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| << | < | > | >> |Indice13 Traversate del deserto 16 L'avventura verso la fine del XX secolo 26 Narrare come attività pratica 35 Elogio della novella 44 Due anni di studio nella biblioteca del British Museum 51 Documentari imprevedibili come i sogni 63 Sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri 70 Sulla fantasia 81 Giacometti e il dentro dello spazio 89 Per la pubblicazione basca di Parlamenti buffi 96 Memoria su certe letture 107 Riscrivere, riraccontare, tradurre 114 Letteratura come accumulo di roba sparsa, trovata per strada o sognata di notte 134 Sul cinema italiano del dopoguerra mezzo secolo dopo 142 Defurbizzare la letteratura, la vita etc. 148 Su Jonathan Swift e lo sviluppo degli alieni 154 Frontiere erranti della letteratura. Appendice da una rivista parigina 163 Dialogo sulla comicità |
| << | < | > | >> |Pagina 13Traversate del deserto
Anno 1986. Discorso su una mareggiata che ha investito e distrutto lunghi
tratti di litorale adriatico. Dal volume
Traversate del deserto,
Edizioni Essegi, Ravenna, curato da Vilmes Rabboni, Gianni Celati, Luigi Ghirri,
Roberto Papetti, Giovanni Zaffagnini, Guido Mazzara e altri.
Scrive Max Frisch in Stiller: «Quanto deserto vi è su questo pianeta che ci ospita non l'avevo mai saputo prima, l'avevo soltanto letto; né mai avevo saputo fino a qual punto tutto ciò di cui viviamo sia il dono d'una piccola oasi, inverosimile come la grazia». Tra questa intuizione e la mareggiata che recentemente ha investito il litorale adriatico, facendoci scoprire ad un tratto che trenta o quaranta chilometri di costa, già devastati dal turismo e dalle speculazioni, sono un puro deserto senza ripari – tra queste due illuminazioni c'è un filo di pensiero che, se sviluppato, ci porta a vedere il deserto sulla soglia d'ogni luogo abitato, d'ogni nostra casa, e alla fine ci porta anche a vedere il carattere illusorio d'ogni addomesticamento del pianeta. Questo filo di pensiero dice anche che noi non siamo i padroni del pianeta, benché questa sia la nostra convinzione più profonda. Ci dice che la nostra dimora è sempre precaria, benché lo sforzo delle civiltà moderne consista nel far scordare agli uomini la precarietà della loro presenza. Ci dice infine che, in questa tarda fine d'epoca, non c'è alcun lavoro di ricerca con qualche autenticità, senza riferimento all'emblema del deserto. Perché è il deserto che alla fine poeti e fotografi, narratori e filosofi, hanno sempre di fronte, quando mandano richiami verso il mondo. Questo è un emblema non solo della nostra miseria epocale, ma anche dell'enorme sforzo immaginativo che è richiesto da ogni attraversamento dello spazio, del vuoto, del deserto. Perché nel vuoto che ci avvolge, miseria e immaginazione si riconoscono e si danno la mano, non si negano a vicenda: e avremo allora deserti che sono immagini di pienezza, la grazia della piccola oasi sullo sfondo di sabbia fino all'orizzonte, la parola ritrovata per mezzo del silenzio, gli uomini come piante, le ere mitiche come paesaggio quotidiano, e il vento volatore che attraversa la valle. Ma quando miseria e immaginazione, deserto e pienezza, parole e silenzio, vengono forzatamente separati per operare delle «chiare ripartizioni» (cosa si chiede, infatti, agli esperti, se non di operare delle «chiare ripartizioni»?), allora inizia la devastazione senza ripari, nei terreni, nell'aria, nelle acque e nella mente. La miseria incosciente comincia a prendere se stessa per ricchezza: e comincia a sostituire l'immaginazione con surrogati rappresentativi, in cui il deserto e il vuoto sono negati, dimenticati, man mano che cresce la desertificazione del mondo e l'esposizione a una grande precarietà – come sul litorale adriatico. Grazie a tanta incoscienza, ma mano che la precarietà non è più ricordata come qualità originaria della nostra dimora, ma pensata come insufficienza momentanea e rimediabile, allora perde valore: perché «l'inverosimile grazia della piccola oasi», di cui parla Max Frisch, viene data per scontata come il funzionamento d'una lavatrice. Sono i segni di un'epoca in cui il deserto diventa sempre più il cammino da riprendere, la via da ritrovare, il silenzio da attraversare per poter ancora parlare con gli altri. Negli scrittori e fotografi qui presentati, il deserto è questo cammino: è la via del silenzio, la celebrazione della piccola oasi, la scoperta di qualche traccia mitica baluginante, o accecante, o commovente, la presenza d'un fiore, d'un animale, d'un sasso, nell'indifferente deserto planetario – ciò che comunque si chiama Natura. | << | < | > | >> |Pagina 96Memoria su certe letture
Nasce da una conversazione via internet con Rebecca West, febbraio-marzo
2007. Rebecca West (che ha scritto
Gianni Celati, the Craft of Everyday Storytelling,
Univ. Toronto Press 2000) chiede a Celati di ripercorrere i suoi studi in epoca
giovanile universitaria, da dove sono cominciati e che vie hanno preso, prima
di arrivare a scrivere
Finzioni occidentali,
o il suo primo libro,
Comiche,
del 1970.
Quando sono andato all'università volevo studiare letterature moderne, ma ho studiato soprattutto linguistica. In quegli anni la riscoperta del corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure annunciava nuovi modi di pensare. Poi molti schemi della linguistica sono confluiti nell'antropologia, soprattutto attraverso l'opera di Claude Lévi-Strauss; ed è soprattutto in uno studio di Lévi-Strauss che ho trovato qualcosa come una linea di pensiero da seguire. Lo studio s'intitola L'efficacité symbolique [incluso in Anthropologie Strutturale, 1958] e parla d'un vecchio testo rituale usato nei casi di parto difficile, presso una popolazione del Panama, i Cuña. Uno sciamano lo cantava, e le sue parole narravano una penetrazione negli organi genitali femminili come in un inferno mitologico, avendo l'effetto di sbloccare l'utero e permettere il parto. Mi colpiva il fatto che le parole potessero produrre simili effetti fisici, curativi. Quegli effetti secondo Lévi-Strauss dipendevano dal canto dello sciamano, che trasformava il linguaggio in un campo affettivo, un campo di emozioni. L'idea di «campo affettivo» e tutta la questione delle emozioni erano cose di cui a quei tempi non si parlava. Anche riguardo ai testi letterari, si parlava molto di «valore conoscitivo», di temi psicoanalitici, di posizione politica, ma mai di emozioni – nel senso primario del «come ci si sente». Soprattutto nella sinistra, parlare di emozioni sembrava una cosa poco seria. Il testo cuña narrava la lotta degli spiriti dello sciamano contro uno spirito responsabile del blocco nell'utero. Era una visione del mondo uterino popolato da demoni che personificavano i dolori della donna nel travaglio del parto. Lévi-Strauss diceva che lo sciamano forniva alla partoriente un linguaggio per seguire le fasi della sua esperienza. Il fatto fisiologico diventava intellegibile attraverso proiezioni fantastiche, dunque affettive – cioè un campo di emozioni che aiutavano la partoriente a superare un blocco organico. In realtà Lévi-Strauss descriveva un processo simile allo sblocco d'una rimozione secondo la psicoanalisi, che consiste nel riattivare un campo di emozioni rimasto bloccato. Ma mi sorprendeva che Lévi-Strauss paragonasse questi processi a quelli della poesia, definendoli una forma di «induzione» per trasformare le parole in effetti corporei. Il che mi portava a pensare che questo potesse essere il senso proprio del lavoro letterario: un uso delle parole per produrre effetti curativi che sbloccano qualcosa, nel corpo e nella mente. Di recente ho saputo che il testo cuña era in una lingua arcaica che nessuno capiva più, dunque la tesi di Lévi-Strauss non sta in piedi. Ma la sua idea sull'uso del linguaggio come un campo affettivo, capace di sciogliere certi irrigidimenti o certe rimozioni o blocchi difensivi, resta un'idea applicabile a forme letterarie moderne. Penso al Voyage di Baudelaire e al Bateau ivre di Rimbaud, due esempi di linguaggio che induce stati di visione in cui un'esperienza diventa intellegibile. L'esperienza è quella della nostra sindrome moderna da sradicamento totale: cioè l'ansia di evasione continua. I testi di Baudelaire e Rimbaud forniscono un linguaggio per ripercorrere questa sindrome, come un campo di emozioni bloccate, con irrigidimenti mentali caratteristici nell'uomo occidentale: in particolare la sua fuga dalla noia che lo ripiomba in stati di noia sempre meno controllabili. Ai tempi dell'università mi attiravano le letture su popolazioni lontane, le fiabe d'ogni genere, Dante sempre, la poesia provenzale, tutte le storie di cavalieri antichi, da Boiardo, Ariosto, Teofilo Folengo , Rabelais e Cervantes. Verso il 1960 mi sono messo a studiare Ulysses di Joyce e questo mi ha portato via tutti gli anni di università, non solo a leggere il libro, ma a leggere la montagna di roba scritta su quel libro. Dopo il servizio militare mi sono laureato con una tesi sul monologo di coscienza in Ulysses, poi ho cambiato strada e non ho più ripreso in mano Joyce. All'università avevo seguito un corso su Husserl. La filosofia mi attirava, ma ero impreparato, e mi ci sono voluti anni per riuscire a leggere certi libri. Durante il servizio militare ho studiato Heidegger, e altri filosofi che non capivo. Finché ho conosciuto Enzo Melandri, che mi ha messo a studiare Aristotele, Platone e Kant, e grazie a lui ho cominciato a orientarmi. Intanto un amico che lavorava in un ospedale psichiatrico mi portava da leggere delle cose scritte dai matti. Questo ha fissato la mia attenzione per anni, in particolare su un giornale redatto da un anziano ricoverato, scritto su fogli protocollo, in splendida calligrafia, con brani autobiografici, cronache del manicomio, deliri di persecuzione, perfino sonetti con una metrica perfetta. In quelle scritture manicomiali sentivo delle intensità come non si trovano mai o quasi mai nei libri, e meno che mai nei romanzi. I fogli di quel vecchio ricoverato davano aria ai pensieri, e mi colpivano le tonalità delle sue parole: i sintomi di persecuzione in certi aggettivi, e in certi giri di frase scombinati. Quella è stata per me una lettura importante come la Critica della ragion pura di Kant. | << | < | > | >> |Pagina 104Invece la letteratura industriale si basa sulla regola del «si dice», «si sa», «si fa così», «si scrive così». E la riduzione di tutto l'esistente a modi di dire o narrare impersonali, come se al mondo nessuno parlasse in un modo proprio, sotto la propria responsabilità. Ed è l'aspetto dittatoriale delle opinioni di massa – che diventa un regno dell'indifferenziato, dove può esserci di tutto, indifferentemente, ma non la possibilità d'una qualche differenza. Il libro industriale è il libro «per tutti»: il che presuppone la cancellazione d'ogni differenza emotiva o empatica tra gli uomini. Basta vedere come sono ammassati i libri nei chioschi delle stazioni o altrove: un autore latino accanto a un libro di barzellette o all'ultimo porno bestseller. L'indifferenziazione programmatica colpisce al cuore ciò che qui abbiamo chiamato «campo affettivo» – il campo degli affetti per sciogliere i blocchi del corpo o della mente. Perché tutti i libri diventano usabili solo in un modo: come passatempo in sostituzione della TV.| << | < | > | >> |Pagina 130[Poi sono finiti questi tuoi tre libri, è finito un periodo...] Verso la foce è stato il terminal di tutti i miei lavori. A parte le traversate della valle padana e lo sforzo per sintonizzarmi con tutto l'anonimato del mondo, Verso la foce mi ha tenuto impegnato per anni nel lavoro di scrivere e riscrivere gli appunti. Perché quei luoghi, quei paesaggi desolati, abbandonati dalla gioventù, chiedevano un lavoro extra delle parole, per segnalare che anche lì c'era un incantamento. Ricordo un editore che mi ha detto con aria da connaisseur: «Quel libro non doveva scriverlo!». Voleva dire che ero andato fuori dal seminato, non c'entravo più con la letteratura.[In che senso non era più letteratura?] Non era letteratura perché oggidì letteratura vuoi dire romanzi, e ogni romanzo è oberato da una penosa storia. Da me, niente storie, niente trame, niente brame, basta! La gente vuole romanzi e brame, e il mio era una reazione all'oscurantismo dei fottuti romanzi industriali, che hanno gli stessi caratteri cancerogeni dei prodotti chimici con assuefazione istantanea. [...] [A me sembra che tu tratti nello stesso modo i tuoi testi letterari... dici le stesse cose anche dei tuoi testi letterari, i quali sono libri che «fanno letteratura», che tu lo voglia o no...] Può darsi, può darsi, può darsi... Io credo di aver sempre seguito la via dell'errore, che è anche la via della fantasticheria, perché fantasticando di gusto non si può seguire la linea dritta della volontà pragmatica. Naturalmente questa è una proposta interpretativa che pochi possono accettare, perché vorrebbe dire non considerare più l'errore una cosa negativa, bensì considerarlo come l'aria stessa della vita. O meglio: come delle ventosità che ti spingono verso imprese a volte bislacche, a volte temerarie, a volte misteriose, che non si sa come stiano insieme. | << | < | > | >> |Pagina 134Sul cinema italiano del dopoguerra mezzo secolo dopo
Note per un'intervista con un giovane accademico, che alla fine mi ha
rivolto una serie di domande così fatue e accademico-televisive, che ho dovuto
mandarlo al diavolo. Anno 2008. Restano gli appunti preparatori per la mancata
intervista. (G. C.)
Tra le caratteristiche del cinema italiano del dopoguerra, la più evidente è una tendenza dei personaggi a vagare come senza una meta, o con una meta che non porta a nessun risultato. Le loro azioni sembrano spesso inconcludenti o sospese nel tempo. Pensa ad esempio al finale di Ladri di biciclette, di De Sica-Zavattini, dopo il lungo vagabondare a vuoto di padre e figlio. È un finale pieno di pathos, ma che non ha una conclusione e ci lascia il senso di un'esistenza sospesa nel puro accadere. Come notava André Bazin, gran parte del film è una passeggiata di padre e figlio, che somiglia a una vacanza e una visitazione di luoghi. Ogni luogo è una piccola divagazione rispetto alla ricerca della bicicletta rubata: il ristorante popolare, la camera della chiaroveggente, la chiesa, il quartiere dei ladri etc. Esempio: il finale di Ossessione di Visconti, film realizzato durante la guerra, precursore del nuovo cinema italiano. Il protagonista è un vagabondo che è preso da una travolgente passione amorosa e finisce per uccidere il marito della sua amante; ma quando tutto è sistemato, l'azione risolta senza più pericoli in vista, lui torna alla vita da vagabondo. Il che rende la sua azione inconcludente o ambigua; ma inoltre introduce l'idea d'una esistenza non lineare, tutta frammentaria e sospesa nei momenti d'incontro con altre vite sospese: momenti che si riempiono di pensieri, proprio perché niente è risolto. Il vagare senza meta, i momenti vuoti, la sospensione della vita in un puro accadere che non porta da nessuna parte, ma produce incontri impensati: ecco la tendenza fondamentale del neorealismo, a cui forse mi sono aggrappato, senza pensarci, fin da quando ho cominciato a scrivere. Il vagare senza meta, i momenti vuoti, lo stato di sospensione delle storie, sono cose che si trovano anche nella narrativa americana degli anni Trenta. Una narrativa che era molto di moda in Italia, cominciando da Hemingway. Non c'è dubbio che nei vaganti dei film italiani si riconosca un'ispirazione che viene dall'America: i vagrants, tramps, hobos, dell'epoca della depressione – gli eroi di Steinbeck (The Grapes of Wrath), di Dos Passos (The 42nd Parallel), di Hemingway (le storie di Nick Adams), e James Cain (The Postman Always Rings Twice, da cui Visconti ha ricavato Ossessione). Ma bisogna anche dire che questa narrativa raramente ha ispirato un film americano all'altezza del suo radicalismo (tranne direi The Grapes of Wrath di John Ford – ribattezzato Furore nella versione italiana). The Grapes of Wrath di John Ford è un film esemplare, che ho visto e rivisto non so quante volte. Ma sarà il cinema italiano che riprenderà i temi più cruciali della narrativa americana anni Trenta, senza moderarne l'impatto sociale. La dispersione dei gruppi familiari, la fine d'ogni eroismo, una vita di sussistenza senza desideri, il vagare di chi non trova più la propria identità in nessun luogo: questi diventano temi di film italiani, per una analogia tra le visioni della depressione americana e la situazione del nostro dopoguerra. Da Ossessione di Visconti, alla trilogia postbellica di Rossellini, quell'ispirazione produrrà un pensiero cinematografico senza precedenti. Rispetto a quello che dicevo prima, io trovo esemplare La Strada, un film su due attori che girano per paesi a dare spettacolo. Qui non c'è nessuna azione finalizzata. Tutto è sospeso nel vago accadere in cui si consuma la vita degli uomini. Gelsomina, Zampanò, il Matto, sono figure di un'epoca in cui è finito ogni eroismo – figure di una vita di pura sussistenza, che non hanno nessun potere né un luogo dove abitare. Ma sono figure più che mai votate agli incontri che si riempiono di pensieri – quegli incontri su itinerari imprecisi e frammentari, nei momenti vuoti in cui niente ci attira, e dove ci si ritrova con altri in un tempo sospeso. Questa tendenza a lasciare le storie in sospeso, non esiste nel cinema americano. Nel cinema di Hollywood l'azione è sempre coordinata da un sistema di mezzi e fini, affinché tutto culmini nel successo individuale dell'eroe. Il cinema classico americano porta sempre con sé il presupposto d'una vita che deve essere finalizzata e calcolabile, perciò orientata in ogni istante verso l'azione e la vittoria. Una vita non finalizzata a qualche scopo, ossia il vivere per vivere, questo sembrerebbe un grave errore – una vita sprecata, come uno sbaglio di quotazioni in borsa. Niente è più lontano da Hollywood di certi aspetti caratteristici del cinema italiano del dopoguerra: i vagabondaggi senza meta, la vita di pura sussistenza, i momenti vuoti come punti essenziali del pensare, i personaggi incapaci di controllare la propria esistenza con un'azione ben calcolata. C'è anche un aspetto ideologico della questione. Nell'universo filmistico americano l'idea d'un puro accadere o d'uno scorrere gratuito del tempo con cui si consuma naturalmente la vita di tutti, forse è un'idea intrattabile. Per cui non può esistere la nozione positiva di momenti vuoti che si riempiono di pensieri, e pensieri di pensieri, in una divagazione senza meta. Perché nell'ideologia americana anche il pensare ha senso solo come un attivismo calcolato in base a un fine. Forse solo nei film di Cassavetes il cinema americano ha trovato figure apertamente incapaci di controllare la propria esistenza, e capaci di sprecarla andando a spasso e parlando e rimuginando a vanvera (Faces, Husbands, A Woman Under the Influence). | << | < | > | >> |Pagina 142Defurbizzare la letteratura, la vita etc.
Da un'intervista di Luca Sebastiani, apparsa su «l'Unità» del 2 giugno 2009.
Sebastiani parla dell'epoca in cui Celati ha cominciato a scrivere, quarant'anni
prima, una stagione della letteratura italiana piena di sperimentazioni, di
tentativi, di interessi; e chiede come Celati la ricordi... i mutamenti poi
sopravvenuti; e poi gli chiede cosa sarebbe l'attuale «non lingua» dei romanzi
di successo di cui Celati spesso parla; a cosa serve la letteratura, se
serve a qualcosa, e se c'è una via per decondizionarsi.
Quando ho cominciato a scrivere, quasi tutti gli amici che avevo erano di sinistra e davano per scontata una rivoluzione imminente o futura. Ma l'unica rivoluzione che poi ho visto è stata quella della signora Thatcher, primo ministro inglese dal 1979. Tutto era pronto perché succedesse quello che doveva succedere: l'avvento al potere del capitalismo finanziario che schiaccia tutte le forme di produzione (industriale o artigianale), e poi della new market economy con cui il profitto diventa l'unico ideale sulla terra. La signora Thatcher non ha fatto che sdoganare tendenze che già esistevano: le mete oscure del potere finanziario, la considerazione del lavoro come fatto secondario, l'abolizione d'ogni veduta comunitaria, la guerra individuale per passare davanti agli altri. Con la signora Thatcher queste tendenze sono diventate un luogo comune, diffuso in tutto il mondo. E posso dire anche quando sono arrivate in Italia, e come hanno cominciato a condizionare tutto ciò che si chiamava letteratura. Quando sono stato cooptato dalla casa editrice Einaudi come traduttore e futuro autore, io non pensavo neanche per un momento alla faccenda dei soldi e del successo. E ricordandomi tutto il tempo consacrato al progetto d'una rivista che io e Italo Calvino dovevamo fare con altri, ora mi sembra qualcosa di irreale. Ci scrivevamo tutte le settimane per scambiare idee sui libri letti, e quando andavo a Parigi, Calvino passava giorni interi a chiacchierare con me sui nostri programmi. Tutto questo lavoro aveva un carattere gratuito, come un incontro senza idee di profitto. Ricordo Calvino nella sua casa in Square de Chatillon, a Parigi, che scuoteva la testa come per annuire, ma forse dubbioso, mentre io gli spiegavo la mia idea che bisognava poter smerciare gratuitamente ogni cosa che si scrive. La prima avvisaglia d'una mutazione è stata l'avvento della letteratura giovanile. Chi ha aperto la strada è Enrico Palandri, con il suo sorprendente Boccalone (1978). Ma qui siamo ancora alle epoche dello scrivere per qualcosa che urge, non per far piacere agli editori. E mentre la signora Thatcher apriva la nuova era, da noi iniziava la caccia all'autore giovane. Qui sono subito scattati tutti i meccanismi del futuro: il trattamento dello scrivere come merce, il nome dell'autore come feticcio, le etichette stantie con cui parlarne, la competizione tra case editrici. Per un periodo sono stato amico di Pier Vittorio Tondelli, e sentivo la sicurezza con cui trattava al telefono tutte le offerte che gli arrivavano. Il suo libro, Altri libertini, ha segnato la strada dei nuovi libri di successo: una strada dove tutto è eccitazione, frasi pubblicitarie, sfoggio di etichette risapute, creazione mirata di culti, calcolo delle vendite, informazioni psicologiche sull'autore. Cominciava questa nuova era, dove mi sentivo frastornato. Alla fine degli anni Settanta sono spuntati i controllori manageriali della letteratura, gli esperti che riscrivono i libri per renderli più vendibili (così è stato per Altri libertini), i repertori di frasi pubblicitarie per parlarne, il culto delle graduatorie dei romanzi più venduti. Ed è l'epoca in cui è fiorito l'ottimismo obbligatorio, con veri proclami di esclusione. Da allora chi è sospettato di pessimismo troverà dovunque qualcuno che glielo rinfaccia, come un segno di cinismo. Tutto ciò va assieme a una baldoria dei consumi, dove il consumo di libri non si distingueva da quello delle saponette. E sarebbe bello poter pensare che un giorno ci sarà un processo alla corte dell'Aja, dove le anime di quei professionisti dell'editoria saranno imputate di genocidio letterario, e massacro dell'antica tradizione dell'arte verbale nelle nostre terre. La non-lingua dei romanzi odierni di successo è qualcosa come i non-luoghi – quei luoghi standard che possono essere in Australia, Islanda, Spagna, e non cambia niente. Gli effetti del capitalismo finanziario, basato su investimenti di capitali senza patria, senza luogo, senza fedeltà a nessuna memoria, sono rappresentati perfettamente dai non-luoghi, per una umanità votata allo sradicamento. E per chi non può vivere in quei luoghi stile Ikea, ci sono le invivibili baraccopoli dell'Africa o d'altri continenti. Un pianeta di slums per un surplus di umanità. I romanzi di successo che i nostri editori smerciano sono l'equivalente dei non-luoghi vacanzieri, luoghi senza memoria, luoghi di sradicamento e disaffezione. La non-lingua nasce da libri che imitano le imitazione di imitazioni di imitazioni di altri libri, soprattutto romanzi americani. Nel libro di Palandri c'era ancora una lingua fresca e genuina. Ma subito dopo, la cosiddetta letteratura giovanile è stata una sbornia di americanismo, con anche l'imitazione dell'italo-americanese usato dai traduttori. Tutti sintomi d'una cancellazione della memoria che riguarda una tradizione d'arte verbale nelle nostre terre. È una tradizione che arriva indietro fino a Dante, Boccaccio, Ariosto – e più vicino a noi, a Leopardi, e poi Tozzi, Campana, Gadda, Delfini, Landolfi. Questi rappresentano l'epilogo d'una attitudine collettiva. Sono autori «irregolari», difficilmente smerciabili su un mercato come quello americano o britannico. Fino a poco tempo fa, oltre alla corruzione e alla criminalità politica italiana, c'è stato qualcosa in Italia di speciale, unico in Europa, ed è la particolarità della nostra tradizione, che arriva fino ad Anna Maria Ortese, Calvino, Manganelli, Raffaello Baldini, Cavazzoni, Daniele Benati e altri dispersi. | << | < | > | >> |Pagina 148Su Jonathan Swift e lo sviluppo degli alieni
Discorso con Riccardo Donati, pubblicato nel volume
Veleni delle coscienze. Letture novecentesche del secolo dei Lumi
(Bulzoni Editore, Roma 2010). Parla dell'interesse, negli anni Quaranta e
Cinquanta, che autori come Calvino e Sciascia avevano per il pensiero dei Lumi.
Ma col mutare dei tempi dalla devozione per i maestri dell'
Encyclopédie
si è passati all'interesse per i più eccentrici modelli anglosassoni; e così i
modi della satira, dell'antiromanzo umorale e «d'irrisione» iniziano ad apparire
più idonei per raccontare il presente.
La mia passione per i testi di Swift, nata all'inizio
degli anni Sessanta, è cresciuta su un terreno molto
più incerto. Avevo 26 anni, stavo a Londra, mi mantenevo lavando i piatti in un
ristorante di Leicester Square, e un giorno ho comprato un libro di testi
swiftiani, e per passare il tempo ho tentato di tradurli. Poi ho conosciuto
Giambattista Vicari, che dirigeva «Il Caffè», e ho cominciato a pubblicare
qualche mia traduzione da Swift. Quando ho conosciuto Calvino,
lui s'è interessato a me soprattutto per le idee swiftiane che mi ero fatto.
In queste idee, Swift risultava un
capostipite della cultura settecentesca (Voltaire ha trovato la sua strada
leggendo Swift, che è rimasto la sua guida letteraria fino a
Candide),
ma anche un autore irriducibile a tutti i discorsi sui Lumi.
[Come anche per i suoi testi di narrativa: penso alle due edizioni della Favola della botte, 1966 e 1990...]
La
Favola della botte
è un capolavoro di Swift che non era mai stato tradotto in italiano, e su cui
nel 1966 mi sono precipitato ad occhi chiusi, senza avere
una preparazione adatta per portarlo nella nostra lingua. Ne è venuta fuori una
traduzione balorda. Molti anni dopo, nel 1990, l'editore Einaudi mi ha proposto
di ripubblicarla, e qui l'ho completamente rifatta per
renderla più aderente allo stile sei-settecentesco, poi
aggiungendovi una nuova prefazione. E ora, riscrivendo ancora una volta quella
prefazione (per un mio volume di saggi che deve uscire da Feltrinelli), ho
ricordato il mio sbandamento giovanile davanti agli impietosi sarcasmi
swiftiani. Sarcasmi inconciliabili con tutte
le finzioni di bontà, con i profitti delle gerarchie religiose, che Swift
sbeffeggia in una delle sue satire più acute
(dove propone di trasformare la chiesa cristiana in una
religione puramente nominale, in modo che, pur svuotata di senso, possa
continuare a lucrare in pace). L'impressione che si ricava da queste satire è
quella d'un alieno che vede nell'umanità una specie votata al falso,
al sordido, alla violenza ferina, come gli Yahoos incontrati da Gulliver nel suo
ultimo viaggio. E spesso mi è
venuta l'idea di paragonare Swift ad uno straordinario
autore di science fiction stories come
Philip K. Dick
, in cui trovo lo stesso sentimento di essere alieni in un
mondo dove tutti si credono in salvo, tra un'umanità
votata all'autodistruzione.
[In che misura ritiene che l'opera di Swift abbia influenzato la sua scrittura?]
È sempre l'idea dell'alieno, come Gulliver, che è
alieno dovunque si trovi, anche a casa sua. Così i personaggi in
Comiche
nascevano dall'idea dell'alieno o del matto alienato, in mezzo a quelli che si
credono sani e normali. E neanche qui poteva esserci nessuna
finzione di bontà.
[Ci sono altri personaggi settecenteschi fondamentali?]
Candide è un cugino di Gulliver, quasi una sua
appendice, anche nell'abbassamento di tono nell'espressione. Questi alieni
settecenteschi, incluso Tristram Shandy, sono tutti nostri fratelli, che
anticipano il sentimento moderno dello sbandamento totale, dell'incapacità di
far lega con le Grandi Faccetoste, con i cosiddetti uomini sani di mente – che
sono i più malati. Il naturalismo tenterà di raddrizzare la barca, assumendo il
punto di vista della scienza, che ci darà una visione clinica dell'umano. Ma in
questa visione clinica della vita c'è qualcosa di nazi.
[Nel giùgno del 1968, «Il Caffè» dedicava un intero numero a Swift; nel saggio di apertura, che reca la sua firma, vi si legge che quella di Swift è una satira «alta», costruita su immagini arcaiche di violenza ed apocalisse: un tipo di satira che in Italia, il paese di Orazio, non ha mai allignato. Tuttavia proprio in quegli anni vari autori, peraltro molto diversi tra loro – dal Frassineti di Tre bestemmie uguali e distinte al Berto di Modesta proposta per prevenire – scelsero il modello delle modest proposals come punto di partenza per confrontarsi con l'attualità sociale e politica in modo anche feroce e, appunto, «apocalittico».]
Sì, ma l'appello attraverso Swift non era un richiamo all'attualità.
L'attualità è la riduzione di tutto ai
criteri d'una umanità che si considera «normale»
mentre tutto l'inumano le passa sotto gli occhi come
uno spettacolo da baraccone – dai bambini scheletrici
africani al capitalismo sganciato da qualsiasi legalità,
ormai capace di manipolare le masse attraverso TV e
gadget d'ogni sorta. Tra gli autori che collaboravano
al «Caffè», quelli con cui ho legato sono Calvino,
Manganelli, e il caro Frassineti, autore di
Misteri dei ministeri –
dove attraverso gli scartafacci ministeriali metteva in luce l'esistenza di una
specie di mutanti o alieni fin qui poco nota.
[Avrebbe senso, oggi, scrivere ancora una modest proposal?]
Non credo che abbia senso tematizzare in questo
modo la vena swiftiana. È sempre portare acqua al
mulino dell'attualità, che svuota di senso qualsiasi
cosa, lasciando a tutti la coscienza in pace. La mossa
di Swift, di proporre ai signori britannici
la carne dei bambini irlandesi
come un nuovo piatto succulento, è
il richiamo a una condizione dove non può esistere
l'ipocrisia dei buoni propositi, la farsa della buona
volontà, o la bandiera di chi crede d'essere «nel giusto». La mossa di Swift dà
aria ai polmoni, perché toglie di mezzo tutto il falso di tutte le
giustificazioni ottimistiche.
[Nel 1966, nel saggio Swift l'antenato che introduce la Favola della botte, lei proponeva una genealogia swiftiana nel cuore del Novecento, da Joyce a Céline, e da Gadda a Manganelli].
La mia idea giovanile di considerare Swift l'inizio
d'una genealogia moderna, mi era stata suggerita da
un critico (di cui non ricordo il nome) che paragonava
vari aspetti di Swift a quelli di Baudelaire. E anche ora
mi sembra che Swift e Baudelaire, più il nostro Leopardi, più gli autori da lei
citati, più Beckett e altri,
formino una linea di sviluppo riconoscibile. Direi così:
un'espressione del proprio stato d'essere, che porta
con sé i segni della propria debolezza, l'accettazione
della propria alienità — per cui nessuno può più vantarsi dei propri
raggiungimenti o delle proprie virtù. Il che mi ricorda quel
petit poème en prose
di Baudelaire, dove un poeta esce di casa con la sua bella aureola
da poeta in testa, poi però la perde per strada: rimane
l'uomo-poeta senza più aureola. Se fossimo in riva al
Gange o nel Tibet, troveremmo gente che ci capisce.
[Questa condizione di «alienità» rende i testi di Swift del tutto incompatibili con i sistemi di pensiero dominanti, oggi come trecento anni fa...]
Sì, ma le cose si sono molto complicate da quando
gli sviluppi della genetica sono arrivati al punto di
poter davvero creare eserciti di neo-alieni, per far
piazza pulita di noi paleo-alieni. Parlo della genetica
per dire il culmine d'una manipolazione dell'umano
senza più limiti – il fanatismo delle cosmesi, il quotidiano lavaggio di
cervello delle masse, l'impossibilità
di apparire accettabili se non si seguono i canoni del
managerismo aziendale. E infine questa religione dell'economia, di cui ci
parlano ogni momento. Io seguo
le trasmissioni CNN, che sono un vero delirio basato
sulle quotazioni giornaliere in borsa, ma sempre lasciando nell'ombra le grandi
concentrazioni finanziarie che sfruttano le catastrofi a cui vanno incontro gli
alieni miserandi. Basta. Quello che volevo dire è che
la vena satirica di Swift è un modo per farci ripensare
all'idea dell'uomo come animale politico: la quale
non può esistere se non riattivando dei linguaggi liberatori, irriducibili a
quella lingua da morti ch'è l'attualità. Lingue che diano respiro, sgravandoci
dai fantasmi del successo.
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