati e imbarco (da Marsiglia però) con tanto di vendita dei superstiti ai saraceni.

In alcune fonti questi due movimenti si fondono in uno e acquistano un'aura leggendaria, cui contribuisce quella che è la caratteristica più dibattuta dalla storiografia: i partecipanti a queste crociate, per quanto incredibile possa sembrare, sono tutti bambini, mossi unicamente da un forte impulso religioso. Di qui il nome di "crociate dei fanciulli". Ma è proprio così? Come è possibile che dei bambini si muovano a migliaia mossi da aspirazioni troppo "adulte" per loro? Al giorno d'oggi è noto che i partecipanti non erano affatto bambini (come attesta la tradizione secondo cui, ad esempio, Stefano aveva appena dodici anni), ma pastori, pellegrini, poveri, diseredati. Come è nata allora la leggenda della "crociata dei fanciulli"?

Una delle ipotesi più accreditate è che ciò sia accaduto a causa di un errore di traduzione. Quando commentano lo status dei partecipanti a queste crociate, le cronache dell'epoca menzionano la presenza di pueri. Nel latino classico, puer vuol dire "bambino", "fanciullo" o "adolescente fino a 14 anni" Ma, nel Medioevo, come hanno dimostrato storici della fama di Philippe Ariès e Georges Duby , pueri indica non tanto un gruppo di età, ma una classe sociale composta da individui in posizione di dipendenza e sudditanza di qualsiasi età. Nelle campagne, poi, il termine indicava coltivatori e salariati rurali che, essendo esclusi dall'eredità familiare, si vedevano costretti a guadagnarsi da vivere altrove. Insomma, individui marginali che costituivano però una fetta importante della popolazione rurale. Se ci pensiamo bene, il significato non legato all'età di pueri sopravvive ancora oggi: basti pensare al termine "ragazzo" utilizzato in locuzioni come "ragazzo di bottega" che può riferirsi anche a uomini adulti. O al francese garcon e all'inglese boy, anch'essi adoperati a prescindere dall'età.

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74) Missione compiuta! Ma era un errore di traduzione


È ricordato come il più violento bombardamento contro un edificio accaduto durante la Seconda guerra mondiale. Si tratta della distruzione del Monastero di Montecassino, avvenuta il 15 febbraio 1944 da parte delle forze alleate convinte che al suo interno si nascondesse un battaglione tedesco. Risultato: monaci salvi, ma diverse centinaia di profughi, che avevano trovato rifugio nel monastero, uccisi. E soprattutto raso al suolo il più glorioso monastero dell'Occidente, costruito nel 529 da san Benedetto, che vi scrisse la sua famosa Regola, e sopravvissuto nei secoli alle incursioni di Longobardi, Saraceni e Normanni, nonché a un terremoto nel 1349.

Ma perché il monastero? Perché si trovava nella città di Cassino che, tra la fine del 1943 e l'inizio del 1944, era diventata un nodo difensivo strategico per i tedeschi che tentavano di bloccare l'avanzata degli Alleati verso Roma. «Il motivo per cui è stata bombardata» spiegò il presidente americano Roosevelt poche ore dopo la distruzione, «è che i tedeschi se ne servivano per bombardare noi. Era un caposaldo tedesco, con artiglieria e tutto il necessario». Anche in seguito, gli Alleati confermarono la presenza di truppe tedesche all'interno del monastero. Una tesi che sostennero anche dopo la guerra e che era supportata da "prove inconfutabili" da rivelare solo al momento opportuno. Quali erano queste prove inconfutabili? Una in particolare, come rivelò il colonnello David Hunt, divenuto in seguito Sir David Hunt, diplomatico e segretario personale di Winston Churchill, uno dei protagonisti dell'episodio. L'intercettazione di un messaggio tedesco composto da una domanda: «Ist Abt noch im Kloester?» ("L'abate è nel monastero?") e una risposta: «Ja in Kloster mit Monchen» ("Sì, nel monastero con i monaci"). Per un tragico errore, un ufficiale troppo sospettoso aveva inteso la parola abt ("abate") come abbreviazione di abteilung ("battaglione"), spacciando il messaggio per la prova definitiva che i tedeschi, in violazione dell'accordo con il Vaticano di considerare l'edificio zona neutra, fossero asserragliati nel monastero insieme ai monaci. Di qui la decisione di radere al suolo l'abbazia. Il colonnello Hunt raccontò di essersi reso conto dell'errore a bombardamento già iniziato, quando ormai era troppo tardi per fermare l'operazione. Ironia della sorte, le rovine del più vecchio monastero del mondo servirono ai tedeschi come roccaforte difensiva, tanto che occorsero altri tre mesi di combattimenti feroci, con conseguenti ulteriori perdite umane, perché gli Alleati riuscissero ad allontanare definitivamente i loro nemici.

In seguito, l'abate in persona, Gregorio Diamare, sopravvissuto al bombardamento – che ebbe il merito, fra l'altro, di porre in salvo l'archivio e i più preziosi documenti bibliografici custoditi nell'abbazia – assicurò che nessun soldato tedesco aveva mai occupato l'edificio. Ma ormai il peggio era accaduto.

Negli anni Cinquanta l'Abbazia fu ricostruita e ancora oggi costituisce meta privilegiata di pellegrini e visitatori interessati alla sua storia. L'episodio del bombardamento del monastero rimarrà, tuttavia, perennemente nella storia a futura memoria degli orrori della guerra: orrori che stravolgono vite, monumenti, interi Paesi. E anche traduzioni. Forse, con più tranquillità, nessuno avrebbe pensato che abt in quel contesto fosse l'abbreviazione di abteilung, invece della mite parola che significa "abate". Ma in guerra il nemico si nasconde dietro ogni parola e spesso la sua voce è interpretata secondo le aspettative di chi lo combatte piuttosto che secondo ragione. Come impararono, a proprie spese, le circa 250 persone che morirono nel corso del bombardamento e le oltre 4.000 che furono uccise nel corso della battaglia di Montecassino per poi essere sepolte nel locale cimitero di guerra.

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Pagina 170

82) La piazza che era bella e che divenne rossa


La Piazza Rossa di Mosca è considerata la più importante non solo della capitale, ma dell'intera Russia. Su di essa sorge la splendida Cattedrale di San Basilio e chiunque vada a Mosca considera obbligatorio farvi visita. Altri importanti monumenti sono il Museo di Storia russa e il Mausoleo di Lenin. Da essa poi originano le principali strade di Mosca. La piazza infine è adiacente al muro orientale del Cremlino.

Ci si potrebbe a questo punto domandare perché si chiami "Piazza Rossa". La prima risposta, la più spontanea, collega il rosso della piazza a quello dei simboli del comunismo (come la bandiera rossa). Ma è errata. Si crede infatti che la piazza abbia acquisito il suo nome attuale nel XVII secolo, quando il comunismo ancora non c'era. Un'altra risposta, anch'essa errata, rimanda al colore rosso di molti edifici che circondano la piazza. La soluzione ha a che vedere con un errore di traduzione, ormai secolare, diffusosi in tutto il mondo.

L'aggettivo che significa "rosso" è krasnaja che, però, in russo arcaico significa anche "bella". L'aggettivo fu prima adoperato per l'adiacente Cattedrale di San Basilio, per poi passare a descrivere la piazza stessa nel XVII secolo. Il nome precedente era Požar, che significa "posto bruciato", e ha origine dal fatto che intorno alla piazza erano stati costruiti edifici in legno che bruciavano facilmente in occasione di incendi. La traduzione corretta di Krasnaja Ploshchad (questo il nome della piazza in russo) dovrebbe dunque essere "Piazza bella", come è confermato anche dalle testimonianze in Internet di persone di madre lingua russa che affermano di non pensare al colore rosso quando leggono il nome della piazza.

Ciò che sorprende è la rapidità immodificabile con cui l'errore si è diffuso in tutto il mondo, dando vita a quello che è probabilmente uno dei più "produttivi" errori di traduzione della storia. Non sono mancati nel passato tentativi di chiamare la piazza col suo vero nome. Nel 1805, ad esempio, il libro di un francese, Heinrich Friedrich C. Clausen, dedicato alla storia della Russia, chiama Beautiful square ("Piazza bella") la Piazza Rossa di Mosca (ho consultato l'edizione inglese). Simili testimonianze si trovano anche nelle memorie di altri viaggiatori europei.

Questo significa che molti avevano consapevolezza di quale fosse il nome corretto della piazza più famosa di Mosca. Il loro esempio però non fu contagioso.

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Pagina 230

111) Il colmo degli errori di traduzione


Qual è il colmo degli errori di traduzione? Non lo immaginate? Ce lo dice il filologo Maurizio Bettini , autore di un magistrale saggio sulla traduzione nelle culture del passato, intitolato Vertere, pubblicato da Einaudi. Per non farla troppo lunga, il colmo degli errori di traduzione è che... il significato attuale del verbo "tradurre", inteso come "volgere da una lingua all'altra", deriva da un clamoroso errore di traduzione.

Ecco la storia completa dell'errore, narrata da Bettini nelle prime due pagine del suo saggio. Tutto comincia con l'erudito Marco Terenzio Varrone , vissuto prima di Cristo, che una volta rimproverò il maestro Lucio Elio Stilone Preconino, grande grammatico e filologo romano, per aver affermato che la parola lepus ("lepre") derivava la propria etimologia da levis pes ("piede leggero"). Il rimprovero era dovuto al fatto che, secondo Varrone, la parola lepus non era un termine romano, bensì un prestito dal greco. La vicenda è riferita da Aulo Gellio , vissuto nel II secolo d.C., nella sua opera più nota, Le notti attiche , con queste parole:

Nel libro XIV delle sue Antichità divine, Marco Varrone ha mostrato che Elio Stilone [...] sbaglia quando prende per una parola latina originale un antico vocabolo greco introdotto (traductum) nella lingua dei Romani.

Notate che in questo brano traductum significa "introdotto". Sennonché, quando l'umanista Leonardo Bruni, oltre mille anni dopo Aulo Gellio, si trovò di fronte il brano appena citato, fraintese traductum, forse confondendolo con translatum, e lo rese non con "introdotto", come avrebbe dovuto fare correttamente, ma con "tradotto". Non solo, ma da allora prese a usare sistematicamente traducere nel senso di "tradurre", significato che nella lingua latina non aveva mai avuto. Da questa svista ebbero origine in seguito l'italiano tradurre, il francese traduir, lo spagnolo traducir e il portoghese traduzir. Per un gioco del destino, quindi, la stessa esistenza del verbo "tradurre", che diamo per scontata e pacifica, deriva da un errore di traduzione, compiuto da un singolo individuo, poi propagatosi a macchia d'olio in tutto il mondo occidentale! Sorprendente, no?

Se adottata come metafora, questa storia insegna che la traduzione è un'attività faticosa, perché rimanda costantemente all'idea di trasportare un oggetto pesante e ingombrante, quale può essere una parola, da un luogo (linguistico) a un altro. Non dovrebbe allora stupire che, nel corso del trasporto, qualcosa possa accadere: l'oggetto può cadere e rompersi (le parole sono molto fragili); coloro che eseguono il trasporto possono affaticarsi o essere inadatti all'opera; un ostacolo imprevisto può frapporsi tra i due luoghi; qualcuno può infastidire o distrarre i trasportatori e così via. Gli intralci sulla via della traduzione sono molteplici e non sempre prevedibili.

Bisogna tenerne conto, ma non mollare mai. La posta in gioco è importante. Si chiama "possibilità di comunicare".

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