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| << | < | > | >> |IndiceDieci anni dopo di Giulietto Chiesa 5 Presentazione di Giulietto Chiesa 69 David Ray Griffin Il Rapporto della Commissione sull'11 settembre. Il capolavoro di omissione e mistificazione di Philip Zelikow 93 Claudio Fracassi La Waterloo dell'informazione 117 Andreas von Bülow Il governo Bush prima, durante e dopo gli attacchi dell'11 settembre rispetto a quattro possibili ipotesi di complotto 131 Lidia Ravera L'impotenza 147 Jürgen Elsässer Da Sarajevo ad Amburgo. Terroristi, agenti, doppiogiochisti: i principali indiziati dell'11 settembre impararono il mestiere del terrore nei Balcani negli anni Novanta e furono in contatto con i servizi segreti degli Stati Uniti 163 Giulietto Chiesa Come Marte ha vinto Venere l'11 settembre 183 Steven E. Jones Un'analisi scientifica del crollo degli edifici del World Trade Center 217 Franco Cardini - Marina Montesano Neocon. Politica, cultura, affiliazioni del movimento neoconservatore 253 Webster Griffin Tarpley Anatomia di un coup d'état. Come le esercitazioni e le manovre del Pentagono sono divenute i canali chiave per gli attacchi segreti del governo l'11 settembre 273 Michel Chossudovsky Al Qaeda e la "guerra al terrore" 307 Enzo Modugno 11/9 e warfare: il capolavoro di Bush 341 Thierry Meyssan Resistere alla menzogna 353 Barrie Zwicker Il complotto della "teoria del complotto" 365 Intervista a Gore Vidal di Paolo Jormi Bianchi e Giulietto Chiesa 397 APPENDICE Testimonianze 419 Bibliografia 465 |
| << | < | > | >> |Pagina 5Hanno vinto, non c'è dubbio, su molti fronti. Sono riusciti a innescare la guerra infinita, che ha già visto tre capitoli mortiferi, ma di taglia limitata, come l'Afghanistan, l'Iraq, la Libia. Tre guerre vili, combattute in prevalenza dall'alto, con una superiorità tecnologica schiacciante. Sono solo anticipi di ciò che si prepara. Partite che servono per creare disordine e moltiplicare la paura, e che sono vinte in anticipo. Ma in Afghanistan non sono loro a decidere quando si chiuderà la partita. E, per quanto riguarda l'Iraq e la Libia, i conti veri si faranno sul lungo periodo. Una guerra più grande, quella contro l'Iran, non sono riusciti, per ora, a innescarla. Per molte e divergenti ragioni, non ultima delle quali l'impossibilità di combattere una guerra solo dall'alto contro l'Iran, se lo si vorrà controllare sul serio, e la mancanza di truppe per l'occupazione del paese. Quella guerra è pronta però, fin nei minimi dettagli. Ogni centimetro quadrato del territorio iraniano è stato mappato, fotografato; ogni avvallamento del terreno è stato misurato per consentire ai missili di crociera di giungere indenni, rasoterra, sui bersagli. Occorre soltanto trovare il pretesto, sfruttare la congiuntura, profittare dalla paura delle folle, rese cieche da un mainstream possente e dominatore delle menti e dei cuori. E di paure ce ne saranno molte, prodotte dagli sconquassi economici e sociali che si vanno moltiplicando, e dalle subitanee, improvvise e imprevedibili rotture degli equilibri sistemici dell'ambiente, collassi di cui l'uomo ha già posto le premesse e che, anch'essi, andranno inesorabilmente intensificandosi per numero, volume e potenza. La guerra infinita non è mai stata concepita per difendere l'umanità dalle sciagure che i potenti le preparano con la loro stupidità e volontà di dominio, bensì per distrarre la gente dalle loro vere cause e per indirizzare la sua paura, prima, e la sua ira, poi, verso false spiegazioni, verso nemici immaginari, verso i pochi che, avendo capito quello che è successo e succede, cercano di organizzarsi per resistere, per creare un'alternativa al corso suicida che viene imposto all'uomo del XXI secolo. La guerra infinita è, in primo luogo, il modo migliore per bruciare i libri contabili. Qui, però, la loro è stata una vittoria di Pirro. L'11 settembre 2001 è riuscito sì a dilazionare la crisi epocale che i signori della guerra già conoscevano prima che tutti noi, comuni mortali, ne avessimo i benché minimi segnali, ma non per molto. "Loro" pensavano di avere risolto il problema per un tempo lungo. George Bush, subito dopo la tragedia del WTC, aveva profetizzato: «È cominciata una guerra che durerà cinquant'anni». Il suo ministro della guerra, Donald Rumsfeld, aveva parlato di una guerra lunga una generazione. Avevano, probabilmente, entrambi ragione: e non per caso. Si trattava infatti di una di quelle profezie che si auto-sostengono, poiché indicano la volontà politica di coloro che le formulano. Doveva servire, e servì, per compattare attorno agli Stati Uniti l'intero Occidente. L'Impero era entrato in una crisi senza via d'uscita, ma non poteva ammetterlo. Né poteva aspettare che quella crisi diventasse visibile ai più. Una tale epifania avrebbe mostrato a tutti che l'Impero non poteva più vigilare sui mille deserti dei Tartari che avrebbero circondato le sue fortezze. Ci voleva un nuovo nemico, al posto del comunismo, che era stato il cemento principale per tutti gli anni della Guerra Fredda. Questo nemico fu creato, con una magistrale, mostruosa operazione spettacolare, proprio l'11 settembre. La società dello spettacolo produceva in quel modo il deus ex machina che avrebbe dovuto consentire la prosecuzione dello show ancora per un tempo indefinito. Ma il corso degli eventi ha assunto andamenti convulsi, che invece non erano stati previsti. Non previsti perché il Superclan, che domina il mondo, è prigioniero della stessa illusione dentro la quale ha imprigionato l'umanità che gli è sottomessa: credeva e crede tuttora che il suo dominio sia infinito, nel tempo, come infinito è il denaro che può creare, come lo sviluppo forsennato che è la sostanza della sua esistenza. È accaduto così che la crisi economico-finanziaria (la sola crisi che interessi il Superclan e di cui ha qualche paura) ha avuto una imprevista, improvvisa convulsione. Ha aperto, di fatto, la serie dei collassi che caratterizzeranno il Grande Declino. Ciò che si voleva nascondere nel 2001, è riemerso sette anni dopo, con una virulenza tale che nemmeno "loro" hanno potuto nasconderla. Il contagio, che "essi" hanno sparso, ha infettato l'intero pianeta. Per sette anni, hanno creato denaro in proporzioni gigantesche. Con esso hanno rimesso in moto la "loro» macchina, che alla fine del secolo cominciava a fermarsi. E, contemporaneamente, hanno tenuto in mano le redini della paura, usando il nuovo nemico appena creato – il misterioso fondamentalismo islamico – scatenando la guerra contro il cosiddetto terrorismo internazionale, modificando le agende politiche di quasi tutti i governi del pianeta, dichiarando guerre, ricattando i vassalli, comprando governi. La crisi del 2008 ha creato una nuova situazione. In primo luogo, venendo meno il tentativo precedente, cioè la mostruosa catena di sant'Antonio dei derivatives, ha messo sul tavolo la necessità di trovare un altro diversivo. Ma quale? Il Superclan non ne ha uno a sua disposizione. In secondo luogo ha evidenziato l'estrema difficoltà di trovare altre dilazioni. Infatti è proprio all'inizio del XXI secolo che l'Impero scopre di non essere più attore unico e indiscusso. In tutte le crisi precedenti – comunque inconfrontabili con l'attuale per dimensioni e complessità – valeva la regola dei potenti, cioè che la crisi è soltanto trasferimento di risorse finanziarie da un settore del Superclan all'altro, e dai poveri ai ricchi. Adesso non è più così perché i rapporti di forza sono cambiati radicalmente. Ma ora c'è qualcosa di insopportabilmente nuovo per "loro": altri hanno cominciato a chiedere il conto. Altri – che sono ormai abbastanza forti per farlo – vogliono per sé fette più grandi della torta. Soprattutto altri non vogliono più essere dipendenti dalle scelte di un sovrano che non considerano più affidabile. Il tutto, espresso crudamente, significa che i certificati di credito del Tesoro americano non sono più quel punto di riferimento roccioso del mercato mondiale che furono da Bretton Woods in avanti. Il porto sicuro da ogni tempesta, dove il default sarebbe stato impossibile per sempre, la forma più sicura per conservare il proprio denaro, è improvvisamente diventato il posto più insicuro del mondo. Ma, una volta preso atto che la macchina dello sviluppo non avrebbe potuto essere rimessa in moto, "loro" avevano di fronte un bivio: sostituirla con un'altra macchina, che non hanno (perché è una macchina che deve ancora essere inventata e non sono stati capaci di farlo perché non avevano previsto di doverlo fare). Oppure scendere a patti con i dominati di un tempo, e avviarsi su un percorso diverso, fatto di negoziati, di accordi, di riconoscimento di diritti eguali per tutti. In realtà la prima opzione (e solo alcuni di "loro", molto pochi, hanno la necessaria lucidità per capirlo) è impossibile da realizzare comunque. I limiti dello sviluppo realizzato negli ultimi due secoli e mezzo di storia umana sono stati raggiunti e sono invalicabili per il principio ineludibile che uno sviluppo infinito in un sistema finito di risorse è impossibile. E la seconda opzione richiede un tale cambio di prospettiva, da parte "loro", una tale rivoluzione copernicana delle loro menti, da non lasciare alcuna speranza di essere scelta. Semplicemente: questa seconda opzione "loro" non la vedono affatto. Non è che sia impossibile: è al di fuori del loro orizzonte mentale. E dunque? Non c'è ancora un "dunque". Nessuno sa dove e cosa sia questo "dunque". E questo spiega perfettamente la fase di turbolenza in cui siamo entrati. Come uscire dalla crisi molteplice in cui l'umanità è entrata, in realtà non lo sa nessuno. Non coloro che l'hanno creata, per la loro arroganza e sete di dominio. Non coloro che, non sapendo, ed essendone semplicemente le vittime sacrificali, non hanno potuto prevederla. | << | < | > | >> |Pagina 9Ho scritto parecchie volte il pronome "loro". L'ho accompagnato a un sostantivo: "Superclan"'. Spiego cosa intendo dire con entrambe queste parole. Superclan è il titolo di un libro che pubblicai nel 2003 insieme a Marcello Villari. Un titolo contrastato perché mi fu imposto dalla casa editrice, che non aveva accettato la mia proposta di chiamare quel libro World Street. Rimpiango ancora oggi il mio titolo di allora, perché a posteriori mi sembra corrisponda perfettamente a quanto oggi sta accadendo. Era una specie di gioco di parole, che metteva in evidenza come Wall Street fosse ormai diventata una strada "mondiale", dalla quale molte, troppe cose della nostra vita dipendevano irrimediabilmente. L'editore preferì Superclan. Mi venne spiegato che non si poteva titolare un libro italiano in inglese. Per superare le mie resistenze si aggiunse che ci voleva un titolo a effetto, di più immediata percezione. Non so se avessero ragione o torto, ma poiché anche questo titolo aveva una sua logica, accettai. Associava i padroni del mondo a un clan mafioso, impenetrabile, misterioso, straordinariamente potente. Così era e così è, anche se i suoi componenti costituiscono una mafia che non sarà mai inquisita, mai processata, mai accusata da nessuna magistratura. Non esiste una magistratura che possa permetterselo. Ecco: i componenti di questo Superclan sono appunto "loro". Quanti siano, chi siano, non lo so con la necessaria precisione, e non lo sa nessuno, sebbene tra di loro si riconoscano sempre, al volo. Non credo che esista un elenco preciso da qualche parte. Diciamo che esistono diversi elenchi: quello della Trilaterale, per esempio, quello del Gruppo Bilderberg, quello della Bnai Britt, quelli di diverse logge massoniche, quello del Foro Economico Mondiale di Davos ecc.Ma questi elenchi vanno presi con le molle, perché in ciascuno di essi compaiono molti, moltissimi nomi che nulla hanno a che fare con i componenti del Superclan, trattandosi di invitati occasionali, di testimoni temporanei, di esperti, di consulenti, di capi militari, di scienziati, di dittatori, di giornalisti che – in base al loro pedigree – dovranno poi essere promossi ad alte cariche nel mainstream mondiale. L'opinione di Luciano Gallino stima che quello che io chiamo Superclan — e che lui chiama "classe capitalistica transnazionale" — sia all'incirca di 10 milioni di persone (includendo famiglie e famigli). Provò a fare un calcolo molto approssimativo Aleksandr Zinoviev, in un suo volume assai poco tradotto all'estero, ma anch'esso largamente anticipatore. Compresi i componenti delle loro famiglie, i membri dei vari entourage, l'alone dei collaboratori, delle loro guardie del corpo dei loro agenti informatori, delle loro segretarie e segretari, dei loro medici curanti, dei membri dei loro consigli di amministrazione, Zinoviev valutò che, nel mondo, il Superclan accogliesse una cinquantina di milioni di persone. Lui lo chiamava in un altro modo, e sicuramente anche questo Superclan "allargato" ha una sua logica: in fondo questa gente, per quanto strano possa sembrare, pensa anche ai propri figli, ai propri discendenti. In subordine, molto in subordine, talvolta pensa anche ai propri amici e a coloro dalla cui protezione dipende la loro sicurezza. Ma io penso che il loro numero, di membri che hanno il potere del denaro, sia di diversi ordini di grandezza minore. Il vero Superclan, quello altamente concentrato, è composto di qualche centinaio di persone. La migliore descrizione di ciò che intendo segnalare, è stata fornita da un articolo apparso sulla prima pagina dell'«International Herald Tribune». Vi si raccontava che, ogni mese, in un posto non precisato di Manhattan, presumibilmente non lontano da Wall Street, si verifica un incontro assai riservato tra "nove banchieri". Non nove banchieri qualunque: i più potenti banchieri di tutto il mondo occidentale. Il giornale ne dava un elenco, dal quale emergeva appunto il carattere internazionale dell'incontro: J.P. Morgan, Bank of America, Goldman Sachs, Citigroup, Union des Banques Suisses, Barclays, Deutsche Bank, Credit Suisse e altre. Ma non minori. Il giornale americano rivela, per esempio, che la Bank of New York Mellon, che variamente amministra e gestisce più di 23 trilioni di dollari ha cercato di entrare nel club — Eugenio Scalfari più brutalmente lo definisce una "cupola», avvicinandosi di molto al termine Superclan - che amministra, organizza, dispone dei famosi derivativi di gran parte del mondo. Senza tuttavia riuscirci. Dunque questi nove signori dispongono di volumi finanziari di gran lunga maggiori. Vogliamo tentare un totale, per misurare la loro potenza e anche per capire cosa è successo nei sette anni di vacche grasse che dividono il 2001 dal 2008? Tentiamo una cifra? Ragiono un tanto a spanna, come uno qualunque dei miliardi di individui che vivono ai piani bassi della Torre del Sapere. Se i nove banchieri non prendono in considerazione i 23 trilioni della Bank of New York Mellon vuol dire che ciascuno di loro ne controlla molti di più. Diciamo il doppio? Probabilmente molto di più del doppio. Ma, anche se ci fermassimo al doppio, farebbe, grosso modo, 50 trilioni a testa. Moltiplichiamo per nove e farà 450 trilioni di dollari. In realtà questo volume è probabilmente — in base a valutazioni attendibili di altre fonti — da moltiplicare ancora per due. Cioè 900 trilioni. Questo potrebbe essere il volume reale dei derivativi che hanno inquinato tutta la finanza mondiale e che restano sul tappeto, portatori di violenza e di morte per i più deboli. Con tutta la felpata cautela con cui si deve parlare del veri potenti del mondo, il giornale forniva però molti altri elementi di valutazione. A quale scopo incontrarsi, segretamente, con quello speciale formato? Evidentemente per concordare strategie. Data la potenza di fuoco finanziario dei partecipanti, ovvio dedurne che le loro scelte, se coordinate, sono in grado di influire su tutti i mercati mondiali. In termine tecnico sembrerebbe di poter dire che questi signori hanno costituito un "cartello", anzi un "supercartello" insindacabile. E lo scambio di informazioni, e le conseguenti decisioni che vengono concordate, è assai simile, se non identico, a quell'attività criminale che nei codici penali dell'Occidente prende il nome di insider trading. Decidere flussi di denaro delle proporzioni di quelli di cui dispongono questi giganti della finanza (ormai più grandi di quelle di molti stati sovrani del pianeta) significa decidere, per esempio, quanti milioni di disoccupati si conteranno in Europa nelle settimane e mesi successivi; significa varare editti segreti che stabiliranno, nelle loro conseguenze, quanti bambini moriranno di fame o di Aids in Africa; significa condannare e far cadere governi riottosi, o porre le basi per la nomina di importanti ministri in questo o quel paese. E così via dominando.
Non occorre essere aquile per rendersi conto che, in quella
notizia del 13 dicembre 2010, è contenuto l'atto ufficiale di
morte della democrazia liberale. Non solo perché quei nove
banchieri non li ha eletti nessuno (naturalmente c'è stata, da
qualche parte, in qualche capitale del mondo, un'assemblea di
azionisti, ma la "democrazia" delle quote azionarie non ha molto a che fare con
il criterio di "una testa un voto"), ma soprattutto perché loro direttamente, o
i loro immediati sottoposti,
controllano il flusso reale delle informazioni a disposizione dei
subalterni più lontani. Per la quale cosa il tasso di democrazia,
scendendo per i rami, non può ovviamente crescere, e l'insieme
delle procedure democratiche, che un tempo costituivano l'orgoglio e il senso
di superiorità dell'Occidente, si presenta per
quello che sono divenute: cerimoniali senza contenuto, ammirabili per i
paramenti di cui si ammantano i suoi sacerdoti, ma
sberleffo supremo nei confronti dei sudditi. Dunque viviamo
ormai da tempo sotto la guida di una oligarchia assoluta.
Qual è allora la novità? Da dove viene la "loro" inquietudine? Quell'elenco rivela lo stato delle cose. Quei nove sono tutti occidentali. Essi non concentrano più in sé i poteri di tutto il mondo. Il Superclan è molto meno "super" di quanto fosse dieci anni fa. Le sue decisioni non sono più al di fuori e al di sopra di ogni istanza. C'è una serie di "revisori dei conti" molto occhiuta e, a suo modo, assai insofferente, come lo è il potere del denaro. Il primo e più importante dei quali si chiama Cina. Ed è un "revisore" molto diverso da quello gogoliano, che sta crescendo, sotto ogni angolo visuale, a velocità vertiginosa. Leggo le cifre, una più impressionante dell'altra. Da un lato il debito statunitense, che è l'unica cosa che cresce senza sosta: fino al punto che le stesse previsioni della Casa Bianca ammettono che, attorno all'anno 2012-2013 il debito pubblico degli USA supererà il 100% del PIL. Detto in altri termini, più franchi, significa che gli Stati Uniti non avranno "mai più" in futuro un bilancio in pari.
Dall'altra la crescita in atto del prodotto interno lordo cinese,
attorno al 10% medio annuo, e le sue proiezioni nell'immediato futuro. E un
semplice calcolo ci dice che in soli cinque anni
l'Occidente e il mondo si troveranno di fronte, con l'applicazione
dell'interesse composto, oltre "una Cina e mezza". Sarà il
2016. E allora mi tornano alla mente le previsioni che i neocon
americani formularono alla fine degli anni '90, quando scrissero, nel Progetto
per il Nuovo Secolo Americano (PNAC) che, nel
2017, la Cina sarebbe diventata la principale minaccia alla sicurezza nazionale
degli Stati Uniti d'America. Ecco cosa significa
abitare nei piani alti della torre del potere, e del sapere: significa vedere
lontano, cioè gettare un'occhiata là dove i comuni
mortali non possono guardare. Nel futuro.
Ecco perché, tornando a riflettere sui dieci anni dopo l'11 settembre 2001, noi non riflettiamo sul passato ma sul futuro. Quei "nove", salvo qualche avvicendamento per ragioni anagrafiche, sono gli stessi che sedevano ai vertici del mondo anche dieci anni fa. Rappresentano gli stessi interessi, la stessa psicologia, la stessa sindrome da crescita infinita. Analizzando le loro mosse, a partire dal 2007, e quelle delle maggiori istituzioni finanziarie internazionali, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio, il Federal Reserve, la Banca Centrale Europea (emanazioni, epifanie dello stesso potere centrale) vediamo in perfetta trasparenza che non stanno facendo nulla per cambiare i meccanismi fondamentali che hanno portato a questo approdo devastante. Vediamo anzi, al contrario, che stanno affannosamente cercando di ripristinare ciò che è franato nel 2007. Ancora una volta hanno realizzato un gigantesco trasferimento di risorse simultaneamente in due direzioni: la prima all'interno del Superclan; la seconda dagli stati (oggi meno sovrani di ieri) al Superclan: le banche d'investimento sono state salvate, le società umane hanno pagato il conto; gli stati ex sovrani si sono indebitati presso coloro che hanno salvato dalla bancarotta e ora – strozzati dai beneficiari – non sono (e non saranno) più in grado di pagare. Cosa inventeranno i "nove", ora, per procrastinare il loro potere, quando è evidente che la crescita illimitata del denaro non è più compatibile con la capacità di sopportazione del pianeta? Quando la limitatezza delle risorse materiali ed energetiche impedisce il protrarsi dell'illusione della stessa crescita indefinita dei consumi nelle stesse società industrialmente dominanti? E cosa faranno le élites politiche dell'Occidente quando sarà impossibile mantenere il prezzo della benzina nei confini attuali; e quando l'acqua diventerà più cara della benzina; e quando milioni di un tempo benestanti ceti medi saranno respinti ai margini da una distribuzione dei beni vitali sempre più selvaggiamente ingiusta; e quando l'afflusso di migranti (in fuga dalla miseria, dalla sete, dalle malattie) supererà le capacità culturali e strutturali di assorbimento delle società affluenti? C'è qualcuno che, con un minimo di buon senso, si aspetti che i nove banchieri diranno la verità ai loro sudditi?
Molto più probabile è che facciano ricorso alla forza: contro i
propri poveri e contro i poveri esterni. Ecco perché dobbiamo
essere altamente inquieti: perché questo quadro prelude alla
guerra. A una guerra molto più grande di quelle che l'umanità ha
conosciuto fino a ora, e con caratteristiche assai simili a quelle
dell'antichità, in cui il vincitore sterminava il nemico dopo averlo
sconfitto. Non era uno sterminio senza senso, puro prodotto della crudeltà. Un
senso lo aveva: non c'erano risorse per tenere in
vita il nemico. Anche adesso, nel corso di questa e della prossima
generazione umana, non ci saranno risorse per tutti i viventi.
Dieci anni sono passati da allora e nessuna verità accettabile è emersa per spiegare perché e come l'11 settembre sia potuto accadere. Centinaia di migliaia di persone, in tutti i continenti — ma soprattutto decine di migliaia di cittadini americani, insieme alle famiglie delle vittime — hanno continuato a scavare per estrarre dalle macerie di Ground Zero, dal Pentagono sventrato, da un campo della Pennsylvania, qualche brandello di verità. Il tutto nel silenzio tombale del mainstream media. Un silenzio accompagnato da sistematici tentativi di impedire l'emergere di ogni informazione, analisi, studio, in grado di raggiungere i grandi pubblici dell'Occidente. L'll settembre è stato trasformato in un tabù impenetrabile, una pagina chiusa e da non riaprire, una tomba collettiva in cui deve rimanere sepolta per sempre ogni possibile interpretazione diversa del complotto che l'amministrazione americana di Bush e Cheney ha imposto al mondo intero. Ci hanno raccontato che gli asini volano, e decine di migliaia di giornalisti hanno chinato il capo; migliaia di giornali hanno sparato la favola nelle prime pagine; migliaia di televisioni ci hanno mostrato le stesse, mostruose immagini della tragedia, accompagnandole con gli stessi, identici commenti, tutti senza senso. E, subito dopo, hanno voltato pagina, descrivendoci le gesta di onnipresenti ramificazioni di una cosa chiamata Al Qaeda, che è – come è già stato ampiamente dimostrato – invenzione dei servizi segreti occidentali, per giustificare misure di sicurezza, di sorveglianza, di penetrazione nella privacy dei cittadini, per descrivere atti terroristici che arrivavano sempre in modo provvidenziale per tenere alta la tensione mondiale. Ci hanno periodicamente riesumato immagini e voci di diversi (incontestabilmente, clamorosamente) Osama bin Laden, senza mai chiedersi se Osama bin Laden fosse ancora vivo, tenendo conto che si sapeva con certezza che era già gravemente malato nel 2001. La lotta al terrorismo internazionale continua, riducendo sempre di più il tasso di libertà di milioni di persone, in ogni angolo della terra; le guerre si moltiplicano. Nel frattempo non un solo processo si è celebrato negli Stati Uniti contro alcun responsabile di quel massacro. Ma abbiamo saputo, senza che nessuno dei grandi media mondiali chiedesse riscontri di documentazione, che altri, a cominciare da Khaled Sheikh Mohammed, si sono addossati tutta la responsabilità dell'11 settembre. Del resto avevamo già scoperto che Osama bin Laden non risultava ricercato da nessuna parte, nemmeno negli Stati Uniti, per l'11 settembre. Sappiamo che Khaled Sheikh Mohammed e altri, ancora imprigionati a Guantánamo Bay, sono stati torturati selvaggiamente per mesi e mesi. Quel poco che pare sia emerso è il risultato di quelle torture, quindi completamente privo di ogni validità giuridica in qualsivoglia processo che dovesse compiersi negli Stati Uniti o in altri paesi del mondo. Prova ne sia che, mentre scrivo queste righe, giunge la notizia che il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Eric H. Holder Jr. ha deciso che il gruppo di Khaled e dei suoi quattro "complici" sarà giudicato da un tribunale militare, in quel di Guantánamo Bay, e non da un tribunale civile nella città di New York. Nel novembre 2009 l'amministrazione del "torturatore-capo", George W. Bush, aveva deciso di far partire il processo. Quasi due anni dopo, la paura che il processo si trasformi, sotto gli occhi di tutto il mondo, in una serie di rivelazioni che il vertice dell'Impero non può consentire, costringe Barack Obma a un clamoroso passo indietro. A indizio ulteriore che gli organizzatori reali dell'11 settembre sono ancora al potere a Washington, o nei suoi immediati dintorni. In ogni caso in condizione di ricattare e di minacciare. | << | < | > | >> |Pagina 22Ma questa è una "pistola fumante" anche sotto un altro profilo, che si può racchiudere in una serie di domande connesse con la versione ufficiale del «complotto" di Osama bin Laden e dei 19 "terroristi islamici". Possiamo accettare a cuor leggero l'ipotesi della "coincidenza"? Cioè che, incidentalmente, per caso, l'operazione terroristica sia scattata proprio nel giorno — si dovrebbe presumere l'unico di tutto l'anno — in cui la difesa aerea statunitense era incapacitata a rispondere? Oppure dobbiamo affrontare una questione assai più delicata: e cioè che qualcuno, cittadino americano, colluso con i terroristi, abbia dato loro preventivamente l'informazione su "Vigilant Guardian"? E, infine, la terza, obbligatoria, domanda: possiamo escludere ora che l'esercitazione militare (senza dimenticare che ve n'erano altre, coincidenti, parallele, e tutte convergenti verso un atto terroristico) sia stata concepita proprio dall'interno di quei comandi che hanno "accecato" le difese americane, per impedire loro di far alzare in volo i caccia che avrebbero abbattuto i velivoli intrusi? La tesi dell'incompetenza, della superficialità di tutta la serie di operatori coinvolti non regge di fronte non solo alle angosciate registrazioni sonore qui ricordate. Non regge in primo luogo perché c'è stato un seguito di coperture, di insabbiamenti, di occultamento della verità, di omissioni di atti dovuti, che si è prolungato per tutti questi anni. Questo seguito di inganni non può essere attribuito ai "terroristi". Chi ha impedito la ricerca dei responsabili sono stati dei cittadini americani, tutti collocati ai più alti livelli dell'amministrazione Bush. Dunque l'indagine avrebbe dovuto andare in quella direzione, verso l'alto. Il fatto che non ci sia andata è una prova della sua completa falsità.La seconda "pistola fumante" è piuttosto un intero arsenale di armi concettuali da sparo. Tutte connesse con il famoso edificio numero 7, il WTC-7 del World Trade Center. Si tratta della terza torre, quella che crollò alle 17.20 dell'11 settembre, senza essere stata colpita da nessun aereo. Un edificio alto quasi 200 metri, di 47 piani, d'acciaio come le due torri, che crolla all'improvviso, verticalmente, alla velocità di caduta libera, e si affloscia, trasformandosi in una nuvola di polvere, sulla propria pianta. È il terzo record mondiale assoluto della storia dell'architettura: nessun edificio in acciaio era mai crollato in questo modo. Tre record mondiali in una stessa mattinata, nello stesso posto. Ma il WTC-7 è molto di più: è la prova della menzogna intenzionale (non un errore) della Commissione ufficiale d'inchiesta. Ed è al tempo stesso la prova che il mainstream mondiale è interamente (salvo eccezioni) condizionato dal Superclan, e tace su tutte le questioni principali, o le distorce in forma coordinata, per impedire alle cosiddette opinioni pubbliche di difendersi. I numeri ce lo dicono e sono impressionanti perché provano che l'"omissione di notizie" provoca grandi risultati, addirittura più grandi, spesso, delle bugie che si raccontano. Basti citare il sondaggio che l'agenzia americana Zogby effettuò nel 2006. Secondo il quale il 43% degli americani non aveva mai sentito parlare del WTC-7. Del resto tutti quelli che hanno letto il 9/11 Commission Report non potevano saperne niente perché in quelle 566 pagine non c'è una riga al riguardo. E già da questo "dettaglio" si capisce che la Commissione — che aveva il mandato di «dare al popolo americano una descrizione il più possibile completa dei fatti e delle circostanze correlate con l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001» — non compì affatto il suo dovere. Ma tra poco capiremo che non fu una distrazione collettiva. Semplicemente affrontare questo tema sarebbe stato troppo spinoso. partiamo dunque da una delle ultime novità intervenute nel frattempo: quella del rilascio, da parte del NIST, di un filmato del crollo del WTC-7 che era rimasto sequestrato in tutti gli anni precedenti. Questo filmato è estremamente importante ai fini dell'indagine sulle vere ragioni del crollo. Ed è proprio per questa ragione che fu sequestrato e tenuto nascosto per otto anni. Si vede in alto a sinistra, sul tetto dell'edificio, una grossa costruzione che nel filmato è nera. Ha un'altezza di circa due piani. Probabilmente è una struttura che ospitava i servizi tecnici. A un certo momento questo penthouse crolla. Ma il suo crollo non è seguito immediatamente da quello dell'edificio: trascorrono almeno tre interi secondi. Cioè il crollo del penthouse "anticipa" il crollo complessivo. Come si spiega? La teoria ufficiale, sostenuta dal NIST, fu che l'edificio era stato colpito dai detriti della Torre Nord; questi avevano innescato un incendio; l'incendio avrebbe indebolito le strutture portanti, provocando il crollo. Le poche fotografie disponibili di questi danni dicono tutte (non ne abbiamo viste di altro tipo) che essi riguardavano le parti medie e inferiori dell'edificio, non il suo tetto, che dalle immagini appare comunque intatto. In ogni caso il crollo anticipato di quella struttura non trova spiegazione alcuna, diversa dalla più semplice delle ipotesi: chi ha minato l'edificio ha commesso un erroruccio di qualche secondo. La demolizione controllata prevede una successione di impulsi che, partendo dal basso, percorrono tutta la struttura con una calibratura di poche frazioni di secondo tra due esplosioni contigue. Infatti, quando il WTC-7 comincia a crollare in caduta libera, si vedono sul lato destro (per chi osserva il filmato) decine di sbuffi neri corrispondenti alle finestre di decine di piani. Di fatto un'altra prova della demolizione controllata. Ma quel penthouse che crolla in anticipo è un bel guaio. Prima di tutto per la teoria del fuoco che indebolisce la struttura. Lassù non c'era fuoco. Si capisce che quel filmato non doveva essere visto. | << | < | > | >> |Pagina 34E veniamo ora a un'altra "pistola fumante" che è impossibile ignorare perché ha sparato diversi colpi e sparge tuttora tracce abbondanti di indizi. Sbalorditivo è anche sapere che quanto qui riassumerò in poche righe essenziali è a disposizione dei giornalisti di tutto il mondo, ma non risulta sia stato analizzato, commentato, confutato, semplicemente usato da qualcuno dei componenti del mainstream mondiale, giornali, televisioni, radio. Basta andare a fare una visita al web per trovarlo e per scoprire che la Commissione ufficiale d'inchiesta sull'11/9 non ha fatto nulla di ciò che avrebbe dovuto fare. E non si è chiesta chi aveva fornito i dati di cui qui si parla. Si tratta del famoso volo AA 77, quello che avrebbe colpito il Pentagono.La fonte è quella dei Piloti per la Verità sull'11/9 e risale al 13 agosto 2006. Cinque anni dopo l'attacco terroristico più grande della storia. Cinque anni da oggi. È il risultato di quattro anni di ricerche, iniziate quando Rob Balsamo, uno dei fondatori dell'organizzazione, si pose il compito di verificare la validità delle conclusioni del 9/11 Commission Report. Il punto di partenza era stato la constatazione che molte cose non quadravano nella rappresentazione di quella parte dell'operazione terroristica e, in alcuni casi, apertamente la contraddicevano. Ma una cosa sono le supposizioni — che il mainstream immediatamente definisce "complottiste" — altra cosa sono i fatti e le analisi dei fatti. E queste conducono a una secca conclusione: «i dati che sono adesso a disposizione, offerti al pubblico attraverso il Freedom of Information Act (FOIA), dicono che non hanno nulla a che fare con un velivolo dell'American Airlines». Si tratta di uno studio accuratissimo del quale sono verificabili tutte le fonti. Principale fornitore delle quali è il National Transportation Safety Board (NTSB). Esse rivelano una serie impressionante di circostanze, che qui elenchiamo. Primo: le informazioni disponibili, riguardanti "quell'aereo" non indicano un impatto con il Pentagono. Secondo: sono di gran lunga al di fuori delle caratteristiche di un aereo standard del tipo 757/767 (Boeing). Terzo: aprono grossi problemi per quanto concerne la capacità di controllo del velivolo da parte di un "pilota inesperto". Quarto: nessuno aveva mai verificato se le poche parti di aereo rintracciate sul luogo del disastro avessero segni di identificazione corrispondenti a quelli del velivolo contrassegnato dal numero di serie N644AA (quello, appunto, che ha effettuato il volo AA 77). Quinto: non contengono alcun elemento che confermi che un dirottamento è avvenuto. Infatti il parametro informativo ritrovato, riguardante la porta di accesso alla cabina di pilotaggio, dice che la porta è rimasta chiusa per tutto il tempo del volo. Sesto: il FOIA rilascia i dati della scatola nera, ovvero del Flight Data Recorder, che risulta essere stata ritrovata, almeno per questo volo. Questi file contengono dei codici binari particolari, necessari perché possano essere letti e decifrati. Gli aerei della Boeing sono tutti dotati di un particolare sistema di decodificazione. Ma ogni compagnia aerea, di solito, si dota di un proprio sistema di decodificazione aziendale. American Airlines ha un proprio sistema di decodificazione (AAL). Ebbene, risulta che solo alcuni punti dei file sono stati decodificabili dal AAL dell'American Airlines mentre altre sezioni dei file sono risultate impenetrabili alla decodificazione sia con l'AAL, sia con il sistema generale fornito dal costruttore Boeing. La domanda che sorge qui è: ma quei dati provengono davvero dalla scatola nera di un aereo dell'American Airlines? E il fatto che essi siano decifrabili in alcuni punti e indecifrabili in altri non induce al sospetto che quei nastri siano stati manipolati? Settimo: ulteriore evidenza che i dati contenuti in quei file non corrispondono a un aereo dell'American Airlines, e quindi, ovviamente, al volo AA 77, emerge dall'analisi dei numeri concernenti la latitudine e longitudine dell'aereo (Lat/Long). Questi dati sono stati decodificati e mostrano un errore di più di 3.000 piedi (circa 91 metri) nella posizione dell'aereo alla partenza dall'aeroporto Dulles di Washington. Secondo il manuale operativo di un aereo Boeing 757/767, come confermato da numerosi capitani della stessa compagnia American Airlines, esso ha a bordo uno strumento di navigazione denominato IRS (Inertial Reference System) che deve essere obbligatoriamente verificato prima di ogni decollo. A termini di manuale, se si registra una discrepanza tra la posizione reale del velivolo e quella indicata dallo IRS, l'aereo non può muoversi fino a che l'errore non viene corretto. Se un tale errore dovesse registrarsi mentre il velivolo sta ancora rullando sulla pista, il capitano è obbligato a tornare al gate di partenza. Ottavo:, secondo i dati ufficiali e le registrazioni audio fornite dalle agenzie governative, il volo AA 77 partì dalla porta D26. Tuttavia quell'errore di posizionamento registrato indica che la porta di partenza fu un'altra. Si tenga conto che un aereo della American Airlines deve essere "allineato" con i dati reali. Il che significa che il pilota deve immettere nel computer i dati Lat/Long corrispondenti alla porta da cui parte e che vengono forniti dalle carte di navigazione. Una partenza con un errore di tale magnitudine nel sistema di navigazione potrebbe comportare seri pericoli per l'incolumità dell'aereo e per la vita dei passeggeri. È vero che "alcuni aerei" dispongono di possibilità di aggiornare in volo la loro posizione, ma «ogni aggiornamento effettuato in volo non potrà essere accurato se alla porta di partenza non vi sarà stato un allineamento preciso». È importante osservare che solo aerei militari sono in grado di allineare in volo il proprio IRS. Nono: gli aerei militari sono dotati di GPS (Global Positioning System). È mediante il GPS che il velivolo può "auto-allinearsi" in volo. Ma il N644AA (volo AA 77) non era dotato di GPS. Allora diventa inspiegabile la scoperta, nei file della scatola nera, che esso aveva un GPS in funzione e che effettuò un riallineamento in volo. Le conclusioni, dunque, contraddicono tutta la ricostruzione ufficiale: l'aereo non può essere partito da quella porta; non poteva partire in base ai regolamenti dell'American Airlines; non poteva ri-allinearsi in volo perché non dotato di GPS; eppure i dati della scatola nera registrano l'esistenza di un GPS in funzione; quell'aereo non poteva fare quelle manovre; non esistono indicazioni di effrazione della porta di accesso alla cabina di pilotaggio ecc. | << | < | > | >> |Pagina 43L'ultima, della serie delle "pistole fumanti" che qui tratteremo succintamente, viene dalla penna di un giornalista del «New York Times», Philip Shenon. Uno di quelli che afferma di ritenere che l'11 settembre è stato un atto terroristico commesso da quei 19 "terroristi islamici", e che la sua realizzazione è stata nient'altro che il risultato di una serie di "errori", "superficialità", "leggerezze", "ingenuità", tutte commesse dai funzionari, dai militari, dagli agenti dei servizi segreti. Insomma tutti peccati veniali – una serie sterminata di peccati che solo un ottimista assoluto può accettare di definire veniali – la cui somma ha prodotto un gigantesco disastro e una tragedia per migliaia di persone, e anche una svolta senza precedenti nella storia mondiale. Si tratta di uno di quei giornalisti americani che considera "complottisti" non gl'inventori del complotto che è la versione ufficiale, ma coloro che cercano di smascherare il complotto. Mi sono soffermato a riassumere la posizione che emerge dal suo scritto perché è importante che chi leggerà le righe che seguono sappia che Philip Shenon – questo è il suo nome – non è affatto d'accordo né con chi scrive, né con alcuno degli autori che compaiono in questo libro.E questo è ciò che contribuisce a fare di Philip Shenon una involontaria "pistola fumante" dell'11 settembre. Perché ciò ch'egli racconta è al di sopra di ogni sospetto di parte, essendo egli "dall'altra parte" rispetto alla quale io mi trovo, ed essendo le sue scoperte e conclusioni, suo malgrado, interamente a sostegno delle mie tesi sull'11 settembre. Dunque: Philip Shenon ha seguito passo passo, giorno per giorno, per conto del «New York Times», i lavori della Commissione sull'11 settembre. E ha scritto, oltre che una serie di articoli per il suo giornale, anche un voluminoso libro che costituisce, a oggi, la più completa ricostruzione di quell'indagine, che si concluse con la stesura della versione ufficiale: 9/11 Commission Report. Il titolo americano del volume, uscito nel 2008 è neutro: The Commission. Il titolo dell'edizione italiana, invece, secondo il nostro stile, assai più spettacolare, ha un tono palesemente "complottista": Omissis. Tutto quello che non hanno voluto farci sapere sull'11 settembre. Immagino che l'autore sia stato consenziente circa il titolo italiano. In effetti il volume contiene molte cose assai importanti, sebbene non tutto quello che "non hanno voluto farci sapere". Che è molto, molto di più. Ma ci limiteremo a qualcuno degl'indizi e delle prove che ci paiono di maggiore rilievo. Prima tra tutte la scoperta che i due presunti piloti del volo AA 77, quello che avrebbe colpito il Pentagono – Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar – alloggiarono, nel 2000, nella casa di uno «storico informatore dell'FBI», in quel di San Diego, California. E non per qualche ora o giorno, ma per più d'un anno. Sappiamo anche che questo informatore si chiamava Abdusattar Shaikh. Qui, come ben si comprende, sorgono immediatamente alcune domande: come si spiega che due terroristi soggiornino in casa di un agente informatore dell'FBI? Stupidi loro, o stupido lui? Oppure nessuno è stupido in questa faccenda? Seconda domanda: come mai l'informatore non ha informato "chi di dovere"? Forse faceva il doppio gioco? Non sappiamo rispondere a questa domanda, perché nessuno pare abbia indagato in questa direzione. Non sappiamo neanche se Abdusattar Shaikh sia stato interrogato. Non sappiamo se sia ancora vivo. Non sappiamo dove sia attualmente. Ma quello che sorprende è che tutte queste domande Philip Shenon non se le pone. Lui prende per buona la notizia. Fa bene, perché essa, come vedremo, è bene certificata. Ma non va oltre. Allora vediamo tutta la storia, fino a che essa non si trasforma in una "pistola fumante". | << | < | > | >> |Pagina 51Ma c'è, nel libro di Shenon, anche di molto peggio. La Commissione, nonostante tutte le precauzioni, fu in grado di dimostrare che i militari avevano mentito su aspetti decisivi dell'atto terroristico. A cominciare dal più alto in grado nel momento della sua esecuzione, il generale dell'aviazione Richard Myers, numero due dello Stato Maggiore, sotto il cui controllo stava il famoso NORAD. Interrogato il 13 settembre 2001 dal Comitato del Senato per le Forze Armate Myers dichiarò che «i caccia da combattimento non si erano mossi prima delle 9.37 del mattino, quando venne colpito il Pentagono. Ma non era così e, in seguito, sarebbe stato dimostrato che i caccia si erano alzati in volo quasi un'ora prima». E non fu l'unico bugiardo in alto loco. Larry K. Arnold, generale maggiore dell'Aviazione, aveva visionato l'operato del NORAD nel corso degli attacchi. Un anno dopo se ne andrà in pensione. Una volta insediata la Commissione, nella primavera del 2003, emerge che la cronologia degli eventi fornita dal NORAD è falsa. Shenon, cadendo dal pero per l'ennesima volta, formula due ipotesi: «o [ al NORAD, N.d.R.] non gliene importava niente, o avevano deliberatamente archiviato informazioni sbagliate».Come si possa formulare l'ipotesi che al NORAD non gliene importasse niente, giudichi il lettore, e questo concerne la serietà del giornalista. Resta la seconda ipotesi. Che, per altro, si raccorda perfettamente a quanto abbiamo già riferito circa l'esercitazione militare "Vigilant Guardian". Il NORAD dunque nasconde i fatti alla Commissione d'inchiesta ufficiale. Richard Ben-Veniste, commissario del Partito Democratico, sembra accorgersene e, quando interroga nuovamente Larry Arnold, si sente rispondere che ci sarebbe stato tutto il tempo per abbattere almeno il volo 93 della United, ma che il sacrificio eroico dei passeggeri aveva anticipato l'azione di abbattimento. «Quando Farmer [ uno dei funzionari dello staff, N.d.R.] e la sua squadra investigatrice riconsiderarono la testimonianza di Arnold, rimasero senza parole: il generale e gli altri testimoni avrebbero potuto essere denunciati al Dipartimento della Giustizia, affinché aprisse un procedimento penale. In seguito si capì che la maggior parte delle affermazioni del generale Arnold nel maggio 2003 erano totalmente sbagliate e, cosa ancor più sorprendente, non era vero che i militari avessero sotto controllo il volo 93 della United Airlines e fossero pronti a intercettarlo. In realtà il NORAD seppe del dirottamento dell'aereo della United solo quando questo si schiantò in un campo della Pennsylvania occidentale. Per sua fortuna Arnold non era stato interrogato sotto giuramento.» Naturalmente assai poco di tutto ciò apparirà nel rapporto ufficiale della Commissione. Eppure siamo di fronte a menzogne provate, a occultamenti della verità clamorosi. Abbiamo sotto gli occhi una serie impressionante di indizi che conducono tutti, in molti casi confermandosi l'un l'altro, in un'unica direzione: Philip Zelikow era stato collocato in quel posto non solo per evitare che la Commissione scoprisse qualche cosa, ma era una componente di un'operazione a largo raggio tendente a liquidare testimoni scomodi, a proteggere testimoni bugiardi, o distratti, a dirottare le indagini. Zelikow era il guardiano, anzi il "palo", che avvertiva i delinquenti in caso qualcuno, magari per sbaglio, o per caso, si fosse avvicinato alla verità. C'è materiale più che sufficiente per aprire un'inchiesta penale nei confronti di Zelikow, e di coloro — tutti personaggi che stavano dentro la Casa Bianca e dentro il Pentagono – che cooperarono all'interno dell'operazione di occultamento. Bisognerebbe costringere queste persone, in particolare Dick Cheney e Condoleezza Rice, a testimoniare sotto giuramento. Solo dopo una tale, accurata inchiesta si potrà concludere se volevano semplicemente proteggere se stessi dall'accusa di incompetenza, o di leggerezza, o se sapevano di più. E, se si scoprisse che non sapevano di più – cioè che alla testa del governo americano c'erano dei giganteschi pasticcioni — si dovrebbe comunque andare a cercare quelli che pasticcioni sicuramente non furono, perché emerge con tutta chiarezza che ci furono protagonisti che disposero le pedine sulla scacchiera "prima" dell'11 settembre. E tutte quelle pedine dimostrano inequivocabilmente che c'era non solo chi sapeva in anticipo quello che sarebbe accaduto, ma che agì precisamente perché accadesse. | << | < | > | >> |Pagina 56Ora la puzza di fumo è davvero tremenda. Perché non c'è tribunale, nel mondo civile, che prenderebbe in considerazione, per esprimere un qualunque giudizio, informazioni estorte con la tortura. Ne consegue che il valore giuridico – e quindi scientifico, e quindi politico – del 9/11 Commission Report è uguale a zero. Inutilizzabile, ma anche pericolosissimo da maneggiare. Ed è questa la vera spiegazione del perché nessun processo è stato fino ad ora intentato contro i fantomatici responsabili dell'organizzazione dell'11 settembre: qualunque processo incontrerebbe sul suo cammino le "pistole fumanti". Ecco perché si cerca di prendere tempo, di sottoporre Khaled Sheikh Mohammed a un tribunale militare. Ecco perché quel processo, se mai si farà, sarà fatto al di fuori del territorio degli Stati Uniti d'America, in un'aula dove il numero degli osservatori sarà ridotto al minimo e con un controllo assoluto sulle informazioni che da quell'aula potranno o non potranno uscire. La conclusione di Philip Shenon, finalmente uscito dall'ipnosi, è una pietra tombale sulla Commissione e sul documento "storico" che essa votò nel 2004, all'unanimità: «un sinistro disegno per nascondere la verità sull'11 settembre».Alla luce di quanto abbiamo qui riferito, si capisce assai bene perché i protagonisti del "sinistro disegno" abbiano poi cercato di correre ai ripari, di prendere le distanze da ciò che avevano firmato. Una scena che fa pensare a un nido di scarafaggi, in fuga verso gli angoli più bui quando qualcuno accende improvvisamente la luce nello sgabuzzino della spazzatura. Thomas Kean e Lee Hamilton, i due presidenti della Commissione, passeranno certamente alla storia con la stessa fama di Warren, colui che firmò il rapporto finale sull'assassinio di John Kennedy. Sentite sentite cosa scrivono sul «New York Times» sotto il titolo Ostacolati dalla CIA: «più di cinque anni fa il Congresso e il presidente Bush crearono la Commissione 9/11. Lo scopo era di dare al popolo americano la descrizione più completa possibile "dei fatti e delle circostanze correlate con l'attacco terroristico dell'11 settembre 2001", e di fornire raccomandazioni per prevenire attacchi futuri [...]. Il mandato della Commissione fu ampio e incluse esplicitamente le agenzie di intelligence. Ma le recenti rivelazioni che la CIA distrusse i video degl'interrogatori dei militanti di Al Qaeda ci inducono a concludere che l'agenzia ha mancato di rispondere alle nostre legittime richieste [...]. Coloro che sapevano di quei video – e non ci dissero della loro esistenza – hanno ostacolato la nostra indagine». | << | < | > | >> |Pagina 63Il mantra del "non si può mettere in dubbio" diventava però, giorno dopo giorno, una trincea sempre meno difendibile. Tanto più che lo stesso Barack Obama aveva mentito fin dalle prime battute del suo solenne annuncio nella nuova veste neocon di "vendicatore dell'America". Qualcuno gli aveva scritto, nel discorso, che i servizi pakistani avevano collaborato nell'azione di annientamento del nemico. E non era vero.Ma il discorso si fa lungo e si deve tornare al dunque. L'America di Barack Obama è un paese in crisi profonda. Una crisi che si palesò per la prima volta, in tutta la sua portata, proprio alla fine degli anni '90, e che produsse il "colpo di stato" che portò alla nomina (non uso intenzionalmente il termine "elezione», perché George Bush fu "nominato" presidente da una risoluzione a maggioranza della Corte Suprema degli Stati Uniti mentre la conta dei voti in Florida dava per vincitore il suo avversario Al Gore) di un impostore che avrebbe dovuto "gestire" l'11 settembre 2001. La "gestione" di Bush ha un titolo chiarissimo: la guerra, artificialmente preparata, contro il terrorismo internazionale. Mediante la creazione di un nemico fittizio, gli Stati Uniti sono riusciti a compattare l'Occidente sotto le loro bandiere. Eravamo, già da tempo, "tutti americani". Dopo l'11 settembre non fu più consentito nemmeno dubitarne. Per quanto concerne Wall Street, la crisi e l'implosione della finanza americana furono dilazionate per altri sette anni. Lo furono mediante una gigantesca espansione della massa monetaria che, in buona sostanza, costrinse l'intero pianeta a sostenere un debito americano che si gonfiava a dismisura. Ma dilazionare è un conto, debellare è un altro. Quella che si cercò di far rimbalzare nel futuro non era più una delle numerose crisi cicliche del capitalismo che l'avevano preceduta. Era l'inizio della crisi da "fine dello sviluppo". Era l'ultima fermata prima del capolinea. E dopo il capolinea cominciava un altro giro, dove gli Stati Uniti non sarebbero più stati il centro del mondo, comunque non da soli, comunque non più dominanti. Qui, tra le mille cose che si possono dire, c'è un'ipotesi possibile. Che è quella di un Barack Obama (cioè di una parte dell'élite statunitense) che vorrebbe cambiare linea e prendere atto della nuova situazione del pianeta. Questo implicherebbe tuttavia la necessità di prendere per mano l'America e, gradualmente, convincerla della necessità di una svolta radicale del suo train de vie. Impresa, come ben si capisce, di gigantesca complessità e che richiederebbe una politica di alleanze, all'interno e all'esterno degli Stati Uniti. È evidente che, allo stato degli atti, Barack Obama (che rappresenta questa parte dell'élite americana) non dispone all'interno di nessun alleato. I repubblicani sono fierissimi oppositori di ogni seppur remota prospettiva di rimessa in discussione dell' american way of life. Il tea party peggiora drasticamente il quadro. Sull'altro fronte gli elettori che credettero nell'Obama rinnovatore, delusi della sua impotenza, lo stanno abbandonando. Che fare? Per avviare questa virata, comunque necessariamente graduale, Barack avrebbe dovuto essere rieletto per un secondo mandato. | << | < | > | >> |Pagina 147Nessuno, l'avrebbero ammesso poi, nessuno aveva voglia di vederlo, quel film. Io meno degli altri. Io temo la complessità del male, ciò che non capisco, tutta la vasta trama delle guerre, sgarri mondiali che mi sfuggono. Volontà di annientamento. Io, infatti, lo dissi subito, quando G. mi avvicinò in margine a uno di quegli eventi cui sia io sia lui si partecipava per ridurre i danni della dittatura di centrodestra almeno sul nostro sistema nervoso irritato dall'impotenza, «Io,» dissi, e non è un monosillabo che declino volentieri «io non ho voglia di rivederle le immagini dell'11 settembre. Non voglio vedere la gente che scappa urlando mentre si alzano muri di fumo bianco, non voglio sangue e "oh my god!", e grattacieli che si sgretolano e aerei che si infilano nel vetro delle finestre come pugni... davvero, io sono soggetta a compassione, ne soffro... perché vuoi tormentarmi, tanto è andata, è successo, che ci vogliamo fare? Disegnami un prato fiorito, ingannami, guardiamo qualcosa di piccolo e vicino, guardiamoci negli occhi!»
Dissi così, e G. disse soltanto: «Quello che voglio farti vedere è l'altra
faccia della luna, quella in ombra. Quella che non si
vede. Vieni, poi capirai».
Per un mese non ci siamo sentiti, intanto in Iraq furoreggiava una pace sanguinaria, i morti erano così numerosi da perdere peso e identità, non aveva peso neppure la morte dei bambini. Ogni tanto pensavo alla faccia di G. mentre mi diceva di quel film: una cosa sconvolgente, una bomba. Usava poche parole, meno del solito. Pareva oppresso da una ferocia trattenuta e corretta da una malinconia esagerata. Ero quasi contenta che non mi avesse più telefonato, le poche cose che mi aveva lasciato intuire mi turbavano. Preferivo il silenzio, quei tre anni di silenzio dopo il boato.
Poi, una sera, sullo schermo del computer su cui stavo fiaccamente
scaricando la posta di fine giornata, comparve l'avviso, l'invito, la
convocazione.
Andai, un po' inquieta, non avevo paura di annoiarmi, di perdere tempo, come mi accadeva quando sfioravo mondi limitrofi alla politica. Avevo paura e basta. Era una tersa mattina di giugno, il cielo era d'un azzurro così intenso che il centro vecchio della città, piazzale Argentina con i suoi monconi di monumento d'epoca romana, appariva finto come un teatro di posa. Entrai nella sede del gruppo politico, polverosa e buia come tutte le sedi di tutti i gruppi politici che ho conosciuto. Nella stanza grande, disadorna, arredata d'un accurato disordine, c'erano, tutti seduti dallo stesso lato del lungo tavolo rettangolare, una ventina di uomini e la consueta minoranza di donne. Conoscevo soltanto G. e soltanto lui salutai, con una mano, un gesto vago come di chi abbia accettato un invito controvoglia, lui capì e disse, con gli occhi, qualcosa che percepii come "vedrai" o forse, addirittura, "devi vedere". Qualcuno abbassò una tapparella e il cielo azzurro sparì in un'oscurità relativa.
Sullo schermo comparve quello che avrei voluto non vedere.
The dark side of the moon.
L'altro punto di vista.
Intendiamoci, i grattacieli gemelli a forma di torre c'erano, c'era la loro potenza ridotta a giocattolo, c'era la sagoma elementare degli aeroplani, c'erano le fioriture di fumo, le grida, gli "oh my god", l'ansia e la fuga, il cielo annullato dalla polvere, il crollo, la grandinata di detriti e i corpi fantoccio che precipitavano dall'alto. Tutto il dispiegarsi solenne e geometrico della catastrofe c'era. Era quello che ricordavo, era tutto il già visto e già sofferto. Ma al di là delle immagini di una tragedia diventata repertorio, al di là del lutto c'era questa novità terribile: le domande. Non l'angoscia, l'esecrazione, i proclami, la retorica, no: le domande. C'erano i volti sereni e impassibili di individui competenti che spiegavano e spiegavano. Le torri non cadono così. Le torri sono state costruite in modo da non cadere come sono cadute. Li animava una pazienza maieutica, limitavano al massimo le inflessioni, snocciolavano dati. L'acciaio non si comporta in quel modo, la temperatura che squaglia l'acciaio non consente vita, come è possibile che uomini e donne scendano per la scala A? A una temperatura di 800 gradi nessuno è vivo, neppure per un istante. Le immagini, sotto l'incalzare delle domande, assumevano un'altra valenza. Erano quelle che avevamo già visto, eppure erano altre. Come è possibile che un aereo di queste dimensioni abbia fatto un buco così piccolo nel corpo del Pentagono? Dove sono i resti, perché non c'è una valigia, un orsacchiotto, la morte semina resti, lo sappiamo, ne abbiamo visti. Come è possibile che il prato sia intatto? Dov'è l'aereo? Il Pentagono l'ha inghiottito? Perché ha picchiato contro l'ala vuota dell'edificio, i potenti, i nemici, erano dall'altra parte, non lo sapevano i terroristi? Perché nei 52 minuti che hanno separato un attacco dall'altro, l'azione che aveva per obiettivo il World Trade Center dall'azione che aveva per obiettivo il Pentagono, perché in quei 52 minuti, non è scattato un piano di difesa dello spazio aereo?
Ogni domanda maggiore si portava dietro domande minori
e, dietro a tutte le domande, maggiori e minori, ce n'era una gigantesca,
smisurata: perché?
Si accesero le luci. Nessuno prendeva la parola, eppure erano tutte persone abituate a parlare. Una donna si portò una mano alla fronte, come se le facesse male. Nessuno, neppure, osava guardare apertamente gli altri, come se ciascuno sapesse d'aver assistito a qualche cosa di osceno, che non può, che non deve essere visto collettivamente, perché ciascuno si vergogna delle proprie reazioni involontarie. Ci sentivamo nudi. G. disse poche cose, senza enfasi, piuttosto con preoccupazione. Poi consegnò, a ciascuno di noi, una copia del film che avevamo appena visto. Gli sorrisi intimidita da quella che sentivo come una comunione più che come una cospirazione. «Che cosa ne devo fare?» chiesi. «Fallo vedere» disse G. Un sacerdote, una ventina di chierichetti. Così mi sentivo? Dovevo servire messa, fare proseliti, allargare l'ecclesia dei questionanti, quelli che vogliono fare domande, quelli che vogliono ricevere risposte.
Uscimmo alla spicciolata.
Per strada, non potevo posare gli occhi sui passanti. Ogni essere umano intento a procedere verso di me, a sorpassarmi per seguire i suoi affari, ogni essere dotato di braccia e di gambe, di una testa e di occhi per guardare prima di attraversare la strada, mi pareva, senza che lo volessi, una vittima designata, uno che correva dei rischi. Avrei voluto parlare con tutti. E non osavo neppure guardarli. Continuai a camminare, ma non mi muovevo in una direzione precisa. Seguivo la folla, che, in quella bella giornata di inizio estate, si spostava di cartolina in cartolina, nel centro monumentale di Roma. Davanti a me, a un certo punto, si sistemò una famiglia di turisti: erano tutti biondi. Il padre teneva sulle spalle la bambina più piccola, la madre teneva per mano un ragazzino che poteva avere dieci anni. Erano perfino troppo belli, senza rendermene conto, li seguii per un tratto di strada, in direzione di piazza Venezia. Non riuscivo a non ascoltarli mentre scherzavano, in un bell'inglese pulito, quello che si parla con i bambini, un inglese che riuscivo a capire bene. Erano certamente nordamericani, una famiglia benestante e giovane, in vacanza nella città eterna. Ma, continuando ad ascoltarli, mi formai l'opinione che fossero proprio di New York. Ho lavorato li per parecchi mesi fra l'Ottanta e l'Ottantasei, per girare una serie di documentari sulle ultime tre generazioni di americani d'origine italiana. Andavo e venivo, perché anch'io, all'epoca, avevo un figlio molto piccolo e non volevo lasciarlo con i nonni per troppo tempo, ma l'inflessione particolare dell'americano parlato a New York mi era rimasta nelle orecchie. Li seguii fino all'altare della Patria che è un monumento orribile e che suscitò, in loro, frasi di ammirazione contenuta. Più interesse che altro. Dovevano essere proprio newyorchesi, pensai, una famiglia del Middlewest avrebbe cacciato grida di giubilo. Mi avvicinai ancora, quasi fossi, anch'io, una brava turista. La bambina picchiava con le manine la testa di suo padre e gli scalciava il petto con due minuscole scarpe da tennis rosse. Fu quando incontrai il suo sguardo, due occhi annoiati e allegri di porcellana azzurra, che incominciai a piangere. La donna si avvicinò a me, per chiedermi, con la sollecitudine intrusiva tipica delle persone lineari, se mi sentissi male e avessi, perciò, bisogno del loro aiuto. Parlava un italiano volonteroso. Così le risposi in italiano. E le risposi con una domanda. «Siete di New York, vero?» La donna bionda annuì soddisfatta e mi chiese sè conoscessi la loro città. Dissi di sì e dissi che l'amavo, dissi che non l'avevo più vista dopo il "nine eleven". Sia la donna bionda sia il suo biondo marito parvero toccati dalla mia commozione: nel dire "nine eleven" avevo abbassato gli occhi. Mi chiesero se avessi perso qualcuno nel disastro. Il ragazzino, che si chiamava Seymour, dichiarò, con evidente orgoglio, che un suo compagno di asilo aveva perso il padre, che il padre del suo compagno d'asilo lavorava al novantaseiesimo piano della Torre Uno. Parlai con Seymour per qualche minuto, e, come spesso mi capita con i bambini, fui assorbita totalmente da una leggera vertigine. E l'incontro con l'innocenza che mi provoca questa reazione, è come affacciarsi sull'orlo dell'abisso della verità, senza il conforto di tutte le nostre convinzioni, idee e normative, senza i nostri abituali preconcetti. In genere i bambini ripagano l'intensità della mia attenzione con magnifici sforzi d'eloquenza e i genitori apprezzano, incerti fra ammirazione e stupore. I due biondi newyorchesi non reagirono diversamente da tutti gli altri giovani genitori e quando, essendomi accorta che la bambina più piccola si sentiva esclusa, mi misi a discorrere con lei di quando, alla sua età, ero rimasta per quattro giorni sulle spalle di mio padre, e non volevo scendere e così lui dovette portarmi in ufficio per quattro mattine e la feci ridere, mi chiesero, definitivamente conquistati, se avevo voglia di cenare con loro, una di quelle sere. Sarebbero rimasti a Roma per una settimana.
Accettai, ma dissi che li avrei invitati io. A casa mia.
Non avevo agito seguendo un disegno preciso, non avevo neanche deciso di far vedere il film, prima che a chiunque altro, proprio a loro, a due trentenni nordamericani, democratici e mediamente intelligenti. Fu un'ispirazione momentanea. Nei due giorni seguiti al nostro incontro, non avevo fatto che pensare alle sette domande. Di notte, quando mi svegliavo, non riuscivo a riprendere sonno, di giorno non riuscivo a concentrarmi su niente. Le domande erano un tarlo, un mal di denti, un'ossessione. Non avrei saputo rispondere se mi avessero chiesto perché quel filmato mi avesse colpita così forte, così a fondo. Ne parlavo a tutti e tutti mi guardavano con la quota di tolleranza e cinica simpatia che, nel nostro ambiente, sempre si guadagna chi prende troppo sul serio qualche scandalo o qualche tragedia. Vengono guardati così quelli che non tollerano le notizie sulle stragi dei civili dai teatri di guerra, quelli che risparmiano sull'acqua della doccia pensando a chi muore di siccità, quelli che proprio non ce la fanno a ordinare pasti di cinque portate e poi rimandare indietro i piatti quasi pieni per sazietà e non pensare che ogni tre minuti nel mondo un bambino muore di fame. Mi guardavano come si guardano i fessi, i romantici e i disadattati. Li capivo, anch'io mi sarei guardata così, se fossi riuscita a vedermi. Non mi arrabbiavo con loro. Offrivo a tutti la possibilità di vedere il film. Dicevano tutti "certo certo» e "magari, appena ho un attimo di tempo". Mio marito mi accusò di complottismo, era tipico di me, disse, di come ero fatta, pensavo sempre in termini di oscure trame, di poteri occulti, di macabre strategie per il controllo del mondo. Ma la vita non è un film di zero zero sette, disse, non c'è il Cattivo Diabolico. È tutto molto più complesso e confuso. Quando gli riportai le sette domande, disse che gli americani erano pasticcioni, che Bush era un noto cretino, ci avevano scritto su anche un libro, che la CIA si sparava sui piedi per prepotenza e cazzutaggine, che lo sapevano tutti, ma Pearl Harbor no, la tesi che l'attacco alle Torri Gemelle era stato autoprodotto per dare a Bush l'alibi di mangiarsi un altro pezzo di mondo, no, quella tesi li, era una vera vaccata ed era meglio smettere di snocciolarla in giro perché si faceva la figura di quelli rimasti incagliati negli anni Settanta, a fare la controinformazione immaginandosi un padrone con sette cazzi tutti dritti ben deciso a fottere sette classi operaie. A mio marito non dissi di vedere il film, sapevo che l'avrebbe fatto, appena io avessi smesso di parlarne. Gli dissi soltanto che avevo invitato a cena una famigliola di turisti americani. «Bene,» disse «vado a comprare il pesce fresco, cucino un bel sashimi e una tartare di tonno.»
Non glielo impedii, in fondo era gente di New York, non del
Middlewest. Però, per sicurezza e per non deludere Seymour,
preparai personalmente un tot di spaghetti alla carbonara.
La cena fu un evento piacevole e ben armonizzato: la donna bionda, che si chiamava Ginny, e suo marito, che si chiamava Harold, erano una coppia di architetti. Ginny aveva 36 anni e Harold 38. Ci fecero ridere con una serie interminabile di aneddoti sulle gaffes di Bush, si dissero certi che non sarebbe stato rieletto, cantarono le lodi di Cindy Sheehan, la madre del soldato morto in Iraq che aveva fondato l'associazione dei genitori dei soldati morti in Iraq contro la guerra, e quando seppero che l'avevo intervistata per un giornale italiano, mi ringraziarono come se avessi usato un riguardo a una loro parente, una zia pazza che i più trattano con sufficienza. Quando Seymour e la sua sorellina, che si chiamava Franny (anche Ginny aveva molto amato i romanzi di Salinger), con l'impeccabile obbedienza dei bambini non viziati da famiglie romane, andarono a dormire nella mia camera da letto, l'atmosfera si fece più intima. Fu mio marito a tirar fuori il discorso del film, nel tentativo di esemplificare, nel suo inglese non troppo scorrevole, il mio carattere di passionaria a oltranza. Mi prendeva affettuosamente in giro, come sempre. Ma io mi alzai da tavola, cercando di dominare un nervosismo del tutto fuori luogo, e, un po' rigidamente, chiesi se volevano vederlo, il film che mi aveva sconvolta e che divertiva tanto mio marito. «I bambini dormono, dura soltanto un'ora... poi, se volete, vi accompagno in albergo in macchina, così non li dovete nemmeno svegliare... Seymour e Franny.» Nel silenzio che seguì la mia proposta, mio marito provò a smontare tutto, dicendo che una serata così gradevole non meritava un finale tanto triste.
Per fortuna Ginny, con l'istinto delle brave ragazze, si schierò con me, che
tremavo leggermente e sembravo sull'orlo di una crisi coniugale.
Le immagini scorrevano, e io li sentivo respirare, i miei nuovi amici americani. Nessuno parlava. Quando comparivano, sullo schermo, le domande in italiano, io le traducevo. Cercavo di togliere ogni intenzione recitante alla mia voce, come se fossi uno speaker, mi imponevo una neutralità che non mi veniva naturale. Sentivo l'emozione premere sulle corde vocali, dovevo dominarmi, lo sapevo, non mi aspettavo che sarebbe stato così difficile, non mi aspettavo fosse così importante, per me, che Ginny e Harold capissero, che si schierassero dalla mia parte, sentivo l'incredulità di mio marito, lo sentivo accavallare le gambe, taceva, ma lo percorreva un nervosismo posturale che conoscevo bene. Nel buio intuivo ogni suo pensiero, ogni sua mossa, dovrebbe essere vietato per legge restare sposati per 25 anni con lo stesso uomo, si diventa un corpo solo, mentre le teste diventano sempre più diverse. Donne e uomini si radicalizzano, ciascuno verso gli estremi difetti o pregi del proprio genere di appartenenza, con gli anni. Io sono diventata più vulnerabile e più appassionata, lui più impermeabile e più solido, più solidamente arroccato in difesa. Quando il film formulò l'ultima domanda sentii mio marito buttare fuori, dalle narici, un lungo fiato pesante, un brutto suono, di impazienza e incredulità, fra il sospiro e il rantolo, cui subito fece eco, sempre da parte maschile, una risatina strafottente. Era Harold. Accesi la luce, sentivo le guance bollenti e mi batteva il cuore. Harold e mio marito si scambiarono un'occhiata che mi parve complice. Ginny si alzò, compunta, dalla poltrona e disse, scusandosi, che doveva andare a vedere se i bambini dormivano tranquilli.
La seguii, contenta di quella scusa per allontanarmi da mio
marito e dal marito di Ginny.
I bambini erano terribilmente belli, come sono i bambini quando dormono e assumono l'armonia di tratti, la placida perfezione di un cesto di frutta e fiori dipinto nella penombra da un unico fascio di luce. Ginny sistemò la coperta che era scivolata sui piedi di Franny, io saggiai con una carezza il calore fresco della fronte di Seymour. Poi sedetti su un angolo del letto matrimoniale che conteneva i corpi addormentati dei bambini e anche Ginny sedette. Nel silenzio sentimmo gli uomini ridere in sala da pranzo. Non era un ridere allegro. «Ginny,» dissi, forzandomi a parlare «ti chiedo scusa» (mi accorsi che avevo usato una ampollosa formula inglese, che doveva suonare stramba alle sue orecchie: I beg your pardon), poi dissi: «non avrei dovuto farvi vedere quel film, ma è da quando l'ho visto io, che mi si è piantato in testa, non riesco a pensare ad altro... non lo so perché vi ho coinvolti...». Ginny non rispose subito, guardava i suoi bambini dormire come se volesse rifugiarsi in loro, nella tana della loro innocenza e inconsapevolezza. Parlò con filo di voce. «Lo daranno nei cinema?» chiese. Mi sembrò atterrita. Mi affrettai a rassicurarla. «Ma no, figurati. Sono considerate tesi di parte, una sorta di follia orchestrata dai nemici dell'America. Non è così, io non sono nemica dell'America o degli americani. Io sono nemica di Bush, semmai. Ma anch'io, pur nella mia inimicizia, vorrei che non fosse vero... eppure... ci sono troppe incongruenze, se l'amministrazione Bush è innocente, se non è collusa con i terroristi, o peggio, se la sua incompetenza e incapacità a prevenire e poi a reagire nei tempi giusti e prevedibili non è voluta, se non si è giocato con la vita di migliaia di persone e con l'anima e il cuore e la pietà di miliardi di altre, in tutto il mondo, allora perché non fanno chiarezza, perché ostacolano la circolazione delle domande invece di rispondere?» Ginny alzò su di me due occhi pieni di lacrime. Quando parlò, le tremava il labbro inferiore, e la sua voce, appena udibile, era arrabbiata. «È assurdo che io... che abbia visto questo... film... in Italia, io ero qui per vedere... il Colosseo... Michelangelo... i Musei Vaticani.» «Ti chiedo di scusarmi... scusami.» Non sapevo più che cosa dire, e non c'era niente, davvero niente che mi paresse utile comunicare. Non mi importava neppure più sapere se il tarlo del dubbio si era insinuato in quattro sane e vergini orecchie americane. Avevo fatto una cosa sbagliata, soltanto questo pensavo in quel momento, e volevo soltanto mettere fine a tutto. Che la famiglia di biondi alzasse i tacchi e sparisse nella notte. «Adesso vi accompagno a casa» dissi, risoluta. Ginny non mi rispose.
Guardava il sonno dei suoi bambini.
Ritornare alla luce della sala da pranzo fu un piccolo trauma. Il marito di Ginny e mio marito avevano stappato una bottiglia di vino dolce e stavano parlando di cinema. L'ultimo film di Clint Eastwood. Grande film, si dichiaravano d'accordo uno con l'altro, aggiungevano particolari, ciascuno contribuendo a perfezionare l'idea di capolavoro. Ci offersero un bicchierino. Lo bevemmo in piedi. Non avevamo, né io né Ginny, voglia di riprendere il gioco. Il dopo cena, le chiacchiere del dopo cena. Tisana o caffè? Bevete ancora qualcosa? Lentamente ma implacabilmente, dentro di me, stava montando la rabbia, non per il muto sconcerto della giovane donna bionda, ma per l'allegra indifferenza dei due uomini. «No» dissi, rifiutando il bicchierino e tutto quello che non potevo rifiutare apertamente perché non era stato detto, poi dissi: «Se volete vi accompagno a casa». Harold mi guardò, poi guardò mio marito. Era evidente: non aveva nessuna voglia di andarsene, stava bene. Mio marito sospirò. Poi si rivolse ad Harold guardando me, disse: «Mia moglie vuole sapere che cosa ne pensiamo del filmato che ci ha costretto a vedere. Diamole soddisfazione. Se volete comincio io. Dunque: le incongruenze ci sono e le domande sono sensate, ma sono certo che esistono delle sensate risposte. Personalmente mi auguro che il film esca dal circuito priviliegiato della rete, che vada nei cinema, che sia visto in tutto il mondo e che la Commissione di inchiesta ufficiale produca un film altrettanto chiaro con tutte le risposte. Così i complottisti si mettono il cuore in pace e io pure». Soddisfatto, un po' irritato, ma nemmeno troppo, sorrise ad Harlod: «Tocca a te». Harold non aveva capito bene quello che aveva detto mio marito che, quando il discorso si complica, deve aiutarsi parlando italiano. Mi ha chiesto chiarimenti, quasi che non osasse esprimere un'opinione senza aver prima ascoltato quella che gli pareva, evidentemente, una persona più sensata di me. Dopo la mia traduzione, annuì. Quindi, alla fine di un piccolo silenzio, disse: «Conoscevo l'esistenza di questo film, gira in rete da parecchio tempo, da noi. Non l'avevo mai visto. Veramente non lo volevo vedere e...». Si passò una mano fra i capelli corti e biondi, come se volesse cancellare qualcosa da quella sua bella testa innocente. «E?», chiesi, non rivolta in particolar modo a lui, ma al silenzio che si era installato in quella stanza, fra le briciole della cena, la torta afflosciata nei piatti, l'acqua avanzata nei bicchieri, era il silenzio che non sopportavo. Preferivo qualsiasi cosa. Anche gli insulti, ma più di tutto, me ne resi conto dopo, desideravo una confutazione. Non l'incredulità un po' supponente di mio marito, una vera confutazione, con degli argomenti, che ribattesse a ogni domanda. Punto su punto. Non arrivò, la confutazione. Harold si era seduto di nuovo a tavola e si era versato altro vino dolce. Lo bevve d'un sorso. Si pulì le labbra col dorso della mano e disse: «E vorrei non averlo visto. È atroce». Ginny camminò fino a mettersi dietro la sua sedia e gli mise le mani sulle spalle. Parlò guardando me. «Il padre del compagno di scuola di Seymour io lo conoscevo bene. Eravamo diventati amici. Era, come me, alla sua seconda esperienza matrimoniale. La prima era finita male perché sua moglie non voleva bambini. Anche a me, era successa la stessa cosa, il mio primo marito e la sua prima moglie avevano usato lo stesso argomento per dissuaderci dall'idea di avere figli: il mondo è sull'orlo della catastrofe, niente è sicuro, poco è decifrabile, il futuro è minacciato. Il nostro paese è perennemente in guerra. Vogliamo far nascere, e crescere, bambini che saranno uccisi, se non combattendo su qualche fronte, saltando in aria in qualche agguato terrorista, in qualche azione di disperata rabbia, o suicidio? Me lo ricordo il giorno in cui ci raccontammo, a vicenda, questo passo delle nostre vite, questo episodio in cui ci rispecchiavamo così perfettamente. Eravamo ai giardini, dopo aver preso a scuola Seymour e Billy, Billy era suo figlio, che avevano, all'epoca, soltanto quattro anni. Giocavano in un cerchio di sabbia, sotterrando e dissotterrando minuscoli mostri di gomma. Sentimmo una scarica di simpatia, mentre parlavamo. Tutti e due avevamo deciso di lasciare i nostri due depressi, ai loro presagi di sventura. Noi credevamo nel genere umano, che fosse sostanzialmente buono e che ce l'avrebbe fatta a difendersi dal disordine. Un anno dopo il padre di Billy moriva gettandosi dalla finestra del novantasettesimo piano della Torre Uno, dove lavorava. Quel pomeriggio di un anno prima, quando avevamo parlato ai giardinetti, il padre di Billy era momentaneamente disoccupato, la società per cui lavorava aveva dato un taglio drastico ai piani alti. Era angosciato, ma era anche felice di stare finalmente con suo figlio. Diceva: quando sarò in pensione voglio occuparmi di bambini, farò l'animatore, li farò giocare. Bisogna cambiare la società lavorando sui bambini. Quando è morto, da tre mesi aveva un nuovo lavoro. Non lo vedevo più ai giardini e anch'io avevo poco tempo per andarci. Ci incontrammo l'ultima volta a una recita. Seymour faceva il gatto, Billy il topolino.» Tacque, come se avesse esaurito la carica.
Nessuno, lì per lì, trovò nulla da dire.
Non volevano essere riaccompagnati in albergo, dovetti insistere, alla fine accettarono. Tacemmo per tutto il tragitto, grati al sonno dei bambini che rendeva naturale il silenzio. Davanti all'hotel, ciascuno si caricò un figlio addormentato addosso (Seymour era così alto che strisciava a terra coi piedi, appeso al collo di suo padre), ci guardammo, io e Ginny, con quella intensità che nasce da un profondo dolore condiviso. Capii tutto, e lei se ne accorse. Quello con il padre di Billy doveva essere stato un amore vero. Disse soltanto: «Sono contenta di averti conosciuta».
E non era una formula di commiato.
A casa, invece di andare subito a letto, sparecchiai la tavola. Fluttuavo su quei gesti normali come se appartenessero a una misteriosa danza di espiazione. Ero pentita. Di più, ero oppressa da una spessa coltre di angoscia, me la sentivo addosso. Non avrei dovuto mostrare il film, continuavo ad argomentare con me stessa. Il male è stato troppo. Bisogna lasciarlo lì dov'è. Non c'è medicina. Non c'è chirurgia. E il film, con il suo carico di domande inesplose, non fa che peggiorarlo, il male, impedisce l'elaborazione del lutto, sporca di dubbi l'ineluttabilità. Da quando avevo visto quello che avevo visto, da quando, non contenta, l'avevo mostrato, sentivo un costante disagio, come per disordine cronico del corpo, di quelli che non guariscono. Finito di rigovernare, mi accesi una sigaretta e andai a sedere in salotto. Non potevo affrontare la notte, non con quel peso di recriminazioni, la notte è un tempo di massimo rischio, quando non hai l'anima serena, così fumavo e cercavo di trovare, nel marasma dei miei pensieri, un bandolo logico, un principio ordinatore qualsiasi, che mi permettesse di archiviare tutta quanta la faccenda. Alle quattro del mattino ero ancora lì, ancora sveglia, la testa pesante di memoria, a muovermi adagio, fra il ricordo della mia adolescenza comunista e il viaggio iniziatico che avevo fatto negli Stati Uniti, a 18 anni. Ricordai la cartolina che avevo incollato sul mio inseparabile quaderno di appunti: "It has been such a long travel, that I've forgotten where I was going". È stato un viaggio così lungo che ho dimenticato dove stavo andando. Non mi era venuto in mente, all'epoca, che avrei potuto interpretare la frase nel senso dell'età. Ero arrivata a metà del viaggio, l'avevo, aritmeticamente, già sorpassata, quella metà simbolica del "cammin di nostra vita", e ancora non sapevo se, in un cuore umano, poteva albergare tanta indifferenza da organizzare una strage, per giustificare una guerra. Morti per produrre altri morti. Era possibile? Era realistico? O era un delirio, una farneticazione figlia della nostra sempre più diffusa (una vera epidemia) ignoranza e della nostra crescente paura? Quando d'écisi di spostare la mia insonnia in camera da letto, era già quasi chiaro. Mio marito accese la luce appena sfiorai la porta. «Finalmente» disse, con una voce gentile. «Eri sveglio?» «Secondo te?» «Secondo me cosa?» Mi infilai sotto le coperte con un senso di conforto quasi meccanico (la cuccia, il sonno). Mio marito annusò l'aria. «Hai fumato.» «Una.» «Almeno tre.» «Tre.» Chiusi gli occhi. Sentivo lui sveglio, teso, e contento di essere teso e sveglio. Sembrava dire: "tu credi che io sia una bestia insensibile ma non lo sono". Lo disse infatti, poco dopo, con parole sue. «Difficile dormire stanotte, anche per un vecchio orso pieno di vino.» Sorrisi senza aprire gli occhi. «Tanto non ci credi no?» «Non è un articolo di fede, passionaria.» Mi alzai a sedere sul letto. «A cena mi era parso che tu liquidassi tutta quanta la faccenda.» «Non volevo... infierire su quei due poveretti.» «Perché? Non sono mica repubblicani, no?» «E tu, non sei mica stupida, no?» «No.» «Allora non dire stupidaggini. Per loro è ancora più insopportabile che per noi...» «Dillo: di che cosa. Nomina il fatto. Di' la cosa, l'ipotesi... dilla. Che cosa è più insopportabile per loro che per noi?» Mi guardò per un attimo, in silenzio, come cercando qualcosa nel mio sguardo, tracce di sgomento che fosse possibile spazzare via. Poi spense la luce. «L'impotenza» disse.
E mi diede le spalle.
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