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| << | < | > | >> |IndicePrologo IX Il pomo della discordia: può una macchina pensare? Il maratoneta 5 Un maratoneta a Cambridge, p. 5 - 'Entscheidungsproblem': la sfida del grande vecchio, p. 9 - La 'macchina universale', p. 12 - Ancora una volta secondo, p. 15 Golem. L'uomo crea l'uomo? 18 Mito e leggenda, p. 20 - Storia (e preistoria) degli automi, p. 24 - Un sogno antico, p. 29 Schede: Le prime macchine calcolatrici, p. 32 L'inventore irascibile e la figlia del poeta 35 Ada e Charles, p. 36 - Dal 'motore delle differenze' al 'motore analitico': dalla calcolatrice al computer, p. 39 - La prima progranunatrice al lavoro, p. 44 - Fra il sublime e il ridicolo: morte di un inventore, p. 47 Enigma 50 Il maratoneta e il mago, p. 52 - Matematico e agente segreto, p. 56 - Bletchley Park e l''Enigma', p. 59 - L''Asso' nella manica, p. 62 - Manhattan Project, p. 64 - Un dinosauro dal cervello di zanzara, p. 68 - Calcolatrici, calcolatori... o 'cervelli elettronici'?, p. 71 - Un bambino elettronico, p. 75 - Il 'gioco dell' imitazione' e la macchina ingannatrice, p. 77 Schede: Nasce il computer, p. 72 La mela morsicata - macchine che imparano, ragionano, comunicano Il gioco, palestra del pensiero 83 Azzurro profondo, color di sconfitta, p. 83 - Cosa non possono fare i computer?, p. 84 - Macchine per giocare, p. 87 - Il giocoliere prudente, p. 89 - 'Le leggi del pensiero': un messaggio dall'inconscio, p. 90 - Logica ed elettricità, p. 94 - Il teorema 'minimax', p. 98 - Giocatori che usano il 'fiuto'..., p. 100 - Giocatori che imparano, p. 102 - Giocatori che usano la forza bruta, p. 104 - Paura di giocare?, p. 108 Schede: Scacchi e computer, p. 106 Il 'ragionamento automatico': intelligenza o meccanismo ad orologeria? 112 Una disciplina orfana e senza casa, p. 113 - Morte di un mago, p. 114 - Turing: da eroe a criminale, p. 116 - La mela avvelenata: morte di un matematico maratoneta, p. 118 - I tre Re Magi dell'IA, p. 119 - Il 'teorico di logica', p. 121 - Un computer tuttofare, p. 124 - Gli altri tentativi, p. 126 - I primi successi e le prime delusioni, p. 128 - Sistemi esperti, p. 130 - Funzionano i sistemi esperti?, p. 133 - Sistemi (esperti) che imparano da sé, p. 135 - Un sistema esperto è intelligente? , p. 138 - Am, matematico autodidatta, p. 141 - Cyc: l'enciclopedia diventa persona?, p. 144 Leggere, parlare, ascoltare 148 Terapia al silicio, p. 149 - Parry, computer paranoico, p. 151 - Un miliardario adotta il test di Turing, p. 154 - Quando il vocabolario non basta, p. 157 - Un inglese a Palo Alto, p. 159 - Shrdlu, robot virtuale in un mondo di giocattoli, p. 161 - Dimmi perché parli, capirò cosa dici, p. 163 - Alfresco: varie modalità di comunicazione, p. 164 Dall'automa al robot 168 Il robot prima del robot: l'automa degli scrittori, p. 169 - Macchine simili ad animali, animali visti come macchine, p. 173 - Bambini prodigio e cannoni antiaerei, p. 180 - Timonieri e cervelli, p. 182 - Fra distrazione e furbizia, nasce la cibernetica, p. 186 - Tartarughe, topi, scoiattoli elettronici: un cyberzoo, p. 189 - Il robot operaio..., p. 190 - Robot e IA, p. 194 - Gli elefanti non giocano a scacchi, ovvero un insetto sconfigge Hal, p. 197 - Cog e Kismet: i nuovi bebè elettronici, p. 201 - Robot di oggi e di domani, p. 206 - Dove vivono i ricordi, p. 209 - 'Reti neurali': come costruire un cervello artificiale, p. 211 - Computer che ascoltano e parlano, che leggono e guardano, p. 215 - Algoritmi genetici: il programmatore è l'evoluzione, p. 220 - Vita artificiale: il fantasma nella macchina, p. 222 - Intelligenza distribuita: un tema forte della nuova IA, p. 224 - Verso i computer affettivi, p. 231 Schede: Androidi, robot e cyborg celebri della letteratura, del cinema e del fumetto, p. 174 - I primi esseri cibernetici, p. 191 - I primi robot operai, p. 192 - Robot umanoidi nel mondo, p. 204 Una mela matura? Verso la mente artificiale La guerra dell'IA 239 L'uomo in nero e la macchina del tempo, p. 240 - L'Intelligenza Artificiale è impossibile?, p. 543 - Il teorema di Gödel: l'impossibilità matematica dell'IA... e l'esistenza dell'anima, p. 245 - Dentro la stanza cinese: l'Intelligenza Artificiale è impossibile filosoficamente?, p. 252 - Moravec, de Garis e gli altri visionari: nascerà la 'superintelligenza'?, p. 257 - Bioetica dell'artificiale: è giusto creare la mente artificiale?, p. 263 - Epilogo: uno sguardo al futuro, p. 266 Schede: L'IA e le donne, p. 269 Bibliografia 273 Sulla carta, p. 275 - In rete, p. 278 Ringraziamenti 281 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Cambridge, primavera 1936. Un giovanotto dal corpo slanciato e l'aspetto goffo entra correndo nel viale del King's College. Calzoncini da maratoneta, scarpe da ginnastica, una maglietta non proprio impeccabile, una cartellina sotto il braccio: 'il Prof.', come lo chiameranno presto i vicini di casa, non ha l'aspetto che la gente attribuirebbe a un matematico. Eppure Alan Mathison Turing, ventiquattrenne bruno, solitario, deriso per la voce stridula e sgraziata, sta correndo in facoltà a consegnare un articolo grazie al quale un giorno verrà considerato scienziato fra i più geniali del secolo.
Lui non lo sa. Ma è soddisfatto, vuole festeggiare la
conclusione di un lavoro difficile. In copertina un titolo
incomprensibile:
Sui numeri computabili, con una applicazione
all'"Entscheidungsproblem".
Dentro, una scoperta matematica di rara bellezza.
L'idea della 'macchina universale'.
Alan Turing era giunto al King's College in maniera piuttosto anomala, e certo non era figura tipica di quell'ambiente di anime sofisticate: era appassionato di maratona, ciclismo, canottaggio, in una università in cui molti intellettuali disprezzavano l'attività fisica. Compariva spesso in facoltà con le unghie sporche o la barba incolta, alle ore più improbabili (anche di notte, e durante la guerra anche con il coprifuoco). Non era raro che indossasse la giacca del pigiama al posto della camicia, o che giocasse a tennis con un impermeabile sotto il quale non indossava nulla. Frequentava poco il circolo accademico, e quando lo faceva lasciava interdetti i colleghi allontanandosi di scatto, senza una parola, tutte le volte che la conversazione gli appariva poco interessante. Alan era così da sempre, e ciò gli aveva procurato difficoltà in ambito scolastico e accademico. Da bambino adorava passare le giornate inventando esperimenti di chimica, o a volte immobile nel prato «per guardar crescere le margherite», come disse la madre fra il divertito e il preoccupato. Mostrava capacità di intuizione straordinarie e leggeva moltissimo, ma le sue pagelle furono sempre pessime. Alle scuole medie l'insegnante di lettere, classificandolo ultimo della classe, scrisse: «Io posso perdonare la sua calligrafia, sebbene sia la peggiore che abbia mai visto, e posso tentare di accogliere in maniera tollerante la sua inesattezza costante, il suo lavoro trasandato e sporco. [...] Ma non posso perdonare la stupidità del suo atteggiamento verso una sana discussione sul Nuovo Testamento». In latino era penultimo, e il professore lo definiva «ridicolmente indietro». In scienze era valutato appena sufficiente, nonostante leggesse già gli articoli di Einstein sulla teoria della relatività e sapesse calcolare le orbite dei pianeti. Il preside scrisse alla madre: «è il tipo di ragazzo condannato a rappresentare un problema in ogni tipo di scuola o comunità». Risultato: Turing riuscì a diplomarsi a stento. Eppure nel 1931 entrò al King's College. Cosa era successo? Il miracolo si chiamava Christopher Morcom, ed era comparso nella vita di Turing nel 1928. Si erano conosciuti al corso di scienze. Christopher, un anno più grande di Alan, sembrava disegnato per incarnare i sogni di ogni professore e genitore nell'Inghilterra benpensante: mente brillante in ogni settore dello scibile, ragazzo impeccabile, elegante e ordinato, gentile, amabile, attraente. Fra i due poteva nascere solo odio o amore. Fu amore. | << | < | > | >> |Pagina 9'Entscheidungsproblem': la sfida del grande vecchioL'articolo di Turing rispondeva a una sfida mondiale lanciata dal matematico David Hilbert nel 1928: l' Entscheidungsproblem, o 'problema della decisione' (o anche problema 'della decidibilità'). La domanda all'apparenza era innocua: esiste sempre una maniera rigorosa di stabilire, 'decidere', se un certo enunciato matematico sia vero o falso? Che 1+1=2 sia una verità, o che l'equazione 2x5=O sia falsa, è immediatamente visibile a tutti. Ma è sempre così? Č sempre possibile capire, decidere se una proposizione matematica è vera o meno? Non è difficile trovare esempi di enunciati matematici di cui sia incerta la verità. Un caso famoso è quello della cosiddetta congettura di Goldbach, secondo la quale tutti i numeri interi pari, maggiori di 2, sono la somma di due numeri primi (ad es.: 4=3+1, 6=5+1, 8=5+3, 24=17+7, ecc.). Che ciò sia vero è stato verificato al computer per numeri pari enormi. Ma come sapere se è vero sempre, per tutti gli infiniti numeri pari che esistono? Fino a poco tempo fa, l'esempio più celebre di congettura di cui non fosse certa la verità era il cosiddetto ultimo teorema di Fermat. Fu dimostrato nel 1995 dall'inglese Andrew Wiles, con un lavoro di un centinaio di pagine difficilissime. Hilbert aveva proposto il problema della decidibilità assieme ad altri due altrettanto spinosi: quello della 'completezza' e quello della 'coerenza'. Interrogarsi sulla completezza della matematica significava per Hilbert porsi il quesito: siamo certi che non esistano in matematica enunciati veri ma non dimostrabili? E col problema della coerenza si chiedeva: come possiamo esser sicuri che la matematica non nasconda contraddizioni fra i suoi assiomi? Come possiamo dimostrare che non accadrà mai di ritrovarsi, partendo da un enunciato vero e compiendo solo passaggi matematici corretti, a un'assurdità del tipo 2+2=0? Nato nel 1862 a Königsberg (come Immanuel Kant), attuale Kaliningrad, Russia, David Hilbert, professore di matematica all'Università di Göttingen, era un ometto agile e sportivo, camminatore instancabile, amante del pattinaggio, giardiniere provetto, nonché figura centrale della matematica mondiale di inizio Novecento. Divenne celebre a ventisei anni, per un articolo rivoluzionario in un'area estremamente astratta nota come teoria degli invarianti. Ma Hilbert credeva nell'obbligo morale di occuparsi di ogni settore della propria disciplina. Scrisse: «Dobbiamo chiederci se la matematica stia per sperimentare ciò che altre scienze hanno visto accadere da tempo, ovvero il frammentarsi in sottodiscipline specialistiche i ricercatori di ciascuna delle quali si capiscono a mala pena l'un l'altro [...]. La scienza della matematica, come io la vedo, è un tutto indivisibile, un organismo la cui abilità di sopravvivere poggia sulla connessione fra le parti». E i suoi contributi, in effetti, spaziavano dalla fisica matematica al calcolo delle variazioni, dall'analisi funzionale alle equazioni integrali. Nel 1899 studiò gli assiomi della geometria e il suo libro, Fondamenti della geometria, fu giudicato da molti il più importante del settore dai tempi di Euclide. Verso il 1909, lavorando nell'ambito dell'analisi funzionale, concepì uno spazio vettoriale a infinite dimensioni che oggi ha importanza cruciale in fisica quantistica. Nel 1915, un anno prima di Einstein, ideò le equazioni di campo per la relatività generale, ma non rivendicò mai la priorità della scoperta. Non era la prima volta che Hilbert lanciava una sfida ai colleghi di tutto il mondo. Al primo congresso internazionale dei matematici, svoltosi a Parigi nel 1900, tenne una conferenza in cui tentava di prevedere quali sarebbero stati gli sviluppi della matematica nel ventesimo secolo. Li individuò in ventitré problemi, insoluti da anni o da secoli, e da lui giudicati di importanza cruciale. Nei decenni successivi le migliori menti matematiche gareggiarono per risolvere i quesiti di Hilbert. Non riuscirono in tutti: oggi i matematici aprono il secolo ventunesimo con l'amaro in bocca di non aver saputo concludere il compito affidato loro un secolo fa. Nel 1928, ormai venerato come grande vecchio delle scienze matematiche, Hilbert aveva rilanciato tre dei problemi, scelti fra quelli che riguardavano i fondamenti, le basi logiche di tutta la matematica: quello della coerenza, quello della completezza, quello della decidibilità. Nel 1931 il logico austriaco Kurt Gödel (di cui parleremo ancora) aveva chiarito i primi due. Cinque anni dopo un giovane sconosciuto di nome Alan Turing risolse il terzo quasi per gioco. Con una macchina immaginaria. | << | < | > | >> |Pagina 181800. In una Praga misteriosa e disperata un essere magico vive negli incubi e nelle storie sussurrate degli abitanti del ghetto. Non è un uomo, ma ha le sembianze di un uomo. Non è un uomo, ma è altrettanto pericoloso. Non è un uomo. Ma dall'uomo fu generato. Č Golem, il mostro d'argilla. Č Golem il giallo, il Magico, l'artificiale, la Statua Vivente. L'uomo creato dall'uomo, il fango che si fa vita, la macchina che diventa persona. «Mi misi a percorrere con lo sguardo le case stinte, che parevano accovacciate l'una di fronte all'altra come vecchi animali neghittosi nella pioggia. Che aria squallida e cadente avevano tutte. Stavan lì addossate senza criterio, come erbacce spuntate dal terreno. [...] Sotto il fosco cielo parevano giacere nel sonno, e nulla si avvertiva di quella vita perfida e ostile che talvolta par da esse emanare, quando la nebbia delle sere autunnali che ristagna nelle vie ne vela e dissimula la quasi impercettibile mimica. [...] E prende a sfilarmi nella mente tutta quella gente strana che abita queste case come fantasmi, come esseri - non nati da madri - che in quel che pensano e fanno sembrano consistere di tanti pezzi messi insieme a casaccio [...]. Inavvertita riaffiora in me la leggenda del Golem misterioso, la leggenda dell'uomo artificiale, cui un tempo un rabbino versato nella Cabalah, qui nel ghetto, diede forma dall'Elemento [...]. E come quel Golem s'irrigidiva a inerte fantoccio nell'istante medesimo che gli si togliesse dalla bocca la segreta sillaba della vita, così anche tutti questi uomini, temo, non possono che crollare a un tratto inanimati, sol che si cancelli dal cervello dell'uno quel certo misero concettucolo, quell'aspirazione di nessun conto, quell'inutile abitudine, da quello dell'altro semplicemente quella sorda attesa di qualcosa di indeterminato, d'inconsistente e labile affatto. Quale terribile, inesausto attendere, quale perenne stare all'agguato in queste creature!». Così in toni cupi e a tratti antisemiti, Gustav Meyrink, banchiere bavarese, racconta nel 1915 la storia inquietante e bellissima del Golem. Cinque anni dopo Paul Wegener e Carl Boese girano un omonimo film, altrettanto impressionante. Ma già Jacob Grimm, nel 1808, aveva narrato il mito dell'argilla che si fa vita, che ha radici antichissime, talmudiche. La parola 'golem' compare già nella Bibbia. Ma, come fosse temibile, è nominata una sola volta, al verso 16 del Salmo 139, che parla di Dio nel momento della Creazione: «Gli occhi Tuoi videro il mio golem e nel Tuo libro erano scritti tutti i giorni a me destinati, prima che ne esistesse uno». Cos'è questo golem, oggetto parte di me, uomo, su cui si posarono ai primordi del tempo gli occhi di Dio? «Imperfectum meum viderunt oculi tui», traduce san Girolamo, «i tuoi occhi videro il mio incompiuto». Golem è l'imperfetto, la forma embrionale, l'argilla che ancora deve essere plasmata e divenire persona, o il caos primordiale che sta per assumere struttura. Sebbene appena citata nei testi sacri, l'idea del golem, forma indecisa eppure umana, essere confuso e da plasmare, sembra scorrere sotterranea nell'immaginario collettivo per secoli, raccontata sottovoce, rielaborata in mille fogge, colorata di mille orrori. Ricompare in paesi diversi, leggenda metropolitana prima delle metropoli, durante tutto il Medioevo. Diventa il sogno affascinante e blasfemo di un Essere artificiale, creato dall'uomo e dal potere magico della cabala ebraica. Nel 1200 i cabalisti tedeschi parlano di due mistici che crearono dall'argilla una figura di uomo sulla cui fronte figurava la parola ebraica EMET, verità. L'uomo di fango parlò loro e disse: «Dio solo creò Adamo. E quando volle che Adamo morisse cancellò l'alef, prima lettera di EMET. Allora non rimase che MET, morte. Č ciò che dovete fare con me: non create un altro uomo, o il mondo soccomberà all'idolatria».
Secondo altri commentatori la formula magica completa
era «Elohim Emet», Dio è Verità. Tolta l'alef diviene: «Dio
è morto». Come a dire: l'uomo che crei artificialmente la
vita uccide la presenza di Dio, suscitando l'idolatria.
Il mito del Golem, come molti altri connessi alla creazione
di esseri artificiali, sarà sempre permeato da questa
ambivalenza: fascino e orrore, entusiasmo e paura. Anche
per questo l'IA è stata, sin dalla nascita, circondata dalla
polemica.
Il mito degli automi e degli umanoidi artificiali non era radicato soltanto nel mondo ebraico. La poesia greca narrava di Pigmalione che, scolpita la statua di una donna bellissima, se ne innamorò disperatamente. Gli dèi, commossi, diedero vita all'automa, e i due vissero felici e contenti. Omero invece racconta nell'Iliade della meravigliosa casa di Efesto, dio del fuoco, fabbro e artigiano, dove tavolini a tre gambe camminavano da soli per disporsi come meglio aggradava agli ospiti, e ancelle d'oro massiccio mescevano il vino. Ma è specialmente nel Medioevo che tali miti si diffondono in tutta Europa, assumendo connotazioni nuove. | << | < | > | >> |Pagina 29Macchine per calcolare, macchine per 'pensare', automi sono tre obiettivi diversi anche se cugini, e tutti precedenti al ventesimo secolo. Alan Turing segue un'idea che non è quella di costruire una semplice macchina per fare conti. Il suo sogno è quello, più ambizioso, di cercare di capire quali meccanismi si nascondano dietro il pensiero umano. Turing pensa la sua macchina universale programmabile come un semplice nastro di carta e un pennino, non soltanto perché nel 1936 nessuno sospetta l'avvento dell'elettronica, ma anche perché vuole dimostrare che il tipo di apparato, la sua forma, il materiale di cui è costruito non contano affatto. Nei decenni successivi questo sarà anche il progetto dell'Intelligenza Artificiale: dimostrare che l'intelligenza e il pensiero, una volta compresi e formalizzati, possono essere rappresentati (e ricostruiti) in linea di principio su infiniti tipi di macchina. Per ricreare una mente, diranno i sostenitori della cosiddetta IA 'forte', non conta l'hardware, cioè il supporto materiale (un cervello biologico, un chip di silicio), ma soltanto il software, il programma che descrive le funzioni da svolgere: secondo loro persino un libro di carta, opportunamente grande e opportunamente scritto, potrebbe rappresentare la mente di una persona, e quindi 'pensare'. Ma oltre duecentocinquant'anni prima, con un linguaggio del tutto diverso, un grande filosofo si era già proposto l'obiettivo ambizioso di comprendere e riprodurre i meccanismi del ragionamento astratto. Si chiamava Gottfried Wilhelm Leibniz. Dotto letterato, diplomatico, matematico, logico e filosofo. Leibniz (1646-1716) formulò in maniera rigorosa, all'incirca contemporaneamente a Isaac Newton, il calcolo infinitesimale, pilastro fondante della scienza contemporanea. Più di Newton, Leibniz era un fautore convinto della necessità di descrivere il mondo mediante simboli. Di 'formalizzare' cioè il linguaggio, la scienza, il pensiero stesso. Come diplomatico si era trovato di fronte a esempi concreti e drammatici di come l'incomprensione o il disaccordo fra persone potessero portare a conseguenze disastrose. Così pensò che la maniera migliore dirisolvere i conflitti fosse quella di trovare una tecnica imparziale, automatica, di scoprire in ogni disputa concettuale chi avesse ragione e chi torto. Tutto il guaio, secondo Leibniz, era nel nostro linguaggio quotidiano, troppo ambiguo, irnpreciso, incapace di rispecchiare con perfezione il mondo esterno. | << | < | > | >> |Pagina 323000 a.C. I babilonesi (probabilmente) inventano l'abaco con la sabbia. 1800 a.C. I matematici babilonesi inventano i primi algoritmi per risolvere problemi numerici. 700 a.C. Pallottolieri cinesi. 500 a.C. Pallottoliere egiziano. 200 d.C. Vengono inventati alcuni sistemi meccanici di calcolo: il saun-pan in Cina, il soroban in Giappone. 1000 Gerbert d'Aurillac (papa Silvestro II) perfeziona l'abaco e lo introduce in Europa. 1594 Lo scozzese John Napier (Nepero) inventa i logaritmi e crea dei bastoncini di avorio per calcolare automaticamente moltiplicazioni e divisioni. 1622 William Oughtred ed Edmund Gunter inventano il regolo calcolatore. 1624 Wilhelm Schickard costruisce il primo orologio calcolatore a Heidelberg, capace di effettuare le quattro operazioni. 1642 Blaise Pascal costruisce a Parigi una macchina calcolatrice numerica. 1673 Gottfried Leibniz costruisce una sua versione perfezionata della macchina calcolatrice. 1805 Joseph-Marie Jacquard ha l'idea di usare delle schede perforate per 'programmare' i telai automatici. 1820 Aritmometro di Thomas, primo tentativo di produrre calcolatrici meccaniche commerciali su grande scala. 1822 Charles Babbage idea una macchina delle differenze capace di calcolare i logaritmi: non verrà mai terminata. 1833 Babbage inventa la macchina analitica, che esegue istruzioni scritte su una carta perforata. Č la prima volta nella storia che si ha l'idea completa di un calcolatore programmabile. Ma anche questa macchina non sarà costruita. 1841 Macchina calcolatrice di Roth. 1842 Lady Ada Byron, contessa di Lovelace e figlia del poeta Lord Byron, collabora con Babbage a scrivere i primi programmi della storia. 1853 George e Edward Scheutz a Stoccolma costruiscono un calcolatore meccanico basato sull'idea di Babbage del motore delle differenze. 1854 L'irlandese George Boole pubblica un trattato in cui idea la logica binaria, oggi nota come algebra booleana. 1886 William Burroughs costruisce una macchina calcolatrice commerciale di grandissimo successo. Esegue addizioni e sottrazioni. 1889 Macchina di Bollée per la divisione. | << | < | > | >> |Pagina 35Si erano conosciuti una sera di novembre del 1834 a cena da Mary Sommemville, matematica e intellettuale, famosa per le sue serate culturali e per aver tradotto in inglese le opere di Laplace. Ada aveva diciannove anni, Charles quarantatré. Lei era figlia di Lord Byron, poeta e avventuriero; lui, Charles Babbage, uno scienzato eclettico e notoriamente strampalato.
Babbage quella sera presentava il progetto di una sua
ennesima, stravagante invenzione: una macchina per
calcolare. Ma non una diquelle usuali, degli orologiai, che
eseguivano le quattro operazioni. Questa, a detta
dell'autore, era una macchina speciale, universale: capace
di qualunque calcolo numerico e logico, dai logaritmi alle
radici quadrate, dalle orbite dei pianeti alla rotta delle
navi. Nessuno fece troppo caso alla presentazione di quella
'macchina analitica', quella sera: un prototipo piccolo, un
aggeggio strano di legno e ottone, che funzionava solo
nella retorica sconclusionata del povero Babbage. Ma agli
orecchi dell'adolescente Ada Byron le parole dello
scienziato suonarono profetiche. Stava per nascere il
sodalizio magico di due anime speciali. Lui sarebbe
passato alla storia come l'inventore del computer, lei come
prima programmatrice (e primo programmatore) della storia.
Augusta Ada Byron era nata il 10 dicembre 1815. Cinque settimane dopo la sua nascita, Lord e Lady Byron si separarono: Ada non conobbe mai suo padre, che però le dedicò versi struggenti. Fu cresciuta dalla madre che, aborrendo l'idea che la bambina diventasse poetessa, la indirizzò alle scienze. Ma Ada si senti sempre legata anche a quel padre illustre e al suo mondo poetico. Da ragazzina aveva già detto cosa voleva essere: «matematica e metafisica». A trent'anni descrisse alla madre il suo percorso come tendente a una «scienza poetica». Non a caso ebbe contatti tanto con scrittori come Charles Dickens quanto con fisici del calibro di Michael Faraday e Charles Wheatstone, o con inventori come Sir David Brewster, cui si deve il caleidoscopio. E i suoi scritti scientifici furono sempre rigorosi ma sfavillanti di immaginazione e ricchi di metafore. Ada era una donna dotata di energia eccezionale. Capelli e occhi neri come la pece, sguardo deciso, accanita giocatrice d'azzardo: puntò somme immense sulle corse dei pony, ossessionata come Babbage dall'idea di poter trovare un metodo matematico per vincere. Si indebitò fino al collo, impegnò in segreto i gioielli di famiglia e fu ricattata dai bookmaker fin quasi alla rovina. | << | < | > | >> |Pagina 49Babbage morì solo e deluso nel 1871, a ottant'anni. In casa, in ciascuna delle numerose stanze, giacevano ricoperti di polvere modellini, leve, ingranaggi, schede perforate, pezzi della macchina mai compiuta. Sul letto di morte, l'inventore dichiarò a uno dei pochi amici al suo capezzale: «Non riesco a ricordare un solo giorno veramente felice in tutta la mia vira. Muoio, e mi accorgo di odiare l'umanità in generale, gli inglesi in particolare e, soprattutto, il governo e i suonatori di organetto».Intanto fuori, implacabile persino nel momento estremo, si udiva suonare un organetto stonato. | << | < | > | >> |Pagina 64Se in Inghilterra il Colossus era stato uno dei progetti più segreti e importanti, dall'altro lato dell'oceano il top secret più costoso e cruciale fu indubbiamente quello che oggi tutti conoscono come Progetto Manhattan. Mentre Alan Turing lavorava alla cosiddetta 'bomba' polacca, il governo statunitense era riuscito a radunare il gruppo di menti più prodigioso di tutti i tempi per lavorare a un'altra bomba. L'atomica. Molti dei fisici, chimici, ingegneri migliori del mondo avevano accettato di essere rinchiusi in un immenso recinto di massima sicurezza, per riuscire a battere sul tempo i nazisti nella costruzione dell'ordigno più atroce della storia. Enrico Fermi, Richard Feynman, Ernest Lawrence, Robert Oppenheimer, Leo Szilard, Edward Teller, Eugene Wigner, e altri grandi nomi della scienza del ventesimo secolo, sponsorizzati e incoraggiati da una lettera di Albert Einstein al presidente Roosevelt, parteciparono al progetto colossale. Ammirato e quasi venerato persino in quel gruppo di geni, viveva un personaggio ben noto a Turing: Johnny von Neumann. A Los Alamos si raccontava che, quando era necessario risolvere un calcolo complesso, Feynman ottenesse il risultato manovrando a velocità sorprendente una calcolatrice meccanica, Enrico Fermi scarabocchiando su un foglietto di carta e usando un regolo calcolatore; e von Neumann lo faceva a mente. I tre arrivavano allo stesso risultato quasi contemporaneamente. Von Neumann fu personaggio cruciale durante la costruzione della bomba atomica e dopo la guerra segui anche i progetti per la bomba all'idrogeno e per i missili nucleari intercontinentali. Il suo odio verso i nazisti e i giapponesi, e poi verso il regime sovietico, fu tale da spaventare persino i generali americani. Egli fu il matematico che calcolò come doveva essere lanciata una bomba atomica affinché uccidesse più persone possibile. La cosa migliore, spiegò ai militari, era non lasciarla arrivare al suolo, ma farla esplodere ad alcune centinaia di metri di altezza sopra la città bersaglio. E così fu: l'esplosione su Hiroshima fu aerea, con soddisfazione dei generali. L'effetto addizionale dell'onda d'urto che si propagava dal cielo verso la terra fu devastante come von Neumann aveva predetto e auspicato. Il matematico aveva anche contribuito direttamente a un aspetto assai importante della costruzione della bomba al plutonio. Egli calcolò come realizzare la cosiddetta lente di implosione, cioè la disposizione degli strati di esplosivo attorno alla cartuccia di plutonio: solo se l'esplosione è rapidissima e perfettamente simmetrica, il plutonio viene compresso alla densità giusta per innescare la reazione atomica a catena. Così era von Neumann: a fianco di Johnny l'allegro, geniale eppure affabile, sofisticato ma gioviale, conviveva senza contraddizione apparente Janos Neumann, rampollo reazionario e maschilista dell'alta aristocrazia ungherese. Di fronte al senato americano, von Neumann dichiarò di essere «violentemente anticomunista, e molto più militarista della norma». | << | < | > | >> |Pagina 721833 Babbage idea la macchina analitica. 1889 Herman Hollerith brevetta l'idea di usare le schede perforate nelle macchine automatiche per i censimenti. 1903 Nikola Tesla, fisico iugoslavo, collaboratore di Thomas Edison, brevetta circuiti logici elettrici, che chiama porte logiche. 1924 La compagnia Computing-Tabulating-Recording, fondata da Hollerith per commercializzare le macchine a schede perforate, cambia nome e diventa la International Business Machines: Ibm. 1925 Vannevar Bush costruisce al Mit un calcolatore analogico battezzato analizzatore differenziale. 1931 Konrad Zuse costruisce in Germania il primo calcolatore elettromeccanico, lo Z1. 1936 Alan Turing propone il concetto di macchina universale (macchina di Turing). 1936-44 Ad Harvard, Howard Aiken costruisce l'Ascc, o Mark I, colossale computer elettromeccanico. 1937 George Stibitz costruisce il primo calcolatore binario ai Bell Telephone Laboratories. 1939 John J. Atanasoff e il suo studente Clifford Berry disegnano il prototipo di un computer al College dello Iowa. Secondo una sentenza giudiziaria del 1973, esso è riconosciuto come il primo computer digitale elettronico. 1940 Anche George Stibitz costruisce un computer digitale, probabilmente il primo funzionante. 1941 All'Università di Manchester A. Turing e M. Newman costruiscono il computer Colossus. Konrad Zuse costruisce Z3. 1944 Mark I, progettato da Aiken ad Harvard, viene completato dalla Ibm: effettua dieci operazioni al secondo. Fra i primi programmatori, Grace Murray Hopper. Il Colossus Mark II vede la luce in Inghilterra. 1945 John von Neumann descrive nel suo celebre "First Draft" il concetto di programma memorizzato, per il computer Edvac, che però vedrà la luce solo molti anni dopo. 1943-46 All'Università della Pennsylvania viene completato Eniac (Electronic Numerical Integrator and Computer): 5.000 addizioni e oltre 300 moltiphcazioni al secondo. 1948-49 A Cambridge Maurice V. Wilkes sviluppa Edsac (Electronic Delay Storage Automatic Calculator), il primo computer con programma memorizzato, basato sul progetto di von Neumann. 1948 William Shockley, John Bardeen e Walter Brattain inventano il transistor. L'Ibm produce il computer Ssec. 1949 Entra in azione Edvac (Electronic Discrete Variable Automatic Computer), dotato dei pritni dischi magnetici. Ferranti a Manchester produce il Manchester Electronic Computer. 1950 Maurice Wilkes a Cambridge usa per primo il linguaggio assembler su Edsac. 1951 Nasce Univac, primo computer commerciale. L'Ibm crea i computer '701' e '704'. 1954 Gene Amdahl inventa il primo sistema operativo, per il computer Ibm 704. 1955 Si diffondono i computer di seconda generazione, a transistor invece che a valvole. 1955-57 L'Università di Pisa e la Olivetti costruiscono Elea, primo computer italiano. 1958 Jack Kilby, alla Texas Instruments, inventa il circuito integrato. Seymour Cray costruisce il primo super-computer, il Cdc 1604 della Control Data Corp. 1965 Nascono i computer di terza generazione, basati su circuiti integrati anziché transistor. 1971 John Blankenbaker costruisce il primo personal computer, il Kenbak I. Sta per nascere la quarta generazione di computer, con circuiti integrati altamente miniaturizzati. | << | < | > | >> |Pagina 1061760 Il Turco, scacchista del barone von Kempelen, un imbroglio divertente: dentro l'automa era nascosta una persona. 1914 Torres y Quevedo inventa una macchina ingegnosissima che fa giocare il re bianco contro torre e re neri. 1946-47 Alan Turing abbozza le idee principali di un primo programma per giocare a scacchi. 1948 L'Univac viene pubblicizzato come il computer più potente dei mondo. Tanto potente che «potrebbe giocare a scacchi meglio degli esseri umani». 1950 Claude Shannon scrive i primi articoli su come programmare una macchina per giocare a scacchi. Un computer Ferranti viene programmato per risolvere problemi di matto in due mosse. 1956 Il Maniac I, computer usato dai militari a Los Alamos per la progettazione di bombe atomiche, viene programmato (da Stanislav Ulam) per giocare a scacchi su una scacchiera ridotta (sei caselle per sei). 1957 Alex Bernstein scrive il primo programma di scacchi completo, per il computer Ibm 704. 1958 Allen Newell, Cliff Shaw e Herbert Simon approfondiscono il problema degli scacchi al computer. 1966 MacHack VI, un programma scritto al Mit da J. Greenblatt, è il primo essere non umano a partecipare a un torneo di scacchi. Fa cinque partite: ne perde quattro e ottiene una patta. Nascono i primi tornei fra computer, il primo viene vinto da un programma sovietico. 1967 Per la prima volta un computer batte un umano in campionato. Succede a MacHack VI, al campionato di stato del Massachusetts. Poco dopo, MacHack VI sconfigge Hubert Dreyfus. 1968 Il maestro internazionale David Levy scommette 3.000 dollari che nessun programma di computer potrà batterlo durante i dieci anni a venire. Vincerà la scommessa. 1974 Stoccolma. Campionato mondiale di scacchi per computer. Vince, con uno splendido 4-0, Kaissa, programma sovietico montato su un computer inglese. 1977 Nasce il primo microcomputer casalingo per giocare a scacchi, Chess Challenger. Il programma Chess 4.5 vince il campionato per umani del Minnesota, con cinque partite vinte e una persa, sconfiggendo anche un giocatore di classe A. Poco dopo un computer sconfigge per la prima volta un gran maestro, Michael Stean. 1981 Il programma Cray Blitz vince il campionato di stato in Mississippi, con un punteggio di 5-0. 1983 Il programma Belle, sviluppato da Ken Thompson e Joe Condon ai Bell Labs, è il primo a raggiungere un punteggio scacchistico da maestro (2.263). 1988 Il computer Deep Thought della Ibm vince ex aequo col gran maestro Tony Miles il campionato Open statunitense. 1989 Deep Thought vince il campionato mondiale fra computer e sconfigge il gran maestro Robert Byrne, ma perde poco tempo dopo contro il campione del mondo Garry Kasparov. 1990 Anatoly Karpov e altri due maestri internazionali perdono contro il programma Mephisto in una simultanea a Monaco. 1994 Karpov e altri quattro maestri internazionali perdono contro il programma Fritz3 a Monaco. Ma il computer più potente del mondo è Deep Blue (Ibm), successore di Deep Thought. 1996 Deep Blue perde in torneo contro Garry Kasparov per 2 a 4. 1997 11 maggio. Deep Blue sconfigge Kasparov 3.5 a 2.5. Il team dei programmatori è composto da Chung-Jen Tan, Feng-Hsiung Hsu, Murray Campbell, Joseph Hoane, Jerry Brody, e il gran maestro Joel Benjamin. | << | < | > | >> |Pagina 112La data di nascita ufficiale dell'Intelligenza Artificiale è l'agosto 1956. Il luogo, il Dartmouth College, Hanover, New Hampshire. Il matematico John McCarthy organizza un seminario estivo incentrato sull'ipotesi che «ogni aspetto dell'apprendimento o ogni altra caratteristica dell'intelligenza possono essere, in linea di principio, descritti in modo così preciso da poter essere simulati mediante una macchina». Il titolo del seminario, Summer Research Project on Artificial Intelligence, è anche nome di battesimo spavaldo della nuova disciplina. Il progetto è finanziato dalla Fondazione Rockefeller, che forse fiuta un avvenire promettente per ciò che ora sembra solo il vezzo stravagante di pochi eclettici. Partecipano ricercatori brillanti provenienti dalle discipline più diverse: Arthur Samuel (lo stesso del programma per la dama), l'ingegnere Nathaniel Rochester dell'Ibm, Claude Shannon e un suo brillante allievo di Harvard, Marvin Minsky, che sarebbe divenuto presto un astro mondiale della nuova disciplina. Il manifesto dei pionieri di Dartmouth è euforico, ma non utopistico come lo dipingeranno poi gli avversari. Non si parla infatti di computer autocoscienti, di robot capaci di provare sentimenti. Più modestamente, McCarthy, Shannon, Minsky e colleghi intendono studiare come costruire «macchine che usino il linguaggio, formino astrazioni e concetti, risolvano classi di problemi ora riservate agli umani, migliorino se stesse». E sono uniti dalla convinzione, poi rivelatasi esatta, che «le macchine potranno un giorno svolgere funzioni umane tradizionalmenie ritenute intelligenti». Nel documento di presentazione del seminario vengono indicati sette temi: 1. Come migliorare la potenza dei calcolatori e raffinare i metodi di programmazione. 2. Come programmare un computer in maniera che 'possieda un linguaggio', manipoli simboli e concetti in maniera simile a una mente umana. 3. Come costruire sistemi di neuroni artificiali capaci di ricreare il comportamento di sistemi nervosi biologici e di «formare concetti» (reti neuronali). 4. Come stimare la durata di un calcolo o come trovare strategie euristiche per abbreviarla (teoria della complessità di calcolo). 5. Come far si che i calcolatori possano migliorarsi da sé, 'imparare' o 'scoprire', modificando il proprio programma (auto-miglioramento). 6. Come far sì che i calcolatori possano «formare concetti e astrazioni».
7. Come immettere nei calcolatori una qualche forma di
creatività e di libero arbitrio.
Definizione e scopi della neonata scienza dell'Intelligenza Artificiale furono indicati in termmi volutamente vaghi, perché non è facile definire cosa sia l'intelligenza e non c'è accordo fra gli scienziati su cosa significhi pensare. Anche in seguito, la definizione di IA restò oggetto di discussione e la disciplina, senza casa, fu ospite delle scienze più diverse: biologia e psicologia, informatica ed elettronica, logica e filosofia. Ancora oggi non esiste una definizione unanime di cosa significhi fare IA. Molti scienziati del settore, stanchi delle polemiche sui fallimenti o sullo scopo del loro lavoro, preferiscono dichiararsi semplicemente 'scienziati cognitivi'. Altri tentano definizioni più o meno precise. Secondo certi la IA sarebbe una «branca della computer science che tenta di costruire computer che si comportino come gli umani». Per i più spiritosi la disciplina «si può definire come il tentativo di costruire computer come quelli che si vedono nei film di fantascienza». Per altri ancora è «quanto i computer fanno peggio dell'uomo», oppure «Ciò che i computer al momento non sanno fare» (e per questo i prodotti informatici e i sistemi commerciali raramente vengono riconosciuti appartenenti alla IA). Infine, i prudenti la descrivono cosi: «L'Intelligenza Artificiale è lo studio di come far compiere ai calcolatori cose che, se eseguite da un essere umano, sarebbero considerate compiti che richiedono intelligenza». E ci sono molte altre definizioni ancora, alcune dal sapore fantascientifico, altre che si riallacciano direttamente alla tradizione filosofica aristotelica.
Al seminario di Dartmouth furono invitati personaggi che
sarebbero diventati nomi celeberrimi della scienza del
dopoguerra: Walter Ashby, John Backus, Alex Bernstein, Paul
Davies, Robert Fano, Robert Gelernter, John Holland, Donald
McCulloch, John Nash, Oscar Selfridge, Raymond Solomonoff,
Gordon Moore. Ma all'appello mancavano due uomini cruciali,
quasi i genitori della computer science e dell'IA stessa: a
Dartmouth non si presentarono John von Neumann e Alan
Turing.
L'Intefligenza Artificiale nasceva orfana.
In quell'estate del 1956, von Neumann era alle prese con un problema, forse l'unico nella sua vita, che non poteva affrontare. Stava morendo di cancro. Come per un tragico contrappasso, furono quasi certamente i test atomici di Bikini, cui aveva voluto tenacemente assistere e dei quali aveva difeso l'importanza e la sicurezza, a causare il tumore alle ossa che lo uccise. Cinquantatreenne, continuava a partecipare, su una sedia a rotelle, a tutte le riunioni strategiche coi militari. Considerato da tutti lo scienziato politicamente più autorevole, fino all'ultimo incentivò la proliferazione nucleare, la diffusione dei sottomarini con testate atomiche, l'equilibrio della deterrenza. Nel frattempo, completava i suoi ultirni studi che, per ironia della sorte, avevano per tema la vita: il mago ungherese inventò dei programmi capaci di autoriprodursi, che simulavano alcune proprietà degli esseri biologici. Li battezzò 'automi cellulari'. Oggi, come vedremo, prendendo le mosse proprio da quegli ultimi lavori, è nato il filone della Artificial Life. Secondo alcuni dei suoi sostenitori non sarebbe semplicemente un settore laterale dell'Intelligenza Artificiale, ma una disciplina in antitesi, alternativa all'IA. [...] Von Neumann l'alieno, il donnaiolo e misogino Johnny, il rivoluzionario conservatore, il personaggio cinico e solare assieme, venerato dai più grandi scienziati, si spense l'otto febbraio 1957. Mentre i suoi agognati, micidiali missili intercontinentali vegliavano sul mondo. Mentre l'IA veniva alla luce. Anche Alan Turing, per una beffa crudele, di quelle che il destino spesso riserva ai pionieri, non assistette alla nascita ufficiale della propria disciplina: nel 1956 era già morto da due anni. | << | < | > | >> |Pagina 162Douglas Lenat, lo abbiamo visto, propone Cyc come soluzione: una base di conoscenze enorme, milioni di concetti connessi da centinaia di milioni di relazioni. Altri ricercatori cercano di produrre macchine capaci di apprendere automaticamente gli aspetti sintattici, o addirittura semantici, della lingua. Ma il discorso è tutt'altro che semplice.
I sistemi di comprensione del linguaggio falliscono di
fronte all'obiettivo finale di poter comunicare con
qualunque persona su qualunque argomento. Uno scoglio
terribile sul quale tutti si scontrano è che per capire il
messaggio di una persona non basta conoscere il significato
delle parole che ci dice.
Bisogna capire anche perché ce le dice.
Un tale sta viaggiando su una strada sterrata in campagna. D'improvviso, in una nuvola di polvere, vede sbucare da una curva una macchina sportiva, guidata da una giovane donna, contro mano e ad alta velocità. La vettura gli viene quasi addosso, ma poi, sbandando, rientra sulla sua corsia, e gli passa a fianco, mentre la ragazza grida qualcosa. Il tale riesce a sentire solo l'ultima parola: «maiale!». Indignato, risponde urlando: «stupida oca!», e accelera. Un attimo dopo, al di là della curva, investe e uccide un grosso maiale in mezzo alla strada. Se non si ha un'idea dello scopo che anima il nostro interlocutore mentre ci parla, un modello della sua mente, gran parte della comunicazione umana diventa ambigua o incomprensibile. Nessuno ci fa caso mentre parla con una persona, ma per comunicare non basta capire le parole e il loro significato contestuale, dobbiamo sapere anche perché il nostro interlocutore comunica. Abbiamo bisogno di immaginare i desideri, le credenze, gli obiettivi comunicativi di chi ci sta parlando. Se per strada qualcuno ci ferma e chiede «Scusi, sa l'ora?», la nostra risposta, a meno che non vogliamo irritare il poveretto, non sarà «Si, so l'ora»: capiamo perfettamente che il suo scopo non è quello letterale espresso nella domanda. In effetti, spesso intendiamo cose diverse da quelle che le nostre parole sembrano dichiarare. Se vediamo un tipo con la carta della nostra città in mano e questo ci chiede «Sa come si va alla stazione?» interpretiamo la frase come una richiesta di aiuto. Se siamo noi ad avere la carta in mano e un tale ci dice la stessa frase, la interpretiamo come un'offerta d'aiuto. Se saliamo su un taxi e proferiamo ancora quella medesima frase, il tassista metterà in moto e partirà: l'avrà interpretata come l'ordine di andare alla stazione. Vediamo un altro esempio, basato sulla metafora. Un pomeriggio fate una visita a sorpresa a un amico. Entrate nella sua camera mentre sta scrivendo al computer, e pronunciate la frase: «Mio Dio, che dinosauro!». L'amico probabilmente non si alzerà terrorizzato pensando di avere alla spalle un Tyrannosaurus rex, ma interpreterà la frase in senso del tutto differente, a seconda delle circostanze. Se si serve di un vecchio personal computer penserà che «dinosauro» sia riferito alla macchina, e che la frase sia un'esortazione a comprame una nuova. Se invece ha rifiutato già un paio di inviti a uscire insieme, perché sta completando un lavoro, immaginerà che vi riferiate alla sua recente clausura, e che vogliate spingerlo a rilassarsi un po'. Ma potrà immaginare anche che le vostre parole siano connesse ai vestiti fuori moda che sta indossando, al lavoro da topo di biblioteca che sta facendo, all'arredamento trascurato della stanza, ai dischi esclusivamente di musica classica, e così via. La stessa frase può implicare messaggi diversissimi, tutti estranei al significato letterale del testo e connessi invece con lo scopo che gli interlocutori vogliono raggiungere tramite quella determinata comunicazione. I primi programmi di traduzione automatica non fimzionavano perché lavoravano (e in maniera rudimentale) solo sui primi due livelli del linguaggio: quello morfologico e quello sintattico. Programmi come Eliza e Parry crearono scalpore perché fingevano di affrontare anche il livello semantico e quello pragmatico, cioè di intuire gli scopi sottostanti un messaggio. | << | < | > | >> |Pagina 168New York, 1939. Un'auto è ferma in mezzo alla strada. La folla scende dai marciapiedi e si accalca attorno. Dalla macchina scende un tale che grida: «Giuro, non stavo correndo tanto!». Si toglie il cappello, imbarazzato. Guarda ora la folla, come per cercare qualcuno cui rivolgersi, ora il corpicino immobile, schiacciato da una ruota. «Non stavo correndo - ripete - e poi, ho fatto di tutto per evitarlo, ma lui, quella cosa, continuava a buttarsi fra le ruote, voleva farsi investire!». «Quella cosa» era una specie di carrellino elettrico con quattro ruote. Ma non era telecomandato: fino a un attimo prima dell'incidente si muoveva da solo. Era schizzato fuori da una casa e si era precipitato in strada, tentando il suicidio con tenacia. Era un robot, progettato per essere attratto dalle fonti di luce. Come una falena incantata da una lampada, aveva inseguito i fari della macchina, abilmente, fino al disastro finale. Prima dell'avvento dei computer, prima della nascita dell'Intelligenza Artificiale, qualcuno già costruiva automi del tutto nuovi rispetto a quelli dei secoli passati, dotati, se non di intelligenza, di un istinto, della capacità di percepire l'ambiente e reagire agli stimoli.
In quello stesso anno un ragazzo di diciannove anni,
studente di chimica, scriveva un racconto il cui personaggio
principale è un robot dotato di 'cervello positronico'. Tre
anni dopo quel ragazzo avrebbe immaginato, prima che
esistessero i robot, le «Tre leggi della robotica», e si
sarebbe avviato a diventare lo scrittore di fantascienza più
famoso del mondo:
Isaac Asimov.
Asimov incarnava il pragmatismo ottimista statunitense,
la fiducia positivista nel progresso, nel valicare le
frontiere, tipica di un popolo di coloni. A queste univa la
solarità e l'entusiasmo di un ventiduenne. Nel 1942
immaginò che i robot del futuro sarebbero stati costruiti
per essere in tutto e per tutto i migliori amici dell'uomo.
In
The Caves of Steel,
racconto pubblicato sulla rivista «Galaxy Science Fiction»,
Asimov immaginò che ogni robot incorporasse all'atto della
costruzione l'obbligo a obbedire agli essere umani e
proteggerli in ogni situazione:
l. Un robot non può recare danno a un essere umano, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, un essere umano riceva danno. 2. Un robot deve obbedire agli ordini impartiti dagli esseri umani, purché tali ordini non contravvengano alla Prima Legge. 3. Un robot deve proteggere la propria esistenza, purché questa difesa non contrasti con la Prima e con la Seconda Legge. Ma lo scrittore non seppe immaginare un come e un perché nel funzionamento dei robot. Non previde la nascita dell'IA, non pensò che l'esistenza dei calcolatori potesse essere legata a quella dei suoi automi. Si limitò a inventare un misterioso cervello positronico, che gli uomini avrebbero scoperto quasi per caso e del quale nessuno comprenderebbe davvero il funzionamento, tanto da rendere necessaria la nascita di una nuova scienza, la 'robopsicologia' (uno dei personaggi più belli creati da Asimov è la robopsicologa Susan Calvin). Il positrone, o elettrone positivo, era stato scoperto dai fisici nucleari nel 1932 ed era la prima particella conosciuta di antimateria: un oggetto affascinante per ogni scrittore di fantascienza. Ma per immaginare un robot bastava molto meno. Per ironia della sorte, verso la fine della guerra von Neumann e Turing avrebbero cominciato a parlare di 'cervello elettronico': un'idea più semplice, ma di portata persino più fantastica di quella immaginata dal giovane Asimov. Ma alla visione sostanzialmente ottimistica dell'americano Asimov nei confronti dei robot faceva da contraltare, in Europa, una diffidenza antica. Il sogno di costruire un automa non era mai stato dimenticato. Incorporando il Golem ebraico e le creature della mitologia greca, l' homunculus degli gnostici e degli alchimisti e le marionette automatiche giapponesi ed europee, poeti e scrittori, scienziati, inventori dilettanti continuarono a immaginare creature artificiali. Ma continuarono anche a sentire che quell'avventura era insieme affascinante e paurosa, sublime e blasfema: se Dio ha creato l'uomo e gli animali, può l'uomo creare l'automa? Può uno scienziato, come un nuovo Prometeo, rubare agli dèi il fuoco misterioso che anima la materia vivente? Possono gli esploratori della scienza moderna spingersi oltre le colonne d'Ercole della vita e della mente? In un'Europa carica di trenta secoli di filosofia, estenuata dai ricordi della storia, schiacciata in un presente di guerre senza fine, terrorizzata all'idea di un futuro di dittature, la creazione di macchine semiumane, o di uomini meccanizzati, non lasciava presagire nulla di buono. Così, se Asimov aveva coniato il termine 'robotica' per connotarlo di fascino e speranza, aveva preso a prestito la parola robot dall'opera di un altro scrittore, europeo, che l'aveva scelta proprio per la sua etimologia inquietante. Fino ai primi decenni del ventesimo secolo gli esseri meccanici si chiamavano automi, dal greco autòmaton, ciò che si muove da sé. Poi, nel 1921, viene messo in scena R.U.R.: Rossum's Universal Robots (I robot universali di Rossum, scritto nel 1920), dramma dello scrittore ceco Karel Capek. La storia è quella antica dell' homunculus. Un giorno l'ingegner Rossum, dopo anni di tentativi, riesce a sintetizzare in laboratorio i tessuti viventi: «Il vecchio Rossum cercò di imitare con una sintesi chimica la sostanza viva detta protoplasma finché un bel giorno scoprì una sostanza il cui comportamento era del tutto uguale a quello della sostanza viva [...]. Dapprincipio tentò di fare un cane artificiale, e poi si diede alla formazione dell'uomo...». Il nipote di Rossum immagina un'applicazione pratica straordinaria della scoperta: costruire il lavoratore universale, lo schiavo dell'era moderna. Secondo alcuni la parola robot fu inventata in realtà dal fratello di Capek, Josef, anch'egli scrittore. Capek gli aveva chiesto consiglio: pensava di usare, per i suoi automi operai, la parola 'labori', ma la trovava pedante. Josef suggerì che suonava meglio robot, derivato dallo slavo robota, che significa lavoro forzato, schiavitù (la radice è la stessa per le parole che denotano il lavoro in russo e in tedesco: rabota e Arbeit). | << | < | > | >> |Pagina 174VIII sec. a.C. e sgg. Ancelle e cagnolini di bronzo animati, costruiti dal dio Efesto; il gigante Talos; la Galatea di Pigmalione, ecc. 1640 Francine, la 'figlia robot' costruita da Cartesio. 1816 Olimpia, donna automa, bella e senz'anima, nel racconto L'uomo della sabbia (Der Sandmann) di Ernst Hoffmann. 1817 Frankenstein, di Mary Shelley. 1866 In Eva futura, romanzo di Auguste Villiers de l'Isle Adam, compare Hadaly, un androide donna, o 'andreide'. 1900 Haley, il taglialegna di latta del Mago di Oz, di Frank Baum, è l'antenato dei cyborg. E Tik Tok, inventato dallo stesso autore sette anni dopo, è un vero e proprio robot. 1921 In R.U.R., romanzo di Karel Capek, i Robot Universali di Rossum sterminano l'umanità. 1926 Metropolis, film diretto da Fritz Lang e scritto da Thea von Arbou. Maria, robot umanoide impostore, viene mandato al rogo. 1939 Adam Link, racconto di Earl e Otto Binder, ha per cervello «una spugna di iridio». Anche Asimov comincia a creare i 'suoi' robot. E nel Mago di Oz, musical con Judy Garland dal romanzo di Baum, l'omino di latta è un androide simpatico. 1940 Otho, Grag, Simon Wright, tre esseri semiartificiali in Capitan Futuro di E. Hamilton. 1949 Chiodino, robot bambino: racconto per bambini sulla vita di un robottino di latta. 1951 In Ultimatum alla Terra, film di R. Wise, gli alieni invadono la Terra grazie a Gort, robot onnipotente. 1956 Nel Pianeta proibito, film con L. Nielsen, nasce Robby, uno dei più celebri robot della storia del cinema, che comparirà in altri film e in fumetti. 1958 Il colosso di New York, horror fantascientifico in cui un medico inserisce in un robot il cervello di suo figlio morto, con risultati tragici. 1963 Kamelion, robot maggiordomo nella serie televisiva Doctor Who. 1965 Dr. Goldfoot e la Bikini Machine, film di fantascienza demenziale con Vincent Price, scienziato pazzo che costruisce androidi donna in bikini da far sposare a uomini potenti per dominare il mondo. 1967 Barbarella, interpretata da Jane Fonda, regina dello spazio nel film di Roger Vadim, domina uomini, alieni e robot, coi quali ha anche rapporti amorosi. 1968 Hal 9000, in 2001 Odissea nello spazio, film di Stanley Kubrick, decide di uccidere l'equipaggio umano. Č un computer intelligente ma anche un robot, capace di manipolare l'ambiente fisico dell'astronave. 1973 Rocky Horror Picture Show, film-opera di Jim Sharman. E nel Dormiglione, di e con Woody Allen, vediamo la dura vita dei robot maggiordomo in un futuro non troppo lontano. Nel Mondo dei robot, di Michael Crichton, con Yul Brynner, in un luna-park del futuro, androidi cow-boy identici agli uomini impazziscono e cominciano a uccidere i visitatori. 1974 L'Uomo da sei milioni di dollari, un cyborg buono e simpatico eroe di una serie televisiva. 1975 Roboman, film con Elliot Gould e Trevor Howard: uno scienziato americano gravemente ferito viene trasformato in un cyborg dai sovietici. 1977 Guerre stellari, con Harrison Ford. C1P8 e D3BO, un robottino a rotelle e un androide, diventano fra i personaggi più amati della fantascienza. 1979 In Star Trek compaiono molti personaggi androidi o cyborg. Mentre in Alien, di Ridley Scott, con Sigourney Weaver, all'insaputa di tutti gli umani, Ash, uno degli scienziati dell'equipaggio, è un androide. In The Black Hole, film della Walt Disney, una base spaziale viene divorata da un buco nero, mentre gli umani si trovano a fronteggiare anche robot e cyborg. 1981 Alberto Sordi, in Io e Caterina, ha per domestica un'andreide (androide donna), che però presto si rivela gelosissima del proprio padrone. 1982 Blade Runner, di Ridley Scott, con Harrison Ford e Rutger Hauer. Un cacciatore di taglie, incaricato di sterminare degli androidi ribelli, si innamorerà di uno di loro. 1984 Terminator, di James Cameron, con Arnold Schwarzenegger. Un cyborg killer giunge dal futuro per uccidere una donna, prima che diventi madre dei ribelli umani. 1986 In Corto circuito, commedia fantascientifica statunitense, il robot Numero 5 si innamora follemente della propria padrona. 1987 Cercasi l'uomo giusto, film diretto da Susan Seidelman, con John Malkovich: una delle poche commedie in cui gli androidi sexy, costruiti per il piacere, sono di sesso maschile. E in Robocop un poliziotto moribondo viene trasfonnato in cyborg da combattimento. 1992 Terminator II, il robot progettato per uccidere, ora è polimorfico: può mutare aspetto in pochi secondi. Ma dal futuro arriva anche un cyborg 'buono'. 1992 Toys, film di Barry Levinson. Fra i personaggi, Alsatia, sorellina di Leslie, è un robot. 1994 Star Trek. Generations: fra i personaggi, Commander Data è un androide che desidera avere una figlia. 1996 Screamers, film canadese diretto da Christian Duguay: due gang rivali decidono di unirsi pur di sconfiggere i robot. | << | < | > | >> |Pagina 180Norbert Wiener (1894-1964), come Babbage, Turing, von Neumann e molti dei personaggi che hanno sognato l'idea spavalda delle macchine pensanti, fu una figura bizzarra. Suo padre, Leo Wiener, professore di lingue slave ad Harvard, era convinto, non del tutto a torto, che l'intelligenza scaturisse «dagli stimoli e dall'addestramento» di un bambino nella più tenera infanzia. Decise di sperimentare la teoria riducendo a cavie i suoi quattro figli. Tutti furono prodigi, ma Norbert oltre ogni limite. Entrò all'università a undici anni e si laureò a quattordici. A diciott'anni prese il dottorato in logica matematica e andò a studiare con David Hilbert a Gottinga, dove incontrò anche von Neumann. Poco dopo divenne professore di filosofia ad Harvard e di matematica all'Università del Maine. Scrisse articoli fondamentali in matematica, fisica quantistica, logica. Prima della prima guerra mondiale, lavorò come ingegnere, giornalista, professore, biologo. Infine, scelse una carriera stabile come professore di matematica al Mit. Wiener era timido e ipersensibile, ma allo stesso tempo incredibilmente vanitoso, convinto della propria genialità al punto di diventare arrogante e lanciarsi, come già aveva fatto Babbage un secolo prima, in risse sconsiderate con colleghi e amici. A Gottinga litigò a morte col matematico Richard Courant, accusandolo di rubare idee ai giovani geniali. In seguito litigò con von Neumann, con Vannevar Bush (suo intimo amico), e con tutti coloro che avessero qualcosa da obiettare sui suoi risultati scientifici. Bertrand Russell, che fu fra i maestri di Wiener, lo descrive così in una lettera: «Un bambino prodigio di nome Wiener, 18 anni, dottorato ad Harvard, è spuntato qui col padre, che insegna lingue slave e che, giunto in America per trovare una colonia comunista vegetariana, ha poi abbandonato quell'idea per fare l'agricoltore, per decidere infine di insegnare diverse materie [...]. Il giovane è stato tanto adulato che si crede Dio Onnipotente. C'è una disputa continua fra me e lui riguardo chi sia quello cui spetta insegnare». Nel 1918 Wiener prestò servizio militare ad Aberdeen, addetto alle tavole di tiro. Le doti eccezionali del ragazzo colpirono Vannevar Bush, che lo richiamò vent'anni dopo, quando un'altra guerra, persino più atroce della prima, portò alla creazione di sistemi di controllo automatico tanto prodigiosi da ricordare le leggende medievali sugli automi di Silvestro II o di Alberto Magno. In diversi istituti statunitensi si tentava di costruire sistemi di mira automatica e di puntamento per la contraerea a radar e per i bombardieri B-29. I tedeschi, per parte loro, costruivano le terribili V-1, bombe volanti con pilota automatico, e le V-2, che i londinesi terrorizzati chiamarono 'bombe robot'. Se nell'Atlantico il dramma degli alleati fu la tragica guerra degli U-Boot (e il codice Enigma), in Gran Bretagna fu la superiorità aerea della Luftwaffe e delle V-2. Turing aiutò a risolvere il primo problema, Wiener il secondo. | << | < | > | >> |Pagina 190La cibernetica nasceva perciò con l'idea di ricostruire artificialmente i riflessi nervosi degli esseri viventi, mentre l'Intelligenza Artificiale avrebbe tentato di ricreare i pensieri astratti, il ragionare. Quello dell'IA venne poi chiamato un approccio top-down, dall'alto verso il basso, perché tentava di simulare il comportamento umano o animale partendo dalle sue manifestazioni elevate (ragionamenti logici e matematici, concetti astratti, simboli). Quello cibernetico era invece un tentativo dal basso verso l'alto, bottom-up, che cercava di arrivare ad esseri artificiali intelligenti in maniera non logico-simbolica, non tramite complicati programmi per computer, ma partendo dal sistema nervoso, dalle reazioni fra stimolo e risposta. Questi due approcci diversi, come vedremo, sarebbero stati a volte alleati a volte nemici dichiarati.| << | < | > | >> |Pagina 1911912 Seleno, il primo cane elettrico, dotato degli stessi riflessi spinali di una falena. 1915 Siluri autoguidati. 1920 Protozoo meccanico, di F. Lux: un oggetto con una membrana di gomma, che riesce a mantenere costante la quantità di acqua al proprio interno. 1929 Philidog, cane robot sul principio di Seleno. 1938 Topo esploratore, di T. Ross. 1939 Cane elettronico di New York. 1948 Omeostato, di W.R. Ashby. 1948 Elmer ed Elsie, tartarughe elettroniche di W. Grey Walter. 1950 Cora, tartaruga dotata di vista e udito. Cora II, sensibile anche al tocco. Coccinella Szeged, di D. Muszka. 1951 Squee, scoiattolo robot a caccia di nocciole, di Jensen, Koff e Szabò. 1952 Topo elettronico, di Claude Shannon. 1953 Ratto robot, di I.P. Howard. 1955 Tartaruga viennese, di E. Eichler. 1968 Grope, la tartaruga architetto di S. Gregory: messa su una mappa urbana, va a caccia di 'cose interessanti'. | << | < | > | >> |Pagina 1921938-39 William Pollard richiede un brevetto per un apparato che posiziona una spruzzatrice automatica. Poco dopo, Harold Rosenblum inventa un altro apparato analogo. 1954 George Devol inventa il braccio meccanico programmabile. Lo brevetta due anni dopo. 1956 Devol e l'imprenditore Joseph Engelberger decidono di unirsi e fondare Unimation, la prima industria produttrice di robot. 1957 Planetbot, rudimentale braccio robot prodotto alla Planet Corp. 1960 La compagnia Amf crea un braccio programmabile di nome Versitran. 1962 Unimation introduce sul mercato il braccio robot Unimate. 1966 John McCarthy a Stanford crea un braccio manipolatore dotato di vista. 1972 Primi robot dotati di tatto e vista insieme. 1975 Il Viking Lander, lanciato dalla Nasa per cercare tracce di vita su Marte, è dotato di un braccio robot. La Olivetti produce un robot assemblatore di nome Sigma. 1978 Unimation produce Puma, braccio robot antropomorfo, capace di movimenti complessi. In Giappone viene sviluppato Scara, concorrente di Puma, meno versatile ma molto più veloce. 1981 Alla Carnegie Mellon vengono prodotti i primi robot a ingranaggio diretto, privi di cinghie di trasmissione. | << | < | > | >> |Pagina 204Robot del passato 1973 Wabot-1 (Università di Waseda, Giappone): il primo robot della storia con aspetto umano a grandezza naturale. Ha un sistema visivo, uditivo, tattile, e sa camminare, ascoltare e parlare (in giapponese), raggiungere e afferrare oggetti. 1983-88 Greenman (Usa): costruito dai militari del centro Nrad, a San Diego, sa afferrare e manipolare oggetti. 1984 Wabot-2 (Università Waseda, Giappone): robot musicista, sa ascoltare e parlare, leggere una partitura ed eseguirla a prima vista su un organo, nonché accompagnare con semplici accordi una persona che canta. 1985 Whl-11 (Waseda Hitachi Leg 11, Giappone): sa camminare su superfici piane (un passo ogni 13 secondi), e cambiare direzione. 1985 Wasubot (Giappone): ancora un robot musicista, suonò l' Aria sulla quarta corda di J.S. Bach assieme a un'orchestra sinfonica. 1986-89 Manny (Usa), robot manichino costruito per l'esercito statunitense. 1995 Hadaly (Giappone): sviluppato all'Università Waseda di Tokyo per studiare la comunicazione fra umani e robot: dirige la testa e lo sguardo verso chi parla, poi ascolta e risponde a chi chiede indicazioni sui luoghi del campus, indicando anche col braccio la direzione da prendere.
1986-96
P2, Honda Human Robot (Giappone), alto quasi due metri
pesante 130 chili, sa camminare su terreni accidentati,
salire una scala, spingere un carrello, afferrare oggetti
grandi come una noce. Almeno finché dura la batteria: 15
minuti.
P3 Nuovo progetto della Honda Motor. Alto 1,60 m, è candidato a giocare a calcio nei prossimi tornei della Robocup. Cog e Kismet I celeberrimi bambini robot creati e accuditi dal gruppo di Rodney Brooks e Lynn Stein al Nht. Korea Institute of Science and Technology, Seoul Progetto di un robot umanoide simile a Cog. Saika ('intelligenza straordinaria' in giapponese) Androide dell'Università di Tokyo, delle dimensioni di una persona. Per ora è solo un busto con due braccia, capace di manipolare oggetti. Waseda University, Tokyo Un gruppo di ricercatori lavora a un androide alto due metri e pesante oltre cento chili, che per ora cammina a malapena. Progetto parallelo per un robot femminile, di nome Wendy. DB Progetto, da concludere nel 2002, per la costruzione di un robot umanoide alla Japan Science and Technology Corporation, a Kyoto. Shadow Gruppo di ricercatori indipendenti che producono e vendono robot bipedi capaci di camminare. Strut Robot della Osaka University, capace di camminare. Città universitaria di Tsukuba Il gruppo diretto da Yasuo Kunioshi lavora a un robot umanoide alto 1,60 pesante 60 kg. Università di Yokohama Altro progetto di robot bipede autonomo, diretto da Atsuo Kawamura. Elvis Piccolo androide di 60 cm, prototipo di un robot maggiore cui sta lavorando un gruppo alla Chalmers University, in Svezia. Isac Robot della Vanderbilt University, è capace di imparare interagendo con le persone. Lo scopo è farne un robot infermiere. H2 Robot per arti marziali costruito dalla Faustex Systems Corporation a Houston. | << | < | > | >> |Pagina 235Dunque, da un lato il sogno originario dell'Intelligenza Artificiale forte sembra dover fare i conti con il corpo e i sentimenti, aspetti inizialmente sottovalutati; d'altra parte decine di idee innovative germogliano, alcune fedeli all'IA, altre ribelli (come la vita artificiale), dando ai ricercatori nuovo entusiasmo. Creature artificiali, agenti, reti neurali riescono oggi in compiti che fìno a pochi anni fa erano considerati appannaggio esclusivo di animali intelligente. Secondo alcuni scienziati il sogno di Turing sta per avverarsi, anche se in una maniera diversa da quella immaginata dai pionieri dell'IA. Secondo altri invece la computer science non creerà mai una vera mente artificiale, dovrà limitarsi a simulare alcuni processi della nostra intelligenza.Il matematico Roger Penrose è convinto di poter dimostrare matematicamente che nessun software potrà mai riprodurre una intelligenza umana. Pensa che il segreto della coscienza e dell'intelligenza sia nel fatto che il cervello non funziona, come i computer, secondo le leggi fisiche ordinarie, ma secondo una teoria quantistica della gravità, che ancora dobbiamo costruire. Il filosofo Roger Searle ha inventato invece un paradosso per mostrare l'impossibilità filosofica di costruire un programma che pensi nel senso pieno del termine, cioè che capisca ciò che sta facendo. E altri studiosi, come Joseph Weizenbaum, hanno semplicemente escluso la possibilità di costruire intelligenze artificiali con l'argomentazione che, se anche fosse possibile, sarebbe immorale. Forse la mela della conoscenza e della coscienza artificiale è matura, pronta per essere raccolta. Ma il ramo su cui posa è molto in alto. E alcuni temono che quel frutto rosso possa essere avvelenato. | << | < | > | >> |Pagina 239Qual dolce mela che rosseggia alta su un ramo, se ne stava sola, alta fra le più alte: la dimenticarono i raccoglitori? No, non la dimenticarono. Solo, non riuscivano a raggiungerla... Saffo, FrammentiLui, per chi lo avesse conosciuto a Princeton negli anni '70, era un vecchino in nero. Neri i pantaloni, nero il golf, neri la sciarpa e il cappotto che portava anche in estate. Neri, e immancabili, il cappello e gli occhiali. Gödel potevi vederlo solo pochi secondi al giorno: curvo, quasi rannicchiato nel giaccone, mentre correva via silenzioso dal suo studio all'Institute for Advanced Studies (Ias).
Lo vedevi salire veloce sul bus e dirigersi a casa.
Senza parlare con nessuno. Quasi senza rispondere a chi gli
rivolgeva la parola. Ma non era presunzione. Il motivo per
cui Kurt Gödel, fra i più celebri logici del mondo, il
grande vip di Princeton assieme ad Albert Einstein, era
tanto sfuggente, era semplice e tragico: Gödel aveva paura.
Aveva paura di morire, aveva paura di ammalarsi. Aveva
paura che 'loro' lo trovassero, lo vedessero, che sapessero
di lui. Aveva paura di essere ucciso, come era successo a
molti che conosceva tanti anni prima. Il tempo non passava
per Kurt, e non passava la paura. Il nazismo per gli altri
era sui libri di storia, per lui no. Era il magone che
sentiva in petto, il grido lacerante che risuonava in testa,
gli sguardi spauriti che ricordava spesso a occhi chiusi.
Gödel viveva rinchiuso nel suo studio: la porta sbarrata,
le finestre sempre chiuse e oscurate con tende spesse e
nere.
Non era stato sempre così. C'erano stati giorni felici: Vienna, come ricordava Vienna! Ci era arrivato da Brno, in Moravia, e aveva solo ventitrè anni quando aveva discusso, laggiù, la sua tesi di dottorato. Era il 1929, e la città austriaca era un paradiso per intellettuali e scienziati. Là Gödel aveva incontrato i logici più celebri, Rudolph Carnap e Karl Menger, Alfred Tarsky e il grande von Neumann, nei salotti, nei caffè, nelle aule universitarie. E tutti quei gran nomi si interessavano a lui, giovane assistente non pagato, autore del teorema di completezza. Poco dopo, sempre a Vienna, aveva scritto i due grandi teoremi di incompletezza, che scioccarono i matematici di tutto il mondo: nel 1933 lo avevano invitato per la prima volta a Princeton, per esporre, in un anno di seminari, quei risultati strani e straordinari. Ma intanto arrivava il nazismo. Gödel, disattento alle vicende della politica, quasi non se ne era accorto. Finché, in quello stesso 1933, il professar Schlick, i cui seminari avevano svelato a Gödel il mondo della logica, era stato assassinato da uno studente nazionalsocialista. Kurt ne era rimasto totalmente sconvolto. Fra il 1934 e il 1937 era entrato e uscito varie volte dalle cliniche psichiatriche: i medici diagnosticavano «depressione», «ansia», «esaurimento». Nel 1940, assistendo con orrore alla marcia inesorabile del nazismo, Gödel aveva deciso di fuggire dall'Europa e tornare a Princeton come rifugiato con la moglie Adele che aveva sposato nel 1938. Ma viaggiare a ovest era troppo pericoloso. Avevano deciso di arrivare in America passando attraverso Russia e Giappone, un'odissea estenuante durata sette mesi. E a Princeton Gödel era divenuto una persona isolata, un recluso volontario. Spesso rifiutava di vedere i propri studenti, di cui supervisionava le tesi solo indirettamente. Uno dei pochissimi dei quali si fidava, col quale dialogava in lunghe passeggiate per i viali dell'Institute for Advanced Studies, era Albert Einstein, anche lui profugo dal regime di Hitler. Dopo il 1940 Gödel non aveva prodotto nuovi teoremi di logica, ma la sua mente era più attiva che mai. Un giorno aveva promesso ad Einstein un originale regalo di compleanno: una nuova soluzione delle terrificanti equazioni cosmologiche della teoria della relatività generale. Le equazioni tensoriali dell'universo dovevano descrivere la struttura del cosmo, dal big bang alla fine del tempo. Einstein le aveva ideate nel 1915, ma non era riuscito a risolverle. In moltissimi ci avevano provato, e ci erano riusciti solo in casi particolarissimi: nell'ipotesi di un universo completamente vuoto, fatto di nulla, oppure in quella di un universo omogeneamente riempito di polvere. Gödel promise in regalo ad Einstein la soluzione di quelle equazioni in un caso molto più generale, con materia disomogenea e in movimento, con tanto di vortici: un universo rotante. Gódel non era un fisico né un esperto di equazioni differenziali. Si era trincerato nel suo studio. Porte, finestre chiuse. Tende nere abbassate. A chi lo invitava a lasciar entrare almeno i raggi del sole rispondeva seccamente: «Per capire cosa fanno le stelle non ho bisogno di guardarle». Poi, per la cerimonia in onore di Einstein si era presentato con un articolo breve ed elegantissimo, che conteneva, per lo stupore del mondo scientifico, una nuova soluzione delle equazioni dell'universo. Una soluzione che, come era stato con i teoremi di incompletezza, aveva lasciato tutti sconcertati. Perché prevedeva, nientemeno, che si potesse viaggiare all'indietro nel tempo. Esistevano delle traiettorie chiuse nello spazio-tempo, ovvero dei luoghi e delle situazioni speciali in cui il tempo è ciclico: avanza sempre, ma per ritrovarsi infine all'istante di partenza. Einstein ringraziò, ma disse che non capiva quel risultato. Così, nell'aula magna di Princeton, Gödel aveva tenuto un seminario cui il padre della relatività aveva assistito dal primo banco, dichiarando poi, mentre ringraziava di nuovo l'amico, che quella soluzione era bellissima, ma troppo strana per essere vera. Oggi i fisici teorici ne discutono ancora, e c'è chi giura di essere vicino a costruire la macchina del tempo intravista da Gödel fra le pieghe dell'universo curvo einsteiniano. Nel 1955 Einstein era morto e Gödel si era ritrovato ancora più solo. Aveva scritto una serie di saggi criticando i lavori di Bertrand Russell, altri per difendere una visione platonica della matematica. Si era ammalato, le crisi depressive e paranoiche erano divenute drammatiche. Gödel si convinse infine che 'loro', i nemici, volevano avvelenarlo. Già da anni seguiva una dieta rigidissima per paura di ammalarsi. Finì per non fidarsi più di alcun cibo, e smise di mangiare. I medici non poterono molto. Il fratello Rudolf, medico egli stesso, scrisse: «Kurt aveva un'opinione assai originale e prefissata riguardo ogni cosa, e difficilmente poteva essere convinto a cambiare idea. Per tutta la vita credette di avere sempre ragione, non solo in matematica, ma anche in medicina: era un paziente difficilissimo». L'uomo in nero morì il 14 gennaio 1978, in stato di denutrizione, all'ospedale di Princeton. Lasciava ai posteri il brivido e la polemica ancora aperta sui viaggi nel tempo. Lasciava per sempre le sue paure, ma anche dei teoremi coraggiosi, fra i più straordinari della storia della logica, che tanto avevano stupito i matematici. E lasciava a filosofi e scienziati delle armi per sferrare un attacco feroce all'Intelligenza Artificiale: un metodo che secondo alcuni poteva essere usato per dimostrare matematicamente che non potrà mai esistere una macchina pensante. | << | < | > | >> |Pagina 245Kurt Gödel non disse di aver dimostrato che l'Intelligenza Artificiale era impossibile. Disse solo che lui non ci credeva. Pensava che il cervello fosse si una macchina, come il computer, ma che la mente non era solo cervello. Era connessa a qualcosa di trascendente che, per esempio, ci rendeva capaci, pur essendo finiti, di intuire l'infinito. Furono altri, il filosofo John Lucas negli anni '60 e il matematico Roger Penrose oggi, a utilizzare il teorema di incompletezza di Gödel per tentare di dimostrare che un computer non potrà mai pensare. Ma cosa dice il teorema di Gödel? Che la matematica - e non solo la matematica che conosciamo oggi, ma qualunque teoria matematica del futuro o del passato - è necessariamente incompleta, cioè incapace di dimostrare tutti i suoi teoremi: esisteranno sempre enunciati matematici veri ma indecidibili, cioè la cui verità noi non siamo in grado di stabilire con certezza. Gödel inventò un metodo ingegnoso per numerare tutti i possibili, infiniti, teoremi dell'aritmetica: a ogni possibile affermazione o equazione, vera o falsa che sia (per esempio «2+2=0», oppure «3x2=6») si può associare un numero, un'etichetta. Ma è vero anche il contrario: a ogni numero possibile corrisponde una qualche frase dell'aritmetica, un teorema, vero o falso. Gödel riuscì a dimostrare che esiste persino un numero che corrisponde a questa strana frase autoreferenziale (cioè che parla di se stessa): «Questa frase non è dimostrabile». Gödel mostrò che questo enunciato, ispirato al celebre paradosso del mentitore, fa parte integrante della matematica esattamente come un teorema sui numeri primi o come l'equazione «3-1=2». Ma i casi sono due: se la frase è dimostrabile, allora è falsa (visto che dice di sé proprio di non poter essere dimostrata). In tal caso l'aritmetica dimostrerebbe teoremi falsi: sarebbe una teoria inconsistente, incoerente, inutile perché capace di affermare tutto e il contrario di tutto. Se invece, come decine di secoli di aritmetica sembrano mostrare, l'aritmetica è un sistema consistente, dobbiamo dedurre che la frase è vera, cioè che il teorema non è dimostrabile. Ma allora l'aritmetica contiene frasi che sono vere e indimostrabili! Gödel dimostrò anche che tale problema si ripete in ogni possibile matematica, con qualunque tipo di postulati. Anzi, che il problema è insito in ogni sistema formale, cioè in ogni teoria o modello basato su simboli e regole: se il sistema è coerente, allora esistono sempre delle frasi vere ma la cui verità non possiamo stabilire tramite manipolazione di simboli interni al sistema. Concluse Gödel: «Ogni sistema formale o è inconsistente, incoerente, cioè permette di dimostrare frasi false, oppure è incompleto, cioè non è capace di decidere, dimostrare, la verità o la falsità di alcuni teoremi». Il teorema di incompletezza ebbe un impatto tremendo sui matematici e sul mondo culturale e filosofico. Rappresentava il colpo di grazia al sogno degli scienziati, capeggiati da David Hilbert, di matematizzare il mondo, di formalizzare ogni verità scientifica. Ma qui non discuteremo di questo. Ci interessa solo sapere come alcuni lo abbiano trasformato in un'arma contro l'idea di costruire robot pensanti. Fra i primi a provarci fu Lucas, che nel 1961 scrisse un articolo dal titolo Menti, macchine e Gödel. Alcuni anni dopo ripropose il tema, con maggior rigore, Paul Benacerraf. Oggi un'argomentazione simile ma leggermente più elaborata viene usata dal matematico Roger Penrose, che all'attacco all'IA ha dedicato due massicci tomi divulgativi. L'idea di Lucas, Benacerraf e Penrose è semplice. Immaginiamo, per assurdo, di costruire un algoritmo, o una macchina, complicata quanto vogliamo, che pretenda di simulare a perfezione tutti i meccanismi del pensiero umano. Comunque venga realizzato, tale automa intelligente si baserà su un sistema formale. Noi umani possiamo studiare tale sistema e, usando il trucco di Gödel, scrivere, secondo le regole e i simboli di quel sistema, la frase terribile: «Io non sono dimostrabile». Succederà che la macchina non potrà mai 'decidere' tale frase, cioè non potrà mai scoprire, semplicemente manipolando i simboli, se essa è vera o falsa. Ma noi sì. Sappiamo, grazie alla semplice intuizione logica, che la frase è vera, perché se fosse falsa il sistema sarebbe incoerente, assurdo. Il computer, che può solo lavorare manipolando i simboli, non arriverà mai alla conclusione che la frase è vera. Non riuscirà a decidere. Noi umani invece siamo capaci di guardare le cose anche 'dal di fuori' delle regole e della manipolazione dei simboli, cosa che nessuna macchina potrà mai fare. Lucas conclude così: «Una macchina, per complicata che sia, appunto in quanto macchina corrisponderà a un sistema formale, che potrebbe essere sottoposto alla procedura di Gödel per trovare una formula indecidibile in quel sistema. Una macchina non saprebbe mostrare la verità di questa formula, mentre una mente umana è in grado di farlo. Così, la macchina non può essere un modello adeguato e completo della mente. [...] |
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