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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione. Quel che resta del futuro: riflessioni su Chomsky (Andrea Moro) 7 Nota del traduttore 23 1. Scienza, mente e limiti della comprensione 25 2. L'architettura del linguaggio e la sua importanza per l'evoluzione 47 3. Alcuni concetti chiave controversi 75 Bibliografia 115 |
| << | < | > | >> |Pagina 7È un esercizio che in tanti facciamo e in tantissimi ambiti della vita: chiedersi cosa rimarrà del presente. Il dominio che comprende lo studio del linguaggio umano non ne è affatto esente, tanto più che proprio questo tema costituisce una specie di filo rosso non interrotto che caratterizza il pensiero di ogni epoca. Anzi, direbbero gli eruditi, la domanda sul linguaggio umano è la vera questione omerica dell'umanità: quella che incorpora di volta in volta la visione dominante, la influenza e ne svela quei tratti essenziali che talvolta non ci si cura di rendere espliciti, o per negligenza o perché appaiono talmente scontati da non dover essere nemmeno menzionati. Cosa rimarrà di quello che sappiamo del linguaggio umano oggi? [...] Il primo contributo è stato quello di far rientrare la linguistica, in particolare la sintassi, nell'ambito delle scienze sperimentali. Il pregiudizio corrente, sviluppato soprattutto in domini di ricerca indipendenti da quello della linguistica (vale a dire l'ingegneria della comunicazione e la cosiddetta "cibernetica", per usare un termine allora in voga oggi sostituito con espressioni eterogenee e spesso confuse come "intelligenza artificiale"), era che la struttura di qualsiasi lingua umana - vale a dire le dipendenze sintattiche tra le parole di ogni frase - fosse catturabile in modo automatico, sulla base di una ricognizione statistica algoritmica e che, simmetricamente, la stessa ricognizione fosse l'unico strumento per mezzo del quale tutti gli infanti - letteralmente, coloro che non parlano ancora - apprendono la loro lingua madre. | << | < | > | >> |Pagina 13[...] Questa potente visione delle lingue come variazioni di un unico tema, simile all'unificazione avvenuta in biologia con l'avvento della genomica, ha avuto ovviamente un impatto enorme in ogni settore, incluso quello antropologico; per esempio, dissolve la distinzione di qualità tra le lingue, residuo subdolo della nozione di razza. Malgrado le differenze superficiali e apparenti, tutti parliamo praticamente la stessa lingua così come tutti abbiamo la stessa faccia - oppure tutti parliamo una lingua diversa, se vogliamo sostenere che abbiamo tutti facce diverse - e di conseguenza non possiamo che percepire la realtà in un unico modo. D'altronde, se non fosse così, come spiegare il fatto che i bambini imparano mediamente qualunque lingua nello stesso lasso di tempo? [...]Il terzo contributo, in un certo senso indiretto, è stato quello di permettere per la prima volta di pensare come associare le strutture formali della sintassi con le strutture neurobiologiche del cervello. La situazione in questo caso è complessa e per certi versi contraddittoria. [...] Oggi, di fatto, non è più possibile indagare le basi neurobiologiche della sintassi senza far riferimento alla linguistica formale, in particolare alla grammatica generativa, né la linguistica può ignorare i risultati delle neuroscienze per proseguire nella descrizione della struttura del linguaggio [...] Dunque, se non si vuole avere una visione semplicistica e fondamentalmente falsa della linguistica contemporanea e in definitiva del linguaggio, occorre ricordarsi che tutti i dati empirici sono pertinenti e potenzialmente validi: da quelli storici e diacronici a quelli sincronici, da quelli sociolinguistici a quelli stilistici, da quelli dedotti dai corpora a quelli letterari, da quelli relativi all'acquisizione a quelli afasiologici, da quelli matematici e logici a quelli neurofisiologici e perfino fisici, se si includono i lavori sulla struttura ondulatoria del codice elettrofisiologico del linguaggio (Moro, 2016). E anche della consapevolezza di questo orizzonte sterminato, questi scritti di Chomsky sono una testimonianza lucida e innovativa. Lungi dal creare false aspettative, Chomsky considera la possibilità che, a fronte di misteri che ci si può ragionevolmente aspettare di veder risolti in tempi relativamente brevi con l'avanzare della ricerca, esistano anche misteri per sempre inaccessibili come, forse, proprio quello della nascita del linguaggio nella nostra specie: il vero big bang che ci riguarda (Moro, 2012; Mancini, 2013; Everaert et al., 2017). | << | < | > | >> |Pagina 47L'indagine sull'evoluzione di alcuni sistemi può avanzare, chiaramente, solo nella misura in cui se ne comprende la natura. Non meno chiaramente, senza una comprensione attenta della natura fondamentale di un certo sistema, le sue manifestazioni appariranno caotiche, altamente variabili e mancanti di proprietà generali. Conformemente a ciò, non si potrebbe affrontare in modo serio uno studio sulla sua evoluzione. Una ricerca di questo tipo, com'è ovvio, deve anche rimanere il più fedele possibile a quanto già conosciamo sulla storia dell'evoluzione. Queste verità ovvie valgono per lo studio della facoltà di linguaggio dell'essere umano, così come per gli altri sistemi biologici. Le proposte presenti in letteratura possono essere valutate in base alla loro aderenza a queste restrizioni elementari. Il problema dell'evoluzione del linguaggio è emerso a metà del XX secolo, quando vennero compiuti i primi sforzi per costruire una spiegazione del linguaggio come di un oggetto biologico interno a un individuo, cogliendo così quella che potremmo definire la proprietà di base del linguaggio umano: ogni linguaggio genera un insieme infinito e discreto di espressioni strutturate gerarchicamente, con interpretazioni sistematiche alle interfacce con gli altri due sistemi interni, il sistema sensorimotorio per l'esternalizzazione e il sistema concettuale per le inferenze, le interpretazioni, la pianificazione, l'organizzazione dell'azione e altri elementi di ciò che informalmente è chiamato "pensiero". L'approccio generale al linguaggio che adotta queste linee guida è stato chiamato programma biolinguistico. Nella terminologia corrente, il linguaggio interpretato in questi termini è chiamato interno, o I-linguaggio. In virtù della sua proprietà di base, ogni I-linguaggio è un sistema di "segni acustici per il pensiero", per citare il grande indoeuropeista dell'Ottocento William Dwight Whitney (1873) - sebbene ora sappiamo che l'esternalizzazione non richiede di essere ristretta alle modalità articolatorie-uditive. Per definizione, la teoria di un I-Iinguaggio è la sua grammatica generativa e la teoria generale degli I-linguaggi è la grammatica universale (GU), adattando le nozioni tradizionali al nuovo contesto. La GU è la teoria della componente genetica della facoltà del linguaggio, la capacità che rende possibile acquisire e utilizzare un particolare I-Iinguaggio. La GU determina la classe di meccanismi generativi che soddisfano la proprietà di base e gli elementi atomici che entrano nella computazione. Questi elementi atomici costituiscono un mistero profondo. Gli elementi minimi che veicolano significato nel linguaggio umano - simili alle parole, ma che non sono parole - sono radicalmente differenti da qualsiasi altra cosa conosciuta nei sistemi di comunicazione animale. La loro origine è completamente oscura e questo costituisce un problema molto serio per l'evoluzione delle capacità cognitive umane e per il linguaggio in particolare. Su questi temi ci sono alcune intuizioni che risalgono ai presocratici, riprese poi da importanti filosofi all'inizio della rivoluzione scientifica moderna e dell'Illuminismo, e ulteriormente sviluppate in anni più recenti, sebbene rimangano non sufficientemente esplorate. In realtà il problema, che è importante, non è sufficientemente riconosciuto e capito. Un'attenta analisi mostra come dottrine ampiamente diffuse sulla natura di questi elementi siano in realtà insostenibili, in particolar modo la diffusissima dottrina del riferimento, secondo cui le parole identificano oggetti esterni alla mente. Ci sarebbe molto da dire in proposito, ma sorvolerò - va notato ancora una volta, tuttavia, che i problemi posti per l'evoluzione della cognizione umana sono molto più difficili di quanto non sia generalmente riconosciuto. È stato possibile studiare realmente la seconda componente della GU, cioè la teoria dei meccanismi generativi, per la prima volta a partire dalla metà del XX secolo. A quell'epoca, i lavori di Gödel , Turing , Church e altri avevano fondato su basi solide la teoria generale della computazione, rendendo possibile lo studio della grammatica generativa con una comprensione abbastanza chiara di che cosa ci fosse in gioco. I meccanismi generativi che costituiscono gli I-linguaggi devono soddisfare determinate condizioni empiriche: almeno alcune di queste sono apprendibili, la capacità di acquisire e utilizzare gli I-linguaggi si è ovviamente evoluta. | << | < | > | >> |Pagina 64Questi risultati suggeriscono che il linguaggio si sia evoluto per il pensiero e l'interpretazione: si tratta essenzialmente di un sistema per il significato. Il classico motto di Aristotele per cui il linguaggio è un suono con un significato dovrebbe, perciò, essere invertito: il linguaggio è un significato con un suono (o qualche altra forma di esternalizzazione, oppure nessuna). Chiaramente l'uso della particella con è ricco d'implicazioni.L'esternalizzazione al livello sensorimotorio, perciò, è un processo accessorio che riflette le proprietà della modalità sensoriale utilizzata e che presenta disposizioni diverse se la comunicazione è vocale o dei segni. Da ciò seguirebbe anche che la dottrina moderna secondo la quale la comunicazione è in qualche modo la "funzione" del linguaggio è sbagliata; all'opposto, la concezione tradizionale del linguaggio come uno strumento del pensiero è più vicina alla verità. Il linguaggio è realmente un sistema di "segni acustici per il pensiero", per citare le parole di Whitney che esprimevano una visione tradizionale. La concezione moderna che la comunicazione sia la "funzione" del linguaggio (qualsiasi cosa significhi) deriva probabilmente dalla falsa credenza che il linguaggio debba essersi evoluto, in qualche modo, dalla comunicazione animale, nonostante una tale conclusione non sia sostenuta dalla biologia evolutiva come già notato da Lenneberg mezzo secolo fa. Inoltre, le prove disponibili sono fortemente contrarie a questa visione: praticamente in tutti gli aspetti più importanti, dal significato delle parole alla proprietà di base, dalla acquisizione all'utilizzo, il linguaggio umano appare radicalmente diverso dai sistemi di comunicazione animale. Si potrebbe speculare che la concezione moderna derivi anche dalle persistenti tendenze behavioriste, le quali hanno poco valore. Quali che siano le ragioni che si considerano, le prove disponibili sono comunque a favore della visione tradizionale che il linguaggio sia fondamentalmente un sistema del pensiero. Ci sono ulteriori prove sostanziali a sostegno di questa conclusione. Va notato ancora che l'operazione computazionale ottimale, Merge, non impone alcun ordine agli elementi combinati. Ne consegue che le operazioni mentali che coinvolgono il linguaggio dovrebbero essere indipendenti dall'ordine, che è un riflesso del sistema sensorimotorio. Quando parliamo dobbiamo imporre un ordine lineare alle parole: il sistema sensorimotorio non permette la produzione in parallelo né la produzione di elementi strutturati. Questo sistema era sostanzialmente presente molto prima che emergesse il linguaggio e sembra avere poco a che fare con quest'ultimo. Come ho detto in precedenza, quando viene prodotto il linguaggio le scimmie sentono solo rumori, pur avendo all'incirca lo stesso sistema uditivo dell'uomo; al contrario, un neonato umano estrae immediatamente i dati rilevanti del linguaggio dall'ambiente rumoroso circostante, usando la facoltà di linguaggio, unica dell'essere umano, che è molto più radicata in profondità nel cervello. | << | < | > | >> |Pagina 71Per sintetizzare brevemente, la conclusione più auspicabile sulla natura del linguaggio è che i suoi principi base siano estremamente semplici, e forse ottimali persino per i sistemi computazionali. Questo era l'obiettivo perseguito dalla grammatica generativa sin dai suoi albori nella metà del XX secolo. A quel tempo sembrava irraggiungibile, ma oggi lo è molto meno. Da quell'assunto ottimale derivano alcune conclusioni empiriche alquanto interessanti. Vediamo che il movimento sintattico, ben lontano dall'essere un'anomalia misteriosa, è nei fatti una proprietà attesa di un linguaggio perfetto. Inoltre l'architettura ottimale dei sistemi conduce alla capacità di generare lo spostamento tramite la costruzione di copie, producendo interpretazioni semantiche piuttosto ricche e complesse. Otteniamo anche una spiegazione immediata del fatto misterioso per cui il linguaggio ignora le proprietà semplici dell'ordine lineare e dipende uniformemente da quelle più complesse della distanza strutturale in tutte le lingue e in tutte le costruzioni. Abbiamo anche una spiegazione del fatto evidente che la diversità, la complessità e la malleabilità del linguaggio siano per lo più - se non interamente - localizzate in un sistema esterno, accessorio ai processi interni più profondi della struttura del linguaggio e dell'interpretazione semantica.Se tutti questi elementi vanno nella giusta direzione, allora è facile riconoscere come il linguaggio sia ben progettato per l'efficienza computazionale e per l'espressione del pensiero, cosa che però pone problemi per l'utilizzo e, in particolare, per la comunicazione. Un linguaggio del genere è, in sostanza, uno strumento del pensiero, come si assume tradizionalmente. Chiaramente, il termine "progettato" è una metafora e significa che è il processo evolutivo più semplice e coerente con la proprietà di base del linguaggio umano a generare un sistema di pensiero e di comprensione; questo è computazionalmente efficiente poiché non ci sono pressioni esterne che ne impediscano il risultato ottimale. | << | < | > | >> |Pagina 75Mi è stato chiesto di intervenire brevemente sui concetti chiave più importanti nello studio del linguaggio dell'epoca moderna, molti dei quali profondamente controversi, spesso - a mio parere - su basi dubbie. Sono molte le domande che possiamo porci sul linguaggio. Quella fondamentale è certo la seguente: che cos'è il linguaggio? Nella misura in cui riusciamo a comprenderlo, possiamo procedere allo studio di altre domande significative. Mancando questo, la ricerca risulterebbe inevitabilmente limitata. Nessun biologo, per esempio, cercherebbe di studiare lo sviluppo dell'evoluzione dell'occhio senza un'idea assolutamente chiara di che cosa sia un occhio e della sua natura essenziale. Non sarebbe sufficiente dire: "È usato per leggere" - oppure, rispetto al linguaggio, che è usato per comunicare (tra le altre cose). Chi ha familiarità con l'ambito della linguistica si sarà reso conto che siamo già entrati in un terreno altamente controverso - inutilmente, ritengo. Sulla base di una descrizione provvisoria di che cosa sia il linguaggio - più sarà condotta su vasta scala, meglio sarà - possiamo porci ulteriori domande, come la seguente: in che modo i suoi concetti, principi e risultati plasmano la ricerca sull'acquisizione, sull'uso, sulla rappresentazione neurale, sul cambiamento storico e sull'evoluzione? Viceversa, ciò che si apprende su questi temi può portare a una riformulazione della teoria sul linguaggio (Chomsky, 1986, 1995, 2001). La gerarchia logica di queste domande non determina certo l'ordine di ricerca al loro interno. È piuttosto curioso vedere con quanta noncuranza sia trattata la domanda fondamentale nei testi classici o, di fatto, al giorno d'oggi, quando dovremmo almeno riformularla nel seguente modo: quali condizioni dovrebbe soddisfare la migliore teoria sul linguaggio? | << | < | > | >> |Pagina 79Nelle osservazioni che seguono, con linguaggio mi riferirò all' I-linguaggio, un oggetto biologico interno a un individuo e considerato in intensione. Siamo, cioè, interessati alla natura reale del sistema, non solo alle sue manifestazioni esterne. Adattando la terminologia di David Marr per i sistemi di elaborazione, tale studio dell'I-linguaggio può muoversi al livello della computazione, dell'algoritmo, del meccanismo; tutti elementi ovviamente interconnessi.Un altro concetto presente in letteratura è quello di E-linguaggio. Devo assumermi la responsabilità per il vocabolo, ma non per i modi in cui è convenzionalmente utilizzato, che non mi sembrano coerenti. A volte sembra inteso più che altro nel senso concettuale di "totalità dei proferimenti" di Bloomfield-Quine ma, come ho detto prima, tale concetto presuppone alcuni processi generativi finiti e codificati a livello neurale; inoltre, se anche fosse così, non sarebbe chiaro che non possa essere determinato alcun insieme ben definito, per motivi ampiamente discussi più di mezzo secolo fa. Fra le varie concezioni del linguaggio, quella di I-linguaggio è unica poiché non presuppone nessuna delle altre ed è presupposta, anche solo tacitamente, da ciascuna di esse. Ogni concezione del linguaggio presuppone almeno che ci siano utenti individuali e che questi utilizzino il loro linguaggio in virtù di alcuni stati interni (perlopiù) dei loro cervelli - cioè, un I-linguaggio compreso all'interno di quello che oggi viene chiamato il programma biolinguistico. Con tutta probabilità, i prossimi studi sul linguaggio saranno significativi nella misura in cui il concetto di I-linguaggio che presuppongono sarà adeguato ai loro scopi. La proprietà fondamentale dell'I-linguaggio è quella di essere un sistema "a infinità discreta". Lo studio dell'I-linguaggio ricade perciò all'interno della teoria della computazione (teoria della macchina di Turing, teoria delle funzioni ricorsive). Un I-linguaggio può essere considerato (come minimo) una procedura computazionale che produce un insieme illimitato di espressioni strutturate gerarchicamente, alle quali è assegnata un'interpretazione a due interfacce con gli altri sistemi interni, il sensorimotorio (SM) e il concettuale-intenzionale (CI) - approssimativamente suono e pensiero, sebbene la ricerca sulle lingue dei segni ci ricordi che il suono è solo una delle esternalizzazioni del SM (Neidle et al., 2000). Le procedure computazionali di questo tipo sono chiamate procedure generative. Assumendo che il termine grammatica si riferisca alla teoria del linguaggio, allora lo studio dell'I-linguaggio sarà chiamato grammatica generativa. Anche questo concetto è controverso, spesso considerato sbagliato o, nel migliore dei casi, come solo uno dei numerosi approcci, concorrenti tra loro, al linguaggio. Vediamo più da vicino queste idee. | << | < | > | >> |Pagina 89Rivolgiamoci ora all'acquisizione del linguaggio. Come lo sviluppo di ogni sistema organico, essa coinvolge diversi fattori: (i) dati esterni, (ii) patrimonio genetico, (iii) principi più generali. Il fattore (ii) include: (a) elementi specifici del linguaggio (GU), (b) altri sistemi cognitivi, (c) vincoli imposti dalla struttura del cervello, sui quali a oggi non si sa abbastanza perché siano d'aiuto. L'esistenza di questi fattori è considerata indiscutibile, con una sola eccezione: (iia), la GU. Tuttavia, questo deve riflettere un fraintendimento. Nessuna persona ragionevole può credere che non esistano delle basi genetiche, per il fatto che solamente un neonato umano, e nessun altro organismo, estrae dall'ambiente i dati riguardanti il linguaggio, istantaneamente e senza fatica, raggiungendo velocemente una ricca competenza linguistica in modo sostanzialmente comparabile; di nuovo, questa è un'impresa completamente fuori dalla portata degli altri organismi, anche nei suoi aspetti rudimentali. Tuttavia, negare l'esistenza della GU implica questo. La stessa conclusione reggerebbe anche se si adottasse l'idea che alcune disposizioni degli elementi di (iib), altri sistemi cognitivi, fossero sufficienti a spiegare questi risultati. Lasciando da parte la sua implausibilità e la mancanza di prove empiriche o di basi concettuali, una tale convinzione richiederebbe ancora l'esistenza di un qualche fattore in (iia) che implementi questa organizzazione. Lo stesso risulterebbe vero supponendo che sia la memoria di dimensioni astronomiche ciò che differenzia gli essere umani dagli altri organismi - sebbene non ci sia la minima prova di questa incredibile, ma non rara, supposizione (e, infatti, certi organismi eseguono imprese mnemoniche assolutamente impossibili per gli esseri umani, come per esempio le ghiandaie quando nascondono i semi; Clayton et al., 2006).Altri approcci di tendenza attribuiscono questi risultati alla "cultura", una proposta che traduce con un cattivo termine una sostanziale incomprensione, o alla "teoria della mente", sebbene i bambini autistici con un deficit profondo in teoria della mente (Baron-Cohen et al., 1985) possano acquisire una ricca competenza linguistica (e, nei fatti, gran parte dell'acquisizione del linguaggio avviene prima che un bambino mostri alcun segno di aver sviluppato la teoria della mente), e sebbene non sia stato indicato alcun meccanismo che conduce dalla "teoria della mente" alle strutture specifiche del linguaggio. Oppure, questi risultati possono essere attribuiti alla "statistica", lasciando praticamente tutto in un mistero totale, sebbene nessuno abbia mai dubitato, fin dai primi lavori di grammatica generativa degli anni Cinquanta, che l'analisi statistica possa essere effettivamente coinvolta. Questi commenti possono sembrare duri, ma potrebbe essere istruttivo chiedersi se siano giustificati. Il rifiuto della GU è talvolta dovuto alla confusione tra la GU - la base genetica dell'I-linguaggio - e gli universali linguistici, come quelli discussi nell'importante raccolta di Greenberg (1966). Questi ultimi sono delle generalizzazioni e possono quindi avere delle eccezioni. La GU non ha eccezioni, escluse le parti più periferiche. Il carattere essenzialmente privo di eccezioni della GU non è insignificante. Un motivo è che ci dice perlomeno qualcosa sull'evoluzione del linguaggio - e c'è ben poco da aggiungere di sostanziale. Ci dice che fondamentalmente non c'è stata alcuna evoluzione della facoltà di linguaggio, almeno nei circa 50.000 anni trascorsi da quando si presume che i nostri antenati abbiano lasciato l'Africa. La prova di ciò è sostanziale. In questo modo i neonati delle tribù dell'Amazzonia imparano senza difficoltà il portoghese e, se portati a New York, parlerebbero i dialetti locali in modo indistinguibile dai nativi; e viceversa. Ne consegue che la loro facoltà di linguaggio - la GU - non è cambiata. L'osservazione può essere generalizzata, senza limiti per quanto si sappia oggi. Questo potrebbe risultare sorprendente per chi crede - spesso, pare, sulla base esclusiva di fraintendimenti della teoria moderna dell'evoluzione - che il linguaggio debba essersi evoluto a piccoli passi in un lungo periodo. Invece è piuttosto in linea con l'assunto, molto più plausibile secondo la mia opinione, che le sue proprietà centrali siano piuttosto emerse d'improvviso (nel tempo evolutivo) da alcuni "ricablaggi" probabilmente limitati del cervello. Chiaramente c'è un mutamento storico costante, ma è una questione molto diversa. Il mutamento storico non va confuso con l'evoluzione. Almeno nel senso tecnico del termine evoluzione, le lingue non evolvono affatto, sebbene effettivamente cambino nel tempo. I parlanti si evolvono ma, per quanto riguarda la facoltà di linguaggio, ciò sembra non accadere da decine di migliaia di anni, e forse non è accaduto affatto dalla comparsa dell' Homo sapiens, cognitivamente moderno, avvenuta - a quanto pare - non molto tempo prima che cominciasse a lasciare l'Africa. | << | < | > | >> |Pagina 108Queste conclusioni trovano un grande supporto empirico in molte lingue e sono anche conformi a quel poco che plausibilmente possiamo ipotizzare sull'evoluzione. L'emergere del linguaggio ha richiesto almeno la comparsa di un meccanismo computazionale che generasse una gerarchia infinita di espressioni collegate al sistema concettuale-intenzionale - perciò Merge, nel caso più semplice possibile. Questo avrebbe richiesto alcuni "ricablaggi" del cervello, presumibilmente avvenuti tramite una piccola mutazione - ovviamente in un individuo, non in un gruppo. Quell'individuo avrebbe avuto la capacità di pensare, di pianificare, di interpretare e così via. Col passare delle generazioni questa capacità potrebbe aver proliferato attraverso un piccolo gruppo di nomadi cacciatori/raccoglitori, in modo tale da ipotizzare che ci sia stato un senso nell'aver sviluppato modelli di esternalizzazione - un compito difficile che può essere risolto in molti modi nel corso del tempo, dando luogo a quella che, superficialmente, parrebbe essere una grande varietà di lingue, ma, com'è sempre più chiaro per il linguaggio e più in generale per la biologia, con un'architettura interna che è cambiata di poco, se non di nulla.
Queste mi sembrano all'incirca le sole conclusioni credibili che possano
essere tratte a proposito dell'evoluzione della facoltà umana del linguaggio,
sebbene si possa certamente inventare ogni sorta di
racconto su quanto può essere successo.
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