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| << | < | > | >> |Indice3 Introduzione 5 I La democrazia come governo del popolo - Una nuova crisi della democrazia?, 5 - La democrazia metro di misura dei sistemi politici, 8 - «Dal popolo viene la forza», 10 - La crisi dei partiti, 14 - Elezione e referendum, 17 - Maggioranza, minoranza più forte, unanimità, 20 - Come ascoltare il popolo: le formule elettorali, 23 - La retorica parlamentarista, 25 27 II Quanto democratico è uno Stato democratico? - Le componenti aristocratiche dello Stato democratico, 27 - Casta o élite?, 32 - Democrazia senza amministrazione?, 36 - Le politiche di riforma amministrativa, 38 - La democrazia contro la democrazia, 41 47 III Le difficoltà della democrazia - Se lo Stato è in crisi, è in crisi anche la democrazia?, 47 - Le privatizzazioni minano la democrazia?, 49 - La corruzione minaccia anche le democrazie, 52 - Le diseguaglianze possono minacciare la democrazia, e quest'ultima minacciare se stessa?, 54 57 IV I contropoteri - Il limite del diritto, 57 - La giustizia costituzionale, 61 - I giudici e le procure, 64 - Controllo del potere e contropoteri nella Costituzione e nella sua riforma, 68 - Il bicameralismo: a che serve?, 71 75 V Al di là della democrazia - Il contesto nazionale. Walk out e secessione, 75 - Le interdipendenze, 77 - Con la globalizzazione scompare la democrazia?, 79 - Costituzione, democrazia e legalità nella dimensione globale: il diritto dei popoli alla democrazia, 82 - L'Europa che ci controlla: il vincolo esterno, 86 - L'Unione europea guardiano delle democrazie nazionali, 90 - Il deficit democratico europeo, 91 95 VI Le prospettive odierne - Religione e diritto secolare, 95 - Terrorismo e democrazia, 98 - Come ampliare la democrazia? La democrazia «deliberativa», 99 - Le primarie, 103 - Lo Stato: una fabbrica composita, 104 - Per concludere, 106 109 Nota sul libro e riferimenti bibliografici |
| << | < | > | >> |Pagina 3Sono molti i libri sulla democrazia. Non tutti, però, la considerano nel suo funzionamento reale, calata nella vita dello Stato, in relazione alle altre componenti dei poteri pubblici, in conflitto con giustizia, autorità, efficienza, nella teoria e nella pratica del governo. Ecco la ragione di queste riflessioni, al centro delle quali sta l'interazione tra l'elemento democratico dei sistemi politici contemporanei e gli altri elementi che compongono questa struttura complessa che chiamiamo Stato, nonché tra la democrazia nazionale e gli ordini giuridici sovranazionali. L'accento è sui limiti, perché, se la democrazia è un limite del potere, essa è a sua volta limitata, sia per la sua intrinseca natura, sia per l'azione di altre forze. I limiti, dunque, che sono qui passati in rassegna sono di natura diversissima: alcuni intrinseci, altri provenienti dalle varie componenti dei sistemi di governo con cui la democrazia deve convivere; alcuni necessari, altri eventuali; alcuni di fatto, altri di diritto; alcuni imposti, altri occasionali; alcuni di segno negativo (nel senso che privano la democrazia di una parte della sua forza), altri di segno positivo (nel senso che arricchiscono la democrazia). La democrazia è lo strumento del «governo limitato». Da un lato, la sovranità popolare, su cui si fonda la democrazia, è un mezzo per limitare i poteri pubblici. Dall'altro, la stessa sovranità popolare non può penetrare ovunque, non è fonte di un potere illimitato (come si spiegherà più avanti, la Costituzione italiana dispone che essa si eserciti nelle forme e nei limiti della Costituzione: non potrebbe, per esempio, dar luogo a discriminazioni che vìolino il principio di eguaglianza). Dunque, il tema dei limiti che la democrazia pone e di quelli che essa incontra è essenziale per la sua comprensione. | << | < | > | >> |Pagina 5Ad Atene era appena stata restaurata la democrazia quando, con decisione popolare, fu messo a morte Socrate. È possibile che dietro le accuse ufficiali si celasse l'accusa politica di essere nemico della democrazia e di simpatizzare per l'oligarchia. Diogene Laerzio, nelle "Vite e dottrine dei più celebri filosofi", racconta che, subito dopo, gli ateniesi se ne pentirono, tanto da chiudere palestre e ginnasi in segno di lutto, da esiliare due degli accusatori e condannare a morte il terzo, Meleto. Onorarono poi Socrate con una statua di bronzo lavorata da Lisippo, che posero nel «Pompeion». Quando Anito, uno degli accusatori, andò a Eraclea, il giorno stesso i suoi abitanti lo bandirono. Dunque, il popolo può sbagliarsi e in nome della democrazia possono prendersi decisioni pericolose per la vita dei cittadini. Più tardi, i francesi distingueranno tra «peuple» e «populace», tra il popolo, soggetto collettivo nobile, e il popolo - massa plebea, non istruita, grossolana, che agisce senza ragione. Una nuova crisi della democrazia? Il referendum costituzionale italiano del dicembre 2016 è stato vinto da oltre 19 milioni di votanti, che rappresentano solo il 37 per cento dell'elettorato. Donald Trump è stato eletto quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti nel novembre 2016 solo con un quarto dei voti dei cittadini americani. Al referendum sull'appartenenza all'Unione europea svoltosi nel giugno 2016 nel Regno Unito ha optato per uscire il 52 per cento del 72 per cento degli aventi diritto al voto. Non una maggioranza, ma una minoranza, ha così preso una decisione le cui conseguenze riguardano l'intera Europa e non erano state messe in conto né dai favorevoli, né dagli avversari dell'uscita dall'Unione. Lo stesso può dirsi per il presidente turco Erdogan: eletto nel 2014 dal 52 per cento del 76 per cento degli aventi diritto al voto, nel luglio 2016 ha imposto rigide limitazioni sulle opposizioni, con effetti gravi sia per le minoranze interne, sia per l'Europa e per l'equilibrio politico di questa parte del mondo. Solo circa metà dei 193 Stati del mondo è governata in forma democratica. Nei Paesi sviluppati circa un quarto dell'elettorato si astiene dal voto. In Italia la partecipazione politica, all'inizio della storia repubblicana superiore al 90 per cento, è scesa nel 1980 al di sotto di tale percentuale, nel 1992 era poco al di sopra dell'87 per cento, nel 2010 era ormai inferiore al 64 per cento. Dalla democrazia dei partiti si è passati ai partiti «liquidi». In Italia, recentemente, d'un colpo è emerso un movimento di ribellione che coinvolge un quarto dell'elettorato. Sempre nel nostro Paese, in centocinquant'anni si sono succedute dodici formule elettorali. L'ultima, scelta nel 2015, è già contestata prima ancora di essere sperimentata. Questi sono segnali preoccupanti, che riguardano il funzionamento sia della democrazia diretta (i referendum), sia della democrazia indiretta (le elezioni). Da molte parti tali segnali vengono, anzi, drammatizzati. Si registrano crisi, disillusione, tradimento, incompiutezza della democrazia. Questa avrebbe esaurito il suo capitale di fiducia, rimanendo come una costruzione di facciata. Il demos avrebbe perso la partita nei confronti delle oligarchie. Alla società passiva si accompagnerebbero paternalismo statale, spostamento del baricentro dei poteri pubblici dal legislativo, che rappresenta il popolo, all'esecutivo, in cui prevale l'elemento oligarchico. Dunque, gli organismi rappresentativi sarebbero in crisi, con il pericolo di autoritarismi di tipo nuovo, verticalizzazione del potere, presidenzialismi di fatto, collasso dei corpi intermedi (specialmente partiti e sindacati). La politica, da strumento per imporre l'osservanza delle leggi, sarebbe divenuta lo strumento per derogare alle leggi. Vi è chi vede in questo un disegno di «plutocrazie» internazionali, di tecnocrazie sottratte a ogni controllo popolare, con una solida base nel mondo della finanza globale. Viene ricordata l'irridente frase di Bertolt Brecht: il governo dovrebbe sciogliere il popolo ed eleggerne un altro. La passione e la retorica di chi drammatizza non aiutano, però, a capire quel che succede e rischiano di oscurare i veri problemi. | << | < | > | >> |Pagina 10«Dal popolo viene la forza»«Il diritto è l'unione della luce con la forza. Dal popolo viene la forza, dal governo la luce», ha scritto Antoine Rivarol. Più tardi, Alexis de Tocqueville, in De la Démocratie en Amérique, del 1835, scrive: «le pouvoir social doit émaner directement du peuple». Un trentennio dopo, il presidente americano Abraham Lincoln affermò: «government of the people, by the people, for the people». Questa triplice specificazione di «people» non era, nel discorso di Gettysburg del 1863, espressamente riferita alla democrazia, ma così è stata intesa: la democrazia è «governo del popolo, dal popolo, per il popolo». Questa celebre definizione di democrazia rimanda al diritto romano: «quod omnes tangit ab omnibus approbetur» («ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti»). Una massima che dal diritto romano è passata a quello canonico, per arrivare fino ai nostri giorni. I padri fondatori della democrazia americana, persone colte, riuscirono a traslare nel mondo moderno quei concetti classici. Questa semplice definizione pone non pochi problemi. In primo luogo, da chi è composto il popolo? Poi, come si organizza? In terzo luogo, è proprio il popolo, direttamente, che fa sentire la sua voce nella democrazia? Infine, come fa sentire la propria voce il popolo? Il popolo è composto dalla comunità che risiede su un territorio. Ma, a dispetto di tutti quei movimenti che hanno valorizzato nel corso del XIX e del XX secolo l'idea di comunità (l'ideologia del self-government inglese, nella sua reinterpretazione tedesca; il pensiero socialista, fino ad arrivare ai soviet e alla «comunità di lavoratori e di utenti» consacrata persino nella Costituzione italiana; l'orientamento cattolico verso la comunità in funzione antistatale), il popolo che risiede su un certo territorio è molto diviso. Fino a un passato relativamente recente, la seconda metà del XIX secolo, negli Stati Uniti, una piena appartenenza al popolo era esclusa per gli schiavi. Fino agli anni Quaranta del XX secolo, in Francia e in Italia le donne non potevano votare. Erano considerate, in Italia, fino al 1946, parzialmente incapaci: oltre a non poter votare, non potevano fare i giudici, né potevano accedere alle cariche più importanti (prefetto, ambasciatore, per esempio). Nel 1925 una legge permise loro di votare, ma solo a livello locale per eleggere i rappresentanti comunali. Questa legge, del resto, non fu mai applicata perché, subito dopo, il fascismo tolse carattere elettivo alle cariche locali. Ora il problema si ripropone a causa della convivenza sullo stesso territorio nazionale di molte persone nate in altre nazioni e raramente «naturalizzate»: un terzo della popolazione in Libano, un quarto in Australia, un quinto in Canada, più di un sesto in Austria, Svezia e Belgio, più di un decimo in Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti è composto di persone nate in altri Paesi, definiti migranti o rifugiati. Nel 1960 coloro che vivevano in un Paese diverso da quello di nascita erano 77 milioni; nel 1990 erano 150 milioni; nel 2013 232 milioni; nel 2015 244 milioni (più del 3 per cento della popolazione mondiale), di cui 136 milioni nei Paesi sviluppati. In Italia gli stranieri residenti legalmente sono circa 5 milioni (8,1 per cento della popolazione residente). Sono il 10,8 per cento degli occupati, il 9 per cento degli alunni nelle scuole, l'8,2 per cento degli imprenditori, l'8,5 per cento dei contribuenti (e contribuiscono al 5,6 per cento del totale dei redditi dichiarati e al 5 per cento delle entrate contributive). Ora, queste persone sono stanziate su un territorio, ma solo in pochi casi sono integrate nella comunità di origine di quel territorio e, principalmente, non godono dei diritti di cittadinanza o dei diritti politici. Quindi non fanno parte del popolo su cui si fonda la democrazia. Subiscono gli effetti delle decisioni prese dalle comunità in cui vivono, senza poter partecipare alla formazione di tali decisioni. | << | < | > | >> |Pagina 14La crisi dei partitiIn secondo luogo, il popolo che compone collettività vaste come quelle statali - oscillanti tra cinque e diverse centinaia di milioni (le nazioni hanno dimensioni molto diverse tra loro) - non potrebbe manifestare la propria «volontà» se non fosse organizzato. Di qui i partiti come associazioni istituite allo scopo di definire le politiche e - come si dice - trasmettere la «volontà del popolo» al potere pubblico, competendo tra di loro. Sorti come movimenti sociali dai confini labili, divenuti poi partiti-organizzazione, e talvolta partiti-chiesa, oggi i partiti sono in crisi quasi ovunque. La loro base (gli iscritti) si è fortemente ridotta (nell'immediato dopoguerra i tre principali partiti italiani contavano 4 milioni di iscritti, oggi il maggior partito ne ha meno di 400 mila) sia a causa della disgregazione del capitale sociale, sia perché i votanti preferiscono stipulare contratti di breve durata, invece di mantenere a lungo affiliazioni politiche. [...] Questo indebolimento dei partiti come strumento di formazione della domanda politica (elaborazione di ideologie, di programmi e di piattaforme elettorali) e di cinghia per la sua trasmissione si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato. Dunque, l'indebolimento della macchina del partito-organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno a esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente. | << | < | > | >> |Pagina 23Come ascoltare il popolo: le formule elettoraliIl popolo non può esprimersi in assemblee o in altro modo. Si esprime individualmente con voti su decisioni da prendere (referendum) o su persone da scegliere. Questi ultimi servono a indicare persone e vanno tradotti in seggi. Di qui l'importanza della formula elettorale, quella che interpreta i voti e li fa diventare seggi parlamentari. Le leggi elettorali sono norme molto complesse, ma al loro centro sta la formula elettorale, quella che chiamiamo per esempio proporzionale o maggioritaria. [...] Un esame comparato delle origini dei sistemi elettorali ha consentito di concludere che «electoral systems are fairly durable institutions» e che «they may not be unalterable aspects of political life, but, once chosen, they tend to stay chosen». Invece, in un secolo e mezzo l'Italia ha sperimentato dodici diverse formule elettorali. Questo semplice fatto rivela l'instabilità del rapporto tra classi dirigenti e società, per cui giustamente è stato rilevato che vi è una «cyclical salience of electoral reform», con una continuamente rinnovata «autodefinizione delle regole del gioco». L'ultimo periodo, quello repubblicano, si divide in due fasi. Nella prima, la formula elettorale ha affidato alla popolazione la scelta del Parlamento, non quella del governo. Nella seconda, a partire dal 1993, alla popolazione si è voluta affidare anche la scelta del governo. Il fattore determinante della svolta è stato l'atteggiamento nei confronti dei partiti. Nella prima fase erano i partiti che sceglievano le alleanze e, quindi, i governi. Donde la cosiddetta «partitocrazia». Nella seconda fase i partiti sono stati espropriati del potere di formare essi stessi i governi. La situazione presente è dominata dal paradosso: i partiti, cacciati dalla porta, sono rientrati dalla finestra, prendendosi il potere di scegliere i parlamentari. Di qui un rovesciamento delle parti: il popolo sceglie coalizioni e governo, i partiti scelgono i parlamentari. | << | < | > | >> |Pagina 54Le diseguaglianze possono minacciare la democrazia, e quest'ultima minacciare se stessa?I rapporti tra democrazia ed eguaglianza sono stati sempre critici. La democrazia degli antichi, che escludeva gli schiavi, o quella americana dei tempi di Tocqueville, nella quale gli Stati del Sud non concedevano diritti politici agli afroamericani, erano democrazie incomplete o non democratiche. Ma non è solo l'eguaglianza in senso formale a minare la democrazia. Anche le differenze di reddito e quelle di istruzione hanno su di essa una forte influenza. Questo è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove la politica richiede grosse disponibilità economiche e le grandi multinazionali hanno maggiore ascolto nel governo rispetto alle piccole imprese (si pensi soltanto al modo in cui il governo federale ha preso le difese di Apple quando questa è stata messa sotto accusa dalla Commissione europea per il trattamento fiscale privilegiato ottenuto dal governo irlandese). Un'ultima minaccia alla democrazia viene dalla sempre crescente richiesta di democrazia, in particolare quella diretta. La tentazione dell'illimitata democrazia corre il rischio di corrompere la stessa democrazia. Il «fondamentalismo democratico» e le smisurate ambizioni democratiche rischiano di favorire la tirannia di piccoli gruppi, oppure di favorire decisioni popolari ma dannose. Si pensi soltanto al ricorso ai referendum in California, dove sono stati revocati rappresentanti eletti, diminuite imposte, rigettate leggi e scritte nuove leggi. Ciò ha provocato periodiche crisi finanziarie di uno Stato peraltro ricco. Più democrazia, osservano alcuni studiosi tedeschi, può voler dire favorire gli interessi di breve periodo o quelli di singoli gruppi più attivi e minare la democrazia rappresentativa, oppure il Gemeinwohl, quello che potremmo chiamare l'interesse comune sul lungo periodo. | << | < | > | >> |Pagina 86L'Europa che ci controlla: il vincolo esternoFin da quando il Parlamento europeo non era ancora eletto a suffragio diretto dai cittadini, si lamenta il deficit democratico dell'Unione europea. La critica secondo la quale l'Unione non sarebbe un potere pubblico democratico concerne tre diversi argomenti, il primo riguardante i condizionamenti che dall'Unione derivano alle democrazie nazionali, il secondo relativo al ruolo dell'Unione come guardiano delle democrazie nazionali, il terzo attinente alla scarsa rappresentatività degli organismi dell'Unione. In primo luogo, l'Unione europea condiziona gli Stati, per esempio attraverso il divieto di disavanzi pubblici, l'obbligo di pareggio del bilancio, il coordinamento e la sorveglianza sulle finanze pubbliche statali. Così incide sull'ammontare di spese ed entrate, e, indirettamente, anche sulla destinazione delle risorse da parte degli Stati. In questo modo li espropria, ne limita la sovranità, pone in dubbio, in virtù di decisioni prese a livello sovranazionale, la «volontà popolare» liberamente espressa dagli organi rappresentativi nazionali? Questo è il punto di vista di chi esamina il problema senza vedere quale arricchimento per la democrazia derivi da questi limiti (i cosiddetti «vincoli esterni»). Se la democrazia, in ultima istanza, punta a limitare il potere, la circostanza che governi nazionali debbano rispondere non solo ai loro elettorati, ma anche ad altri popoli e governi europei, con i quali ha deciso di unirsi in un «condominio», costituisce non un limite alla democrazia, bensì un suo arricchimento. Una democrazia concepita soltanto in termini verticali (popolo nazionale - suoi rappresentanti) impedisce di comprendere quella che è stata chiamata «horizontal accountability». Quest'ultima, per esempio, consente all'Unione europea di mandare alla Polonia un «avviso sullo Stato di diritto», per chiedere spiegazioni sulle riforme varate da quel Paese, che pongono in dubbio - tra l'altro - l'indipendenza della Corte costituzionale polacca. Questo vuol dire che ogni governo è circondato da altri organismi politici, dai quali era prima separato e ai quali non doveva rendere conto; che esso deve rendere conto non solo al proprio popolo, ma anche agli altri governi e alla Commissione europea. È naturale che su questi difficili rapporti orizzontali si innestino anche problemi di tipo nazionalistico, come quelli tra Germania e altri Paesi europei, questa volta in senso diverso dal «dissidio spirituale della Germania con l'Europa», segnalato da Benedetto Croce nel 1944. La «horizontal accountability» è emersa in particolare nel 2015, in relazione alla questione del deficit di bilancio greco. Due frasi sono rivelatrici: quella pronunciata dal ministro tedesco dell'Economia («il governo greco ha fatto di tutto per perdere la nostra fiducia») e quella ripetuta due volte nelle prime dieci righe del comunicato dell'Eurosummit del 12 luglio 2015 («il bisogno di ricostruire la fiducia con le autorità greche»). Dunque, un governo non deve avere solo la fiducia del suo popolo, ma anche quella degli altri governi europei. Il rapporto di legittimazione e di accountability che lega governanti e governati si estende anche, orizzontalmente, ai membri di quel grande «condominio» che è l'Unione europea. Questa non è la fiducia che un debitore deve dare al suo creditore. Non conta solo l'economia. Nella proposta greca, approvata a Bruxelles il 12 luglio 2015, non si parla solo di finanza, ma anche del codice di procedura civile, della modernizzazione della pubblica amministrazione, della sua depoliticizzazione, della indipendenza dell'Istituto ellenico di statistica. Insomma, quell'accordo penetra nel cuore dello Stato, non riguarda solo il debito e le condizioni finanziarie. La stessa proposta greca di accordo, quella del 9 luglio 2015, proponeva un nuovo Stato, si estendeva alla giustizia, agli strumenti anticorruzione, ai contratti pubblici, al mercato del lavoro, alla disciplina delle professioni. La trama istituzionale di questa matassa imbrogliata (due salvataggi, un terzo iniziato nel 2015; una elezione greca con nuovo governo e diverso mandato; una richiesta europea, bocciata in apparenza dal referendum greco, seguito a ruota da una nuova proposta greca non meno pesante della richiesta di accordo appena bocciata) ha visto intrecciarsi rapporti «verticali» (popolo ellenico - governo) e rapporti «orizzontali» (governo greco - insieme dei governi europei). Essa ha messo in luce un dato istituzionale di base: i governi nazionali non sono più responsabili solo nei confronti dei loro popoli, ma anche nei confronti dei governi (e, indirettamente, dei popoli) degli altri Stati europei. Se l'Unione è un'associazione a mani congiunte, può dettare regole di comportamento per tutti i suoi membri, e richiedere di rispettarle. Per cui è sbagliato parlare di sovranità ferita e di democrazia umiliata, lamentare che l'accordo non è tra eguali, evocare i protettorati, sollecitare l'orgoglio nazionale. | << | < | > | >> |Pagina 90L'Unione europea guardiano delle democrazie nazionaliL'Unione europea non pone soltanto vincoli di carattere generale ai singoli Stati membri, ma condiziona anche il loro assetto democratico. L'art. 7 del Trattato sull'Unione europea vincola gli Stati al rispetto dei «valori» su cui si fonda l'Unione. Uno di questi è la democrazia. Se c'è un rischio di violazione grave della democrazia, il Consiglio europeo, procedendo con decisioni a maggioranze qualificate, sente lo Stato interessato, rivolge a esso raccomandazioni, lo invita a presentare osservazioni. All'unanimità, in caso di constatata violazione grave e persistente, può sospendere alcuni dei diritti spettanti allo Stato membro, compreso il diritto di voto nel Consiglio.
In questo modo, l'Unione europea isola dal resto dei
membri gli Stati che violano i «valori» fondamentali e comuni delle tradizioni
costituzionali. Dunque, la democraticità interna degli Stati è un problema che
riguarda tutti i Paesi europei, i quali sono intitolati a salvaguardare l'ordine
costituzionale europeo, in un sistema di assicurazione reciproca. Ne discende
che la democrazia è richiesta, imposta e protetta anche a livello
sovranazionale.
Il deficit democratico europeo
Il terzo problema, connesso con il primo e con il secondo, è quello della democraticità dell'Unione stessa. I critici, infatti, si chiedono se può un organismo in sé non democratico imporre regole agli Stati nazionali retti da democrazie. Per rispondere alla domanda, bisogna tener presente che l'Unione europea è composta di diversi elementi, quello strettamente comunitario (la Commissione e le due Corti), quello plurinazionale o popolare (il Parlamento), quello interburocratico (i Comitati), quello intergovernativo (il Consiglio). Questi elementi giocano tra di loro in modi complessi: per esempio, le decisioni vanno spesso prese dal Consiglio all'unanimità, non a maggioranza; le decisioni della Commissione sono frequentemente «a pacchetto» (come ricordato prima, ampliando le materie oggetto del negoziato, quando questo incontra difficoltà, in modo da farsi concessioni reciproche); l'attività della Commissione è fortemente procedimentalizzata e sottoposta al principio di trasparenza; larga parte delle decisioni europee è nelle mani delle amministrazioni statali, le sole che possono assicurarne l'esecuzione. Ma, principalmente, l'art. 10 del Trattato sull'Unione europea dispone che il funzionamento dell'Unione si fondi sulla democrazia rappresentativa. Il Parlamento europeo è eletto a suffragio universale dai cittadini europei. La legittimazione democratica è duale: attraverso i popoli degli Stati membri, rappresentati dai rispettivi governi, e attraverso i cittadini dell'Unione, rappresentati dal Parlamento. Tuttavia, i componenti della Commissione sono scelti dagli Stati membri e le sue decisioni comportano l'accordo del Consiglio europeo o del Consiglio dei ministri. Manca quindi una catena di trasmissione tra domanda popolare e politiche europee simile a quella nazionale. Il rapporto che si stabilisce tra il Parlamento europeo e l'esecutivo è diverso e meno immediato di quello sperimentato in sede nazionale, a causa della duplicità dei governi europei (Commissione e Consiglio) e del gran numero di materie da cui la Commissione è esclusa, essendo le decisioni rimesse al metodo intergovernativo e, quindi, al Consiglio. Questa ambiguità si spiega con la tendenza degli Stati-nazione a conferire compiti all'Unione, riservandosene però il dominio, attraverso il Consiglio. È un passo avanti, nel senso che quei compiti saranno poi gestiti non da ciascuno Stato in isolamento, ma in comunione con gli altri Stati. Ma conserva un comando statale sul loro svolgimento. Limita i poteri statali, ma anche li espande, nel senso che consente a ciascun governo nazionale di dire la sua sulla materia trasferita, anche se riguarda altri Stati. Di questa ambiguità sono segni ulteriori sia il referendum britannico (e quelli che potrebbero seguirlo) sull'appartenenza all'Unione, sia l'affermazione, usata dalla Corte costituzionale tedesca, secondo la quale gli Stati sono i «padroni dei trattati». Nell'uno e nell'altro modo si fa valere la sovranità statale per condizionare l'appartenenza all'Unione, oppure l'espansione dei suoi compiti, come se l'Unione stessa non potesse vivere di una vita propria e fosse una fisarmonica nelle mani del suonatore, che può ampliarne o ridurne la lunghezza e la forza. In conclusione, a limitazioni apparenti, che sono in realtà arricchimenti della democrazia, si affiancano ulteriori limiti provenienti dall'Unione, alcuni dei quali incidono proprio sull'assetto democratico degli Stati nazionali. Tuttavia, questi ultimi conservano il potere di esprimersi o collegialmente, nel Consiglio europeo, o singolarmente, con referendum nazionali o con il residuo dominio sulla espansione dell'Unione. La democrazia europea, insomma, è diversa da quella nazionale: appartiene a un altro tipo, più incompleto e ancora in sviluppo.
La situazione odierna è ritenuta in generale insoddisfacente. Per alcuni,
l'elemento detto erroneamente federalista dovrebbe espandersi, con conseguenti
limitazione dei poteri dei governi nazionali esercitati collettivamente nel
Consiglio e introduzione di un meccanismo pienamente
fiduciario tra Parlamento europeo e Commissione. Per altri, il popolo europeo
dovrebbe essere chiamato a esprimersi collettivamente, ciò che implicherebbe la
nascita di veri e propri partiti europei (quelli esistenti nell'attuale
Parlamento sono federazioni di partiti nazionali) e di referendum europei, in
cui si evidenzino maggioranze che possano prescindere da quelle che si formano
nelle singole nazioni. In questo modo si consoliderebbe una opinione pubblica
autenticamente europea, che contribuirebbe
ad alleggerire la pressione esercitata dalle singole nazioni.
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