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| << | < | > | >> |IndiceParte prima. La politica dell'economia 5 I. Che cos'è il finanzcapitalismo 14 II. Una civiltà asservita alla finanza dalla politica Parte seconda. Cause ed effetti della crisi 45 III. La piramide degli schemi esplicativi 85 IV. Teorie economiche che imitano le scienze naturali 107 V. I costi umani della crisi Parte terza. I fondamenti strutturali 133 VI. Come opera la mega-macchina del finanzcapitalismo 168 VII. Effetti perversi della creazione di denaro 199 VIII. La trasformazione delle imprese industriali in enti finanziari Parte quarta. Riforme forse impossibili ma necessarie 227 IX. Fondi pensione, capitale del lavoro e strategie di investimento 252 X. Riforme finanziarie che i cittadini dovrebbero richiedere 292 XI. È possibile incivilire il finanzcapitalismo? |
| << | < | > | >> |Pagina 5Capitolo primo
Che cos'è il finanzcapitalismo
Una mega-macchina costruita per estrarre valore. Mega-macchine sociali: cosí sono state definite le grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o servo-unità. Mega-macchine potenti ed efficienti di tal genere esistono da migliaia di anni. Le piramidi dell'antico Egitto sono state costruite da una di esse capace di far lavorare unitariamente, appunto come parti di una macchina, decine di migliaia di uomini per generazioni di seguito. Era una mega-macchina l'apparato amministrativo-militare dell'impero romano. Formidabili mega-macchine sono state, nel Novecento, l'esercito tedesco e la burocrazia politico-economica dell'Urss. Il finanzcapitalismo è una mega-macchina che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e insieme di potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi. L'estrazione di valore tende ad abbracciare ogni momento e aspetto dell'esistenza degli uni e degli altri, dalla nascita alla morte o all'estinzione. Come macchina sociale, il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti, compresa quella del capitalismo industriale, a motivo della sua estensione planetaria e della sua capillare penetrazione in tutti i sotto-sistemi sociali, e in tutti gli strati della società, della natura e della persona. L' estrazione di valore è un processo affatto diverso dalla produzione di valore. Si produce valore quando si costruisce una casa o una scuola, si elabora una nuova medicina, si crea un posto di lavoro retribuito, si lancia un sistema operativo piú efficiente del suo predecessore o si piantano alberi. Per contro si estrae valore quando si provoca un aumento del prezzo delle case manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo; si impone un prezzo artificiosamente alto alla nuova medicina; si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario; si impedisce a sistemi operativi concorrenti di affermarsi vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema, o si distrugge un bosco per farne un parcheggio. Accostando come si è fatto sopra capitale e potere non s'intende qui riproporre la tradizionale concezione che rinvia al potere del capitale. In suo luogo si avanza la nozione di capitale come forma di potere in sé, un potere organizzato su larghissima scala. Stando a questa nozione, «i capitalisti sono mossi non dall'intento di produrre cose bensí da quello di controllare persone, e la loro mega-macchina capitalistica esercita questo potere con una efficienza, flessibilità e forza che gli antichi governanti non potevano nemmeno immaginare». Di conseguenza non è esatto dire che il capitale ha potere. Il capitale è potere. Il potere di decidere che cosa produrre nel mondo, con quali mezzi, dove, quando, in che quantità. Il potere di controllare quante persone hanno diritto a un lavoro e quante sono da considerare esuberi; di stabilire in che modo deve essere organizzato il lavoro; quali debbano essere i prezzi degli alimenti di base, di cui ciascun punto percentuale in piú o in meno aumenta o diminuisce di una quindicina di milioni, nel mondo, il numero degli affamati; quali malattie sono da curare e quali da trascurare, ovvero quali farmaci debbano essere sviluppati dai laboratori di ricerca oppure no. Ancora, il capitale è il potere di trasformare le foreste pluviali in legno per mobili e i mari in acque morte; di brevettare il genoma di esseri viventi evolutisi nel corso di miliardi di anni e dichiararlo proprietà privata; di decidere quali debbono essere i mezzi di trasporto usati dalla gran maggioranza della popolazione e con essi quale debba essere la forma delle città, l'uso del territorio, la qualità dell'aria. Sul momento queste affermazioni possono apparire alquanto perentorie; l'evidenza a loro supporto si farà strada nei successivi capitoli. La mega-macchina denominata capitalismo industriale aveva come motore - e per quel che ne resta ha tuttora - l'industria manifatturiera. Il finanzcapitalismo ha come motore il sistema finanziario. I due generi di capitalismo differiscono sostanzialmente per il modo di accumulare il capitale. Il capitalismo industriale lo faceva applicando la tradizionale formula D1-M-D2, che significa investire una data quantità di denaro, D1, nella produzione di merci, M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime una quantità di denaro, D2, maggiore di quella investita. La differenza tra D2 e D1 è un reddito chiamato solitamente profitto o rendita. Per contro il finanzcapitalismo persegue l'accumulazione di capitale facendo tutto il possibile per saltare la fase intermedia, la produzione di merci. Il denaro viene impiegato, investito, fatto circolare sui mercati finanziari allo scopo di produrre immediatamente una maggior quantità di denaro. La formula dell'accumulazione diventa quindi D1-D2. A questa differenza fondamentale nella formula dell'accumulazione il finanzcapitalismo accompagna una pretesa categorica: si deve ricavare dalla produzione di denaro per mezzo di denaro un reddito decisamente piú elevato rispetto alla produzione di denaro per mezzo di merci. Non mancano gli esempi. Si sa che gli investitori istituzionali, in specie fondi pensione e fondi comuni, esigono dalla quota di capitale investito in un'impresa un rendimento annuo minimo del 15 per cento. I fondi specializzati nel comprare imprese per poi rivenderle pezzo a pezzo (chiamati private equity funds) non sono soddisfatti se da tali operazioni non ricavano un profitto di almeno il 20 per cento. Grandi banche europee sollecitano gli investitori istituzionali a investire in titoli di corporation del settore alimentare assicurando che ne trarranno un reddito intorno al 25 per cento. Fondi specializzati nella gestione di grandi patrimoni privati promettono a chi può investire capitali rilevanti, e non disdegna di correre rischi elevati, un rendimento pari o superiore al 30 per cento. Ora avviene che il Pil del mondo cresca da decenni a un tasso compreso tra il 3 e il 5 per cento annuo. Poiché alla fine dei conti profitti o rendite aventi una base reale non possono superare la crescita reale della ricchezza prodotta, quando risultino nominalmente di varie volte piú alti essi debbono provenire solamente da due fonti. Uno studioso del dominio del denaro le sintetizza cosí: «1) Una redistribuzione a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale; 2) La crescita del capitale in forza di un rendimento piú elevato è soltanto un'espressione monetaria nominale. In questo caso essa corrisponde a una inflazione dei titoli finanziari, a una bolla». Nella sua veste di mega-macchina deputata a estrarre valore, il finanzcapitalismo ha sfruttato soprattutto la prima fonte, la redistribuzione dal basso verso l'alto. Contemporaneamente ha però indotto negli anni '90 e nei primi anni 2000 un cospicuo incremento dei valori di borsa. Si fosse mai trattato di un qualsiasi altro elemento, un simile fenomeno sarebbe stato giudicato un processo fortemente inflattivo. | << | < | > | >> |Pagina 9Componenti strutturali del finanzcapitalismo.Il braccio operativo del finanzcapitalismo è il sistema finanziario di cui si è dotato. Lo formano un paio di componenti strutturali che hanno raggiunto entrambe negli ultimi anni una eccezionale dimensione e complessità, piú una terza che si colloca per vari aspetti a cavallo delle altre due. La prima componente del sistema finanziario opera in larga misura alla luce. Per definirla si è usato spesso, discutendo della crisi, il termine «sistema bancocentrico», volendo sottolineare come le istituzioni in esso predominanti sono soprattutto grandi banche. In realtà, sebbene sia quasi inevitabile ricorrervi per brevità, il termine è divenuto da tempo inadeguato. Anche quando siano ancora chiamate sovente con il nome che designava la loro attività originaria - per cui si parla della banca X, della compagnia di assicurazione Y, della cassa di depositi e prestiti Z e simili - le istituzioni che caratterizzano il sistema finanziario della nostra epoca sono grandi società che operano in almeno una dozzina di settori di attività differenti, ben lontani da quello originario, e in ciascuno di questi controllano decine se non centinaia di società, tra le quali possono esservi una o piú banche. Siamo quindi dinanzi a immense reti societarie nelle quali si intrecciano inestricabilmente sia le funzioni che i titoli di proprietà. Per menzionare qualcuna di tali reti a fini indicativi, e semplificando molto, si può dire che esistono società finanziarie, dette bank holding companies, le quali controllano a un tempo sia banche che compagnie di assicurazione; banche proprietarie di assicurazioni del comparto immobiliare e compagnie di assicurazione sulla vita che sono proprietarie di banche; banche commerciali che hanno divisioni operanti come banche di investimento e viceversa; società che emettono titoli aventi per collaterale o garanzia un bene reale - una casa, un'azienda, un pacchetto di titoli - oppure un bene irreale come un debito; banche o loro divisioni specializzate nel vendere certificati di protezione dal rischio che un debitore sia insolvente le quali, al tempo stesso, comprano certificati analoghi per proteggere se stesse dal rischio di fallimento del protettore; e, ancora, casse di depositi e prestiti che provvedono ad assicurare o ri-assicurare ipoteche e imprese sponsorizzate da un governo unicamente per assicurare ipoteche che si dedicano a cospicue attività d'investimento non per conto di clienti, bensí per conto proprio. La componente «bancocentrica» del sistema finanziario, per quanto complessa, è composta da entità visibili, nel senso che hanno nome e indirizzo, società controllate o filiali ufficialmente elencate, tot dirigenti e tot dipendenti, azionisti o proprietari privati per lo piú chiaramente individuabili, nonché bilanci ufficiali in cui sono registrati attivi e, passivi. Per contro esiste una seconda componente del sistema stesso che risulta priva di tutti o quasi i suddetti caratteri, sicché le sue attività sono discernibili a fatica anche dagli esperti. Per questo viene chiamata finanza ombra. Le sue dimensioni, in termini di attivi, superano di molte volte gli attivi delle società finanziarie che di essa tengono i fili, sebbene sia arduo stabilire quale sia alla fine il totale degli attivi (o dei passivi) che sono in capo a ciascuna di esse. La finanza ombra è formata da montagne di derivati (titoli il cui valore dipende da un'entità sottostante: piú avanti se ne parlerà a lungo) che una banca detiene ma che per varie ragioni non sono registrati in bilancio; da migliaia di società prive in realtà di sostanza organizzativa, costituite dalle banche unicamente allo scopo di veicolare fuori bilancio attivi che dovrebbero figurarvi (per questo sono chiamate «veicoli»); da altre migliaia di intermediari specializzati nel confezionare e vendere soprattutto a investitori istituzionali ed enti pubblici dei titoli obbligazionari complicatissimi, formati da un gran numero di altri titoli; da centinaia di trilioni (in dollari) di derivati che con l'intermediazione di una banca o altra istituzione finanziaria sono scambiati direttamente tra privati, al di fuori di ogni registrazione in borsa. Grazie a questi caratteri, la finanza ombra risulta praticamente invisibile anche alle autorità di vigilanza, quindi di fatto non regolabile. Una terza componente del sistema finanziario che sta a cavallo tra il sistema bancocentrico e la finanza ombra è costituita dagli investitori istituzionali: principalmente fondi pensione, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione e fondi comuni speculativi (come sono denominati dalla normativa italiana gli hedge funds, espressione che significa letteralmente «fondi di copertura» o di protezione). Gli investitori istituzionali sono una delle maggiori potenze economiche del nostro tempo. Gestiscono un capitale di oltre 60 trilioni di dollari, equivalente al Pil del mondo 2009. Le loro strategie di investimento influenzano sia le sorti delle grandi corporation sia quelle dei bilanci statali. Affermare che gli investitori istituzionali si muovono a cavallo delle altre due componenti è appropriato per diversi motivi. In primo luogo esistono fondi pensione e fondi comuni che sono una emanazione di società finanziarie o grandi banche, ma vi sono anche in entrambi i settori dei fondi indipendenti. Tra di essi spiccano i fondi pensione del pubblico impiego, autentici colossi finanziari che in Giappone, in Olanda, in California controllano ciascuno patrimoni di centinaia di miliardi di dollari. Cosí come sono indipendenti le «famiglie» di fondi comuni, in prevalenza statunitensi, che figurano insieme con grandi gruppi bancari nella classifica dei primi dieci o venti investitori del mondo. In secondo luogo sistema bancocentrico, finanza ombra e investitori istituzionali sono collegati da scambi quotidiani di denaro e capitale dell'ordine di centinaia di miliardi di dollari o di euro. Vari sono i canali di tali scambi. Anzitutto una quota importante del capitale gestito da questi investitori viene via via depositato in banche, che lo impiegano immediatamente ai loro fini. Soltanto in Italia, dove i fondi pensione sono ancora comparativamente modesti, il capitale da essi depositato per legge nelle banche vale 70 miliardi di euro. Inoltre ogni giorno gli stessi investitori acquistano o vendono centinaia di miliardi di azioni od obbligazioni emesse dal sistema bancario. Sono clienti di peso delle citate società veicolo, mediante le quali i crediti delle banche fuoriescono dal bilancio per diventare titoli commerciabili. Da parte loro, infine, i fondi speculativi fanno largo uso della leva finanziaria, che vuol dire acquistare pacchetti azionari e intere imprese per mezzo di denaro preso in prestito dalle banche in quantità che superano di parecchie volte il capitale proprio. Gli interessi su simili prestiti formano una quota rilevante dei ricavi delle banche. In terzo luogo, nessuna società finanziaria, e nessuna corporation industriale, può permettersi di ignorare le richieste degli investitori istituzionali. Questi posseggono oltre la metà di tutte le società quotate in borsa, per cui hanno un ruolo determinante nel proporre e imporre politiche sia finanziarie che industriali, fusioni e acquisizioni di società, nonché l'assunzione o il licenziamento dei massimi dirigenti. In forza delle tre componenti suindicate, che formano il suo braccio operativo e hanno avuto un esorbitante sviluppo a partire dagli anni '80 del secolo scorso, la mega-macchina del finanzcapitalismo è giunta ad asservire ai propri scopi di estrazione del valore ogni aspetto come ogni angolo del mondo contemporaneo. Un simile successo non è dovuto a un'economia che con le sue innovazioni ha travolto la politica, bensí a una politica che ha identificato i propri fini con quelli dell'economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorire la sua ascesa. In tal modo la politica ha abdicato al proprio compito storico di incivilire, governando l'economia, la convivenza umana. Ma non si è limitata a questo. Ha contribuito a trasformare il finanzcapitalismo nel sistema politico dominante a livello mondiale, capace di unificare le civiltà preesistenti in una sola civiltà-mondo, e al tempo stesso di svuotare di sostanza e di senso il processo democratico. | << | < | > | >> |Pagina 14Capitolo secondo
Una civiltà asservita alla finanza dalla politica
Nel corso del 2010 la piú grande economia del mondo, l'Unione Europea, ha rischiato piú volte un crack a causa dell'attacco che gruppi di operatori della finanza ombra, il settore meno regolato del sistema finanziario internazionale, avevano sferrato al debito pubblico dei suoi stati e alla moneta della maggioranza di essi, l'euro. Il debito pubblico e i deficit di bilancio che lo alimentano erano cresciuti di parecchi punti percentuali nei due anni precedenti a causa dei costi diretti e indiretti sopportati dagli stati per fare fronte alla crisi del sistema finanziario, con rilevanti effetti depressivi sull'economia reale, iniziata nel 2007. Un rischio analogo lo avevano corso gli Stati Uniti a fine settembre 2008, quando in una agitata riunione di leader del Congresso fu chiesto al ministro del Tesoro in carica, Henry Paulson, che cosa sarebbe successo se non fosse stato autorizzato il piano da 700 miliardi di dollari per salvare le banche in difficoltà proposto dal governo. Il ministro rispose: «Se non lo facciamo, ci cadrà tutto sulla testa».
Si può allora cosí riassumere l'andamento di questo primo periodo della
crisi iniziata nel 2007, che è ormai prevedibile possa durare una decina d'anni.
A causa di politiche economiche pluridecennali orientate in primo luogo a
comprimere i redditi da lavoro e ad accrescere le disuguaglianze,
nonché di un'architettura che ha dimostrato di avere fondamenta gravemente
difettose, il sistema finanziario è incorso
in una crisi nata dall'eccessivo ammontare di debito che aveva creato, sia a
carico delle famiglie che a carico di se stesso.
Nei primi tre anni della crisi, gli stati hanno impegnato tra i
12 e i 15 trilioni di dollari, o l'equivalente in euro, per salvare le sue
maggiori istituzioni, cioè le banche e le compagnie
di assicurazioni troppo grandi per fallire, e stimolare la ripresa
dell'economia. Non appena ritornato in forze - gli è bastato un solo anno, il
2009 - il sistema finanziario, in specie il
suo settore ombra, è ripartito all'attacco, questa volta a danno degli stati che
si erano indebitati per sostenerlo e riparare
per quanto possibile ai suoi guasti. In questa sorta di rivincita
organizzata dai vincitori contro i perdenti, sono in gioco non
soltanto i corsi di azioni e obbligazioni, o delle monete, e con
essi il rischio che tante famiglie perdano una parte consistente dei loro
risparmi. Sono pure in gioco condizioni di lavoro
e salari, sicurezza alimentare e sanità, previdenza sociale e
diritti umani, istruzione e ricerca, servizi sociali e sostegni al
reddito, qualità della vita e rapporti interpersonali, funzioni
delle istituzioni e contenuti della democrazia. In altre parole
c'è di mezzo il senso di una intera civiltà. Che essa appaia asservita al suo
sistema finanziario, piuttosto che esserne come
dovrebbe la padrona, è un segno che la crisi economica è diventata crisi di
civiltà. Che sia stato il suo stesso sistema politico a costruire dall'interno
gli strumenti del suo asservimento
alla finanza attesta non meno la gravità della crisi, quanto gli
ostacoli che si oppongono al suo superamento.
Elementi della civiltà-mondo. Da tempo è invalso l'uso di definire «civiltà» un particolare modo storicamente determinato di strutturare la politica, l'economia, la cultura e la comunità, il quale appare esteso per un lungo periodo, seppure con rilevanti differenze nazionali, a numerose società o stati. In tal senso si parla di «civiltà occidentale» o di «civiltà islamica». In un saggio che fece scalpore nei primi anni '90, poiché prevedeva come inevitabile e prossimo lo scontro frontale tra queste due civiltà, Samuel P. Huntington ne individuava altre sei: confuciana, giapponese, indú, slavo-ortodossa, latino-americana e forse una africana. Gli ultimi trent'anni hanno conosciuto una accelerata occidentalizzazione del mondo, ovvero la estensione di alcuni fondamentali elementi strutturali della civiltà occidentale a tutte le società del pianeta. Ha avuto cosí origine una civiltà di dimensioni mai viste nella storia, che di fatto ha inglobato tutte quelle individuate da Huntington. Tuttavia, nel corso di tale estensione le strutture medesime si sono trasformate, al punto da precludere la possibilità di definire la civiltà emergente semplicemente come una civiltà occidentale allargata. Occorre piuttosto considerarla come una civiltà-mondo dalle caratteristiche originali. La nuova civiltà è caratterizzata da tre elementi chiave. Anzitutto si è verificato in tutte le società del mondo un reciproco attraversamento dei rispettivi confini e correlativa modificazione strutturale di tutti i principali sottosistemi dell'organizzazione sociale. L'economia appare strettamente intrecciata con la politica; la cultura si pone al tempo stesso come riflesso ma anche come strumento di promozione di tale intreccio; nella comunità, ovvero nel sistema socio-demografico - il luogo fisico e simbolico dove si riproducono le persone e le loro forme base di convivenza - sono state immesse forme di cultura e di agire proprie del sistema economico. Un secondo elemento chiave è da vedere nel fatto che la nuova civiltà, a livello planetario, non presenta ormai confini di alcun genere. Ciò implica che non le è piú possibile soddisfare il suo fabbisogno di risorse commerciando con altre civiltà, oppure espropriandole, come ha fatto per secoli l'Occidente con le sue colonie. Può soddisfarlo solamente se detto fabbisogno viene contenuto nel limite delle risorse biologiche e fisiche che il pianeta è in grado di riprodurre. Oppure se consuma oggi risorse in quantità superiore a tale limite, in questo modo sottraendole alle generazioni future. Un terzo elemento da rilevare è l'interconnessione che è stata creata tra le economie, il mercato del lavoro, la cultura di quasi tutte le società del mondo, cosicché qualsiasi evento accada in una di esse ha effetti ravvicinati, e talora istantanei, sulle altre. Nel costruire con metodo tale interconnessione, equivalente a un alto grado di interdipendenza, un notevole ruolo è stato ovviamente svolto dalle tecnologie della comunicazione. Si stima, ad esempio, che a fine 2010 le persone potenzialmente interconnesse grazie alla telefonia cellulare abbiano superato i 3 miliardi. Ma le tecnologie sono state uno strumento facilitatore, non quello causalmente dominante. Ben maggior peso hanno avuto la diffusione nel mondo di centinaia di migliaia di imprese sussidiarie controllate a vario titolo dalle imprese transnazionali Usa e Ue, con la loro organizzazione standardizzata della produzione e del lavoro; gli scambi commerciali attivati dalla World Trade Organization e da innumerevoli accordi internazionali; la distribuzione su scala planetaria, in corso sin da metà Novecento ma intensificata e accelerata dalla Rete, di prodotti culturali di massa - cinematografici, televisivi, musicali - di prevalente origine nord-americana, sui cui poteri unificanti a livello globale ha attirato l'attenzione tra i primi lo storico Eric J. Hobsbawm. | << | < | > | >> |Pagina 26All'affermazione pressoché universale del neoliberalismo hanno potentemente contribuito, dal dopoguerra sino ad oggi, attrezzatissimi «serbatoi del pensiero» (think tanks), finanziati da gruppi finanziari e corporation industriali in diversi paesi. Il Cato Institute e la Heritage Foundation negli Stati Uniti, l'Adam Smith Institute e l'Institute of Economic Affairs in Gran Bretagna, la Mont Pelerin Society fondata in Svizzera nel 1947, le Bildeberg Conferences iniziate in Olanda nel 1952, la Trilateral Commission nata nel 1973 su iniziativa delle precedenti, hanno prodotto gran copia di rapporti e memoranda, sia pubblici sia riservati, che hanno considerevolmente influito sull'insegnamento universitario, sui media e sulle politiche economiche dei governi. Inoltre le riunioni periodiche di tali associazioni, dove si incontrano i massimi esponenti della finanza e dell'industria mondiali, con l'ornamento di qualche politico e accademico, servono da decenni per coordinare efficacemente l'offensiva neoliberale in tutto il mondo. Mediante tali strumenti, ha notato acutamente uno studioso austriaco, il neoliberalismo ha attuato con successo, ma a favore del capitalismo, il concetto di egemonia culturale elaborato da un marxista, Antonio Gramsci.Grazie all'egemonia cosí acquisita nel corso di mezzo secolo, sia pure con una ritirata temporanea sin verso la fine degli anni '70 che ha avuto tra i suoi motivi lo scenario geopolitico stabilitosi alla fine della guerra, il neoliberalismo è giunto a configurarsi nella società contemporanea come una costruzione che, nel suo ambito, la fisica ambisce da generazioni a realizzare, senza peraltro riuscirvi: niente di meno che una teoria del tutto. Essa propone di sottomettere ogni dimensione dell'esistenza alla razionalità economica, il culmine della quale è il calcolo di costi e benefici cui deve sottostare ogni azione umana. Caratteristica fondativa di questa teoria del tutto, il tutto umano e sociale, è che non si limita a fornire una particolare rappresentazione della realtà. Essa prospetta anche le politiche meglio idonee, a suo inconfutabile giudizio, al fine di ottenere che la realtà si conformi sempre piú da presso alla teoria. Ecco come riassume questo punto cruciale una studiosa liberal americana: «Il neoliberalismo non assume semplicemente che tutti gli aspetti della vita sociale, culturale e politica possono essere ridotti a un simile calcolo; esso sviluppa piuttosto pratiche e ricompense istituzionali per dare corpo a tale visione. Detto altrimenti, tramite discorsi e politiche che promulgano i suoi criteri, il neoliberalismo produce attori razionali e impone la ratio del mercato per la presa di decisione in tutte le sfere». È evidente come il neoliberalismo, conforme alle sue origini, sia in primo luogo una teoria politica, la quale asserisce in modo categorico che la società tende spontaneamente verso un ordine naturale. Di conseguenza occorre impedire che lo stato, o il governo per esso, interferiscano con l'attuazione e il buon funzionamento di tale ordine. Si tratta di un argomento che viene da lontano, poiché fu usato almeno dal Seicento in poi per contrastare il potere monocratico del sovrano. Applicato a una società democraticamente costituita, esso si trasforma di fatto in un argomento contro la democrazia. Il neoliberalismo non rappresenta una nuova fase della democrazia liberale; piú verosimilmente va considerato come il suo affossatore. Al tempo stesso il neoliberalismo si presenta come una teoria economica, secondo la quale le politiche economiche debbono fondarsi su un paio di assiomi e sulla credenza in tre processi perfetti. Gli assiomi stabiliscono che lo sviluppo continuativo del Pil per almeno 2-3 punti l'anno è indispensabile anche alle società che hanno raggiunto un soddisfacente stato di benessere, al mero scopo di continuare ad assicurarselo. A tale scopo è quindi necessario un proporzionale aumento annuo dei consumi, ottenuto producendo bisogni per mezzo di merci e comunicazioni di massa. I tre processi la cui esistenza e i benefici effetti non ammettono discussione si possono cosí compendiare: 1) i mercati sono perfettamente capaci di autoregolarsi; 2) il capitale affluisce senza fallo né ritardi dove la sua utilità risulta massima; 3) i rischi (quali che siano: di insolvenza, di caduta dei prezzi, di variazioni dei tassi di interesse ecc.) sono integralmente calcolabili, per cui a ciascun livello di essi corrisponde un giusto prezzo dell'entità di riferimento. Nessuna delle smentite che periodicamente la realtà si è incaricata di fornire è mai pervenuta a intaccare minimamente le suddette credenze tra i fautori del neoliberalismo. Non solo: in ripetuti casi, che vanno dalle recessione degli anni '30 alla crisi in atto, il neoliberalismo è riuscito anche nel capolavoro di presentare i disastri economici che le politiche da esso suggerite avevano combinato quasi fossero l'effetto di politiche keynesiane inefficienti. Di qui le sue pressanti raccomandazioni di liberalizzare ulteriormente i mercati, i movimenti di capitale e la gestione dei rischi. Inesauribile nella sua vocazione puntigliosamente totalitaria, il neoliberalismo propone altresí una teoria dell'occupazione, della distribuzione del reddito e della persona di fronte al lavoro. In conformità a detta teoria, il mercato stabilisce automaticamente quale sia il tasso di occupazione piú consono al benessere generale. A sua volta la distribuzione del reddito viene determinata esclusivamente dalla remunerazione dei fattori di produzione: una distribuzione che il mercato dei capitali e del lavoro assicura essere, in ogni fase dell'economia, la piú equa. Infine il disoccupato è definibile come un individuo cui capita di non possedere la formazione professionale adatta, oppure uno che non accetta il lavoro disponibile o il salario che lo accompagna, o semplicemente non desidera lavorare. I manuali d'economia di ascendenza neoliberale - che sono all'incirca nove su dieci - riportano una quantità di grafici i quali indicano come allorquando i salari aumentano, cresce la domanda di lavoro da parte degli individui; al contrario essa si riduce nei periodi in cui i salari si abbassano. Dimostrazione irrefutabile, si spiega nel testo, del fatto che molti individui, dinanzi a salari scarsi, preferiscono l'ozio al lavoro. E per siffatti motivi che le politiche attive del lavoro, di cui il neoliberalismo ha guidato la introduzione nei paesi dell'Ue, insistono sulla necessità che ciascuno si assuma la responsabilità del proprio destino lavorativo, concependosi come un imprenditore di se stesso. Il neoliberalismo contiene anche una esauriente teoria dell'istruzione. Il fine ultimo e unico di questa in ogni suo grado e comparto, stabilisce tale teoria, risiede nel conferire all'individuo competenze professionali tali da renderlo produttivamente occupabile. A livello universitario, le teorie economiche di orientamento neoliberale appaiono da decenni dominanti, in un duplice senso. Da un lato, entro le facoltà di economia almeno quattro quinti degli insegnamenti di base, specialistici e di dottorato sono dedicati a diffonderle tra gli studenti. Dall'altro, i governi e gli enti locali premono affinché esse siano applicate anche per valutare l'apporto di ogni dipartimento o disciplina accademica al bilancio economico dell'ateneo: ivi comprese, per dire, la storia del Medioevo, la linguistica o la filosofia della scienza. Infine il neoliberalismo incorpora una teoria inversa dei beni comuni: di qualsiasi bene l'individuo e la collettività abbiano bisogno ai fini della loro convivenza e protezione sociale, detta teoria afferma con perentoria sicurezza, è piú efficiente, dunque necessario, produrlo con mezzi privati. In sintesi, l'ideologia neoliberale non riconosce, né ha di fatto, alcun confine. A questo deve la sua efficacia nell'aver contribuito a riorganizzare il mondo sotto il profilo economico, politico e culturale in appena trent'anni. Naturalmente, non deve il suo successo soltanto a quanto detto. Un carattere costitutivo del neoliberalismo è infatti quello di essere, nel fondo, una forma di fede. Già Polanyi , d'altra parte, lo chiamava un credo. Come ha notato James K. Galbraith , riandando ai primi anni '80 quando dirigeva un comitato economico del Congresso Usa, il raffronto con i neoconservatori - solo piú tardi si sarebbero chiamati neoliberali - per la sua coscienza di giovane liberal era particolarmente frustrante. «Per quanto uno fosse in disaccordo con loro - ricorda Galbraith - queste erano persone che credevano [enfasi nel testo]. Erano idealiste. Avevano la forza della convinzione. Peggio ancora, erano loro a stabilire i temi da porre in agenda. E inducevano a pensare: se mai avessero ragione?». Per questa ragione, ossia per il fatto che si caratterizza come una forma di fede, è un errore culturale e politico etichettare il neoliberalismo quasi fosse soltanto uno strumento al servizio del potere economico - sebbene non possa sussistere alcun dubbio che lo sia - ovvero come un'ideologia politica nel senso tradizionale, o una aggiornata mitologia dei fondamenti dell'ordine sociale. Il suo speciale carattere fideistico spiega anche la presa che l'ideologia neoliberale ha avuto sull'immaginazione e sull'agenda politica delle sinistre democratiche europee, dal labour britannico ai socialdemocratici tedeschi, dai socialisti francesi ai postremi discendenti del Pci in Italia. Delle teorie neoliberali, le suddette formazioni avrebbero forse potuto riprendere, caso per caso, quei tratti utili al fine di rafforzare il significato del predicato «democratico» presente nella loro definizione, scartandone invece quelli che apparivano in palese contrasto con il senso che in quest'ultima dovrebbe esprimere il predicato «sinistra». Per contro, trovandosi dinanzi a una fede, le sinistre democratiche hanno scelto di assorbirla integralmente. Preparando cosí il terreno alle rovinose sconfitte politiche, prima ancora che elettorali, alle quali sono andate incontro in tutta Europa, ormai da diversi lustri. | << | < | > | >> |Pagina 34b) Il sociologo Richard Sennett ha parlato di «corrosione del carattere» per descrivere gli effetti sulla personalità che provoca il lavoro del «capitalismo flessibile», dove tutti e tutto - a cominciare dal capitale - si dimostrano impazienti; la società intera appare devota al breve termine (dei contratti, dei progetti, dei guadagni possibili); le istituzioni, a partire dalle imprese, appaiono in uno stato di costante frammentazione o vengono di continuo ridisegnate. In tali condizioni risulta improbo per la persona al lavoro sviluppare un senso di identità, poiché ciò richiede una lunga e paziente ricerca in se stessi. Perseguire scopi a lungo termine appare improponibile. Diventa pure arduo, sul lavoro e nella comunità, sviluppare rapporti sociali reciprocamentre impegnativi. Tuttavia questa forma di corrosione del carattere attraverso il lavoro non è il peggio che possa accadere a una persona nella civiltà-mondo che il capitalismo flessibile, sinonimo di capitalismo finanziario o finanzcapitalismo, ha contribuito a sviluppare, posto che la flessibilità del lavoro è connaturata alla estrema rapidità impressa alla circolazione del capitale. Il peggio, come scriveva Hannah Arendt oltre mezzo secolo fa, è trovarsi a far parte di una società in cui le motivazioni, il senso di identità, il riconoscimento sociale, i percorsi di vita, sono stati interamente costruiti attorno al lavoro, in specie attorno al lavoro dipendente salariato, nell'età in cui questo viene a mancare. Su questo terreno la nuova civiltà-mondo appare aver condotto a termine il progetto moderno, il quale ha comportato «una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell'intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, giunge al momento in cui può essere solo una delusione».Ai giorni nostri la delusione proviene dal fatto che la monetizzazione di ogni aspetto dell'esistenza umana, individuale e collettiva, ovvero la sua trasduzione in un'entità finanziaria, ha ormai raggiunto il limite ultimo. Non è rimasto quasi nient'altro da monetizzare. Ma ciò comporta che è diventato impossibile, a cominciare dalle società piú avanzate, continuare a creare nuovo lavoro salariato. La crisi ha fortemente accelerato tale processo. Negli anni a venire le decine di milioni di posti di lavoro che si sono persi dopo il 2007 in Usa e nella Ue potranno venire recuperati solamente in parte, e con grande lentezza. A una espansione di masse di lavoro salariato mai vista nella storia, fatte le debite proporzioni con la popolazione, corrisponde l'insufficienza della produzione, giusto quella che, aumentando senza posa, dovrebbe assicurare l'assorbimento di tali masse. Perciò a una frazione crescente delle masse di salariati si prospetta un destino di esuberi permanenti. Per l'economia della civiltà-mondo esse risultano ormai semplicemente superflue. Nel mentre sottrae a un numero crescente di persone ogni possibilità di lavoro, appena dopo che attorno al lavoro è stata costruita l'essenza della personalità moderna, la civiltà-mondo, dove ogni confine tra economia, politica, cultura e comunità è stato dissolto, produce senza posa giovani dal costume decomposto (corrupt), adulti rimasti o ricondotti allo stadio infantile, e cittadini che hanno introiettato il vangelo del consumo in luogo delle regole della democrazia. Sulla circostanza che la sistematica produzione in massa di simili caratteri umani rifletta non un mero mutamento dei costumi, bensí una drammatica degradazione della politica, aveva attirato l'attenzione Herbert Marcuse sin dagli anni '60, descrivendo i tratti dell'«uomo a una dimensione» e della sua Coscienza Felice: una coscienza che lo porta a descrivere i sentimenti piú profondi, gli affetti come le avversioni, usando i termini degli avvisi pubblicitari. Un'analisi approfondita la offre ai nostri giorni un libro del politologo Benjamin R. Barber, il cui titolo - Consumati - compendia la questione in una sola parola. | << | < | > | >> |Pagina 85Capitolo quarto
Teorie economiche che imitano le scienze naturali
Mentre si sottoponeva a esame lo sviluppo patologico del sistema finanziario si è rilevato che la Grande Crisi iniziata nel 2007 e tuttora in corso ha avuto tra le sue concause l'invenzione e la diffusione su larghissima scala di prodotti finanziari di estrema complessità. Né l'una né l'altra sarebbero state possibili se le società emittenti non avessero avuto a disposizione appositi modelli, teorie e metodi forniti dalle scienze economiche. Per questo motivo vari osservatori ritengono che tra i fattori a monte della crisi si dovrebbero collocare anche codeste scienze. Sono due le principali accuse che ad esse vengono rivolte. La prima riguarda l'importazione acritica e l'uso improprio di teorie e modelli scientifici ripresi dalle scienze fisiche e matematiche (che sussumerò per brevità sotto il predicato di «scienze naturali»). Da ciò sono discesi vari effetti negativi. Anzitutto, ben avanti che la crisi si manifestasse, le scienze economiche hanno contribuito a portare fuori strada le istituzioni che sulla base delle diagnosi e terapie da esse prospettate compivano interventi sull'economia. Inoltre, con rare eccezioni, esse non hanno affatto saputo prevedere la crisi. La seconda accusa concerne invece la creazione per mezzo dei succitati modelli di nuove realtà economiche. In questo modo l'efficacia predittiva di essi viene a dipendere non dalla loro superiore capacità di comprendere dall'esterno come funziona il complicato motore dell'economia, bensí dal fatto che i modelli stessi hanno contribuito a costruirlo. Quale sintesi rappresentativa delle accuse mosse da varie parti alle scienze economiche di atteggiarsi a scienze naturali, senza avere in realtà ben afferrato le caratteristiche distintive di queste, può valere un articolo pubblicato su «Nature», rivista scientifica di nota levatura, in uno dei mesi piú drammatici della crisi finanziaria, l'ottobre 2008. L'autore, un fisico francese, si chiedeva all'inizio quale fosse, a paragone della fisica, il fiore all'occhiello della scienza economica, «a parte la sua ricorrente incapacità di predire ed evitare le crisi, incluso l'attuale crollo mondiale del credito». Quindi proseguiva insistendo sul diverso comportamento di fisici ed economisti dinanzi ai modelli. Per quanto riguarda i primi, nel caso che l'osservazione empirica sia incompatibile con un modello, questo deve essere buttato o emendato, anche se concettualmente gradevole o matematicamente conveniente. I secondi inclinano invece a deificare gli assunti che ne sono alla base, al punto che il modello finisce spesso con prevalere sull'osservazione empirica. La questione dei rapporti tra teorie economiche e scienze naturali è forse un po' piú complicata di quanto non appaia da questo articolo, ma in sostanza i rilievi dell'autore sembrano toccare punti cruciali. La seconda accusa rivolta alle scienze economiche, quella di ri-creare la realtà economica in luogo di spiegare quella esistente, proviene piuttosto che dalla fisica dalla sociologia della conoscenza scientifica. Mi riferisco qui al ramo di essa che ha approfondito la cosiddetta funzione performativa dell'economia (intesa sempre come economics o scienza economica) di cui si tratterà piú avanti. Nello svolgere una ricognizione di tale processo è quasi inevitabile finir per compiere una generalizzazione che fa torto a quegli economisti che in diversi paesi, dall'americano Hyman P. Minsky al francese Maurice Allais, avevano compreso già molti anni addietro che la loro disciplina aveva imboccato una strada sbagliata; inoltre, usando strumenti diversi da quelli ortodossi, avevano pure previsto da tempo l'arrivo della crisi. L'argomento svolto in questo capitolo si applica dunque in special modo alla mainstream economics, la corrente delle scienze economiche che con le sue teorie e modelli negli ultimi decenni ha dominato nulla meno, nel mondo, che i corsi universitari di economia; la letteratura economica; le scuole superiori di business management ovvero di amministrazione aziendale; gli uffici studi delle grandi imprese; le direzioni delle maggiori istituzioni finanziarie; i ministeri del Tesoro e dell'Economia; le banche centrali; le strategie delle organizzazioni internazionali, dalla Banca Mondiale al Fmi e alla Commissione Europea, e molto altro. Occorre sottolineare che nel seguito non si intende affatto parlare in generale degli insuccessi predittivi ed esplicativi delle scienze economiche. Sarebbe un'impresa temeraria, e richiederebbe quale contrappeso una rassegna dei successi che pure hanno avuto. I punti che si vorrebbero fissare sono due: il ruolo che determinate teorie economiche hanno avuto nel produrre questa specifica crisi, e il peso che una scientificizzazione mal riposta ha esercitato nel condurle a svolgere tale ruolo. Al fine di comprendere quale sia la posta in gioco sarà opportuno riprendere da una diversa angolazione alcuni aspetti della crisi in atto già trattati in precedenza. Va premesso che si limiteranno tali richiami alle dimensioni finanziarie di essa, benché la crisi affondi gran parte delle sue radici in problemi dell'economia reale, tra i quali la insostenibilità sociale ed ecologica del modello di sviluppo affermatosi negli ultimi trent'anni. | << | < | > | >> |Pagina 107Capitolo quinto
I costi umani della crisi
La crisi economica apertasi nel 2007 ha avuto come causa primaria i mutamenti dei rapporti di potere politico-economico che dagli anni '80 in poi hanno facilitato l'ascesa della finanziarizzazione, la deregolazione dei movimenti di capitale e l'affermazione di altri aspetti dell'ortodossia neoliberale: mutamenti rilevati perfino dall'Onu. Concause di notevole peso sono state la irresponsabilità sociale, l'incompetenza e l'avidità di una parte significativa degli alti dirigenti di società finanziarie e non finanziarie, dei grandi proprietari, dei gestori a capo di fondi e patrimoni; personaggi che all'epoca del finanzcapitalismo governano di fatto l'economia e la politica del mondo. In totale si tratta appena di una decina di milioni d'individui. Al di là delle loro intenzioni o dei loro convincimenti etici, mediante le loro strategie finanziarie questi pochi milioni di individui hanno inflitto e continueranno a infliggere per lungo tempo rilevanti costi umani a miliardi di altri. Nella posizione che occupano, sarebbe arduo per loro agire diversamente: come premia a dismisura chi vi si conforma, cosí la logica endogena del finanzcapitalismo punisce severamente le azioni devianti. Resta il fatto che meno dello 0,15 per cento della popolazione mondiale appare essere nella condizione di infliggere a gran parte del 99,85 per cento restante i costi che qui sotto si riassumono: non è questo l'ultimo dei motivi per asserire che la civiltà-mondo reca in sé profondi segni di degrado. Pare utile, esaminando le ricadute nocive di quella che viene ormai chiamata la Grande Crisi, iniziare con una sintesi dei costi finanziari. È vero che questi sembrano lontani dai costi umani o solo indirettamente collegati con questi. Ma è opportuno partire dai costi finanziari, dato che sono proprio i trilioni di dollari assorbiti a vario titolo dalla crisi che hanno peggiorato la qualità dell'esistenza presente e futura di grandi masse di popolazione. Inoltre va considerato che gli effetti negativi della crisi dureranno parecchi anni, forse fino al 2018-2020. Per avere un'idea dei costi complessivi non basta quindi soffermarsi su ciò che è già accaduto; è necessario formulare anche delle ipotesi sul prossimo futuro.
La maggior parte dei numeri riportati qui di seguito
valgono di per sé a indicare quali sono i gruppi sociali che
stanno pagando e pagheranno la crisi, sia pure in misura un
po' diversa da un paese all'altro. Sono, in generale, i soggetti piú deboli
sotto il profilo economico e politico. Ossia
i lavoratori aventi qualifiche professionali medie o basse;
i disoccupati di lunga durata; i lavoratori precari per legge e quelli occupati
nell'economia informale; i bambini e
i giovani; le donne; i poveri; gli anziani; gli immigrati che
perdono il lavoro nel paese d'arrivo e le famiglie del paese
d'origine che vedono scomparire le loro rimesse; coloro in
genere che hanno bisogno di cure mediche continue o occasionali ma non sono in
grado di pagarle; nonché i gruppi
etnici che nei diversi paesi appaiono deprivati per ragioni
inerenti vuoi alla loro storia antica, come i neri negli Stati
Uniti, vuoi alle loro vicissitudini recenti, come gli immigrati extra-europei in
tutta la Ue.
I costi finanziari. Ad agosto 2009, il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva stimato che la somma che in complesso dovranno impegnare i paesi occidentali per salvare le loro istituzioni finanziarie, in specie tramite la Bce e la Fed, nonché diversi paesi in via di sviluppo, ammonterà entro il 2011 a circa 12 trilioni di dollari, di cui poco meno di due a carico dei secondi. Stando ad alcuni aggiornamenti, potrebbe invece trattarsi di 14-15 trilioni. Una stima, comunque, eccezionalmente prudente in ambedue i casi, giacché secondo altre fonti il capitale che alla fine sarà necessario impegnare - sia pur confidando di non doverlo spendere per intero - da parte dei soli Stati Uniti, potrebbe aggirarsi sui 25-30 trilioni. A ogni buon conto va rilevato che già la somma minima indicata dal Fmi corrisponde a tre quarti del Pil di un anno degli Stati Uniti, e a un quinto del Pil del mondo 2008. Essa comprende vari addendi: i capitali impiegati per salvare dal fallimento, e in qualche caso per nazionalizzare di fatto, grandi banche e compagnie di assicurazione private (ad esempio AIG in Usa, Dexia e Fortis nella Ue) o semipubbliche (Fannie Mae e Freddy Mac in Usa); l'acquisto da parte dello stato di titoli - principalmente derivati del credito - giacenti nel portafoglio di ogni sorta di enti finanziari, titoli che sul mercato valgono ormai una frazione esigua del loro valore iniziale; il sostegno dato dalle banche centrali e nazionali alla liquidità delle banche private, sia utilizzando il denaro dei contribuenti, sia creando denaro nuovo; le garanzie prestate sui debiti vigenti (il che significa che se il debitore è insolvente, se li accolla lo stato), e altre voci. Pochi mesi prima (aprile 2009) lo stesso Fmi aveva calcolato che le cancellazioni dai bilanci di attivi ormai irrecuperabili, effettuate dalle maggiori banche Usa e Ue, avrebbero toccato entro l'anno i 4,4 trilioni di dollari, di cui 2,7 trilioni a carico delle prime, 1,2 trilioni a carico delle seconde, 150 miliardi a carico del Giappone, e il resto sparso tra vari paesi. A livello mondo, è stata compiuta da vari centri di ricerca una stima della distruzione di valore degli attivi di ogni genere, di proprietà di famiglie, imprese, stati, enti locali, provocata dalla crisi. Gli attivi - la ricchezza del mondo - constano di azioni, obbligazioni, derivati, case d'abitazione, edifici commerciali, impianti industriali, capitali gestiti da fondi pensione, fondi comuni e compagnie di assicurazione ecc. Le stime della distruzione di ricchezza prodotta dalla crisi variano tra 25-28 trilioni di dollari (Oxford Economics), cioè la metà del Pil del mondo 2007, a 100 trilioni, 1,8 volte il Pil mondiale. A tale processo distruttivo hanno concorso diversi fattori. Tra i principali rientrano: la caduta del corso di titoli azionari, che sebbene sia stato recuperato in parte durante il 2009 era stimata ancora intorno al 25 per cento nella primavera 2010; l'azzeramento del valore dei derivati «tossici» acquistati, oltre che dalle banche, da molti altri investitori, inclusi numerosi enti territoriali, anche in Italia; il deprezzamento del valore delle abitazioni, che in molti paesi, dagli Usa alla Spagna, appare prossimo al 30 per cento; le perdite subite dal portafoglio dei fondi pensione e dei fondi comuni di investimento, in particolare quelli che si erano inoltrati, quanto a politiche di investimento, sul terreno minato dei fondi speculativi e dei derivati del credito; la caduta di valore degli impianti di settori industriali in difficoltà, a cominciare dall'automobile.
A causa della caduta del valore della propria abitazione,
acquistata mediante un mutuo con relativa ipoteca sull'immobile che l'ente
finanziatore sapeva in anticipo non avrebbero mai potuto ripagare, e del forte
aumento delle rate da
versare grazie alla trappola degli interessi variabili, nel solo
2008 circa 2,3 milioni di famiglie americane hanno perso la
casa, sequestrata dall'ente finanziatore del mutuo. Nel primo
semestre 2009 i sequestri sono stati 1,9 milioni, e a fine anno
hanno toccato i 4 milioni. Sommati ai precedenti, fanno oltre 6 milioni di
famiglie con oltre 25 milioni di componenti.
Il futuro appare ancora piú fosco. A marzo 2009 le famiglie
Usa proprietarie di casa il cui mutuo aveva un valore superiore a quello della
casa stessa - donde il rischio che l'ente
finanziatore pretenda da un giorno all'altro il saldo totale
del mutuo, minacciando o attuando l'esproprio - erano il 26
per cento, un proprietario su quattro, quota già molto elevata; le previsioni
sono che entro il 2011 esse arrivino al 48
per cento. Per l'intero 2010 si calcola che saranno sottoposte
a sequestro, a causa dell'insolvenza dei mutuatari, altri 4,5
milioni di abitazioni. Fatte le debite proporzioni, previsioni
analoghe si avanzano per diversi altri paesi, quali la Spagna,
che hanno conosciuto tra la seconda metà degli anni '90 e il
2006 una bolla immobiliare senza precedenti.
Disoccupazione e condizioni di lavoro. La crisi comporta e comporterà in tutto il mondo costi elevatissimi sotto il profilo dell'occupazione e delle condizioni di lavoro. L'Organizzazione Internazionale del Lavoro ha stimato che a fine 2009, a causa della crisi, i disoccupati sarebbero aumentati in totale di 50 milioni, e 200 milioni di lavoratori sarebbero stati risospinti in condizioni di povertà estrema. In Usa vari istituti hanno stimato che nei primi mesi del 2010 il tasso reale di disoccupazione, il quale include coloro che hanno smesso di cercare lavoro perché scoraggiati da troppi mesi di tentativi, superasse il 15 per cento, a fronte del 10 per cento rilevato dal Bureau of Labor Statistics. In cifre assolute la prima percentuale corrisponderebbe a oltre 25 milioni di disoccupati. In Cina, a fine 2009 si calcolava che almeno 23 milioni di lavoratori avessero perso il posto che avevano trovato nelle città, e fossero rifluiti nelle campagne da cui erano emigrati - dove l'agricoltura non è piú in grado di accoglierli. In ambito Ue, secondo la Commissione Europea a fine 2009 i senza lavoro erano il 9,5 per cento, con punte del 19 per cento in Spagna, percentuale corrispondente in totale a poco meno di 23 milioni di persone. In Italia, a ottobre 2010 il tasso di disoccupazione era dell'8,6 per cento, pari a 2,2 milioni di persone. Va aggiunto che, ove si fossero contati anche qui coloro che hanno smesso di cercare attivamente lavoro - condizione che occorre dichiarare per poter venire tecnicamente inclusi nelle rilevazioni statistiche dei disoccupati - più i cassintegrati, la percentuale sarebbe stata presumibilmente vicina a quella americana, e il totale di disoccupati Ue sarebbe salito verso i 30 milioni. Le medie nazionali o aggregate occultano però la gravità della disoccupazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni. Nella Ue il tasso medio a fine 2009 toccava il 21,4 per cento di tale fascia di età, ma sfiorava il 30 per cento in Italia, superava tale quota in Lituania e Lettonia, e toccava addirittura il 40 per cento in Spagna. La disoccupazione costituisce di per sé un costo personale e sociale rilevante, ma la crisi tende a provocare anche il progressivo degrado delle condizioni in cui operano coloro che un qualche tipo di lavoro ancora ce l'hanno. Il degrado delle condizioni di lavoro è riscontrabile in tre ambiti: lo sviluppo dell'economia e dell'occupazione informale; l'aumento dei lavoratori precari con contratti atipici e il peggioramento della qualità del lavoro nell'economia formale; l'aumento del numero dei lavoratori poveri. | << | < | > | >> |Pagina 127Come si potevano impiegare altrimenti i capitali impegnati per salvare le istituzioni finanziarie.
Al di là dei costi diretti sin qui richiamati, la crisi graverà
per altre vie indirette sulle condizioni di vita di miliardi di
persone - approssimativamente, tra un terzo e la metà dei
lavoratori del mondo con i loro familiari - perché enormi capitali che potevano
essere investiti dagli stati allo scopo di
migliorare le loro condizioni sono stati impiegati, per contro,
allo scopo di salvare le istituzioni finanziarie «troppo grandi per fallire». Un
salvataggio presumibilmente necessario,
se non fosse che sono state le medesime istituzioni ad aver
posto le premesse della propria caduta. Qualche esempio di
impiego alternativo:
- I 14-15 trilioni di dollari impegnati dai governi occidentali, secondo stime assai caute, per salvare dal disastro le istituzioni finanziarie, corrispondono a 25-30 anni degli investimenti che sarebbero necessari (a 500 miliardi l'anno a dir molto) per raggiungere integralmente entro l'anno convenuto, il 2015, tutti gli otto Scopi del Millennio indicati dall'Onu per tutti i paesi interessati. - Da parte sua la somma totale delle cancellazioni di attivi dal bilancio delle banche americane ed europee corrisponde, da sola, a 37 anni di aiuto allo sviluppo dei paesi poveri, stando ai capitali erogati dai paesi Ocse nel 2008. - I trilioni di dollari di cui al primo punto sarebbero piú volte sufficienti al fine di assicurare ai cittadini americani un servizio sanitario universale di livello assimilabile ai migliori modelli europei; i quali sono, per l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il francese e l'italiano. A confronto di quanto spendono gli americani per la salute, il costo rispetto al Pil sarebbe piú basso della metà, cioè il 7-8 per cento in luogo di oltre il 15. È vero che 32 milioni di cittadini Usa godranno finalmente di una assistenza sanitaria privata grazie alla riforma del 2010 voluta dal presidente Obama, ma altri 15 milioni ne resteranno ancora privi, e in ogni caso la riforma rimane assai costosa se paragonata agli standard europei. Nella somma indicata si potrebbero far rientrare anche i capitali necessari per consentire ai futuri pensionati italiani, francesi, tedeschi, britannici ecc., ai quali si rimprovera di continuo che le pensioni pubbliche costano troppo per il bilancio dello stato - in genere manipolando o mal interpretando le cifre dei bilanci del sistema previdenziale - di godere nel prossimo futuro di pensioni pari almeno all'80 per cento dell'ultima retribuzione, in luogo del 40-50 per cento verso i quali sono sicuramente avviati, grazie alle riforme attuate dagli anni '90 in poi. - Con 15 trilioni di dollari si potrebbero finanziare per 60 anni le spese per la ricerca sul cancro e l'Aids effettuate annualmente dagli Stati Uniti (pari a 250 miliardi), oppure moltiplicarle per quattro per quindici anni. - Con un 150esimo della medesima somma (100 miliardi) si potrebbero vaccinare per 10 anni consecutivi tutti i bambini sotto i 5 anni dei 117 paesi piú poveri del mondo.
- Dopo aver fatto fronte alla maggior parte degli impieghi
sin qui prospettati, della somma impegnata per salvare
le istituzioni finanziarie Usa e Ue avanzerebbero ancora svariati trilioni con i
quali si potrebbero costruire
migliaia di scuole, di università, di ospedali, di convogli per il trasporto
pubblico comunale e regionale, di
milioni di edifici antisismici, di sistemi per ridurre il
rischio idrogeologico di centinaia di migliaia di chilometri quadrati di
territorio europeo. Si potrebbe altresí ripulire l'Oceano Pacifico dai milioni
di chilometri quadrati di plastica che lo soffocano, e magari avviare
progetti a lungo termine per sfruttare la maggior risorsa di energia che abbiamo
a disposizione - il risparmio energetico globale.
Chiunque può immaginarsi altri scopi cui si potevano destinare piú utilmente i trilioni impegnati dai governi per salvare la finanza globale da se stessa. Per memoria: da ottobre 2008 a ottobre 2010 i soli stati Ue hanno impegnato a tal fine 4,6 trilioni di euro. Dinanzi a siffatti vincoli di spesa, accollati da istituzioni private ai bilanci pubblici, bisognerebbe almeno che i governi smettessero di ripetere con gravità, via via che emergono i costi globali della crisi, che questa richiede inevitabilmente che siano ridotti i salari, allungati gli orari, tagliate le pensioni, ridotte le prestazioni sanitarie, ridotte le ore e gli anni dell'istruzione pubblica, privatizzati i servizi pubblici, e simili. Non foss'altro perché ciò equivale a dire che coloro i quali stanno già pagando la crisi, devono accettare senza discutere di pagarla una seconda volta. | << | < | > | >> |Pagina 133Capitolo sesto
Come opera la mega-macchina del finanzcapitalismo
Modi di operare del finanzcapitalismo: una sintesi. Al di là delle componenti strutturali richiamate sin dal primo capitolo - il sistema bancocentrico, la finanza ombra e gli investitori istituzionali -, il sistema economico e finanziario del finanzcapitalismo, la sua mega-macchina, differisce profondamente da quello del capitalismo industriale anche per via di una serie di modi di operare. Vediamo in breve i piú rilevanti. Primo modo di operare. Contrariamente a quanto si suole affermare, i mercati borsistici ed extra-borsistici non contribuiscono affatto in misura significativa al finanziamento dell'investimento produttivo mediante l'emissione di azioni nuove. In Usa, nel periodo della maggior espansione borsistica di tutti i tempi, 1982-2000, le emissioni nette di azioni sono state negative. Ad onta dell'ipersviluppo dei mercati finanziari, al presente le imprese si finanziano in prevalenza per mezzo di diversi strumenti sul mercato del credito e dell'autofinanziamento, ossia trattenendo per sé i profitti. Il «capitalismo dei mercati finanziari» genera soprattutto l'accumulazione di capitale entro se stesso. È per questa via che è giunto ad assumere un peso dominante sull'economia mondiale. Secondo modo di operare. Sono state create e diffuse con eccezionale rapidità immense quantità di titoli «compositi», «strutturati» o «sintetici» che non hanno nulla a che fare con le azioni, le obbligazioni e nemmeno i derivati di tipo tradizionale. Sono derivati di un genere interamente nuovo, che equivale per molti aspetti alla creazione di denaro di cui si parlerà piú avanti. Con la loro proliferazione incontrollata il mercato mondiale dei titoli finanziari ha subito una trasformazione radicale, sia per le dimensioni che per le modalità di funzionamento. Secondo dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, il mercato ovvero il volume degli scambi degli strumenti derivati ammontava globalmente, nel 2008, a 1285 trilioni di dollari, o se si preferisce a 1,3 quadrilioni, con un balzo del 600 per cento rispetto a dieci anni prima. Questa somma equivaleva a 21,4 volte il Pil mondiale dell'anno, che era di 60 trilioni. Basta questo dato a comprovare per un verso la completa separazione funzionale e strutturale dell'economia finanziaria dall'economia reale, per un altro il dominio schiacciante acquisito dalla prima sulla seconda. Terzo modo di operare. Le maggiori banche hanno notevolmente ridotto l'incidenza dei prestiti alle imprese sui propri attivi per dedicarsi ad altre attività, con preferenza per quelle fuori bilancio. Nei soli Stati Uniti, gli attivi formati da prestiti commerciali e industriali delle 18 maggiori banche sono scesi dal 20,6 per cento sul totale nel 1992 al 10,9 nel 2008. Questo dato trova puntuale riscontro nella quota dei prestiti sul totale del ricorso a strumenti creditizi da parte delle imprese, scesa dal 26 per cento nel 1985 al 10 per cento circa nel 2005. In pari tempo le banche hanno accresciuto di oltre sei volte il reddito totale dovuto ad attività non registrate in bilancio; reddito composto da commissioni, plusvalenze del commercio di titoli, margini ritagliati da operazioni di fusioni e acquisizioni di imprese e altro. Per l'insieme delle banche, il reddito da attività fuori bilancio non costituito da interessi è pertanto salito dal 7 per cento del 1980 al 44 per cento del 2007. In sostanza, nel nuovo sistema finanziario le banche hanno rinunciato in gran parte alla loro basilare funzione di prestiti a imprese e famiglie per concentrarsi invece sul commercio di titoli e divise e sulla speculazione condotti sia in proprio, sia per conto di imprese e detentori di grandi patrimoni. L'insieme di queste attività ha consentito alle banche di operare con un sempre piú elevato effetto leva, che come sappiamo è il rapporto tra capitale proprio e capitale mobilizzato per compiere determinate operazioni, in genere senza che la leva sia pubblicamente visibile. Quarto modo di operare. Si è verificata in appena una ventina d'anni una massiccia concentrazione di capitale in pochi grandi gruppi, sia nel settore bancario che nella gestione del risparmio privato. [...] Quinto modo di operare. In forza dei capitali gestiti e dell'alto grado di concentrazione finanziaria, in appena una ventina d'anni, dal 1990 in poi, gli investitori istituzionali sono diventati una potenza economica capace di influenzare in modo determinante il governo delle imprese. [...] Sesto modo di operare. La concorrenza degli investitori istituzionali per catturare la maggior quota possibile del risparmio privato ha spinto le banche a creare esse stesse grandi famiglie di fondi di investimento. [...] Settimo modo di operare. Nell'economia del finanzcapitalismo le grandi imprese subiscono, per un verso, la pressione degli investitori istituzionali, i quali come si ricordava sopra richiedono alle imprese di cui detengono azioni un rendimento sul capitale dell'ordine del 15 per cento - il famoso Roe, Return on equity - anche quando l'economia cresce a un tasso cinque o sei volte inferiore. Per un altro verso esse debbono far fronte al fatto che le operazioni finanziarie rendono assai piú che non le attività produttive. [...] Ottavo modo di operare. Si calcola che almeno l'80 per cento dei 110-120 trilioni di dollari di azioni scambiati annualmente sulle borse mondiali, per tacere dei derivati scambiati in via breve tra privati (gli Otc), nonché del traffico monetario, perseguano unicamente finalità speculative. [...] Nono modo di operare. Il predominio sui mercati finanziari dell'attività speculativa a brevissimo termine, e con maggior ragione nel caso del commercio automatizzato di titoli, ha accresciuto in misura sostanziale la irresponsabilità sociale degli investimenti. [...] Decimo modo di operare. In forza dei suddetti modi di operare, il sistema finanziario del finanzcapitalismo ha fatto grandemente salire il rapporto tra il debito interno totale dei paesi sviluppati e il Pil. Si constata infatti che verso il 1980 il debito complessivo di enti finanziari, settore privato non finanziario, amministrazione pubblica e famiglie nella maggior parte dei paesi sviluppati equivaleva a circa il 150 per cento del Pil. Nel 2007 ha toccato in essi quota 250, e quota 350 negli Stati Uniti. [...] | << | < | > | >> |Pagina 143L'estrazione di valore dal lavoro umano.La estrazione di valore dagli esseri umani si compie attraverso il lavoro. Il finanzcapitalismo ha sviluppato un processo di estrazione di valore dal lavoro umano complesso quanto efficiente - complessità ed efficienza perfezionate nel corso di piú generazioni, e a loro spese. Allo scopo di massimizzare la quantità di valore estratto è necessario che un'impresa punti a realizzare varie condizioni: pagare il meno possibile il tempo di lavoro effettivo; impiegare solamente la quantità di lavoro che è necessaria in un dato momento per compiere una data operazione di accertata utilità produttiva; far sí che le persone lavorino, in modo consapevole o no, senza doverle retribuire; infine minimizzare, e laddove possibile azzerare, qualsiasi onere addizionale che gravi sul tempo di lavoro, quali imposte, contributi previdenziali, assicurazione sanitaria e simili. Nel perseguire le suddette condizioni, in cui si concreta la sua razionalità strumentale, il finanzcapitalismo ha ottenuto un lusinghiero successo. Mediante le delocalizzazioni e gli investimenti diretti all'estero finanziati dalle grandi banche, in prima fila la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, esso ha trasferito sostanziosi volumi di produzione di beni e servizi in paesi emergenti dove il costo complessivo del lavoro, che oltre al salario include gli eventuali contributi sociali, è tra due e dieci volte piú basso che nei paesi sviluppati. In tal modo ha potuto esercitare nel contempo una forte pressione sui salari dei paesi sviluppati; tanto che in Italia, in termini reali, essi sono stagnanti dalla metà degli anni '90, mentre negli Stati Uniti sono fermi addirittura al 1973. In altre parole, piuttosto che promuovere i diritti del lavoro e le protezioni sociali alla periferia dell'impero [ossia nei paesi emergenti], in modo da restare competitive a casa propria, le corporation hanno scelto di ridurre i diritti del lavoro e le protezioni sociali dei dipendenti entro lo stesso mondo sviluppato ... In breve, invece di espandere i diritti a mano a mano che il capitale si espandeva in tutto il globo, i diritti di tutti gli altri portatori di interesse entro le società vengono abbassati, mentre i diritti del capitale sono accresciuti.
[...]
Si è notato che tra le condizioni da realizzare per massimizzare l'estrazione di valore dalle persone rientra pure quella di farle lavorare senza retribuirle. A ciò si è provveduto, grazie anche al fondamentale apporto delle tecnologie della comunicazione, diffondendo con altri appropriati strumenti economici e mediatici la convinzione che il sommo della qualità della vita consista nell'essere sempre connessi, senza alcun buco vuoto nello spazio o nel tempo. Risorse immani sono state mobilitate a tale scopo: la pubblicità, innanzitutto; quindi i laptop wireless che si collegano alla rete a decine di megabytes al secondo; i cellulari che funzionano da telefono, pc, videocamera, radio, tv, gps e videogame; le tariffe che permettono di usare il tutto a pochi centesimi al minuto, piú i magazine che fanno sentire un cavernicolo chi non possiede l'ultima versione dell'ultimo strumento multifunzione apparso sul mercato. L'operazione diretta a far introiettare l'imperativo «sono connesso, dunque sono» comincia dalle scuole elementari: se il bambino viene provvisto di cellulare a otto anni, e di internet prima dei dieci, è garantito che sarà felicemente wired almeno per i successivi settanta. L'essere perennemente interconnesso, dovunque ci si trovi, per parlare al telefono, chattare, scambiare sms, twitterare, bloggare, gestire la mail inbox e outbox, significa in realtà lavorare senza sosta per qualcun altro. Di certo per la propria organizzazione, ma non soltanto per essa. Ogni minuto passato in connessione comporta che flussi immani di bit e di byte servano a scopi di cui il soggetto non sa nulla, e su cui non ha la minima possibilità di intervenire. Sotto questo aspetto aveva ragione Nildas Luhmann: siamo diventati meri relais, passive centraline di rilancio delle comunicazioni che riceviamo. Siamo immersi in un processo autosostentantesi di produzione di comunicazione per mezzo di comunicazione, sradicato da ogni riferimento a un sistema psichico. La prima a trarre profitto da un processo di comunicazione che non ha bisogno di esseri pensanti, se non nel ruolo di nodi di rilancio dei byte ricevuti, è ovviamente l'organizzazione per la quale uno lavora. Se uno si è convinto che sia normale inviare ad essa una mail la domenica mattina, non foss'altro che per mostrare che niente gli sfugge, o premurarsi di leggere un suo sms alle due di notte, ciò significa che ha firmato un contratto che prevede 168 ore di lavoro la settimana, di cui circa 130 non vengono pagate. Nessun rapace imprenditore di Coketown, la città del dickensiano Tempi difficili (1854), avrebbe mai sperato tanto. A ciò si aggiunga che l'interconnessione 7 X 24 di masse di persone comporta che, secondo dopo secondo, qualche frazione di euro venga depositata nel bilancio di differenti società che si occupano di telecomunicazione, di ingegneria del software, di produzione e vendita di apparecchi e altro. Si tratterà in ciascun caso di pochi millesimi di euro, i quali però moltiplicati per miliardi di minuti di connessione al giorno diventano milioni di euro - appunto come accade con il commercio ad alta frequenza di titoli ricordato sopra. L'interconnessione ubiquitaria 7 X 24 viene presentata di solito come una scelta felicemente innovativa, un modo reso finalmente possibile dalle Ict di mixare a volontà lavoro e tempo libero, ufficio e famiglia. Ma si tratta di un'immagine fittizia abilmente costruita dalle direzioni marketing delle società di telecomunicazioni. In realtà siamo dinanzi a un prolungamento a oltranza nel tempo e nello spazio dell'estrazione di valore da esseri umani, suoi inconsapevoli servo-unità. Aver diffuso la finzione in luogo della realtà è un altro successo della mega-macchina del finanzcapitalismo, senza che nulla cambi nella realtà dell'asservimento. | << | < | > | >> |Pagina 227Capitolo nono
Fondi pensione, capitale del lavoro e strategie di investimento
Componenti industriali della crisi. Abbiamo finora esaminato soprattutto le componenti finanziarie della crisi economica mondiale apertasi nel 2007, non disgiunte dalle sue componenti industriali. Per completare il quadro sarà utile soffermarsi ancora su un particolare aspetto di queste: il ruolo che in esse hanno avuto le strategie d'investimento di una classe d'investitori di peso mondiale, i fondi pensione, e il modo in cui potrebbero essere modificate, anche in Italia, nel caso che i proprietari ultimi dei capitali di tali fondi, i lavoratori, decidessero di mostrare un maggior attivismo a tale scopo. Ben prima che la crisi finanziaria si rivelasse in tutta la sua gravità, molte imprese manifatturiere hanno operato in modo tale, sul piano delle scelte di prodotto e di mercato, dell'organizzazione generale della produzione, delle condizioni di lavoro offerte ai dipendenti e delle politiche ambientali, da contribuire a un peggioramento globale dello stato dell'economia. È lecito dunque inferire che in quasi nessun caso i suddetti modi di operare sono stati una risposta ai problemi posti dalle reazioni della finanza, tipo la restrizione del credito. In generale essi hanno preceduto, piuttosto che seguito, le convulsioni del sistema finanziario, salvo intrecciarsi successivamente con esse, aggravandole. La madre dei suddetti modi di operare è stata la finanziarizzazione delle imprese industriali, compiuta a danno della loro vocazione produttiva. Ma un sostanzioso contributo al loro sviluppo e diffusione lo hanno dato le strategie di investimento dei fondi pensione. Quali che fossero le intenzioni dei gestori, con le loro strategie questi fondi hanno finito per svolgere una funzione pro-crisi. Un ruolo affine lo hanno svolto pure i fondi comuni di investimento: ma questi richiederebbero una trattazione a parte. Trasformare le strategie citate in strategie anti-crisi è una complessa questione politica non meno che economica. Le componenti industriali della crisi sono lontane e molteplici. Quanto meno comprendono: il trasferimento di interi settori manifatturieri dai paesi sviluppati a quelli emergenti; la compressione dei salari reali, con relativa stagnazione della domanda interna, combattuta in molti paesi solo con l'esplosione del debito delle famiglie; una notevole riduzione degli investimenti in ricerca e sviluppo; il ritardo o l'abbandono di interventi a tutela dell'ambiente; il decadimento o il mancato sviluppo delle infrastrutture urbane e interurbane, a cominciare dai trasporti pubblici. Precursore e modello in questo settore, non meno che nel settore finanziario, sono stati gli Usa. Seguendo le strade sopra menzionate gli Stati Uniti hanno praticamente smantellato, in appena un ventennio, buona parte della loro industria manifatturiera. Al presente entro gli Usa risulta quasi scomparsa la produzione di settori che pochi decenni fa dominavano con le loro esportazioni, oltre al mercato interno, gran parte dei mercati occidentali. Tra di essi figurano comparti di dimensioni gigantesche quali gli elettrodomestici; i televisori e l'alta fedeltà; i computer e i microprocessori; i telefoni cellulari; l'abbigliamento; i giocattoli. Un altro settore portante della manifattura americana, l'autoindustria, ha visto calare la costruzione interna di auto di parecchi milioni di unità in meno di dieci anni. Reggono la siderurgia, sebbene con un calo dell'occupazione da 500 000 addetti nei primi anni '70 a poco piú di 100 000 nel 2007, e un ritorno della produzione ai livelli del 1950; l'industria bellica e l'aerospaziale, tra di loro strettamente interconnesse, posto che la prima è pagata per intero dallo stato, il quale per suo tramite sovvenziona direttamente o indirettamente pure la seconda. In totale l'occupazione nell'industria manifatturiera americana è scesa dal 30 per cento degli occupati nel 1950 al 14 per cento nel 2007. Al travaso di manodopera nel settore dei servizi, dove i salari sono mediamente inferiori ai 4 dollari l'ora, e alla compressione dei salari industriali interni ottenuta con gli investimenti diretti all'estero, si deve il fatto che il salario medio in Usa per i dipendenti al di sotto del livello di quadro o capo intermedio sia ai giorni nostri, in termini reali, pressocché uguale a quello del 1973. Casi analoghi di de-industrializzazione si sono avuti nel Regno Unito, dove essa, forse piú che in ogni altro paese, è stata programmaticamente perseguita dai governi conservatori e laburisti che hanno favorito al suo posto lo sviluppo del settore finanziario, e in Canada. Da parte sua la Germania ha sí sviluppato notevolmente le esportazioni manifatturiere, fino a diventarne il campione mondiale, ma al prezzo di una prolungata «moderazione salariale». Quest'ultima ha concorso a far salire al 22 per cento la quota di lavoratori poveri, quelli che, pur lavorando regolarmente, hanno un reddito annuo prossimo alla soglia di povertà. In Italia, le componenti industriali della crisi hanno preso forma di una marcata contrazione della produzione automobilistica interna, da 1,5 milioni di unità negli anni '90 a 650 000 nel 2008, 2009 e 2010; di decadenza prolungata di settori portanti come il tessile, accompagnata dalla perdita di decine di migliaia di posti di lavoro; di una decennale stagnazione della produttività del lavoro e dei salari reali, nonché di decadimento o arresto dello sviluppo di infrastrutture essenziali, a partire dal trasporto pubblico. Attraverso queste sue componenti, la crisi industriale, accettata come inevitabile da numerosi governi occidentali quando non sia stata da essi sistematicamente indotta, ha contribuito a rilanciare in Usa e in alcuni paesi Ue discussioni e proposte in merito al ruolo che il risparmio dei lavoratori accumulato collettivamente a fini previdenziali potrebbe svolgere, qualora fosse investito in direzioni appropriate. La sola quota di esso accumulata nel portafoglio dei fondi pensione strettamente intesi ammontava nel mondo, a fine 2007, a 17,5 trilioni di dollari, corrispondenti a quasi un terzo del Pil mondiale dello stesso anno. Ad 8,5 trilioni ammontavano i contratti di tipo previdenziale - la maggior parte personalizzati - gestiti da compagnie di assicurazione, banche e altri enti finanziari. Avendo a disposizione capitali di simile entità, i fondi pensione sono diventati in meno di vent'anni uno dei piú potenti gruppi di investitori istituzionali che esistano al mondo, secondi solamente ai fondi comuni. Tanto che uno specialista di questi studi ha notato: Gran parte dell'investimento che formerà il nostro futuro è intrapreso da fondi pensione. Al presente i fondi pensione sono parte integrante dell'economia globale la quale decreta che grandi magazzini e scintillanti grattacieli per uffici si moltiplicheranno, mentre ciò non avverrà per piscine, biblioteche e teatri aperti a tutti; che alcune regioni prospereranno mentre altre andranno in malora; che il guadagno commerciale prenderà il posto dell'etica del servizio pubblico. Ne segue, hanno aggiunto altri autori, che se i lavoratori dovessero mai far valere i loro diritti di proprietà sul reddito accantonato che è affluito al portafoglio dei fondi pensione, ed esprimessero le loro priorità sociali ed economiche tramite le decisioni di investimento dei loro fondi, l'attuale sistema economico potrebbe esserne scosso alla base. | << | < | > | >> |Pagina 243La situazione italiana.Tornando al paradosso del «capitale del lavoro»: i fondi pensione ricevono trilioni di dollari e di euro dai lavoratori del mondo. Dopodiché li investono a loro totale discrezione, seguendo criteri circoscritti di razionalità economica che in molti casi nuocciono agli interessi generali del mondo del lavoro. Si tratta di una delle distorsioni piú gravi che il finanzcapitalismo abbia impresso all'economia globale. L'investimento socialmente responsabile o economicamente mirato, richiamati sopra a grandi linee, sono soluzioni promettenti per rimediare a tali distorsioni, benché i successi dell'uno e dell'altro siano stati finora limitati a pochi paesi e a capitali di non grande incidenza. Ma qual è la situazione italiana, e come potrebbero i titolari del «capitale del lavoro» cercare di orientare gli investimenti dei fondi nazionali verso impieghi piú produttivi? Alla fine del 2009 si contavano in Italia 506 fondi pensione, con 4,5 milioni di iscritti. In totale le loro risorse ammontavano a oltre 70 miliardi di euro. Una cifra che se fosse impiegata in parte consistente secondo i criteri dell'investimento socialmente responsabile, e/o economicamente mirato, potrebbe incidere non poco sullo sviluppo dell'industria e delle infrastrutture nazionali. Occorre però considerare che affinché i suoi dirigenti abbiano la possibilità di intervenire efficacemente nelle strategie di investimento dei capitali di cui sono responsabili, un fondo deve possedere almeno due caratteristiche: essere un soggetto unitario, meglio se dotato di personalità giuridica, e avere una popolazione di iscritti relativamente omogenea quanto a professione o categoria di appartenenza, e posizione lavorativa. Un fattore di omogeneità, necessaria affinché tra gli iscritti vi sia una certa convergenza di interessi, è ovviamente la posizione di lavoratore dipendente, sia esso insegnante o operaio, funzionario pubblico o infermiere. Quando si discute in ambito internazionale di «capitale del lavoro», ci si riferisce senza quasi eccezioni a fondi che presentano le suddette caratteristiche. Al 2009 i fondi italiani cosí caratterizzati erano solamente 39. Sono i cosiddetti fondi negoziali, istituiti non prima del 2005 per concorrere a formare il secondo pilastro della previdenza, complementare al sistema pensionistico pubblico. A questo tipo di fondi possono aderire lavoratori appartenenti ad aziende, gruppi di aziende, settori produttivi o categorie professionali. Al numero ridotto di fondi faceva riscontro lo stesso anno l'alto numero di iscritti, oltre 2 milioni, quasi esclusivamente lavoratori dipendenti. Il patrimonio complessivo dei fondi negoziali si aggirava sui i 9 miliardi di euro. Circa il 25 per cento di questo capitale è investito in azioni, ivi compresa una modica quantità di derivati; il resto in titoli di stato e obbligazioni pubbliche e private. A confronto delle centinaia di miliardi di dollari ciascuno gestiti dai maggiori fondi giapponesi, americani, olandesi, britannici, 19 miliardi di euro sembrano una somma modesta. D'altra parte siffatta valutazione deve tenere conto di elementi specifici della situazione italiana. I fondi negoziali sono stati istituiti in Italia solamente da pochi anni, e ove si ponga mente all'attacco che i nostri governi portano sin dagli anni '90 alla previdenza pubblica è prevedibile che si sviluppino con rapidità. A tale proposito è indicativo che nel 2009, anno di pesante crisi, i capitali gestiti dai fondi siano aumentati del 33 per cento rispetto al 2008. Inoltre, essendo stati istituiti di recente, questi fondi presentano l'ulteriore vantaggio che per un lungo periodo le entrate, formate dalle quote versate dai lavoratori e dai datori di lavoro, e dal trasferimento del Tfr, supereranno in notevole misura le uscite dovute al pagamento delle pensioni. Ne segue che le risorse finanziarie gestite dai fondi negoziali, ossia gli attivi presenti in bilancio, hanno dinanzi a sé una lunga prospettiva di crescita. Da questa deriva l'importanza di una riflessione approfondita sulle strategie di investimento dei fondi. Nel caso, si intende, che il capitale del lavoro decidesse infine di intervenire piú attivamente in esse, e avesse il potere di farlo. | << | < | > | >> |Pagina 252Capitolo decimo
Riforme finanziarie che i cittadini dovrebbero richiedere
L'architettura del sistema finanziario mondiale, quale si è sviluppata dagli anni '80 a oggi, presenta una serie di gravi difetti strutturali. Essi hanno fortemente contribuito alla crisi che si è manifestata a partire dall'estate 2007, e ne stanno preparando una ancora piú grave, a meno che non vengano effettuate entro un tempo ragionevole delle riforme mirate a vasti interventi di ristrutturazione. Sono i cittadini che dovrebbero richiederle ai parlamenti nazionali, al Parlamento di Strasburgo, alla Commissione Europea. Se non saranno loro a levare la voce, nel senso hirschmanniano dell'espressione già ricordato, le lobby della finanza riusciranno ad annacquare sino all'insignificanza qualsiasi riforma tocchi i loro interessi e il sistema che li sostiene, diretto a finanziarizzare il mondo quali che siano i rischi di un disastro finale. Non è una figura retorica. Secondo quanto racconta nel suo libro il ministro tedesco delle Finanze di allora, Peer Steinbrück, che ebbe un ruolo importante nel gestire la crisi in contatto con il governo americano, nell'autunno 2008 il mondo si trovò davvero sull'orlo dell'abisso. Ossia di un crollo generale dell'economia nei cinque continenti, inclusi finanza e industria, servizi e scambi commerciali. Si tratta dunque di questioni che sono vitali per i cittadini, ma di cui perfino la politica, che dovrebbe tutelarli e orientarli, sembra essere all'oscuro. Proverò qui a delineare alcune semplici riforme ad uso di coloro che gradissero qualche lume in merito. Per comprendere la ratio di tali proposte di riforma occorrerà prima di tutto mettere in luce quali sono i principali difetti dell'architettura del sistema finanziario mondiale. Al termine dovrebbe apparire di per sé evidente la necessità di riforme di vario genere dell'architettura finanziaria che i cittadini dovrebbero richiedere al nostro governo di appoggiare, e alla Ue di introdurre. Va aggiunto che nel corso dei lavori preparatori sarebbe opportuno che gli organi centrali di questa tenessero maggior conto di quanto non sia avvenuto finora delle proposte che a diversi livelli di elaborazione sono state formulate in altri paesi. Quelle, ad esempio, discusse da autorità e centri studi del Regno Unito, il paese europeo che ha sopportato i maggiori costi diretti della crisi. Una certa utilità potrebbe avere anche la corposissima legge che nel luglio 2010 è stata approvata dal Congresso degli Stati Uniti e firmata subito dopo dal presidente Obama. Mostrerò piú avanti che essa include soltanto alcuni elementi delle riforme strutturali che sarebbe indispensabile apportare all'architettura finanziaria, ma si tratta pur sempre d'un primo tentativo di porre un limite allo strapotere di Wall Street. È vero che la Ue non avrebbe dovuto attendere che fossero gli Usa a procedere per primi in direzione di dette riforme strutturali, per poi - forse - imitarli. Questo perché i problemi del sistema finanziario emersi nella Ue sono stati importati soltanto in parte dagli Stati Uniti. In larga misura sono problemi home made, nati e cresciuti in Europa. Per due motivi: in primo luogo va ricordato che nei processi di deregolazione dei movimenti di capitale, susseguitisi dagli anni '80 in poi, i maggiori paesi europei hanno svolto un ruolo determinante. In secondo luogo, come si vedrà, la massa totale delle maggiori istituzioni finanziarie europee, in termini di attivi detenuti, è superiore a quelle statunitensi. E di certo non minore è il peso che esse esercitano sul sistema politico.
La ricognizione diagnostica che si propone qui dell'architettura del sistema
finanziario si concentrerà sui seguenti aspetti di esso, su cui ci siamo già
soffermati da differenti punti di vista e che si possono cosí compendiare:
- Le dimensioni: il sistema finanziario è cresciuto in misura eccessiva, in sé e rispetto al sistema produttivo. - Le fondamenta: l'intero sistema si è fondato sull'aumento smodato del debito pubblico e privato e dell'emissione di titoli derivati non regolati, aventi una prevalente funzione speculativa. Entrambi hanno comportato la eccessiva creazione dal nulla di denaro in forme vecchie e nuove, nonché rischi intrinseci di collasso sistemico. - La complessità: sotto diversi aspetti il sistema appare troppo complesso, al punto da risultare inconoscibile ai suoi stessi agenti e non piú regolabile per mano di qualsiasi autorità di regolazione presente o futura.
- La connessione contagiosa tra i componenti:
questa si verifica perché i componenti stessi sono stati fabbricati e
collegati in modo da presentare numerosi canali e veicoli
di contagio diffusivo, a partire da disfunzioni anche limitate di singole
componenti. Di conseguenza il sistema risulta intrinsecamente vulnerabile.
Nelle successive sezioni si presentano alcuni dati e argomenti per dare fondamento a codesta diagnosi. L'ultima sezione riporta alcune proposte di riforma tra quelle che da tempo circolano nella Ue, comparate alle riforme attuate in Usa. | << | < | > | >> |Pagina 279Proposte di riforma dell'architettura finanziaria.
Quanto detto in merito ai difetti strutturali dell'architettura finanziaria
in essere suggerisce di per sé quali sarebbero le principali riforme necessarie
per porre riparo a crisi future. Si riducono, fondamentalmente, a quattro o
cinque:
- Bisogna procedere a una drastica riduzione delle dimensioni globali del sistema finanziario e ricondurlo alla sua funzione di mezzo fondamentale di sostegno dell'economia reale. È ciò che si riassume nell'idea di narrow banking, ovvero «attività bancaria ristretta o circoscritta». L'idea di narrow banking implica che oltre a quelle dell'intero sistema siano ridotte pure le dimensioni delle maggiori bank holding companies; siano ridefiniti i loro campi di attività, separando le attività di depositi e prestiti dalle attività di investimento; infine siano predisposte linee di intervento per diminuire la possibilità che un loro eventuale collasso debba essere pagato dai contribuenti ed evitare che si propaghi all'intero sistema. Come è avvenuto nel 2007-2009. - Dovrebbe essere drasticamente ridotta l'entità della «finanza ombra», riportando in bilancio la maggior parte dei capitali effettivamente detenuti dalle società finanziarie. A tale scopo bisognerebbe innanzitutto ridurre o eliminare sia i veicoli adibiti a «scopi speciali» ovvero a «investimenti strutturati», sia il commercio di titoli non registrati in bilancio perché destinati a essere venduti a breve scadenza. Si dovrebbe altresí imporre il rispetto e l'aumento veridico della quota di capitale da tenere come riserva o patrimonio di vigilanza, modificando a fondo i dispositivi insiti nella normativa della Fed, della Bce, degli accordi di Basilea 1 e 2 e anche del Basilea 3, varato a settembre 2010. Il quale ultimo lascia tempo alle banche sino al 2019 per essere applicato: quanto basta alle medesime per inventare mille strumenti e modalità operative capaci di aggirarlo. Si tratta quindi di dispositivi severi in apparenza, che in realtà hanno permesso e sicuramente permetteranno di farsi beffe dei limiti sopra richiamati. È con tali mezzi che gli istituti finanziari han potuto operare con un effetto leva che sovente ha superato il rapporto di 30 a 1. Oltre ai suoi positivi effetti diretti, la separazione tra banche commerciali e banche di investimento menzionata sopra avrebbe anche la funzione indiretta di aiutare le autorità di sorveglianza a stabilire se la suddetta quota viene rispettata. - Occorre regolare in modo stringente il mercato dei derivati, riducendo drasticamente gli scambi non registrati (i pluricitati Otc) e imponendo che tutte le transazioni di prodotti standard siano effettuate tramite piattaforme sottoposte a vigilanza. Dovrebbe inoltre essere proibita la vendita di titoli finanziari che sono troppo complessi, tipo le Cdo, per essere trattati in borsa. - Andrebbe vietata o fortemente limitata la cartolarizzazione (cioè la trasformazione in titoli commerciabili) dei crediti. La ragione di ciò si può trovarla nella preveggente nota citata in precedenza di Hyman P. Minsky, risalente al 1987, quando tal genere di operazione era assai meno praticato che negli anni 2000: mediante la cartolarizzazione le banche creano masse incontrollabili di denaro.
- Deve essere radicalmente modificato il rapporto che si
è stabilito tra criteri di erogazione del credito bancario, i modelli di
gestione del rischio, le valutazioni delle
agenzie a ciò preposte - fino ad ora tutte di proprietà
privata - l'innovazione dei prodotti finanziari, la conformazione dei flussi di
ricavi delle banche e i compensi dei manager e dei trader.
Quali prospettive vi sono che riforme del genere siano adottate dall'Unione Europea? Bisogna dire che al presente esse appaiono piuttosto remote, ove si guardi al lavoro istruttorio che stanno facendo le istituzioni: principalmente la Commissione Europea, ma anche il Parlamento e il Consiglio d'Europa. Per contro le prospettive di alcune di esse appaiono piú concrete se si guarda sia alla riforma americana, sia alle proposte provenienti soprattutto da autorità del Regno Unito, non a caso il paese in cui l'impatto della crisi iniziata nel 2008 è stato piú rovinoso. | << | < | > | >> |Pagina 289Alla fine non si può negare che la riforma di Wall Street presenti carenze numerose e gravi. Oltre a quelle rilevate sopra, è orrendamente macchinosa, e i suoi effetti non si vedranno su larga scala prima del 2015. La legge prevede infatti, allo scopo di definire con maggior precisione e attuare in tempi certi i suoi dispositivi, che nei prossimi quattro anni siano emanati piú di 530 decreti - oltre 200 soltanto dalla Sec - e siano redatti 60 studi di settore, piú 90 rapporti su questioni specifiche. Nonostante le suddette carenze, bisogna riconoscere che dopo un trentennio di de-regolazione del sistema finanziario, si tratta del primo provvedimento su larga scala che la politica e lo stato abbiano adottato al fine di sottoporre tale sistema a regole capaci di limitarne lo strapotere e stabilirne le molteplici responsabilità. Non a caso Wall Street ha speso in due anni 300 milioni di dollari per sbarrargli la strada. Esso non avrebbe mai visto la luce se dal 2007 in poi un gran numero di cittadini di quel paese non avessero fatto sentire, tramite cento canali, la loro voce in merito ai modi in cui la finanza aveva abusato del loro destino. Al confronto la voce dei cittadini dell'Unione Europea è stata finora flebile. Sappiamo che c'è una ragione. Il paese in cui la popolazione è stata colpita piú duramente dalla crisi finanziaria, sin dai suoi primissimi esordi nel 2007, è solo il Regno Unito. Negli altri paesi Ue l'impatto sulla vita quotidiana, le condizioni di lavoro, lo stato sociale - i costi umani della crisi - è stato meno avvertito, sebbene i loro governi abbiano comunque speso o creato per mezzo della Bce trilioni di euro per arginare l'esondazione in tutti i campi dell'economia finanziaria.Poi è arrivato il 2010. L'anno in cui il finanzcapitalismo ha disvelato il suo ultimo capolavoro: rappresentare il crescente debito pubblico degli stati non come l'effetto di lungo periodo delle sue proprie sregolatezze e dei suoi vizi strutturali, largamente sostenuti e incentivati dalla politica, bensí come l'effetto di condizioni di lavoro e di uno stato sociale eccessivamente generosi. Dalla primavera 2010 in poi, la gran maggioranza della popolazione Ue si è vista presentare dai relativi governi il conto della crisi in forma di peggioramento generalizzato della sua situazione esistenziale, del suo modo di vita. Nessun aspetto di questo sembra essere risparmiato. In relazione a ciò cresce il malessere, la frustrazione, il senso di un'offesa ingiustificata alla propria vita. Potrebbero prendere brutte strade, questi sentimenti. Dovrebbe esser compito della politica indirizzarli per tempo verso riforme economico-sociali miranti a incidere sulle responsabilità reali della crisi, piuttosto che accusare le vittime di averla provocata e pretendere da loro di pagarne i costi. Negli Stati Uniti è avvenuto precisamente questo. Ed è avvenuto ad opera di un governo in carica, non dell'opposizione. Pertanto i cittadini Ue si trovano di fronte a un doppio problema. I governi per cui hanno votato sono i continuatori di quelli che negli anni '80 e primi anni '90 hanno addirittura preceduto gli Stati Uniti nel demolire la regolazione del sistema finanziario. Quanto alle opposizioni, tolta forse un'unica eccezione quanto a peso elettorale e capacità di elaborazione critica - la Linke tedesca - esse si distinguono a fine 2010 per aver finora compreso assai poco dell'attuale civiltà-mondo e delle forze che la stanno guidando, con mano sicura, verso altri prossimi disastri economici, sociali e ambientali. Resta da sperare che il malessere sociale che si diffonde sia per molti cittadini un buon maestro piuttosto che uno cattivo, alimentando a preferenza di altre scelte la voce collettiva che converrebbe loro levare per riformare democraticamente il sistema finanziario, e nel medesimo tempo per incivilire il finanzcapitalismo. | << | < | > | >> |Pagina 292Capitolo undicesimo
È possibile incivilire il finanzcapitalismo?
Ridurre il dominio della finanza: necessario ma non sufficiente.
Il finanzcapitalismo è il principale fattore di crisi della
civiltà-mondo. Allo scopo di arrestare il degrado in corso di
quest'ultima pare quindi necessario ridurre anzitutto il dominio smisurato che
codesta mega-macchina esercita sull'economia e la società intera. Un dominio
riassumibile in poche cifre. Ricordiamone qui alcune per comodità del lettore:
- Nel 2007 gli attivi finanziari globali ammontavano a quattro volte e mezzo il Pil del mondo. Da essi proviene l'eccesso di liquidità che circola nell'economia mondiale alla ricerca spasmodica di rendimenti eccezionalmente elevati - che sono realizzabili soltanto se si sottrare valore a qualcun altro. - Le transazioni sui mercati finanziari globali corrispondevano nel 1991 a 15 volte il Pil del mondo; nel 2007 erano salite a 75 volte il Pil del mondo, raggiungendo i 4050 trilioni di dollari. Si stima che oltre l'80 per cento di tali transazioni perseguano unicamente finalità speculative. - I soli titoli derivati scambiati privatamente ammontavano alla fine dello stesso anno a 12 volte il Pil del mondo. I derivati sono di fatto scommesse finanziate dalle maggiori banche anglosassoni mediante denaro creato al computer. - Il mondo, formato da famiglie, imprese, enti territoriali e stati, ha contratto con se stesso un debito stimato in almeno 100 trilioni di dollari. Le sole obbligazioni emesse da imprese e pubbliche amministrazioni locali e centrali ammontano a 80 trilioni. Supponendo che sul totale del debito si debba pagare non piú del 3 per cento di interesse - ipotesi assai cauta - il Pil del mondo dovrebbe crescere di almeno il 6-7 per cento l'anno, cioè il doppio degli ultimi decenni, unicamente per pagare il servizio del debito. Per riuscire a rimborsare anche quote di capitale dovrebbe crescere molto di piú.
- Nei paesi sviluppati le prime cinque-sei banche detengono ciascuna attivi
equivalenti a circa due terzi del Pil. Le
stesse banche detengono fuori bilancio, nei loro «veicoli»
ma non solo in essi, attivi pari o superiori a quelli registrati. In Usa a fine
2007, l'anno in cui si palesa la crisi,
esse detenevano derivati per un valore complessivo che
variava tra il 2000 e il 6000 per cento dei loro attivi.
Tuttavia, essendo considerati titoli negoziabili a breve
termine i derivati non rientrano formalmente tra gli attivi.
È una delle zone piú vaste e oscure della finanza ombra.
Una ulteriore prova del predominio del finanzcapitalismo si è avuta nel corso del 2010, quando l'intera zona euro, piú il Regno Unito, rischiarono il collasso perché alcuni dei maggiori operatori finanziari privati, tra i quali non mancavano investitori istituzionali, poterono impiegare in poche settimane capitali sufficienti per attaccare il debito pubblico degli stati. Debito che era cresciuto in misura cospicua nei tre anni precedenti grazie agli aiuti concessi al sistema finanziario di cui quegli operatori e investitori facevano parte, e agli interventi di stimolo all'economia resi necessari dalle loro stesse azioni. Un'economia che presenta caratteristiche di tal genere va giudicata patologicamente irrazionale. Una patologia che con rare eccezioni né gli attori in gioco, né le autorità di regolazione, hanno per lungo tempo voluto vedere. Due cose avrebbero dovuto esser chiare fin dall'inizio delle bolle speculative susseguitesi dai primi anni '90. Anzitutto occorreva rendersi conto che «la capacità dell'economia reale di far fronte a prezzi esagerati degli immobili e delle merci, o tassi di scambio squilibrati, è strettamente limitata». E quanto si legge in un rapporto dell'Onu. Il quale prosegue: «Ma è soltanto ora, tramite l'esperienza della crisi, che molti attori e politici cominciano a capirlo». In secondo luogo, l'idea che muove il colossale traffico giornaliero di titoli nelle borse e al di fuori di esse, per cui ciascun attore può ottenere regolarmente, a mezzo di strumenti puramente finanziari, rendimenti di molto superiori al tasso medio della crescita economica, va considerata intrinsecamente dissennata. Allo scopo di ridurre in misura significativa il dominio del finanzcapitalismo il primo passo da compiere consisterebbe dunque nel ridurre le dimensioni massime degli enti finanziari, e al tempo stesso nel restringere il perimetro delle attività che essi sono legalmente autorizzati a svolgere. I progetti di riforma volti a questi fini vengono in genere ricompresi sotto la rubrica di narrow banking, alla lettera «attività bancaria ristretta». Come si è visto nel capitolo precedente, grazie al perdurare e all'aggravarsi della crisi manifestatasi col peggioramento del debito pubblico di numerosi stati, le proposte di restrizione delle attività finanziarie che all'inizio bastavano per etichettare come massimalista chiunque le avanzasse, sono state formulate nel Regno Unito e negli Stati Uniti perfino da politici, parlamentari ed esperti di orientamento conservatore, nonché da dirigenti di banche centrali. Il Congresso Usa ha perfino accolto alcune di esse. Ricordiamo che il mezzo piú semplice per ridurre a un tempo le dimensioni delle banche e il perimetro delle loro attività consisterebbe nel reintrodurre una separazione effettiva tra banche di deposito e banche di investimento. Un po' piú complicato sarebbe stabilire un limite alla concentrazione dei depositi in ciascuna delle maggiori banche. Ad esempio, nessuna dovrebbe detenere piú del 10 per cento del totale nazionale dei depositi. Oppure si potrebbe porre un limite alle esposizioni non depositarie; per dire, non oltre il 2 per cento del Pil ciascuna. Ambedue le proposte erano contenute in un progetto di legge, il SAFE Banking Act (in realtà pur chiamandosi Act si trattava di un emendamento a un'altra legge) presentato da due democratici al Senato degli Stati Uniti nell'aprile 2010. Ad onta del fatto di esser state formulate, per cosí dire, dall'interno del sistema finanziario, proposte del genere hanno al presente una probabilità assai ridotta di venire sostenute da una maggioranza parlamentare, sia in Usa che nella Ue. Tant'è vero che il suddetto progetto di legge per una «attività bancaria sicura» venne subito bocciato, a meno di un mese dalla sua presentazione, grazie anche a 27 voti contrari di senatori democratici. Sappiamo, tra l'altro, che le banche che erano considerate TBTF (troppo grandi per fallire) nel 2007-2008 sono oggi ancora piú grandi, grazie all'incorporazione delle concorrenti meno fortunate e ai colossali aiuti pubblici ricevuti; perciò sono in condizione di sventare qualsiasi tentativo di ridimensionare la loro taglia. Ora si supponga invece che una maggioranza parlamentare arrivi a formarsi in diversi paesi, e le proposte indicate vengano introdotte. Sarebbe di sicuro un primo passo nella direzione giusta; nondimeno al fine di sottrarre la civiltà-mondo al dominio del finanzcapitalismo esso sarebbe insufficiente. Il finanzcapitalismo è una formazione economico-sociale, il che significa politica e culturale non meno che economica; una formazione che rappresenta una negazione sostanziale della democrazia in ogni settore dell'organizzazione sociale, sia a livello locale che a livello globale. L'una o l'altra potranno forse sopravvivere, ma non entrambe. Per questo motivo una dose anche relativamente elevata di narrow banking, che sarebbe comunque da considerare benvenuta, non basterebbe per superare tale negazione. È infatti certo che il governo economico e politico della società-mondo resterebbe assicurato, al pari di oggi, da una nutrita serie di organizzazioni internazionali il cui personale non è stato eletto da alcuno, né rispondono delle loro azioni ad alcun «collegio elettorale» o constituency. Accanto ai grandi istituti finanziari in senso stretto, sono esse le colonne del finanzcapitalismo. Le chiavi delle politiche economiche, finanziarie e monetarie; delle politiche del lavoro e della previdenza sociale; delle politiche commerciali e ambientali, stanno oggi e resterebbero domani saldamente nelle mani di organizzazioni del tutto a-democratiche quali le Nazioni Unite; l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico; il Fondo monetario internazionale; la Banca Mondiale; la Banca europea degli investimenti; la Banca per i regolamenti internazionali; l'Organizzazione mondiale per il commercio; l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura; l'Organizzazione internazionale del lavoro; la Commissione Europea. Al tempo stesso, nessuna restrizione del perimetro delle attività finanziarie verrebbe a modificare in pur minima misura le strategie di investimento in cui sono impegnati i 60 e piú trilioni di dollari che gli investitori istituzionali controllano e di cui dispongono a loro assoluta discrezione, ad onta delle speranze da qualcuno riposte nell'attivismo del «capitale del lavoro» (le cui carenze al riguardo sono state richiamate al cap. IX). Meno che mai apparirebbe eroso l'intreccio tra finanza e politica, donde il continuo scambio di risorse e di personale tra i due sistemi, che in America come nei paesi dell'Europa occidentale ha segnato la storia del finanzcapitalismo: dai suoi esordi a fine Ottocento, al suo fiorire negli anni '20 del Novecento, per toccare il massimo fulgore tra la fine degli anni '80 e il primo decennio del 2000. Fulgore appena appannato, posto che mai lo sia, dalla crisi iniziata nel 2007. Un susseguirsi di resistibili ascese che rendono arduo distinguere paese per paese, o epoca per epoca, se la finanza abbia per lunghi periodi asservito la politica, oppure se questa non si sia servita della prima; o, piuttosto, se non si sia stabilita tra l'una e l'altra una proficua alleanza, com'è avvenuto a suo tempo nella Germania nazista. Nel connubio tra finanza e politica, appare essersi definitivamente consumato il divorzio tra democrazia e popolo. Privatizzato sotto la spinta del nuovo capitalismo, il potere «ha lasciato lo Stato sul ciglio della strada, occupato soltanto a curare gli ultimi arrivati, nascondendo la sua nuova miseria sotto gli orpelli della sovranità». | << | < | > | >> |Pagina 317Elementi mancanti per ragionare sull'incivilimento del finanzcapitalismo.Abbiamo visto come le analisi sin qui riassunte, intanto che compiono una critica radicale al finanzcapitalismo, ne facciano però discendere - sebbene con diversi iati e salti logici - la speranza di un suo superamento o positiva evoluzione, la quale emergerebbe dai suoi stessi paradossi e contraddizioni. Per questo motivo esse potrebbero venire accantonate come odierne versioni deboli - bisogna dire incomparabilmente piú deboli - del tipo di scenari teleologici in cui Marx , pur sbagliando, eccelse, o dell'idea di contromovimento che Polanyi credette di individuare nel XIX secolo e nel primo terzo del XX. Nondimeno si è voluto qui presentarle perché dagli elementi che risultano mancanti in esse, su cui mi soffermerò subito, mi pare si staglino con maggior nitidezza i problemi che la civiltà-mondo in crisi si trova a dover affrontare - se mai lo volesse. Gli elementi mancanti sono, visti dall'alto, le tecnologie di assoggettamento ovvero di governo del comportamento della popolazione utilizzate dagli stati contemporanei, che del finanzcapitalismo sono al tempo stesso autori ed espressione; e, visti dal basso, i processi di soggettivazione che adducono gli individui a inscrivere nella struttura della personalità pulsioni e schemi interpretativi congruenti con le esigenze del finanzcapitalismo. Assoggettamento e soggettivazione ovviamente interagiscono, a volte elidendosi, piú spesso rinforzandosi a vicenda. Le tecnologie di assoggettamento, micro-modalità specifiche di esercitare il potere, al cui insieme Michel Foucault attribuí già negli anni '70 il nome di governamentalità, sono nate embrionalmente due secoli addietro e hanno conosciuto un notevole sviluppo nel corso del Novecento. All'epoca del finanzcapitalismo sono state rivedute e messe a punto con metodi scientifici che ne hanno moltiplicato l'efficacia. Si presentano in gran quantità e si applicano a numerosi gruppi e situazioni: scuole e ospedali, prigioni e istituti di cultura, studi professionali e uffici pubblici, sindacati e centri di ricerca, enti previdenziali e trasporti pubblici. La scienza politica ha studiato soprattutto il potere dei grandi apparati dello stato. Quanto alle maggiori correnti della critica al potere costituito, tipo il marxismo, a loro volta hanno preso a bersaglio, in fondo, il medesimo oggetto. In questa prospettiva lo scopo ultimo della lotta per il potere appare pur sempre essere, per cosí dire, la conquista del Palazzo d'Inverno; le sue articolazioni nella società, in cento direzioni e a diversi livelli, restano per contro invisibili. A ciò fondamentalmente si dovrebbe imputare la sterilità della critica, e con essa l'inefficacia delle lotte contro il potere in forma sia di organizzazione burocratica sia di capitale, non meno che l'insuccesso delle previsioni circa una prossima rivoluzione. Con le parole di Foucault: «Una delle prime cose da capire è che il potere non è localizzato nell'apparato dello Stato e che nulla sarà cambiato nella società se i meccanismi del potere che funzionano al di fuori degli apparati di Stato, al disotto di essi, al loro fianco, a un livello molto piú infimo, quotidiano, non vengono modificati». Il capitalismo finanziario, con l'ausilio dell'ideologia neoliberale che lo esplica e lo legittima, ha perfezionato all'estremo le tecnologie di governo del comportamento. Lo ha fatto mediante l'imposizione sia nella pratica delle organizzazioni, di qualsiasi genere e dimensioni, anche minime, sia nella condotta dell'esistenza individuale, del modello di gestione dell'impresa. Ospedali e istituti di cultura, prigioni e centri di ricerca, scuole materne e uffici postali dovrebbero essere tutti governati come se ciascuno fosse un'impresa retta da criteri quali il principio sovrano dell'efficienza; la necessità di «soddisfare il cliente»; le regole ferree della contabilità; l'imperativo di massimizzare il valore per l'azionista o il proprietario. Per quanto concerne l'individuo, ad esso si chiede, e anzi si tende a imporre, che concepisca se stesso e la propria famiglia come se fossero letteralmente una specie di impresa, con l'obbligo e la responsabilità di «massimizzare la propria vita»; sarebbe questa, niente di meno, la forma piú alta di libertà. In codesta applicazione universale del modello dell'impresa, un posto di rilievo, sotto il profilo della capacità di governare in ogni ambito il comportamento individuale, ossia di rendere le persone fattualmente governabili, spetta alle regole contabili. Lungi dall'essere un mero strumento tecnico, la contabilità aziendale perviene a operare, di fatto, come un'agenzia regolatrice del comportamento di ciascuno e di tutti. Quando le persone hanno l'obbligo, in qualsiasi situazione, di ragionare in termini di bilancio, standard di redditività, indici di riferimento, revisioni contabili, e nei medesimi termini essere di continuo esposte a un giudizio da parte di altri numerosi agenti, non solo il loro comportamento economico, ma anche il loro comportamento nel campo della politica, dei rapporti sociali, della cultura, della famiglia, verrà a essere governato da analoghe regole contabili. Nell'uomo economico, per citare ancora Marcel Mauss , è contenuta una macchina calcolatrice. Oggi le regole della contabilità di impresa sono i programmi che ne governano i calcoli. La contabilità euro-americana è stato anche uno dei principali strumenti con cui l'occidente ha sostenuto l'egemonia politica delle élite ad esso favorevoli in numerosi paesi meno sviluppati e ha assicurato per sé e per loro il controllo della forza lavoro locale. Scrivono al proposito due docenti di amministrazione aziendale, facendo riferimento a situazioni osservate in India: L'informazione finanziaria [generata dalla contabilità] aumenta la fiducia degli azionisti ed è questa relazione da principale ad agente che garantisce la «sostenibilità economica» [delle imprese locali] da cui il sistema di controllo egemonico dipende ... I progetti egemonici soggiacenti ai programmi neoliberali di privatizzazione tendono a guadagnare e a mantenere il consenso della classe dominante [locale], e l'egemonia politica che ne risulta tende a soddisfare la funzione globale del capitale. Quanto ai paesi sviluppati, culla del finanzcapitalismo, storia e cronaca degli anni '90 e del primo decennio del 2000 hanno registrato innumeri casi comprovanti la diffusione capillare di codeste tecnologie di governo del comportamento. Ad esempio, il numero di carceri «governate» interamente da imprese private ha avuto un considerevole sviluppo in Usa a partire dal 1984, in Francia dal 1987, nel Regno Unito dal 1992; anni in cui apposite leggi sancirono nei rispettivi paesi la possibilità di istituire prigioni private. Solo in questi paesi gli istituti penitenziari privati sono alcune centinaia e ospitano centinaia di migliaia di detenuti. A livello delle comunità locali, in Italia come in Germania, in Svizzera come in Francia, migliaia di scuole, ospedali, uffici postali, farmacie, negozi di piccoli comuni, altrettante cellule essenziali dell'integrazione sociale, sono state chiuse in nome del principio dell'efficienza e le loro attività concentrate in unità di maggiori dimensioni, allo scopo di poterle governare appunto come imprese. Non meno indicative della «aziendalizzazione» del governo del comportamento sono state le riforme del mercato del lavoro introdotte a partire dagli anni '90 in diversi paesi Ue. Esse si fondano sul presupposto che se uno è disoccupato in fondo la responsabilità è sua. Di conseguenza il comportamento dell'interessato deve ispirarsi a una maggiore autoresponsabilità, fondata sulla concezione di sé e della famiglia come impresa. Non è un suggerimento tacito o marginale del legislatore. Si vedano le leggi di riforma del mercato del lavoro che in Germania si chiamano, dal nome del loro ispiratore Peter Hartz, che non solo il puro caso ha voluto fosse in precedenza il capo del personale alla Volkswagen, Hartz I, Hartz II ... Hartz IV. I lemmi che vi ricorrono piú spesso sono «nuova responsabilità» (neue Verantwortung: beninteso del lavoratore); «io-impresa» (Ich-Gesellschaft); «famiglia-società per azioni» (AG Familie, dove AG sta appunto per Aktien-Gesellschaft). In quale modo possa operare come una società per azioni una famiglia in cui l'uno o l'altro dei partner, o ambedue, guadagnano 450 euro al mese perché il solo lavoro che hanno trovato è un minijob cosí retribuito, il testo di legge non lo spiega. Nemmeno l'istruzione è rimasta immune dall'applicazione di criteri contabili in cui la apparente razionalità del mezzo maschera la sostanziale irrazionalità del risultato. Le riforme della scuola elementare e media si sono ispirate, in Italia, non alla formazione delle capacità intellettuali necessarie al cittadino per poter prendere parte attiva alle decisioni politiche, bensí alla terna ottundente «impresa, internet e inglese». In molti paesi, compreso il nostro, le riforme dell'università hanno richiesto ai senati accademici, alle facoltà, ai dipartimenti, di stringere rapporti sempre piú stretti con l'industria, al fine di procurarsi, in quanto imprese, le risorse necessarie al loro funzionamento; il sistema pubblico di ricerca ne è stato profondamente sovvertito, e le discipline umanistiche che dovrebbero formare il cittadino relegate in ruoli marginali. Agli Istituti italiani di cultura all'estero è stato raccomandato di assumersi il compito di promuovere il Brand Italia, ovvero la diffusione del Made in Italy - un compito che un tempo sarebbe stato considerato adatto semmai alle Camere di Commercio. Una conclusione di conseguenza si impone: dovunque si guardi, le tecnologie di governo della popolazione proprie del finanzcapitalismo appaiono applicate ed efficaci in migliaia di gruppi, di società intermedie, di organizzazioni di scala minima e media. È arduo attendersi che dal seno di una popolazione cosí capillarmente governata emergano forme estese, e non effimere, di dissenso o di opposizione. L'altro elemento mancante negli scenari che prospettano la possibilità di un superamento del capitalismo finanziario per via dei comportamenti innovativi da esso stesso innescati, sono le modalità della soggettivazione che in esso si osservano, ovvero la presa che esso esercita sullo sviluppo della persona. Una prima modalità è la negazione radicale dello sviluppo umano. Ove si ponga mente alle condizioni in cui lavorano e vivono miliardi di individui nelle fabbriche e nei conglomerati urbani dei paesi emergenti, e centinaia di milioni nei paesi avanzati, perennemente in bilico tra lo sfinimento da lavoro e la fame da disoccupazione, senza nessuna possibilità di accedere - non per loro né per i loro figli - all'istruzione, a un minimo di potere sulle proprie vite, a un lavoro e un'esistenza decenti, non sembra in verità passato oltre un secolo da quando Marx scriveva: La produzione capitalistica ... è estremamente parsimoniosa di lavoro materializzato, oggettivato in merci. Essa è invece, molto piú di ogni altro modo di produzione, una dilapidatrice di uomini, di lavoro vivente, una dilapidatrice non solo di carne e di sangue ma pure di nervi e cervelli. In realtà, è per mezzo del piú mostruoso sacrificio dello sviluppo degli individui che soprattutto si assicura e realizza lo sviluppo dell'umanità in quest'epoca storica.... Decenni prima lo stesso autore aveva già fulmineamente sintetizzato il rapporto inverso che si osserva tra valore economico e sviluppo dell'uomo: «La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose». Il finanzcapitalismo, piú di ogni fase precedente del capitalismo, è votato a trasformare gli esseri umani in robot, ossia in servo-meccanismi, oppure in esuberi, ma la sua azione non si arresta qui. Esso preclude loro la possibilità di sviluppare pienamente le potenzialità intellettive e affettive che in essi albergano, privandoli cosí di un diritto che dovrebbe essere inalienabile. Generando nel contempo un altro gravissimo danno, giacché, come ha scritto un filosofo che forse piú di ogni contemporaneo ha prolungato l'argomentazione di Marx allo stato attuale del mondo, «se l'irresponsabile saccheggio del pianeta compromette la sopravvivenza dell'umanità, l'irresponsabile saccheggio dell'umanità priva di innumerevoli energie la salvaguardia del pianeta». Una seconda modalità di soggettivazione, predominante nel miliardo di persone che vivono nei paesi avanzati, ma non piú esclusivamente in loro, è rappresentata dalla totale interiorizzazione della razionalità neoliberale nella struttura della personalità. Il modello calcolatorio e contabile dell'uomo economico non permea in esse soltanto l'io, l'istanza preposta a perseguire razionalmente gli scopi. Ha plasmato al tempo stesso l'es, le pulsioni istintuali, da un lato; e, dall'altro, le istanze morali, comprese quelle di ascendenza religiosa, che formano il super-io. Per questo gli va attribuita la complessione di una fede. In una simile struttura di personalità estesa, o carattere sociale, la subordinazione di qualsivoglia azione al calcolo costi-benefici - sia essa inerente all'economia, alla politica, agli affetti, alle relazioni sociali, alla cultura, alla religione, alla famiglia - non sottostà solamente al riconoscimento che la razionalità del mercato non deve avere alcuna limitazione. Essa gode anche di una intensa legittimazione morale, sufficiente a impedire non diciamo di apprezzare, ma anche solo di ammettere l'esistenza di altre forme di razionalità, a cominciare dalla razionalità oggettiva.
Il suddetto carattere, una volta formato, non è modificabile gradualmente né
dall'insegnamento né dall'esperienza.
Può soltanto andare bruscamente in crisi. Si tratta di capire
fino a che punto la crisi in essere della civiltà-mondo, di cui,
tale carattere è intimamente parte, dovrà avanzare prima di
costringerlo a riconoscere la propria insostenibilità. Quando
tale riconoscimento avvenisse su larga scala, la mega-macchina del
finanzcapitalismo si troverebbe rapidamente privata
delle servo-unità umane indispensabili al suo funzionamento.
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