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| << | < | > | >> |IndiceC'è sempre il problema 5 L'ippocentauro 7 Il pappagallo 11 Le sirene 13 La iena 17 Le api 19 Il catoblepa 23 Il leone 27 I trogloditi 31 L'anfisbena 33 L'ircocervo 37 La balena 41 La remora 45 Le femmine della vite 47 Ereditarietà fantastica 49 Il serpente 53 La foca 57 La mandragola 59 Le cicale 63 Il lupo 67 Il coccodrillo 71 L'ippopotamo 75 Il leontofono 77 Lo struzzo 81 Le specie animali 85 Il pirotoco 89 I pesci 91 La manticora 95 L'elefante 99 Le particelle grammaticali 103 Le neadi 107 Il pirauste 109 Le formiche 111 Il verme dell'Indo 113 Gli animali alati 115 La scimmia 119 L'onocentauro 123 Gli etiopi 127 L'asino di Buridano 131 Il maiale 133 Il fuoco 137 La pulce 141 Il piviere 145 Il pollo 147 L'oca 151 La mucca fantasma 155 L'uomo 159 |
| << | < | > | >> |Pagina 5C'è sempre il problema con gli animali di capire cosa vogliono dirci, se hanno delle ideologie, una metafisica, se considerano l'uomo un fesso, una divinità oppure un demonio. Per questa loro impenetrabilità tutti gli animali per qualche verso sono fantastici: una lepre, un topo, una biscia d'acqua, una rana... quando appaiono all'improvviso e subito scompaiono; e uno grida, ci si emoziona, qualcosa di favoloso ci ha attraversato la strada; ma anche una mucca domestica è una presenza arcana mentre rumina e riflette; i bambini infatti le ammirano e le amano, come delle misteriose divinità. Alcuni animali però sono più fantastici e favolosi degli altri, perché aggiungono alla loro enorme distanza mentale o alla fuggevolezza, il fatto che inoltre sono inesistenti, secondo le nostre moderne classificazioni scientifiche, come un ippocentauro, un pirotoco, una sirena, un ircocervo eccetera. Il che non toglie che anche di loro si sia detto molto, specie nell'antichità, sulle loro abitudini, il modo di catturarli, il loro ecosistema, la fisiologia, il modo di generarsi, i versi che fanno. Anzi a volte se ne sa di loro, degli animali fantastici, più di quanto si sappia di un pollo che razzola in mezzo all'aia, poi si ferma, si drizza e ti guarda sospettoso in tralice, come se lui fosse il centro del mondo e tu un essere stupido e grosso, al suo servizio, ancora però non abbastanza mansueto e addomesticato da potersi fidare. | << | < | > | >> |Pagina 7L'ippocentauro (cavallo con busto e testa di uomo) è un animale impossibile, dice Lucrezio (De rerum natura, V, 878), perché a vent'anni la parte umana sarebbe nel pieno della giovinezza, mentre la parte cavallina sarebbe già vecchia e morirebbe. Una faccia e un busto giovane, con una pancia e le gambe già macilente e decrepite. Ma non è un buon argomento, perché l'ippocentauro è così consolidato come animale fantastico che probabilmente ha una sua fisiologia intermedia tra l'uomo e il cavallo, e non c'è problema di rigetto di una parte per l'altra. Si tenga presente che essendo l'uomo innestato poco sotto l'ombelico, al posto dove ha il collo il cavallo, tutti gli organi interni sono ripetuti due volte, cosa peraltro che si dà anche nei gemelli siamesi. Nel caso dell'ippocentauro però il cervello è dell'uomo e l'apparato riproduttivo del cavallo. Essendo umano di mentalità non disdegna le femmine umane, infatti si danno casi frequenti di rapimenti, mentre non è mai giunta notizia che un ippocentauro andasse in un allevamento e montasse una giumenta in calore. E tuttavia tecnicamente questo caso sarebbe più facile. Si noti che non ci sono ippocentauri femmina, ma solo maschi. Dunque come si generano? È verosimile discendano dall'accoppiamento di uomo e cavallo: così come il mulo ad esempio viene dalla cavalla e dall'asino, è sempre femmina ed è sterile. Da ciò se ne deduce che essendo sempre maschio l'ippocentauro, sia figlio di una donna umana congiuntasi con un cavallo. E questo per la verità non è cosa infrequente, anche al giorno d'oggi fa parte dei sogni venerei femminili, di trastullarsi con un cavallo, allevarlo, accarezzarlo; mentre gli uomini è difficile si erotizzino con una cavalla, la quale infatti non figura nel repertorio della pornofilia corrente. Dunque una donna ama un cavallo e si congiunge con lui. Dopo nove mesi nasce l'ippocentauro, il parto è difficile, la donna non sa come giustificarsi; il padre non è noto, scrivono in ospedale. Gli danno il cognome della madre. Dopo un solo giorno dal parto il piccolo ippocentauro galoppa già per i corridoi dell'ospedale, perché così fanno anche i puledri, sanno già camminare d'istinto dopo poche ore per seguire il branco nella steppa sconfinata. All'ospedale non sono abituati, però un ippocentauro bambino fa tenerezza e tenerlo in culla non è possibile, perché scalcia e balza fuori nitrendo. La madre lo allatta e non parla, conscia della sua colpa e della sua debolezza, e non sa neppure accusare un cavallo preciso. E d'altronde poi nessun cavallo mostrerebbe il sentimento paterno della responsabilità. Le mandano allora (alla madre) uno psicologo, ma lei piange e ripete: «Come ho potuto?» Le mandano un prete, che chiede se lo vuoi battezzare. La madre dice: «È un essere mitologico, è meglio che cresca pagano». Intanto l'ippocentauro galoppa in mezzo alle infermiere che son divertite, va su e giù per le scale, passa con gran rumore di zoccoli nella corsia dei lungodegenti, che però così stanno allegri, per quanto possono. La direzione vuole dimettere la madre e l'ippocentauro, soprattutto l'ippocentauro, perché non sono attrezzati alla mitologia e allo scalpitare di zoccoli. E così segue la triste storia dell'ippocentauro nel mondo moderno, per il quale non c'è un posto naturale nella classificazione zoologica, come nell'antichità, né un posto geografico; la Tessaglia, dove un tempo si dice vivesse, è oggi una regione amministrativa della Grecia, la quale fa parte dell'Unione Europea, tutta coltivata e con piccole industrie, turismo, tecnologia; perfino gli asini sono quasi scomparsi, e gli ultimi muli li ha dismessi l'esercito. Ci sono gli animali selvatici, ma sono numerati anche loro, censiti; un ippocentauro non può essere abbandonato nel parco del Gran Paradiso ad esempio, tenuto anche conto che è un animale meridionale; e poi parla, ragiona, nella tradizione gli ippocentauri fanno i pedagoghi; Chirone è stato maestro di Esculapio, e gli ha insegnato musica, medicina, chirurgia; e poi maestro d'Achille. Nel mondo d'oggi un ippocentauro farebbe il pedagogista; però sarebbe una pena, tenerlo seduto a una cattedra, e inoltre sono anche stati un simbolo d'ira, con tendenza a bere e alle risse. Invitati a un pranzo di nozze dai Lapiti, si legge in Omero (Odissea, XXI, 295 ecc.), hanno bevuto troppo e hanno incominciato ad offendere, infastidire le donne, menare le mani. Così un ippocentauro messo seduto a fare il pedagogista scalpiterebbe con il suo di dietro; un pedagogista deve essere comprensivo, metodico, interculturale; un ippocentauro si presenterebbe ubriaco, calci a destra e a sinistra, come metodo suo pedagogico, e poi urla, nitriti, cacche in giro, mosche, tafani, liti coi direttori didattici, tradizionalmente gli ippocentauri hanno arco e frecce; ebbene: i direttori didattici inseguiti a colpi di frecce, e così un eventuale ispettore ministeriale. Nel mondo moderno non c'è posto per loro; già non c'era posto nella Roma antica, cioè erano già una rarità, Plinio dice di averne visto uno conservato nel miele, mandato a Roma dall'Egitto come cosa introvabile e meravigliosa. Poi se ne sono visti nell'inferno di Dante (canto XII, 56 ecc.) come esempio dell'iracondia. Poi? Poi sono spariti. Le donne non si accoppiano più con i cavalli, e se succede, interrompono la gravidanza, su consiglio anche del servizio sanitario sociale. L'ippocentauro sembra avesse una voce un po' umana e un po' cavallina, tutta esplosiva e nitrente; ce l'hanno uguale certi presidi antiquati di scuola media, che gridano in latino mentre la classe è in tumulto, prendono uno per l'orecchio e gli gridano dentro l'orecchio: spero, promitto, iuro... reggono l'infinito futuro. | << | < | > | >> |Pagina 23Il catoblepa è famoso. Vive alle sorgenti del Nilo, dice Plinio (Nat. hist., VIII, 32), di corpo piccolo e gracile, anche le zampette son magre, la testa però è così pesante che non riesce quasi a levarla; ed è una fortuna, perché chi lo guarda negli occhi muore. Ateneo racconta che, durante la guerra di Giugurta, dei soldati l'avevano guardato negli occhi ed erano morti. Questo fa sì che il catoblepa sia di una tristezza infinita, e la testa bassa non sia dovuta solo al peso, ma anche ad un atteggiamento per dir così filosofico, di filosofia naturale, come di uno su cui gravano i mali del mondo. Questo problema di incenerire (o pietrificare) con lo sguardo c'è in altri animali, nel basilisco (che vive in Libia e secca anche le erbe e le piante attorno, rendendo arido il territorio), nelle Gorgoni che hanno la testa di donna e per ogni capello un sottile serpente; chi le guarda diventa di pietra. Da dove viene questa forza incenerente? è un'emissione di cosa? Non può trattarsi di vapori, ad esempio vapori tossici di acido cloridrico o di acido solforico o simili, perché queste casomai sono emissioni dalla bocca e dal naso che in certi casi (ad esempio emissioni di fosforo) a contatto con l'aria prendono fuoco, e si hanno i rettili draghiformi che emettono il fuoco, che hanno però prolificato soprattutto nell'Alto Medioevo. Nel caso degli occhi si tratta verosimilmente di emissioni elettromagnetiche, ondulatorie o corpuscolari; l'occhio è un organo che normalmente riceve ed avverte lunghezze d'onda comprese tra 0,8 e 0,4 μm; è possibile che in certi organismi il processo sia invertito e l'organo emetta in una frequenza dannosa ai corpi viventi. Mettiamo il caso che il catoblepa emetta nella lunghezza delle microonde (da 1 mm a 30 cm) le quali avendo la stessa ampiezza ondulatoria delle molecole dell'acqua (H2O) le fa vibrare portando l'acqua all'ebollizione. In questo caso il catoblepa quando alza gli occhi (come dice Plinio) porta all'ebollizione chi per caso gli si trovi davanti, e Plinio avrebbe dovuto dire che tutti coloro che l'hanno fissato negli occhi sono rimasti lessati. E se li tenesse sempre alzati lesserebbe il genere umano. Ma non lo dice. Dice solo «expirantibus», che fanno morire, anche se la carne lessata la si dovrebbe riconoscere. Può essere una lunghezza d'onda minore, o emissioni di fotoni in parallelo (che è il raggio laser), il catoblepa era dotato forse di un sistema ottico laser, da cui gli antichi erano sconcertati, non conoscendo i principi fisici di diottrica. C'è il problema delle palpebre: perché non vengono perforate? I casi sono due: o le palpebre del catoblepa avevano la superficie interna a specchio, oppure a corpo nero che assorbiva il raggio, però in questo caso producendo energia termica, cioè scaldandosi, tutto fa pensare che la vicinanza del Nilo permetteva il raffreddamento di queste palpebre rosa e febbricitanti. Sono ipotesi. D'altronde il pipistrello usa il sonar, che poi è stato scoperto e impiegato nei sommergibili; gli uccelli migratori usano una bussola magnetica, le api il sestante; tutto era già stato inventato in natura, sistemi sofisticatissimi, solo la ruota sembra non l'abbia inventata nessun animale in natura e sia tipica dell'uomo, ad esempio dell'uomo con la carriola, che più ancora della pietra scheggiata (o amigdala) ha prodotto il salto dall'animale (che va a piedi) all'uomo civilizzato (che va con la carriola, o si fa portare in carriola). La carriola (e la ruota, che però senza carriola è inutilizzabile) ha prodotto il grande balzo tecnologico originale, e infatti è ancora utilizzata e anche l'uomo moderno non ne può fare a meno, specie se ha un orto o un giardino o fa costruzioni in muratura. Dovremmo parlare della grande civiltà della carriola, più che del bronzo o del ferro. E anche sulla Luna in pratica gli astronauti sbarcati hanno usato una carriola per caricare i campioni di minerali, un po' camuffata, perché oggi ci si vergogna delle nostre origini. Anche tra gli insetti, che hanno prodotto meraviglie, non si è prodotta però la carriola né qualcosa d'analogo, a una o più ruote. Le formiche con la carriola, ad esempio, avrebbero già raggiunto gradi sommi di civiltà, e il futuro del pianeta sarebbe loro. Dunque il catoblepa se non emetteva raggi laser, poteva emettere radiazioni gamma, che in effetti inceneriscono, ma inceneriscono anche chi le produce, se non possiede un dispositivo o un organo particolare rivestito di piombo che assorba parte della radiazione, sul modello tecnico della bomba al cobalto. Queste sono le ipotesi di uno statunitense, professor E. Paneraris, dell'Ohio University, sul catoblepa e la sua realtà storica (Elias Paneraris, On catoblepas and reality of mithological animals, 1952). Lo stesso professore sostiene che il basilisco emettesse napalm, cioè sali di alluminio e benzina ad effetto incendiario, che inceneriva infatti le erbe; o defolianti derivati dalle triazine, o diserbanti dipiridilici, tossici anche per gli animali selvatici, usati oggi nei giardini contro le erbacce o come disinfestanti selettivi in agricoltura, oppure durante la guerra in Vietnam. Il professore si dimostra perplesso (nel suo studio) di fronte alle Gorgoni, che pietrificano; la base del fenomeno doveva essere ustorio, con una fonte ad energia nucleare. Ma perché, si chiede, solo guardandola si veniva pietrificati? Siamo di fronte a radiazioni non ancora scoperte, che speriamo, conclude il professore, non siano scoperte dai militari. | << | < | > | >> |Pagina 59La mandragola è una radice, che si biforca come due gambe di donna, e quando la si toglie dal terreno manda un grido di disperazione. Come ciò sia possibile nessun autore lo dice. Ma la mandragola per questo si colloca nella linea incerta tra il vegetale e l'animale. D'altronde si legge nel Talmud che quando una pianta, o anche un semplice arbusto viene reciso, uno stelo d'erba, un piccolo non ti scordar di me, si leva un grido straziante che va da oriente a occidente percorrendo tutto il cielo, ma nessuno lo sente. È questa la condizione del vegetale, che è muto, e non si sente il muto canto di un prato in una giornata di giugno, ogni specie di erba con la sua tonalità diversa, il radicchio con la voce da basso che canta canzoni melodiche, le eriche che formano un coro come di donne in chiesa, il vilucchio che fa il tenore napoletano, e via di seguito, sono centinaia di specie in un prato qualunque, con vari solisti, che si aprono al sole; di color giallo, bianco, rosato, azzurrognolo, è come un canto a bocca chiusa, un inno, che dura una giornata, raggiunge l'apice tra mezzogiorno e le tre, se non è nuvolo, poi scende di un'ottava, poi di due, e quando il sole tramonta c'è come un brusio, una specie di debole Ave Maria in chiave di basso, o di Om, perché l'erba è profondamente religiosa; non che creda in un Dio antropomorfo, l'erba non crede in niente, neanche nelle mucche, al massimo dice: «accomodatevi», e le mucche per ringraziare rilasciano quelle loro larghe e molli deiezioni escrementizie, che per un prato sono come per noi i baccanali, cioè godimento alimentare, e ancor più alto si leva l'inno del prato ad ogni deiezione, sia mucca, cavallo, asino, o sia il contadino che sparge letame, o un umano dietro un cespuglio che fa la cacca, si sente un muto grido di giubilo, che è religioso e materialista. Per un prato tutto è mistero, quanto alla causa, anche ad esempio la pioggia, chissà da dove viene, ma si leva un grande «aaaaah» di benessere, sia pioggia naturale o il getto dell'irrigazione, il prato non sa mai l'origine delle cose (la causa prima), non sa fare filosofia, sente l'acqua nelle radici ed è un «aah» immemore, come un laudatur, che se l'erba avesse la bocca e un apparato vocale (nonché un sistema neuronale e una traccia anche minima di cervello o un ganglio sinaptico) riempirebbe l'aria con un tale volume che vibrerebbe fino agli altostrati dell'atmosfera. Si immagini quindi quanto sia intenso il canto di una foresta, o della giungla tropicale; e quindi quanto sia silenzioso all'opposto il deserto. Solo dopo aver viaggiato chilometri e chilometri nel niente i cammelli fiutano l'oasi, e forse hanno imparato a sentire il modesto alleluia di un'oasi, che se si è sottovento si sente appena appena anche da molto lontano. Le palme però se credessero crederebbero in Maometto, infatti l'oasi ha la voce solitaria del muezzin, il quale ha imparato dall'oasi il suo lamentoso ed elevato vocalizzare. La palma fa uguale, ma muta, e l'oasi è come un coretto salmodiante, ma muto. Quando lo strazio è troppo, un vegetale urla tanto che lo si sente. Ad esempio un tronco di legno nel fuoco, se è ancora vivo e vegeto, si lamenta, soffia, e grida che fa pietà, anche con fischi, con sibili, per richiamar l'attenzione e chiedere aiuto. Ma gli esseri umani sono insensibili, e si scaldano al fuoco allegramente, senza rispondere al tentativo estremo del legno di entrare in comunicazione. Bisogna pensare che per un tronco arrivare a parlare è uno sforzo supremo, come svellersi l'anima. Quando c'è il vento e si sente un sussurro, non è l'albero, è il vento che parla tra i rami, e per ogni albero ha un frasare diverso. L'albero lascia fare, lui è come un anacoreta in preghiera, che lo si può stuzzicare, chiamare, gli si può mandare un'odalisca semi svestita, una meretrice bellissima, l'anacoreta resta immobile, con la mente lassù, insensibile al mondo terracqueo; e così, un pioppo, ad esempio, è tutto rivolto al cielo, la faccia che guarda in alto, e le mani, se così si può dire, cioè le foglie, con le palme rivolte al sole, come uno in attesa della discesa dello Spirito Santo. Ecco che arriva il vento, tutte le foglie si agitano, anche il fusto si inclina poi si raddrizza, e i rami anche loro, si inclinano, si divincolano sbattuti qua e là, sembrano vivi; in realtà il pioppo non lo si può distoglier dall'estasi. Quando passa il vento per una macchia di alberi, o per un bosco, o per un gruppo di cipressi di cimitero, è la grande tentazione che passa, il vento è come un volo di demoni, che tenta di strappare le piante al loro stato immobile di contemplazione, come se scuotesse una fila di monaci inginocchiati, con la faccia fissa ai cieli, che li si può anche tirare, gli si può gridare all'orecchio, gli si può mandare odore di femmina o apparizioni di femmine così nitide che sembrano vere, e che si strusciano e vellicano i monaci; i monaci niente, non se ne accorgono, perché l'obiettivo dei demoni è di distrarli; e così il vento per gli alberi è come l'onda di tentazione che li percorre, per distrarli, toglierli dal loro stato vegetativo di ascesi; ma non c'è niente da fare, e allora il vento urla, per ogni pianta c'è un urlo diverso, tra i pioppi è come un fremito, tra i salici fischia, eccetera, e si può infuriare a tal punto che un ramo si spezza, un albero cade; ma è come quando un monaco cade per la forza della tentazione, anche a terra la sua preghiera continua, come si vede nei dipinti di martiri, che son gettati a terra, spogliati, un braccio gli viene spezzato, e il martire tace, ossia continua il suo inno interiore, a volte anche con tutta la voce che esplode fuori: «laus et iubilatio... salus honor virtus quoque... sit et benedictio...» che è lo stesso canto interiore di un albero sotto la bufera infernale. Quindi, in conclusione, anche per noi umani l'albero va preso ad esempio. | << | < | > | >> |Pagina 63La cicala effettivamente passa l'estate a cantare (in greco si dice achete per questo), ed è falso che poi d'inverno vada a chiedere il cibo alla formica, sia perché la cicala si nutre di rugiada, dice Plinio (Nat. hist., XI, 32), sia perché non ha la bocca, ma una specie di piccola lingua con cui lecca la rugiada. Poi se la cicala si presentasse alla porta della formica il primo problema sarebbe quello della comunicazione, perché è noto che le formiche non parlano, o se parlano, parlano talmente piano che nessuno finora, anche con degli apparecchi acustici, è riuscito a sentirle. Mentre la cicala è abituata ad urlare, ed urla sempre la stessa canzone, che può avere diverse intonazioni da soggetto a soggetto o da luogo a luogo, ma fondamentalmente ripete sempre lo stesso concetto, che è un'affermazione, una specie di sì ripetuto, sì sì sì sì, che è anche il suo modo di pensare, che cioè tutto va bene, su tutti i fronti, e che al mondo ci vuole dell'ottimismo, e l'ottimismo ridà vigore ai mercati, la gente spende, i consumi aumentano, le industrie producono, è un circolo, e quindi si dimostra che l'ottimismo alla fine produce le condizioni per essere ottimisti. Infatti la cicala succhia la rugiada al mattino presto, poi quando non ce n'è più e si entra in una fase di depressione economica che gli analisti giudicherebbero nera, di lunga durata, perché è estate, c'è caldo e il sole potrebbe restare in cielo fermo e asciugare tutto per dei mesi, quindi chi avesse ancora della rugiada dovrebbe fare come la formica e metterla via, risparmiarla; ecco che invece la cicala salta su un ramo e si mette a dire di sì: sì sì sì sì, cioè a esprimere sinteticamente l'ottimismo, che la rugiada adesso manca ma tornerà, i mercati riprenderanno vigore, per dirla con il linguaggio degli analisti, e tutta la mattina la passa a dir sì, e questo è comprensibile, perché è ancora sazia e contenta, ma a mezzogiorno e nelle prime ore del pomeriggio, quando brucia di più il solleone e ci si aspetterebbe un prevalere della sfiducia, cioè la classica caduta dei titoli azionari e dell'indice MIB, più che mai la cicala grida il suo ottimismo, mentre la formica laggiù in terra con una diversa teoria di mercato fondata sull'accumulo dei beni primari nella prospettiva che tutto inevitabilmente a un certo punto andrà male e crollerà l'agricoltura, la zootecnia, la meteorologia sarà avversa eccetera, la formica come è noto lavora e risparmia, e non compera titoli in Borsa né fa mutui a tasso variabile o tenta di speculare su consiglio della sua banca che dice di far gli interessi del cliente ma in realtà fa i suoi, esclusivamente. Dal punto di vista della cicala, quella della formica è un'economia primitiva, che non tiene conto degli aspetti psicologici del mercato, e di come la ricchezza sia svincolata dall'effettivo possesso, quindi continua a gridare sì per tutto il pomeriggio, da tutti gli alberi, per chilometri e chilometri di campagna; questo sì, che fa venire mal di testa, si chiama frinire, il frinire delle cicale, che è come dire la loro scienza economica, la quale forse è più giusto chiamarla ideologia, tanto è ostinata e sincera, contro tutte le constatazioni di fatto, che cioè arde il sole, tutta la rugiada è evaporata e chi può dire se mai tornerà? Finché a forza di cantare a turno o in coro, confermandosi reciprocamente, e in modo che quando una smette un'altra attacca, e non ci sia mai calo dell'ottimismo economico, viene la sera, attaccano i grilli, che come è noto fanno cri cri, che significa crisi, i grilli sono obiettivi, si riferiscono alla giornata, che è crollata, la luce è crollata, le fonti di calore crollate, sono catastrofisti e gridano tutta la notte perché si faccia qualcosa o dal buio non si uscirà. Ma le cicale nel frattempo sono cadute addormentate (per la fatica di sostener l'ottimismo) e non sentono. Le formiche dal canto loro hanno chiuso le porte e son là tutta notte che contano. Poi viene l'aurora, poi l'alba, e su tutti gli alberi, sull'erba eccetera, c'è la rugiada, la quale è venuta in seguito all'ottimismo, senza ottimismo non ci sarebbe stata questa nuova euforia dei mercati (dove per mercati intendono l'erba) e la fiducia degli investitori (che non si sa chi sono), è un fatto psicologico, dicono le cicale, o pensano, perché quanto a dire, dopo aver mangiato e bevuto, riprendono a dire il loro perpetuo sì. E così tutto luglio, agosto, un po' di settembre se fa ancora caldo, e ai primi freddi muoiono tutte; una catastrofe (dicono le formiche), un'ecatombe. Ma le cicale non lo vengono a sapere di questa loro ecatombe; non c'è uno storiografo, un Tucidide ad esempio, che sopravviva; e se ci fosse a chi lo racconterebbe? Quindi mentre la formica rabbrividisce col metabolismo ridotto e rosicchia al buio i suoi sacchi di grano, nessuna cicala viene a bussare alla porta. Loro continuerebbero a dir sì anche nell'aldilà, ce l'avessero, ma è improbabile. E in ogni caso le cicale, prima di morire, nei pochi attimi di pausa dal sì, credendo di fare i loro bisogni escrementizi, con l'ovidotto hanno deposto sotto terra le uova; le quali aspettano tranquille che sia finita la grande depressione economica per ricominciare a giugno da capo col loro ottimismo inguaribile. | << | < | > | >> |Pagina 85Noi oggi pensiamo di essere gli ultimi arrivati su questa terra, l'ultimo risultato dell'evoluzione biologica: dai batteri, agli animali marini, ai mammiferi, all'homo sapiens, pallido, con pochi peli, tendente con l'età alla calvizie, arrivato dall'Africa, probabilmente via terra, il quale ha cacciato l'uomo di Neanderthal, che aveva il cervello un po' più piccolo e tante cose non le capiva, ad esempio la tecnologia avanzata della selce scheggiata, la palafitta e la smania di progresso e di novità, che nell'homo sapiens sapiens è stata un'esplosione. Ma precedentemente, prima delle idee di Darwin, si riteneva che l'uomo fosse venuto per primo su questa terra (vedi il Timeo di Platone), e che in seguito gli animali fossero nati come sue trasformazioni peggiorative. Ad esempio gli uomini deboli di mente ma con tendenze accanitamente teoriche, quelli cioè molto ideologici, che non sanno niente del mondo terrestre e parlano ossessivamente di cose campate per aria (come sarebbero oggi i sociologi, gli psicoanalisti, gli psicopedagogisti eccetera, direbbe di sicuro Platone), tutti costoro rinascendo rinascono uccelli, nel senso che il loro principio vitale nella generazione successiva prende la forma che più si adatta al loro carattere. Il che mi sembra ragionevole, e tutti questi teorici (compresi i critici, i critici d'arte, i critici televisivi, fotografici eccetera) possono, una volta rinati e evoluti, stare sugli alberi e lì discutere indefinitamente, ciascuno sostenendo le idee proprie della sua specie: il passero, l'upupa, lo storno, il merlo, il fringuello, l'allocco, la gazza, la cincia, la cornacchia eccetera, rappresentano altrettante posizioni teoriche, e non c'è limite alla loro proliferazione; se andate in un bosco, in pratica è come ascoltare un eterno dibattito, circa come quelli che fanno al giorno d'oggi in televisione, e dicono che nella giungla amazzonica o nelle foreste interne del Borneo i dibattiti siano accanitissimi, calino un po' verso sera, quando i relatori non ce la fanno più a tener gli occhi aperti, e poi riprendano per tutta la notte con altri relatori e altri temi, ad esempio sul buio, chi lo ha inventato, se è utile, se è da considerarsi un progresso, alcuni dicono sì, altri fanno uuu ... uuu, che è come dire che ci vuole cautela, che il buio non è un concetto assoluto, che dipende dalla società, dalla teoria dei sistemi, dall'inconscio sociale, dal postmodernismo, e così tutto l'anno, per secoli; millenni oramai. Gli uomini invece più limitati, che pensano solo all'oggi e al domani, e usano poco la testa quasi che fosse inutile, costoro quando rinascono, sentendo la testa troppo pesante, l'abbassano, e di conseguenza abbassano il busto e la schiena, e diventano animali quadrupedi, con la testa più vicino alla terra e le braccia come due nuove gambe di sostegno; la faccia si allunga, e anche l'orizzonte si fa più rasoterra e più consono; hanno il cibo più vicino alla bocca se sono erbivori, e tanti altri vantaggi; ognuno poi, a seconda dell'indole avrà la proboscide, il collo lungo, un corno, due corna eccetera, e sarà un elefante, una giraffa, un rinoceronte e così via, una iena, una tigre feroce, un somaro, un maiale eccetera, a seconda della sua precedente natura di uomo. Qui tralascio quegli spiriti intermedi che salgono gli alberi, come gibboni, macachi, mandrilli o bradipi, che sono una degenerazione involutiva. Quelli poi ancora più stupidi e bassi di mentalità, e viscidi, sono diventati gli animali che strisciano; cioè da uomini si sono naturalmente evoluti in bisce, lumache, vermi da terra, larve, vermi solitari eccetera, che formano una sola categoria, anche un po' repellente, come erano repellenti nello stadio umano; spesso costoro sono velenosi, e anche da uomini avevano ad esempio una vita parassitaria, da nematodi, senza un mestiere; ad esempio Platone dice che sono così certi politicanti, non tutti, assessori, deputati, deputatesse, che dove passano lasciano una striscia di bava, e schizzano veleno, o si attaccano all'intestino di un ente (una banca, una società) e succhiano i soldi e i privilegi. Lo dice Platone, o comunque lo fa capire. Poi c'è l'ultima specie, l'acquatica, che deriva dai più ignoranti di tutti, cioè si è evoluta dagli uomini che non sanno neanche cos'è l'aria pura, e quindi per la legge dell'evoluzione si son fatti pesci, ostriche, cozze, granchi, plancton, amebe, meduse. Molti di questi tipi, direbbe oggi Platone, vivono negli spettacoli televisivi. Quanti presentatori sono già crostacei intellettualmente! e nella prossima vita lo diventeranno! E poi gli intrattenitori, quelli che parlano senza prendere fiato, che pare boccheggino; e poi i belli dei rotocalchi, le belle (che stanno in vaso come i pesci rossi), i relativi fotografi, le mogli dei ricchi, i ricchi, gli ammiratori dei ricchi, i lettori appassionati delle avventure dei ricchi, che diventano cozze, molto naturalmente, essendolo già. Tutta la televisione è stata inventata per produrre la fauna acquatica, che è enorme, specie e sottospecie, anche cavallucci marini, seppie, anguille, sogliole. E infatti al dopo ci si prepara stando in spiaggia, d'estate, di fronte al mare, che sarà il loro destino, non di tutti, di molti. In questo secolo tanti aspirano al mare, vorrà pur dire qualcosa nella storia umana dell'evoluzione. | << | < | > | >> |Pagina 103Dalla grammatica si genera tutto un bestiario che ossessiona poeti e scrittori, dice Teofilo Folengo nel Baldus. I laonde, i per cui, i costà appartengono alla famiglia degli insetti e ronzano attorno alla testa del poeta sotto ispirazione o dello scrittore che scrive. All'inizio volano e basta; poi più passa il tempo più si fan fastidiosi e vengono a intralciare il retto pensiero, formando ragnatele senza alcun senso. «Dunque per quindi come già dissi — scrive il poeta confuso — e comunque col quale per cui io, se non altro...» e così di seguito, perché ormai gli spuntano fuori solo pronomi, locuzioni avverbiali, deissi, suffissi, particelle enclitiche, preposizioni eccetera eccetera, che non voglion dir niente ma lo infastidiscono oltre ogni misura, intralciano la vena creativa e facendolo anche soffrire. Questa parte della grammatica è comunemente classificata fra gli insetti, sia per la piccolezza, sia perché sono esseri senza sangue che vivono nei buchi e nelle fessure della parola. Ce ne sono di lunghi e vermiformi, come il laonde, il nonostante che, il per l'appunto, che strisciano e si infilano tra frase e frase generando una bava che rallenta il discorso; ce ne sono di piccoli, molto pungenti, come qui, lì, costà, va be', su per giù, che volano e non si riescono a prendere, e formano colonie dove si riproducono lasciando il rivestimento cheratinoso e le squame. Questi insetti si generano dalle incertezze, cioè se un poeta va dritto per la sua strada verbale, l'aria attorno è pura, ma se si sofferma e si rilegge, poi pensa ad una modifica, cancella, riscrive, poi torna a cancellare, e sta in dubbio, ecco che dal foglio, o dall'inchiostro, o dall'interstizio fra tasto e tasto (se usa un computer), ecco che volano fuori i primi nessi pronominali che gli ronzano attorno alla testa. Il poeta dovrebbe alzarsi, chiudere i fogli, spegnere il suo computer, aprir la finestra e uscire, finché l'aria si è ossigenata e i pronomi volati fuori. Invece succede che uno sta lì a ostinarsi; allora non è più solo questione di pronomi: una per una tutte le forme di morfologia grammaticale prendono corpo e si animano; alcune sono schifose come larve o vermetti, altre si attaccano e camminano addosso come se si fosse seduti su un formicaio di formica rufa e quindi non si riesce a star fermi, il poeta si gratta continuamente, incerto fra un onde per cui o per il quale, fra un di modo che e un per via del fatto che poi considerando la quale... che è come una lumaca lunga dieci centimetri che lascia una striscia di bava, e non c'è rimedio, la grammatica ormai vive di vita propria, ogni forma vola via separata dall'altra, ognuna producendo un proprio ronzio di cicala, di vespa, di calabrone o zanzara, per cui il poeta si dibatte con le mani nell'aria, si gonfia, pensa di ricorrere all'ammoniaca, ha la testa che è come un favo, anzi come un legno vecchio tarlato ridotto a una spugna, come un trave tutto perforato e formicolante, per cui all'improvviso crolla il tetto e poi crolla la casa, in una gran nube di polvere, la quale poi a poco a poco si deposita e finalmente il poeta se ne va altrove, con qualche residuo prurito, un conciossiacosaché che ancora gli punge la nuca o un orecchio; poi respira l'aria purificata e un venticello antisettico, che significa igiene mentale e pulizia. | << | < | > | >> |Pagina 115Il pegaso è un animale alato con la testa di cavallo. Plinio dubita che esista (Nat. hist., X, 136). L'ippogrifo è il suo contrario, un cavallo con le ali e la testa da uccello. Ma è noto dal 1516, avendolo per primo descritto l'Ariosto. Nel Boiardo è preceduto dal grifone, che è una specie di rettile col becco e le ali, capace di sollevare in volo oltre a se stesso anche molti quintali. In genere lo si teneva alla catena, perché se no volava via, e lo si teneva come un cane da guardia. In Plinio i grifoni sono uccelli col becco adunco e le orecchie, vivono in Asia, nelle regioni del Nord, e difendono l'oro delle miniere. Perciò sono in guerra continua con gli Arimaspi, che è un popolo con un occhio solo in mezzo alla fronte, che da sempre cerca continuamente di prendere l'oro (Erodoto lo riferisce nelle Storie, III, 116, e IV, 13, 27, ma non ci crede). Questa del volo è sempre stata una forte attrattiva, cioè far volare corpi grossi e pesanti. Io distinguerei quattro tipi di volo: c'è il volo planato, per il quale è molto utile il vento e le correnti ascensionali; non si conoscono animali fantastici che sfruttino questo sistema. Ogni tanto qualche bambino con l'ombrello aperto di nome Roberto è stato portato via dal temporale, il che rientra nel volo planato, ma era considerata una disgrazia e non un metodo (vedi H. Hoffmann, Der Struwwelpeter, 1845); a meno che inseriamo in questa categoria certi cani che vengono lanciati col paracadute per esperimento, ma come si capisce è un fatto artificiale di civiltà e non di zoologia. Poi c'è il volo tramite un mezzo più leggero dell'aria, come gli aerostati, che sfruttano la leggerezza di un gas. Niente animali fantastici a forma di pallone o di mongolfiera, anche nei tempi più remoti. Solo le nuvole galleggiano lente nell'aria, a volte in forme animali cangianti, per cui più che altro sono un riassunto illustrato di zoologia. Poi c'è il volo tramite lancio; e qui pare venissero lanciati asini vivi con una catapulta dentro le città assediate. Dentro a Castelfranco, dice il Tassoni (La secchia rapita, IV, 8), ne fu lanciato uno, con gran terrore dei castelfranchini. Ne lanciarono all'assedio di Costantinopoli, ma soprattutto rilanciavano dentro città i prigionieri con una grossa bombarda. In seguito l'uomo tentò il volo con questo sistema, ma non si riusciva a restare vivi nel momento dell'atterraggio, perciò fu abbandonato. Poi c'è il volo con ala mobile, in cui rientrano uccelli, elicotteri, un elicottero a vite di Leonardo da Vinci, che però non fu mai operativo, e quasi tutti gli animali fantastici, a cui però va fatto l'appunto di una certa insufficienza alare rispetto al peso, cioè in altri termini di un'insufficiente portanza. È vero che la scarsità della superficie alare può essere sostituita dalla frequenza dei battiti, ma allora entriamo nel sistema di volo degli insetti, che è quello adottato anche dalle fate o simili esseri che compaiono in fiaba. Il modello in genere è la libellula (la vespa, il calabrone ecc.), ma la sua descrizione meccanica è molto complessa, tanto che non c'è ancora un esatto modello fisico matematico che lo descriva. È da escludersi comunque che l'ippogrifo, il pegaso eccetera adottassero questo tipo di volo, diciamo volo ronzante, con duecento battiti al secondo (come nel moscerino da frutta), onde creare un vortice di sollevamento per superare lo stallo; in animali più grossi, anche se fantastici, il dispendio energetico sarebbe enorme, e l'onda sonora assordante, che si tratti di un cavaliere o di chiunque. Ultimo sistema è quello antigravitazionale, ma non ci sono esempi animali, neppure fantastici, a meno che sia antigravitazionale il volo ultraterreno, nel qual caso bisogna riconoscere che si dà in esseri umani speciali, ad esempio santi o sante nel momento dell'ascensione, o dell'apparizione celeste, o della trasmigrazione, anche in area pagana, indù o maomettana.
Il volo è sempre stato un grave problema essendo
noi sottoposti alla legge di gravità, che in realtà è solo
effetto della geometria dello spazio. Si vola quando si
è lontani da grandi masse, nello spazio profondo, nel
senso che si fluttua, altrimenti la massa deforma la
geometria, e il corpo in caduta libera si arresta sulla
superficie della massa planetaria sfracellandosi, questo
anche per un animale che sia fantastico. Un buon sistema antigravitazionale lo
si scopre ogni tanto in sogno (checché ne dica Cartesio) dove volare anche senza
ali sembra facilissimo e non un fatto fantastico. Il
problema è che quando ci si sveglia non si ricorda più
come si fa. E questo basti sul volo.
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