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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione Parte prima Qualcosa da capire 17 1. Relazionismo 22 2. La relazione «eccetrica» 27 3. La mediazione quale virtù 31 4. Dialogo e appartenenza 35 5. Tensione 39 6. Naturale e personale 44 7. Descrivere e persuadere 48 8. Niente altro che 52 9. Tecniche 56 1O. Banalità 60 11. Scomposizioni 64 12. Scientificismi 69 13. Fatti 74 14. Degni di fede 78 15. Testo e contesto 82 16. Effetti di senso 86 17. Interlocuzioni 90 18. Confessioni 94 19. Apprensione e comprensione 98 20. Osservanti e osservati 1O2 21. Il medico difficile 1O6 22. Il medesimo e l'altro 11O 23. Amabilità tecnica 114 24. Accordo e conoscenza 118 25. Adeguatezza Parte seconda Qualcosa che è 125 1. Figure della relazione 129 2. Cose e persone 133 3. Sensibilità ontologica 138 4. Azioni, eventi, entità 142 5. Di che cosa stiamo parlando? 146 6. Predicazione, quantificazione e funzioni di verità 150 7. La scelta dell'ontologia 154 8. Semplicità ontologica 158 9. Su ciò che vi è 163 1O. La relatività ontologica 167 11. Utilità, praticità, convenienza 171 12. Il bene pratico 175 13. Tolleranza 179 14. Opinioni 183 15. La forma logica dell'opinione 187 16. Il contesto come aggettivo 191 17. Letture e punti di vista 195 18. Problemi di vaghezza 200 19. Opacità 205 20. Realtà indipendente 209 21. Come le cose sono 214 22. Concetti e dati 218 23. Le conoscenze 223 24. Intersoggettività come oggettività 228 25. Ragioni pratiche Parte terza Qualcosa di cui parlare 235 1. Informazione e comunicazione ma senza linguaggio 239 2. Linguaggi 244 3. Filosofia del linguaggio clinico 248 4. La svolta linguistica 252 5. Asseribilità 256 6. L'approvazione 260 7. Del quale si parla con il quale si parla 264 8. Qualcosa che è possibile capire 268 9. Atti illocutori 272 1O. Il malato enunciato 276 11. Forma logica 280 12. Traduzione 284 13. Interpretazione 288 14. Predicati e relazioni 293 15. Disposizioni, enunciati e categorici 297 16. Entità, identità, ricontestualizzazione 301 17. Categorici osservativi 305 18. La massa critica come riferimento 309 19. Indeterminatezza del riferimento 313 20. Implicatura 317 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 9PrefazioneCon questo «quinto volume» si conclude, almeno per il momento, un ciclo di pubblicazioni, che ho iniziato alcuni anni fa. Una lunga e approfondita riflessione, per contribuire alla costruzione di un pensiero e di un'idea nuova di medicina scientifica. Giammai si conclude, nel senso di esaurire, una tematica, quella che riguarda l'apparato concettuale della medicina, il suo impianto dottrinale, che resta così vasta da offrire a chi lo desiderasse notevoli occasioni di studio e di proposta. Cinque volumi, anche se articolati nel tempo, sono uno sforzo notevole (ve lo assicuro) indipendentemente dal fatto che il loro risultato sia più o meno apprezzabile. Essi mi sono serviti a creare una base (dialogando e discutendo con una bibliografia ragguardevole per titoli e per discipline coinvolte) e a dedurne una proposta, in qualche modo meno superficiale, il più possibile argomentata, soprattutto capace di rifuggire l'abitudine di «salvare» la medicina scientifica, con le ricette, gli slogan e le esortazioni riumanizzanti. La medicina scientifica non è da «salvare» per la semplice ragione che non corre nessun imminente pericolo di morte o di estinzione. Essa, come è nella sua storia e tradizione, ha come un «dovere» di aggiornamento, di esame critico di sé, di adeguamento sia delle proprie conoscenze sia delle culture che a esse fanno da sfondo. Questo libro, come gli altri, intende esplicitamente partecipare a questo «dovere», con idee, proposte e intenzioni proprie. Il presupposto è che esiste un bisogno di aggiornamento del complesso dottrinale della medicina scientifica. Nessuno nega che esiste una tale necessna. Ma alverse sono le soluzioni prospettate. Da una parte vi è un'ortodossia, che si ripropone in quanto tale, anche attraverso ben selezionate contaminazioni culturali; all'opposto, vi è parecchia ideologia culturale che spesso tradisce malcelati atteggiamenti antiscientifici; e in mezzo gradi dell'uno e dell'altra. Per quello che mi riguarda la medicina deve essere scientifica anche se la scientificità, come dimostra il dibattito epistemologico, è ripensabile nell'interesse della medicina stessa andando anche oltre se necessario, all'ortodossia e alla tradizione. Che male c'è a migliorare? Il ripensamento della scientificità non riguarda tanto le conoscenze tout court (queste sono quello che sono) ma appunto le loro epistemologie e soprattutto le relazioni con altri tipi di conoscenze e di epistemologie, quelle che ad esempio si preoccupano di capire di un malato oltreché il corpo anche il «resto». (A parte il fatto che il corpo si può capire scientificamente in diversi modi). Sono conoscenze a vario titolo scientifiche e a vario titolo non esattamente scientifiche, che, confessiamolo, tutti auspichiamo siano in possesso del nostro medico curante, per farlo più bravo, più capace, più abile. Il problema è che in medicina mentre esiste uno «scatolone» in cui mettere la scienza e le sue epistemologie - che da Bernard in poi si è più che consolidato - non esiste ancora qualcosa di simile in cui mettere «il resto», cioè i numerosi riferimenti non biologici del malato, che però esistono anche se per lo più ignorati. Allora ripensare la medicina per me significa prima creare lo «scatolone mancante», quindi organizzare una relazione nuova tra questo e quell'altro per superarne contrapposizioni e dicotomie. La mia idea è quella di un sapere sinfonico. Ho proposto di chiamare (con il precedente volume) lo «scatolone» mancante «filosofia», per rapportarlo a quello definito «scienza», intendendo metterci dentro tutto ciò che in genere viene assegnato in vario modo alle «scienze umane», o alle «scienze dello spirito» o alle «scienze sociali», a quelle «linguistiche», e che pur non riguardando la natura biologica del malato comunque la condizionano e la caratterizzano. Ma avrei potuto chiamarlo anche in un altro modo, ad esempio «relazionologia medica», o «gnoseologia della medicina» ecc. Ho scelto «filosofia» per rimarcare il confronto tra «natura» e «cultura» e perché mi sembrava importante restare, pur con un intento di rinnovamento, nella storia e nella tradizione della medicina. Essa, prima di avere la recente identità solo scientifica ha avuto un'identità secolare soprattutto filosofica. Con il positivismo è stato assolutamente necessario liberare la medicina da tanti inutili gravami metafisici, proprio per svilupparla scientificamente. Oggi, che la sua scientificità è più che mai affermata, possiamo permetterci (anche perché ci è richiesto con insistenza dalla società civile) di recuperare non tanto la metafisica dei secoli passati, ma tutti quei saperi moderni che nel loro insieme affiancano la scienza medica per comprendere di più e meglio il malato. Questo quinto libro ha rappresentato per la mia riflessione una tappa fondamentale. La relazione tra il medico e il malato è infatti una realtà di «natura» e «cultura». Il linguaggio del malato, ad esempio, è una realtà al pari di quello sintomatico del corpo. «Cultura» e «natura» quindi, o, se si preferisce, «filosofia» e «scienza». Cioè le problematiche dei due «scatoloni» rientrano interamente nella «relazione»; anzi questa è il vero «scatolone» che contiene gli altri due. Il titolo La clinica e la relazione vuole indicare la scelta di fondo del libro, che è affrontata nella prima parte, Qualcosa da capire. In genere le espressioni «relazione clinica», o «rapporto medico-malato», intendono una relazione implicita, quindi scontata, ma che il più delle volte è semplicemente una giustapposizione tra il clinico e il malato. Non è detto che il clinico giustapponendosi al malato sia consapevole dell'esistenza di una relazione, o addirittura che esista una relazione, nel suo significato più autentico. In questi casi le giustapposizioni altro non sono se non l'assimilazione di un oggetto di studio rispetto a un apparato concettuale prevalente. Ho pensato così di distinguere «clinica», come realtà scientifica, da «relazione» come un'altra realtà, per superare «l'implicito», obbligando così la clinica a fare i conti con la «relazione». Cioè con una realtà «che è come tale in quanto tale», cioè è qualcosa in sé e non automaticamente insita alla clinica. «Relazione» per l'appunto. Ciò significa innanzitutto per la clinica rendersi conto che non è «relazione» estendere se stessa sul mondo del malato, quasi «colonizzandolo», con le proprie logiche considerate come le uniche valide. Non esiste tanto la «relazione medico-malato» ma esistono (in senso ontologico) il medico, il malato e la relazione. Se questa premessa è valida, come io penso, non ha molto senso «centrare» una «relazione» su uno dei suoi soggetti, fosse pure, come si teorizza nella letteratura sull'argomento, il malato (il famoso approccio «patient centred»). La vera sfida è accettare una sua idea «eccentrica», cioè senza un centro. Del resto gli approcci «patient centred» non sono per niente diversi sul piano epistemologico e ontologico da quelli «doctor centred». Sono il più delle volte delle forme di interviste più allargate che includono più informazioni di carattere non strettamente biomedicale. Ma il modello di giustapposizione fondamentalmente è lo stesso. Per me si tratta invece di definire una relazione accertandone le logiche e i suoi peculiari saperi. Se si accetta questa impostazione, va da sé che affrontare la relazione medico-malato con le «tecniche», per lo più di tipo comunicazionale, è insufficiente (non inutile). Ridurre la relazione a «tecniche» è un po' un uccidere la relazione in tutta la sua ricchezza. La seconda parte del libro, Qualcosa che è, intende proporre un significato completamente nuovo di «relazione». Essa è soprattutto relatività ontologica. Per questo la relazione è, suo malgrado, la difficoltà maggiore per la clinica perché la sua conoscenza di un malato è molto diversa da quella scientifica. È una conoscenza filosofica che si incarica di capire il mondo della relatività e della vaghezza che pur appartengono al malato e che sono l'opposto dell'idea di evidenza, di verificazione così care alla scienza. La relazione è ontologia perché in essa tutto il malato è esattamente come è. Non come vorrebbe che fosse la clinica, un puro oggetto di studio. Ontologia per un medico significa servirsi di ciò che c'è nella relazione tra lui e il malato per fare semplicemente una clinica migliore. Nella terza parte del libro, Qualcosa di cui parlare si sostiene che la «relazione», tra la clinica e il malato, non è solo comunicazione cioè scambio di informazioni, ma è soprattutto realtà linguistica. «Relazione» e «linguaggio» sono in pratica le due facce della stessa medaglia. Il linguaggio diversamente dalla comunicazione rappresenta chi parla, mentre la comunicazione si occupa solo di organizzare messaggi. La relazione tra un medico e un malato non è riducibile a uno scambio di informazioni, ma è il luogo dove i soggetti si conoscono come tali attraverso il linguaggio. Il paradosso è che in tutta la letteratura clinica sulla relazione medico-malato viene ignorata quella che in un secolo di dibattito filosofico è stata definita «la svolta linguistica», come se fosse possibile proporre una comunicazione senza linguaggio. Ovviamente non si tratta né di una svista né di una dimenticanza ma semplicemente della difficoltà per la medicina di accogliere approcci diversi. Il modello cibernetico è più affine alla clinica che non alla filosofia del linguaggio. Il linguaggio è l'esempio più evidente che un malato non è solo un oggetto scientifico ma è un soggetto relazionale che si deve conoscere con saperi assolutamente propri. La relazione tra la clinica e il malato non è quindi una questione scontata, semplice, banale, risolvibile con un po' di amabilità e di comunicazione, ma è, per l'appunto «qualcosa da capire», «qualcosa che è» e «qualcosa di cui parlare». Riuscire a debanalizzare questa discussione sarebbe già un grande passo avanti. IVAN CAVICCHI Roma, 3 settembre 2003 | << | < | > | >> |Pagina 151. Relazionismo È convinzione unanime che una delle spiegazioni più convincenti della cosiddetta «crisi della medicina» sia quella del cattivo rapporto «medico-malato». La «relazione» diventa così un contenitore nel quale è possibile ritrovare le «ragioni» di tale crisi e, naturalmente, i suoi rimedi. Se si ritiene, ad esempio, che la famosa «disumanizzazione» della medicina nasce dal rapporto «dis-umano» tra medico e malato, è del tutto logico trarne la convinzione che l'umanizzazione sia la conseguenza quasi automatica della sua riumanizzazione. La tendenza è di spiegare, attraverso la relazione «medico-malato», un po' tutto. Vi sono autori che, addirittura, fanno coincidere la crisi di tale relazione con quella ben più strutturale di medicina e società. La relazione medico-malato, inoltre, costituisce un tema e una problematica fondamentale di quella che comunemente si chiama «filosofia della medicina». «Tale problematica è strettamente connessa alla concezione della malattia ed è affrontata anche nell'ambito dell'etica medica». [...] È sempre più chiaro che la relazione medico-malato debba essere considerata come nozione prima non così facilmente definibile per centrature. Il malato e il medico sono in buona misura un «prodotto» della loro relazione, la quale non esiste se non attraverso loro che la agiscono. Quindi, l'idea di centratura perde di esplicatività perché ciascuno è comunque relativo all'altro. Il medico e il malato entrano nella loro relazione, nel senso che il primo è relativo al secondo «come a sua causa» e viceversa. In tale quadro i soggetti coinvolti non hanno significato o, per lo meno, non ne hanno uno esatto, se non in riferimento a loro stessi. Quindi, «più centrato», «meno centrato», «centrato su...» ecc, sono modalità di relativi perché si dicono sempre in riferimento a qualcos'altro. In questo senso il rapporto medico-malato è sempre relativo. L'idea di «centratura» è quasi l'apporto di relativo. La conoscenza medica è relativa, perché essa consiste nello stabilire relazioni tra dati, credenze, vissuti, esperienze, nozioni ecc., che riguardano comunque due persone. Quindi è assolutamente corretto insistere sull'importanza della relazione medico-malato senza per questo ignorare gli aspetti relativistici. Tuttavia, in medicina, è opportuno distinguere, come fa Hartmann relazionalità e relatività. Vi sono infatti nel rapporto terapeutico valori del medico e del malato che sono in relazione con i loro mondi senza perdere, per questo, la loro irrelativa assolutezza. Quindi non è improprio parlare in questo caso di relazionismo, cioè di relazioni relativamente relativistiche. | << | < | > | >> |Pagina 1548.
Semplicità ontologica
In La filosofia della pratica medica avevamo fatto ricorso al famoso «rasoio di Occam» per sottolineare il fatto che gli «scientisti» della medicina, di fatto obbediscono a un principio dell'azione minima quando privilegiano solo i sintomi concreti. Come tutti gli strumenti i rasoi si possono usare per tagliare diverse cose, in nome della semplificazione, dell'essenzialità, dell'ammissibilità, della esperibilità. Il senso che Occam dava al suo rasoio era quello davvero molto pragmatico di non postulare entità inutili. Evitare le inutilità è una cosa molto saggia. Occam tuttavia sosteneva anche che bisognava evitare le ipotesi complesse, in particolare quelle non suffragate dall'esperienza. In una relazione clinica, è difficile evitare, rispetto a un soggetto bio-psico-sociale le «ipotesi complesse» ed è difficile disporre, del suffragio dell'esperienza. Il rischio che si corre è quello davvero di usare il rasoio per tagliare lo psico-sociale e lasciare solo il bio. Altra cosa sarebbe se il rasoio fosse usato per tagliare la ridondanza che sostiene il bio-psico-sociale, cioè quel «tutto» del quale cerchiamo, con ogni mezzo, di rendere conto. Vi sono un'infinità di cose in un dialogo che non hanno nessuna utilità ai fini diagnostici. Che il malato accavalli la gamba destra o la gamba sinistra, per il clinico non è rilevante a meno che una delle due gambe sia anchilosata, cioè non accavallabile. Poste così le cose, il rasoio di Occam diventa uno strumento per decidere la realtà della relazione ammissibile rispetto ai fini prevalenti della relazione. Diventa cioè uno strumento ontologico. L'uso della «semplicità» ontologica è un criterio consigliato anche da Quine. Rispetto alla grande abbondanza semiologica di una relazione clinica essa è inevitabile. I segni, gli oggetti, gli eventi, le proprietà, gli enunciati significativi (tutto questo esiste in una relazione) non si debbono moltiplicare oltre il necessario. La moltiplicazione non è conveniente alla gestione della relazione e pensare di affrontare ogni enunciato, ogni proprietà, ogni oggetto con delle tecniche comunicative è inutile quanto inconcludente. La «semplicità» ontologica, tuttavia, non deve essere giammai una banale riduzione di ciò che è complesso, cioè non può essere la negazione di varietà e di una multimodalità. La relazione clinica ha vari oggetti, vari modi di essere e non può essere assunta in un unico modo supponendola priva di parti. La semplicità ontologica non è quella dell' incomplexum, cioè dell'anticomplessità. Per semplicità ontologica si intende una caratteristica dell'ipotesi clinica da intendere quale esigenza dell'economia alla quale attenersi per governare il ridondante e l'eccesso semiologico. Semplificare ontologicamente una relazione clinica vale per una procedura, un approccio, un modo dialogico atto a rendere economiche la concettualizzazione o la teorizzazione. Questo equivale a una gestione della relazione in grado, proprio ai fini di gestire, di ridurre la ridondanza intorno ai concetti adoperati. Il problema della semplicità ontologica è sintetizzabile con l'espressione «su ciò che vi è». | << | < | > | >> |Pagina 22825.
Ragioni pratiche
Il clinico realista, relazione o non relazione, ha bisogno di oggettività, ne ha bisogno al punto da non esitare ad adottare un vero e proprio oggettivismo metafisico in virtù del quale, come spiega Minazzi, l'oggetto della conoscenza è un mero «dato» che il clinico conoscerebbe modellandosi su di esso. A un clinico suona strano sentirsi dire che, suo malgrado, è un metafisico, per lui che è abituato a contrapporre la metafisica alla scienza. Eppure è così. Vi sono diverse versioni dell'oggettivismo metafisico: vi è quello epistemologico per il quale la conoscenza oggettiva è in grado di descrivere la realtà come è; vi è quello ontologico per il quale la realtà oggettiva coincide con la realtà come essa è. Il sogno è lo stesso per tutte: poter rappresentare in modo assoluto il reale. Oggi, non vi è dubbio, il dibattito in corso spinge per una nuova concezione dell'oggettività che eviti in qualche modo qualsiasi metafisica e nello stesso tempo il relativismo assoluto. La scuola pragmatista si muove esattamente in questa direzione. L'oggettività è un punto di incontro tra pensiero e realtà. Esiste un'oggettività nella relazione clinica? O meglio: la relazione clinica è oggettiva? Per rispondere dobbiamo chiedere: ma oggettivo in quale senso? In una relazione clinica quando un malato dice cose che si suppongono oggettive si intende che quel che dice ha a che fare con cose reali che sono nel suo mondo reale e non con fisime della sua mente. Purtuttavia in quello che dice il malato vi è un significato epistemico di oggettività che riguarda la questione di capire se essi valgono anche per il medico che ascolta. È chiaro che in una relazione clinica l'accezione che interessa è quella che da un'oggettività personale del malato si giunga a un'oggettività interpersonale. Il malato ha diritto a dire quello che vuole ma se non esiste in quello che dice un aspetto impersonale e interpersonale la sua oggettività resta la sua e di nessun altro. Tutto quello che può aspettarsi un malato da un medico è che questi si impegni ad agire nella stessa maniera qualora egli si trovasse nella stessa situazione, disponendo dello stesso tipo di informazioni. Ma per fare questo l'oggettività come si diceva più avanti, va comunicata. Resta il fatto che sia per il medico sia per il malato valgono quei valori che funzionano nella ricerca razionale (verità, accuratezza, verificabilità... ma anche asseribilità ecc.). Il significato reale di oggettività resta legato a questi valori. Pur tuttavia esistono anche altri valori, quelli soggettivi che nel corso della relazione sono molto presenti. Lo ribadiamo: in una relazione clinica esistono valori oggettivi e soggettivi, e tutti sono ugualmente importanti. Per un clinico, quando si tratta di fare una diagnosi, ciò che conta, sono i valori che hanno la forza di trascendere la dimensione soggettiva e questi sono i valori cognitivi. I valori che funzionano nella ricerca razionale sono immanenti alla relazione clinica e, in medicina come altrove, non se ne può fare a meno. | << | < | > | >> |Pagina 2331.
Informazione e comunicazione ma senza linguaggio
La cosa che più colpisce della manualistica sulla relazione medico-malato di matrice clinica, è la clamorosa assenza di un discorso sul linguaggio. Si fa un gran parlare di comunicazione ma è come se questa avvenisse, il che è paradossale, in assenza del linguaggio. Probabilmente al fondo vi è un problema, per l'appunto di comunicazione, tra saperi e conoscenze diverse. La cosa colpisce proprio rispetto ai rapporti tra filosofia e medicina. È fuor di dubbio che il Novecento, tra le altre cose, ha proposto come riflessione filosofica, quella che è stata definita la «svolta linguistica». Di questa svolta nella manualistica sulla relazione non vi è traccia. Probabilmente per come è fatta la medicina è più semplice (si fa per dire) acquisire le problematiche comunicazionali che non quelle linguistiche. O quelle cognitivistiche. Forse perché è più agevole organizzarle in tecniche, in metodi, in procedure. Il cognitivismo, del resto, è più affine ai saperi neuroscientifici della medicina stessa. Anche in questo si vede la forte selettività della medicina ufficiale nei confronti degli altri saperi e la propensione ad acquisire solo (o prevalentemente) ciò che è funzionale alla conservazione di un apparato concettuale. Con questo criterio sono state selezionate parti importanti ad esempio di Popper o sono state cooptate parti del pensiero di Kuhn e altri, ma facendo bene attenzione a non andare oltre la ridiscussione lecita di un modello che, alla fine, assomiglia alla famosa casa che si imbianca, ma per meglio appigionarla. La svolta linguistica riguarda il pensiero filosofico contemporaneo, escluderla dalla riflessione sulla relazione clinica ci dice delle difficoltà di dialogo tra filosofia e medicina ma anche della necessità di favorire questo dialogo. Prima, però, è assolutamente indispensabile fare un po' di chiarezza, almeno concettuale, nel senso che a parte la rimozione dell'analisi del linguaggio, vi è confusione tra il concetto di comunicazione e quello di informazione, tra il pensare che basti parlare per comunicare, che dire è come informare ecc. Da questo punto di vista la manualistica si preoccupa della «correttezza delle informazioni», della «comprensione dei contenuti», della «verifica della comprensione», della «raccolta di informazioni», della «restituzione di informazioni» e, quindi, delle tecniche di «orientamento» della «sintesi», del «controllo», della «restituzione», della «trasmissione» ecc. | << | < | > | >> |Pagina 28012.Traduzione Il principio del contesto mostra l'inadeguatezza dell'identificazione del significato di un sintomo. Quando si identificano dei sintomi rinunciando al principio del contesto è perché si pensa possibile fissare il significato di un sintomo in modo diretto. Ma per quanto si faccia, per un clinico, è obbligatorio dare una spiegazione della composizione. Un approccio meno atomistico e più olistico deve dar conto del contesto e della composizione. Il carattere composizionale è inevitabile. In sintesi: una teoria clinica atomistica è quella che cerca di dare una spiegazione del significato delle parole del malato indipendentemente dal contesto dell'enunciato in cui ricorrono (è trasgredire il principio del contesto). Una teoria clinica olistica nega che si possa spiegare il significato di un singolo enunciato senza tenere conto del contesto linguistico a cui appartiene. Una teoria clinica molecolarista è quella che spiega il significato di una parola del malato facendo riferimento ai contesti primari in cui la parola ricorre. Tutto questo ci fa comprendere - a parte il ruolo del linguaggio in una relazione clinica - che un medico non può pensare un sintomo in un unico modo e non può concepire un concetto come applicantesi a un solo sintomo. Sappiamo che questo va contro corrente rispetto al principio del riconoscimento oggettivo di Murri, ma sta di fatto che un medico, per pensare un sintomo, deve poter affermare più proposizioni singolari su quel sintomo rispetto al contesto, alla forma logica, alla composizione di quel che dice il malato. Questo è particolarmente vero rispetto a quelli che Strawson ha chiamato i predicati psicologici. Il malato che racconta i suoi problemi non fa altro che enunciare predicati psicologici. Picardi riassume così la questione: «è parte integrante della padronanza di un predicato come "avere dolori" che si sia capaci di ascriverlo sia in prima persona sia in terza persona». I predicati psicologici non hanno un significato solo per il malato. Avere la padronanza del predicato «avere dolori» richiede che si sia in grado di affermarlo di noi stessi e degli altri. Naturalmente un'asimmetria tra medico e malato esiste. Il malato in prima persona afferma di avere dei dolori e la sua affermazione è solo dichiarata ma non basata su prove o su evidenze tangibili per il medico. Il medico, quando dice che il malato ha dolori, si basa su quello che questi dice e su come si comporta e su indizi vari. Ciò introduce un'altra categoria importante per lo studio del linguaggio che è quella della traduzione. In pratica il medico deve tradurre quello che dice il malato in un linguaggio clinico. Per comprendere i problemi della traduzione, il ricorso a Quine è quasi obbligato. Quine immaginò di tradurre una lingua per la quale non esiste un dizionario disponibile, quasi come se fosse una lingua sconosciuta. L'idea fondamentale che egli ricavò è la seguente: sono traducibili solo certi enunciati d'occasione di cui gli enunciati di osservazione sono i più significativi. Per Quine, ma a ben vedere anche per il medico, il test che un enunciato di un malato deve superare per essere osservazionale è che l'assenso e il dissenso del medico, in circostanze empiriche salienti, è immediato. L'assenso o il dissenso del medico è quindi rilevante dal momento che in quanto comportamenti si collegano di fatto con i concetti di verità e di falsità. Questo vale anche capovolto. L'assenso o il dissenso del medico valgono anche per il malato.
Il medico una volta tradotto
sollecita l'assenso e il dissenso del malato riguardo un determinato enunciato
di occasione. Egli istituisce una relazione fra l'assentire e il ritenere vero e
il dissentire e il ritenere falso. Vi saranno anche casi in cui sia il medico
sia il malato faranno fatica a intendersi. In questi casi bisognerà tradurre un
supplemento di relazione.
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