Copertina
Autore Marcello Cini
Titolo Il supermarket di Prometeo
SottotitoloLa scienza nell'era dell'economia della conoscenza
EdizioneCodice, Torino, 2006 , pag. 458, cop.ril.sov., dim. 14,5x21,5x3 cm , Isbn 978-88-7578-058-6
LettoreCorrado Leonardo, 2007
Classe epistemologia , scienze naturali , scienze sociali , biologia , economia politica , filosofia , storia della scienza , evoluzione , relativismo-assolutismo
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Indice

    Prologo
 ix La scienza moderna e il suo contesto

  3 Parte I. Dalla conoscenza della natura
             al dominio sulla materia vivente

    Capitolo 1
  5 Le categorie della conoscenza

    Capitolo 2
 73 Dall'universo delle leggi naturali
    al mondo della complessità

157 Parte II. Da Lucy a Dolly

    Capitolo 3
159 L'evoluzione delle società umane

    Capitolo 4
229 Le nuove tecnologie

    Capitolo 5
259 Barriere che cadono

307 Parte III. Dalla conoscenza del mondo
               all'economia della conoscenza

    Capitolo 6
309 Dove andiamo?

    Capitolo 7
367 L'economia della conoscenza

    Epilogo
417 Come finirà?

429 Appendice 1

433 Appendice 2

439 Appendice 3

443 Appendice 4

445 Ringraziamenti

447 Bibliografia

453 Indice analitico

 

 

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Pagina ix

Prologo

La scienza moderna e il suo contesto


Gli dei infatti tengon nascosto agli uomini il sostentamento ché facilmente allora potresti lavorare un solo giorno e per un anno ne avresti anche restando nell'ozio presto il timone lo potresti appendere sul fumo e sarebbe finito il lavoro dei buoi e dei muli pazienti; ma Zeus lo nascose adirato dentro il suo cuore. Perché Prometeo dagli astuti pensieri lo aveva ingannato per questo meditò agli uomini tristi sciagure: nascose il fuoco; ma ancora di Iapeto il figlio valente lo rubò per gli uomini a Zeus dai saggi consigli di nascosto a Zeus fulminatore in una ferula cava. A lui Zeus che aduna le nuvole disse adirato: "O figlio di Iapeto, tu che fra tutti nutri i pensieri più accorti, tu godi del fuoco rubato e di avermi ingannato, ma a te un gran male verrà, e anche agli uomini futuri". Esiodo


Quattro secoli di modernità

Ogni secolo – parlo degli ultimi quattro trascorsi dalla nascita della scienza moderna – ha avuto una fisionomia che lo caratterizza. Una fisionomia che emerge dal tessuto connettivo nel quale s'intrecciano i fili delle molteplici attività sociali e dei conflitti che le agitano, delle categorie adottate per ordinare la natura e la società, delle diverse forme della conoscenza e dei saperi. Ho sempre trovato assurdo, per esempio, che nelle scuole secondarie superiori, alla pur necessaria frammentazione delle "materie", non faccia da contrappeso una figura di coordinamento e di unificazione culturale, secolo per secolo. Come se non ci fosse un legame stretto, per esempio nel Seicento, fra la fisica di Galileo , la crisi della filosofia tomistico-aristotelica e le scoperte geografiche; oppure, nell'Ottocento, fra la Rivoluzione industriale, la formulazione della grandi leggi della natura, la filosofia positivista, il romanzo come forma letteraria e la formazione degli stati nazionali.

Detto questo, viene spontaneo allora domandarsi: perché è proprio il secolo a scandire questa periodizzazione? Ovviamente non c'è una riposta unica ed evidente a questa domanda. Proverò ad azzardare un'ipotesi. Anzitutto però occorre capire se questa regolarità sia apparente o reale. È la società che mantiene una sua fisionomia per un centinaio di anni, e poi la cambia nel giro di un intervallo di tempo relativamente breve, ricominciando poi il successivo periodo di stasi seguito dal successivo mutamento, oppure siamo noi che scegliamo d'interpretare un flusso più o meno continuo di trasformazioni graduali come successione di periodi relativamente stabili separati da rapidi e improvvisi cambiamenti di scenario?

Personalmente credo che in tutti i processi evolutivi, come Niles Eldredge e Stephen Gould ci hanno insegnato attraverso la ricostruzione dell'evoluzione biologica in termini di equilibri punteggiati e come Thomas Kuhn ha suggerito che accada per le rivoluzioni scientifiche, l'alternanza tra lunghi periodi di stasi e brevi fasi di mutamento sia un fatto oggettivo. Nei fenomeni sociali, tuttavia, credo che la componente oggettiva e quella soggettiva - parlo di soggettività collettiva, cioè della cultura diffusa - s'intreccino strettamente. Accanto a discontinuità strutturali macroscopiche relativamente improvvise, dovute all'accumularsi di piccoli cambiamenti che rendono a un certo momento instabile l'equilibrio del sistema, portandolo ad assumerne un altro a sua volta stabile, troviano anche alcuni avvenimenti che vengono assunti nell'immaginario collettivo, per una specie di brusco "spostamento gestaltico", come pietre miliari di svolte epocali.

Una radice comune di entrambi questi fenomeni potrebbe trovarsi in una scansione naturale del tempo rappresentata dal quarto di secolo che separa mediamente la maturità di una generazione da quella della generazione successiva. Dunque, dopo l'accadere di rivolgimenti che hanno mutato gli assetti che regolano la formazione sociale che ha l'egemonia in una data fase storica, ci vogliono due generazioni per perderne la memoria collettiva. La terza si trova perciò ad affrontare, con mente sgombra da esperienze direttamente vissute o direttamente assorbite dall'educazione familiare e scolare, i problemi che nel frattempo sono andati accumulandosi e che l'inerzia del sistema non è in grado di gestire.

Essa si trova perciò nella condizione di poter elaborare nuove categorie concettuali per affrontarli e di dover creare nuove forme organizzative per tradurre in azione le prospettive di trasformazione così individuate, impegnandosi nello scontro con le vecchie istituzioni e gli interessi che le sorreggono. Ci vuole infine un'altra generazione perché i conflitti generati da questo scontro vengano risolti conducendo all'adozione di nuovi assetti.

Ognuno dei quattro secoli nei quali si è articolata l'evoluzione della civiltà occidentale moderna si sviluppa secondo queste successive fasi, cioè nasce accompagnato dai segnali di nuovi fermenti sociali, economici e culturali, culmina verso la sua metà con nuovi assetti istituzionali raggiunti attraverso conflitti anche aspri con le strutture di potere ereditate da quello precedente e si conclude a sua volta generando quei fermenti che costituiranno l'identità del secolo successivo, caratterizzata da nuove forme del rapporto degli uomini tra loro e con la natura.

Così il Seicento, il secolo che porta alla nascita del capitalismo, ha origine con una nuova visione del mondo che è frutto al tempo stesso dell'affermazione del protestantesimo, dell'espandersi dei traffici marittimi, delle innovazioni tecniche nella manifattura e nei trasporti e della nascita della scienza galileiana; culmina con lo spostamento verso l'Europa del nord del baricentro del potere economico e culturale sancito dalla pace di Westfalia (1648) che chiude la Guerra dei trent'anni. Il secolo si conclude con il germogliare, agli inizi del Settecento, del pensiero illuminista. A sua volta quest'ultimo conduce allo sviluppo della filosofia moderna e della scienza newtoniana e stimola la crescita della tecnica (la macchina a vapore) che sta alla base della prima Rivoluzione industriale, sfociando al suo termine nelle rivoluzioni borghesi della Francia e dell'America. Questi eventi conducono a loro volta alla piena egemonia della borghesia nell'Ottocento, che culmina alla sua metà con la formazione degli stati nazionali. È sotto questo donino che si compie il pieno sviluppo della Rivoluzione industriale e si arriva alla scoperta delle grandi leggi della natura. Il secolo si conclude con la nascita del proletariato, che sarà a sua volta, con i suoi ideali di una società più libera e giusta, le sue teorie economiche e sociali, le sue organizzazioni politiche di lotta e di governo, il protagonista del grande e drammatico conflitto tra lavoro e capitale che caratterizza il Novecento.

Ancora una volta il ciclo secolare ricomincia. Stiamo infatti vivendo, all'alba del XXI secolo, una crisi degli assetti politici, sociali ed economici ereditati dal Novecento, indotta dall'unificazione del mercato mondiale sotto le regole dell'economia capitalistica e dalla pressione del potere politico e militare degli Stati Uniti: un'unificazione resa possibile dal vorticoso sviluppo scientifico e tecnologico che ha coinvolto tutto l'arco delle attività umane.

Nel pieno di questa crisi, alcuni deboli e confusi segnali, provenienti da tutti gli angoli del pianeta, esprimono già il bisogno urgente di contrastare le conseguenze sociali più laceranti e più gravide di pericoli di questo processo di globalizzazione e indicano che sono in gestazione embrioni di forme diverse di sviluppo, miranti a invertire la sua manifesta tendenza alla crescente drammatica divaricazione tra gli abitanti più ricchi e quelli più poveri del mondo, e alla progressiva distruzione dell'ambiente naturale e delle sue risorse. Tuttavia questi embrioni non sono ancora abbastanza definiti da indicare con certezza la strada da imboccare, né sufficientemente forti da riuscire ad aggregare forze in grado di avviare i cambiamenti necessarie.

È impossibile prevedere come questa fase si svilupperà e quale sarà la conclusione di questa crisi. Mi sembra comunque importante ribadire che la costruzione di nuove e più eque forme di convivenza civile tra i popoli della Terra dovrà essere strettamente legata all'acquisizione da parte della nostra specie della capacità di convivere, assieme alle altre specie viventi generate da tre miliardi di anni di evoluzione della biosfera, nella casa comune che abbiamo ereditato.


L'identità di ogni secolo

Per cercare di capire la natura della crisi che stiamo attraversando, converrà cercare di approfondire meglio analogie e differenze con quanto è accaduto in passato. Una lettura dei conflitti che hanno segnato la fisionomia degli ultimi due secoli, degli interessi che li hanno generati e delle idee che li hanno guidati può aiutarci a questo scopo.

Il punto di vista che mi propongo di adottare per capire i fenomeni sociali che stiamo vivendo oggi - caratterizzati da uno sviluppo della scienza e della tecnologia sempre più invasivo di tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva - consiste nel cercare di cogliere la relazione che lega le diverse forme del dominio dell'uomo sulla natura (pensiero scientifico e prassi tecnologica) con i mutamenti intervenuti nei diversi aspetti - economici, culturali, politici - del tessuto sociale.

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Pagina xxiv

Piano del libro

Come ho cercato di spiegare in questo Prologo, questo libro è dichiaratamente di parte. Il suo scopo non è quello di fornire una visione il più possibile completa delle svariate discipline che compongono il quadro della scienza contemporanea, né quello di esporre in modo equilibrato i diversi punti di vista a confronto al loro interno; ma quello di selezionare e presentare quei contributi che mi appaiono in risonanza con il mio modo di guardare e interpretare il mondo, e mi forniscono gli elementi per trovare possibili risposte alle domande sollevate dai problemi sociali che mi sembrano più urgenti.

In estrema sintesi: da un lato mi propongo di mostrare come il pensiero evolutivo sia la bussola epistemologica che sta orientando la scienza del XXI secolo a produrre una conoscenza - di natura molto diversa da quella che ci aveva dato la scienza dei quattro secoli precedenti - più adeguata a cogliere la complessità della realtà esterna e interna a noi, e a rappresentare la dipendenza delle proprietà di ogni sua parte dalla propria storia e dal proprio contesto. Dall'altro, voglio far vedere come la rotta tracciata dal cieco meccanismo di mercificazione della conoscenza che caratterizza il capitalismo del XXI secolo stia portando la scienza in tutt'altra direzione: in sostanza, impedisce che essa possa contribuire a migliorare la qualità della vita di tutta l'umanità e ad assicurare l'integrità dell'ecosistema terrestre che ne permette la sopravvivenza.

[...]

Il libro perciò si articola in tre parti. Nella prima cercheremo di capire la natura dei cambiamenti intervenuti negli ultimi decenni del Novecento delle basi epistemologiche delle scienze della natura, cioè dei criteri introdotti per stabilirne il grado di verità e i limiti di validità, rispetto a quelle che ne hanno sorretto gli sviluppi nei tre secoli precedenti, da Galileo in poi. Per meglio cogliere le radici di questi cambiamenti, questa ricerca sarà preceduta da un capitolo introduttivo nel quale saranno riesaminati i diversi significati di alcuni concetti chiave utilizzati fino alla metà del secolo scorso per capire la natura del cambiamento del mondo circostante. Vedremo poi nella seconda parte come questi mutamenti siano a loro volta sempre più strettamente intrecciati con le innovazioni tecnologiche che fanno del passaggio dal XX al XXI secolo un momento di svolta radicale, dagli esiti per ora imprevedibili, della storia della civiltà umana.

Nella terza parte, infine, partendo da una rapida rassegna dei problemi che la società del capitale globale si trova a dover fronteggiare con urgenza, esamineremo le forme del modo di produzione della ricchezza che portano a identificarla come una fase del tutto nuova del capitalismo - dall'economia delle merci materiali all'economia della conoscenza - rispetto a quella descritta dai padri fondatori dell'economia classica e analizzata da Marx con la critica che ben conosciamo. Vedremo anche, rapidamente, quali siano le proposte che da più parti vengono avanzate per affrontare questi problemi.

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Pagina 41

Oggettività e soggettività della conoscenza scientifica

La contestualità della scienza

È giunto il momento di trarre qualche provvisoria conclusione dalle discussioni precedenti, che mostrano come alla base delle teorie scientifiche ci siano sempre alcuni concetti semplici, di senso comune, che permettono agli scienziati di costruire la "scaffalatura concettuale" entro la quale possono essere classificati, ordinati e collegati i fenomeni del mondo circostante. Abbiamo visto infatti che, a seconda dei criteri di base assunti per costruire queste scaffalature, possono risultarne modi diversi di "spiegare i fatti" e connettere consequenzialmente gli "eventi" mediante linguaggi adeguati e coerenti con le premesse.

Abbiamo visto dunque che la conoscenza del mondo che la scienza ci fornisce non è assoluta — come sarebbe se essa fosse in grado di rappresentare in modo sempre più dettagliato e preciso la sua "reale" struttura e le "vere" relazioni che ne collegano le diverse parti —, ma contestuale, nel senso che le sue verità dipendono dalle premesse assunte per rappresentarlo. Va sottolineato che si tratta qui di contestualità epistemica, cioè di dipendenza dal contesto di ogni affermazione di verità su un particolare aspetto del mondo - sia che si tratti del contesto delle premesse che il singolo scienziato assume, spesso implicitamente, per formulare l'enunciazione della propria "verità", sia che si tratti delle premesse epistemologiche condivise dalla comunità dei suoi pari per giudicarne la validità e, se è il caso, decidere di accettarla a far parte del patrimonio di conoscenze considerate veritiere nell'ambito della disciplina.

Altra cosa è la contestualità ontologica delle proprietà di un oggetto. L'esempio tipico, al quale abbiamo già accennato, è quello delle proprietà di un oggetto a livello quantistico: posizione e velocità di un elettrone dipendono dallo strumento di misura con il quale esso è fatto interagire. È anche il caso, ma su questo ci soffermeremo a lungo più avanti, delle proprietà della materia vivente, nei suoi differenti livelli di organizzazione. Tipico qui è il caso dello stesso gene che può, a seconda dei segnali che riceve dal contesto cellulare, avviare la produzione di una data proteina piuttosto che di un'altra, o viceversa, della stessa proteina che può catalizzare, a seconda del contesto, reazioni diverse.

È ovvio, tuttavia, che le verità parziali ottenute a partire da premesse diverse non possono risultare logicamente contraddittorie tra loro. Il carattere contestuale di queste verità non implica dunque, anche questo è ovvio, che sia impossibile distinguere, in un dato contesto, fra affermazioni vere e false. Significa però che, nel confrontare verità difformi tra loro, bisogna sempre analizzare i rispettivi contesti.

Sorge dunque la domanda: come si fa a valutare criticamente la validità, la pertinenza, la veridicità (o verosomiglianza) delle premesse di base delle diverse rappresentazioni della natura (il discorso vale in modo ancora più evidente per le scienze sociali) che i partecipanti al dibattito all'interno delle varie discipline propongono? Chi è qualificato per compiere questa operazione?

Una volta che si sia accettata la natura contestuale della conoscenza scientifica, la risposta a queste domande diventa facile. Se il problema è quello di confrontare linguaggi diversi e individuarne le premesse, spesso nascoste o acriticamente accettate come ovvie e naturali, sarà necessario costruire un metalinguaggio, costituito da proposizioni che hanno per oggetto le affermazioni dei linguaggi scientifici, di livello logico superiore a quello di questi ultimi. È dunque quello filosofico (epistemologico) il livello adeguato a rispondere alle domande appena formulate. Non ha poi grande importanza, come avremo occasione di vedere tra poco, se siano i filosofi di professione o i rari scienziati che sono consapevoli della differenza ad assumersi questo compito.

Prima dobbiamo tuttavia confutare il punto di vista di chi nega il carattere contestuale della conoscenza scientifica. Purtroppo si tratta ancora della stragrande maggioranza degli scienziati che contribuiscono, spesso con originalità, competenza e successo, a far avanzare i confini della propria disciplina. Prenderò due esempi. Uno, più noto, utilizza argomenti particolarmente tradizionali. L'altro, più aperto, affronta il problema ma resta disperatamente privo di prospettiva.

Il primo prende spunto dalla vicenda nota come l'"affare Sokal", dal nome del fisico che ne è stato protagonista. Ne riassumo brevemente i termini. All'inizio del 1996, la rivista americana di studi culturali "SocialText" - espressione delle tendenze filosofiche che negli Stati Uniti si ispirano al pensiero postmoderno - pubblicò un articolo intitolato Transgressing the Boundaries: Towards a Transformative Hermeneutics of Quantum Cravity ("Trasgredire le frontiere: verso un'ermeneutica trasformativa della gravità quantistica"). In esso, l'autore, partendo dalla premessa che «le procedure argomentative utilizzate dalla comunità scientifica, pur nel loro innegabile valore, non possono rivendicare una posizione conoscitiva privilegiata rispetto alle narrazioni controegemoniche che vengono prodotte in comunità dissidenti o marginalizzate», si proponeva di dimostrare che la «gravità quantistica», in quanto teoria nella quale «le categorie concettuali fondazionali della scienza precedente - compresa l'esistenza stessa - si problematizzano e si relativizzano, [...] ha implicazioni profonde per il contenuto di una futura scienza liberatoria e postmoderna».

Dopo la pubblicazione, Alan Sokal uscì allo scoperto. L'articolo, intenzionalmente scritto in modo insensato sia dal punto di vista filosofico che scientifico, ma argomentato nel gergo degli addetti ai lavori e sorretto da numerose citazioni tratte dagli scritti di alcuni "maestri" della cultura alla moda, era una beffa, architettata per screditare l'intera impalcatura teorica del pensiero postmoderno, che voleva mostrare che i suoi cultori non sono in grado di distinguere le loro stesse tesi da un clamoroso falso. Dopo questo colpo di scena si scatenò una violenta polemica, che nei tre anni successivi accumulò sulle riviste, sui giornali e nei siti web di mezzo mondo valanghe di plausi e di contumelie.

La cosa sarebbe finita lì - con il riconoscimento, da parte di chi, come me, non si sente particolarmente coinvolto, che la provocazione aveva colto nel segno, dimostrando che molti re vanno in giro, se non proprio nudi, a malapena vestiti di stracci - se Sokal, in collaborazione con un altro fisico, Jean Bricmont, non avesse successivamente scritto un libro con l'ambizione di insegnarci, secondo il sottotitolo, "quale deve essere il rapporto tra filosofia e scienza".

A dire il vero, a questo non facile compito sono dedicate soltanto una cinquantina di pagine di intermezzo contro il «relativismo cognitivo in filosofia della scienza» e un'altra cinquantina di epilogo e di conclusioni alla fine del libro. Il resto (per un totale di circa 300 pagine) è una ripresa della denuncia già fatta con la famosa beffa, attraverso una documentata raccolta di citazioni commentate di Jacques Lacan , Julia Kristeva , Luce Irigaray , Jean Baudrillard , Gilles Deleuze , Felix Guattari e Paul Virilio , dalle quali risulta, a mio avviso in modo chiarissimo, che, nella più benevola delle ipotesi, questi autori parlano a sproposito di concetti tratti dalla matematica e dalla fisica senza averli capiti e traendone conclusioni prive di senso. Sono meno d'accordo sulle critiche al sociologo Bruno Latour, ma su questo non insisto. In molti casi, comunque, c'è anche il fondato sospetto che l'uso spregiudicato di questi concetti sia un modo per rivestire di scientificità discorsi vaghi e confusi, ed acquistare in tal modo autorità e potere di fronte a un pubblico che non è in grado di smascherare il trucco. Tutto bene dunque, ma niente di nuovo.

La delusione è grande, tuttavia, quando si arriva al tema principale: il rapporto tra filosofia e scienza. Qui ci si trova di fronte a una superficialità di discorso che rivela tutta la presunzione dei fisici e tutto il disprezzo che, salvo eccezioni, nutrono per le "chiacchere" dei filosofi, per non parlare dei sociologi e degli storici della scienza. In effetti, a questo proposito gli autori mettono le mani avanti: «Siamo coscienti che sarà rimproverata la carenza da parte nostra di una "formazione filosofica" formale». Ma, spiegano, «in qualità di fisici che hanno a lungo ponderato i fondamenti della propria disciplina e della conoscenza scientifica in generale, pensiamo che sia importante tentare di fornire una risposta articolata alle obiezioni relativiste, anche se nessuno di noi è in possesso di una laurea in filosofia». Vediamo come.

Il primo bersaglio della loro critica è, come si è detto, il relativismo. Non quello morale o etico, si affrettano a precisare, o quello estetico, dei quali si dichiarano, meno male, incompetenti a discutere. Ma il relativismo cognitivo o epistemico, sbrigativamente definito (a pagina 59) come quello che riguarda un'asserzione di fatto, cioè, (sic!) «riguardo a ciò che esiste o è affermato esistere». Sarà un lapsus, ma fare di tutta l'erba un fascio tra ciò che esiste e ciò che è affermato esistere non è un buon inizio per degli aspiranti filosofi. È vero che, qualche pagina dopo, gli autori, nel criticare una definizione di "fatto" che a loro non piace, dichiarano invece che non bisogna confondere «i fatti con le asserzioni dei fatti». «Per noi - scrivono - un "fatto" è una situazione nel mondo esterno che sussiste indipendentemente dalla conoscenza che ne abbiamo - in particolare indipendentemente da qualsiasi consenso o interpretazione». Possiamo essere d'accordo - anche se ridurre il mondo esterno a "fatti" è, come vedremo meglio, un pò sbrigativo - che tra un fatto e la sua interpretazione occorre fare una distinzione. Si tratta tuttavia di capire se la distinzione che gli autori hanno in mente non sia soltanto un modo di far passare per fatti alcune interpretazioni, e screditarne invece altre.

Prima di approfondire la questione, tuttavia, conviene ricordare, per avere un termine di confronto, il celebre esempio, già citato in precedenza, del giovane Galileo che osserva l'oscillazione del lampadario nel duomo di Pisa, che Thomas Kuhn ci offre della differenza che corre fra il dato fenomenico (il "fatto") e le interpretazioni che storicamente ne sono state date. Le interpretazioni diverse sono, rispettivamente, quella che tutti conoscono di Galileo e quella di un suo ipotetico interlocutore aristotelico. Per quest'ultimo, quel fatto sarebbe stato una puntuale conferma della dottrina aristotelica del moto, secondo la quale un corpo tende sempre a raggiungere la sua posizione "naturale", cioè quella più vicina a terra. Allontanato artificialmente da questa posizione, il pendolo si muove dunque, secondo questo punto di vista, alternando fasi di moto naturale (verso il basso) e artificiale (verso l'alto), finché non torna al "suo" posto. In termini moderni, questa interpretazione equivale a considerare l'attrito come l'aspetto essenziale del fenomeno e a concentrare l'attenzione sulla sua irreversibilità. Ma Galileo vede quel fatto con altri occhi. Per lui l'attrito è un fenomeno secondario e concettualmente trascurabile, e dunque l'aspetto importante è l'isocronismo delle oscillazioni. Compiendo quest'astrazione, egli unifica le due fasi del movimento in un solo moto periodico perpetuo, del tutto analogo al moto perenne degli astri.

Si tratta di un cambiamento epocale di visione del mondo, perché cancella la distinzione aristotelica fra i fenomeni della caducità e dell'irreversibilità che caratterizzano la sfera sublunare e quelli immutabili ed eterni delle sfere celesti. È un cambiamento epistemologico e metodologico che produce un'immagine del mondo reale diversa, ma non più aderente ai "fatti" di quella ottenibile con le categorie aristoteliche. È difficile negare infatti che trascurare l'attrito in un mondo dove trascinare qualsiasi oggetto costa una fatica bestiale sia un'approssimazione realistica. La nuova immagine dunque seleziona e unifica "fatti" che nel "paradigma" precedente erano considerati qualitativamente diversi e lontani tra loro, ma al tempo stesso rinuncia a collegare fra loro aspetti della natura che prima erano visti come organicamente connessi. Entrambe sono dunque al tempo stesso forme di conoscenza "oggettiva", in quanto colgono proprietà intrinseche e relazioni effettive tra componenti distinte della realtà, ma sono anche "soggettive", in quanto frutto di una selezione fra le caratteristiche considerate fondamentali e quelle ritenute secondarie e accidentali.

"Soggettività" tuttavia non vuol dire "arbitrarietà". Il cambiamento di punto di vista che ha dato origine alla scienza moderna non sarebbe avvenuto se, alla fine del XVI e all'inizio del XVII secolo non fosse anche mutato il contesto economico, sociale e culturale. Il tessuto sociale deve infatti essere maturo per accettare un cambiamento di questa portata, e la sua validità dev'essere riconosciuta almeno da una parte significativa della collettività. Ridurre il colpo d'ala del genio di Galileo a brillante soluzione di un particolare problema fisico significa non capire nulla del processo effettivo di crescita della conoscenza scientifica.

Questo non significa, ovviamente, che i concetti e le loro relazioni introdotti per descrivere e spiegare il mondo siano soltanto il risultato di una contrattazione fra attori sociali, come sostengono i fautori del cosiddetto "programma forte" della sociologia della scienza, giustamente criticato dai nostri autori. La realtà esiste là fuori ed è talmente solida e indipendente dalla nostra volontà da opporsi con forza a ogni tentativo di piegarla ai nostri desideri senza aver appreso, con perseveranza e fatica, il modo appropriato per riuscire a farlo.

Si tratta invece di riconoscere che essa è talmente ricca, complessa e articolata da non essere rappresentabile se non dopo averne selezionato, all'interno dell'infinita varietà dei suoi differenti aspetti, alcuni tratti riconosciuti, nel contesto storico dato, come fondamentali. Detto altrimenti, in termini ben noti, si tratta di non confondere la mappa con il territorio. Anzi, come mirabilmente spiega Borges nel suo racconto I cartografi dell'Impero, di essere consapevoli che il tentativo di rappresentare un territorio nella sua interezza è destinato al fallimento.

Possiamo adesso tornare ai nostri autori. Per loro le cose sembrano essere molto più semplici, di una semplicità addirittura disarmante. Il mondo esterno è l'insieme di tutti i "fatti" possibili. E poiché essi sono «indipendenti da qualsiasi consenso o interpretazione», l'insieme dei fatti noti costituisce, per definizione, la migliore approssimazione al "vero" mondo esterno. È con questa "verità" che le diverse interpretazioni di un insieme di fatti devono fare i conti. Alcune se ne allontanano molto. Sono quelle sbagliate. Ce ne sarà in genere una che vi si avvicina più delle altre. L'insieme di queste interpretazioni più vicine al vero è la conoscenza scientifica.

Sono sicuro che Bricmont e Sokal considererebbero riduttivo questo schematico riassunto del loro pensiero. Cercherò dunque di argomentarlo meglio. Non ho trovato nel loro libro una definizione esplicita di "verità", ma, dall'idea che è possibile farsene attraverso le critiche al concetto di verità sostenuto dai loro avversari, sembra coincidere con quello di "fatto accaduto realmente e inoppugnabilmente". «Se io considero vera - scrivono ad esempio contestando, peraltro giustamente, le tesi dei sostenitori del "programma forte" - l'asserzione "Ho bevuto un caffe stamattina", non voglio semplicemente dire che preferisco credere di aver bevuto un caffè stamattina». E altrove - nel confrontare la teoria generalmente accettata secondo la quale gli antenati degli indiani d'America sono giunti dall'Asia circa 10-20000 anni fa attraverso lo stretto di Bering con le leggende indiane che collocano la loro origine in un mondo sotterraneo popolato dagli spiriti - gli autori distinguono, ancora una volta giustamente ma banalmente, fra conoscenza empiricamente suffragata e semplice credenza.

Si scelgono però ogni volta un bersaglio facile. In questo modo essi eludono il vero problema, che è quello di scegliere fra una verità evidente, ma insufficiente perché limitata ai soli dati empirici certi ("Ho bevuto un caffè stamattina"), e una nozione di "verità" più estesa e profonda (credo che le teorie connessioniste della mente siano - o non siano - più "vere" di quelle cognitiviste). Una verità che tuttavia può solo essere stabilita attraverso il consenso intersoggettivo delle comunità socialmente delegate a svolgere questo compito, sulla base di criteri che comprendono, certo, il rispetto dei dati empirici, ma tengono anche conto di una molteplicità di altri fattori.

Per sfuggire a questo dilemma, gli autori si dimenano come anguille (e questo forse spiega la confusione rilevata all'inizio fra ciò che esiste e ciò che si assume esistere), ma girano intorno al problema, negandolo. Parlando dei frattali e del caos deterministico, essi insistono, in polemica con Lyotard, che - secondo me giustamente - vede nel loro successo il segno di un modo diverso di guardare il mondo da parte della stessa scienza, a dire che il solo «modello di legittimazione» della scienza «resta il confronto della teoria con gli esperimenti e le osservazioni». Parlando di una «ragionevole analisi critica della scienza», concedono al massimo che essa possa cercare di indagare in che modo i pregiudizi sociali del ricercatore possano portarlo a «violare i canoni ordinari della scienza». Parlando della giustificazione delle «nostre teorie sul mondo fisico o sociale», ribadiscono ancora una volta che «non resta molto altro se non il controllo sistematico della teoria per mezzo di osservazioni e/o esperimenti». Insomma, con tutto il rispetto per Galileo, siamo fermi alla sua definizione: la scienza è fatta di "sensati ragionamenti" e "certe dimostrazioni". Forse, dopo tre secoli, si potrebbe cercare di dire qualcosa di più originale.

Ogni giorno ci s'interroga se sia lecito utilizzare una nuova tecnica per trasformare caratteristiche di organismi viventi considerate fino a ora naturali e immutabili, e si discute su chi debba decidere e in base a che criteri. Ogni giorno i confini fra il naturale, l'artificiale e il "soprannaturale" sfumano e s'intersecano. Ogni giorno si scoprono effetti imprevisti di innovazioni introdotte per uno scopo determinato che provocano cambiamenti non voluti in aree e settori differenti. Siamo tutti travolti da questo diluvio, ma non sappiamo più a chi credere. Vogliamo capire, renderci conto, scegliere.

La riduzione della conoscenza, compresa la scienza, a merce è il meccanismo che sta dietro a tutto questo. Non è dunque usando come bandiera l'immagine, vecchia di 300 anni, di una scienza super partes che la gente comune sente come profondamente estranea, che si vincerà la battaglia per ridare alla scienza la creatività, l'autonomia e l'autorevolezza che ne hanno segnato le tappe più gloriose.

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Pagina 49

Scienza e filosofia

Il secondo esempio del modo tradizionale di pensare la scienza è fornito da un saggio di Marino Badiale che ha dato origine a un inreressante dibattito sulla rivista "Koiné". È possibile «collegare e raccordare scienza da una parte e cultura e senso comune dall'altra?», si domanda l'autore, che risponde affermativamente, argomentando che spetta alla filosofia il compito di effettuare questa mediazione attraverso un'attività razionale di sintesi e di interpretazione delle idee e dei risultati della scienza. Sintesi significa, in questo contesto, «cogliere gli aspetti concettuali più significativi di una disciplina scentifica: le categorie con le quali essa organizza il suo particolare dominio di oggetti, la metodologia nella quale sintetizza il proprio concreto operare, i valori e gli scopi conoscitivi nei quali riassume il fine della propria ricerca». Interpretazione vuol dire «comprendere il significato culturale e umano di tutto questo, collegando i concetti fondamentali delle varie discipline con le altre dimensioni della cultura e dell'operare umano in un'unità comprensibile e sensata». Si tratta, in definitiva, di «capire cosa la scienza stessa ci dice dell'essere umano e del mondo che egli si costruisce».

Questo — argomenta Badiale — è del resto ciò che ha fatto la filosofia in Occidente, almeno fino a poco tempo fa: i suoi maggiori esponenti si sono posti come fine una comprensione razionale delle varie dimensioni dell'esistenza umana e della loro sintesi in una visione unitaria e armonica. Oggi, tuttavia, quest'obiettivo sembra diventare sempre più irraggiungibile. Due tendenze divaricanti dominano infatti da un lato la scienza e dall'altro la cultura, tanto nelle sue manifestazioni elitarie come in quelle di massa.

Da parte sua, la scienza è sempre più caratterizzata da un processo esponenziale di «specializzazione parcellizzante» che esclude la possibilità di una sintesi filosofica che ne colga gli aspetti concettuali fondamentali e vanifica dunque la ricerca di un senso complessivo per le sue azioni e i suoi fini. Al tempo stesso, infatti, la filosofia, sottoposta allo stesso processo, cancella questo compito dalla sua agenda, mentre le discipline scientifiche sempre più cercano nell'autoreferenzialità della loro pratica la propria legittimazione.

La cultura di massa è a sua volta dominata dal rifiuto di «un aspetto fondamentale della tradizione filosofica occidentale, [...] [cioè della] discussione razionale sui grandi temi della vita umana: il bene e il male, il giusto e l'ingiusto, il modo migliore di organizzare la vita degli esseri umani». Essa si presenta dunque come una forma di irrazionalismo diffuso, come un immane sforzo per non sapere ciò che stiamo facendo (a noi stessi e al nostro mondo).

Il procedere di questi due processi - la specializzazione parcellizzante della scienza e l'espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa - porterebbe dunque a concludere che la riflessione filosofica di sintesi e d'interpretazione inizialmente proposta è impossibile. Non resterebbe allora altro da fare, secondo Badiale, se non tentare di attestarsi su alcune linee di resistenza, nella scuola soprattutto, ma anche in alcuni punti chiave all'interno delle facoltà scientifiche e delle istituzioni della ricerca, nell'attesa che la scienza diventi adulta, capace cioè di «rinunciare al desiderio infantile di onnipotenza [...] [e di] riconoscere la propria funzione, il proprio ruolo, e quindi, contemporaneamente, il proprio valore e i propri limiti».

Dico subito che non mi riconosco in questo discorso, anche se condivido molte delle argomentazioni che lo sorreggono e alcune delle conseguenze che se ne traggono. È come se mi trovassi di fronte a una figura che, pur essendo composta da molti pezzi che mi sono familiari, finisce, per il diverso ordine con il quale vengono disposti o per l'assenza di altri che secondo me sarebbero necessari, col rappresentare un quadro diverso da quello che appare ai miei occhi.

Fuor di metafora, mi sembra per esempio che l'analisi schematicamente riassunta in precedenza dei due processi che hanno trasformato la scienza e la cultura di massa, pur rappresentandone correttamente alcuni tratti evidenti, non colga appieno la natura della profonda svolta che entrambe queste componenti fondamentali della società contemporanea hanno vissuto negli ultimi decenni del secolo appena finito. In particolare, mi sembra che quest'analisi parli delle norme metodologiche e dei criteri epistemologici delle diverse discipline scientifiche come se avessero una radice comune in un ideale di scienza che in ultima analisi assume la fisica come modello. Non è un caso, mi sembra, che gli esempi utilizzati abbiano tutti a che fare con questa disciplina e che le discipline della vita e della mente non siano mai nominate.

Questa analisi non tiene conto, per esempio, del fatto che, via via che si attinge ai livelli più elevati di organizzazione della materia, il consenso degli scienziati sul linguaggio disciplinare considerato appropriato s'indebolisce e si assiste alla moltiplicazione dei linguaggi adottati da gruppi diversi della comunità. Questi linguaggi non sono necessariamente in contraddizione: essi corrispondono a differenti modellizzazioni del dominio fenomenologico e a diversi punti di vista (culturali, epistemologici, tecnologici) a partire dai quali si costruiscono le categorie concettuali e i metodi pratici utilizzati per analizzare il dominio considerato. In queste discipline sarà dunque sempre più difficile inventare un "esperimento cruciale" capace di decidere chi ha ragione e chi ha torto, perché tutti i modelli sono parziali e unilaterali. Ognuno di essi è al tempo stesso "oggettivo", perché riproduce alcune proprietà del reale, e "soggettivo", perché il punto di vista è scelto dai gruppi diversi in conflitto fra loro.

Una rappresentazione della scienza che non assuma questa varietà di punti di vista in competizione, secondo me, impedisce a sua volta di individuare la novità e la ricchezza del compito che la filosofia si trova a dover affrontare. Il compito di "sintesi" assegnato da Badiale alla filosofia è indubbiamente reso difficile dai due processi — la specializzazione parcellizzante della scienza e l'espulsione del pensiero critico dalla cultura di massa — che caratterizzano la nostra società capitalistica avanzata. Mi sembra però che ci sia nella stessa definizione di "sintesi" una difficoltà più profonda, che riguarda tutta la scienza, a partire dalla fisica, la disciplina della materia inerte per eccellenza.

Il concetto di "sintesi" inteso come «estensione a un livello molto generale e astratto di un aspetto essenziale della pratica quotidiana della scienza» è infatti fondato su un'immagine inadeguata di questa pratica. Secondo Badiale, essa comincia «dallo studente che, svolto il calcolo suggerito dal docente, deve capire perché esso rappresenti la soluzione del problema fisico dato», continua con lo «sperimentatore che si sforza di interpretare i segnali che i suoi strumenti gli mandano», arriva al «teorico che sintetizza i dati sperimentali e deduzioni matematiche in una nuova immagine del mondo», per sfociare nell'«intera prassi scientifica [che vive] di un continuo sforzo di sintesi e d'interpretazione dei propri stessi risultati».

Questa immagine della scienza è un pò troppo semplice. Se fosse vera, tra l'altro, la filosofia non avrebbe mai avuto un ruolo nel suo processo di sviluppo. È essenziale infatti, per capire questo ruolo, abbandonare la vecchia immagine, criticata da Kuhn già quarant'anni fa, del progresso della scienza come processo lineare, tutto interno, di accumulazione di verità che man mano sostituiscono vecchi errori e colmano precedenti lacune. Se così fosse, in effetti, non ci sarebbe bisogno della filosofia: la "verità" verrebbe fuori da sé.

Bisogna dunque per prima cosa cominciare a distinguere fra gli aspetti concettuali che sono entrati a far parte del patrimonio comune di conoscenze, sui quali il dibattito è ormai chiuso (ma alle volte può riaprirsi: c'è voluto Einstein per rimettere in discussione, dopo due secoli di accettazione unanime, la meccanica newtoniana) e i diversi aspetti concettuali che sono, nel corso del processo di acquisizione di nuove conoscenze, oggetto di discussione e di conflitto fra i sostenitori di proposte epistemologiche e metodologiche alternative. È in questo processo che può intervenire la filosofia. Non ha senso che intervenga post factum. Una volta che gli scienziati si sono messi d'accordo, la filosofia può solo fare la mosca cocchiera.

È infatti proprio nel corso di questo dibattito che si forma il consenso attorno a posizioni che via via si consolidano ed entrano a far parte del patrimonio di conoscenze accettato da tutti. A volte questo consenso non si raggiunge e la comunità si divide. Il punto fondamentale è che, anche quando esso è stato raggiunto su un tema controverso, il dibattito non finisce, ma si sposta su un fronte più avanzato. È il confronto fra posizioni differenti che genera la nuova conoscenza. Certo, come lo stesso Kuhn ha mostrato, ci sono periodi di svolta in cui il dibattito è particolarmente acceso e contrastato, e altri di continuità in cui la conoscenza procede per approfondimento e allargamento all'interno di un "paradigma" riconosciuto.

Ma come si raggiunge il consenso? Non è vero che è soltanto la "natura" a decidere chi ha ragione e chi ha torto. Le esperienze «cruciali», ci avverte Imre Lakatos , diventano tali solo retrospettivamente, dopo che l'accordo è stato raggiunto. La valutazione delle proposte alternative in competizione avviene invece sulla base di molteplici fattori che portano all'accettazione di alcune e al rifiuto di altre. Questi fattori possono comprendere una serie di criteri differenti. Essi vanno, per esempio, da quelli adottati per esprimere un "giudizio di scientificità" sulla proposta in discussione o della sua pertinenza all'ambito disciplinare (cioè della sua compatibilità con i capisaldi della disciplina che non possono, allo stato delle cose, essere messi in discussione), fino ai criteri per giudicare l'esistenza o meno di un problema aperto da risolvere o da accantonare (in questo caso si tratta di decidere se un certo fenomeno richiede una spiegazione oppure non ne ha bisogno perché è evidente, o può essere assunto come dato a priori). Oppure possiamo trovare criteri di carattere formale. Rientrano fra questi quelli relativi alla semplicità, all'eleganza, alla coerenza interna di una teoria o di un formalismo.

Di certo sono anche importanti i criteri adottati per giudicare l'adeguatezza empirica di una teoria. Ma non sono i soli che contano per decidere. Può accadere infatti che l'accordo o il disaccordo con un determinato esperimento sia considerato più o meno importante a seconda del grado di attendibilità di cui il paradigma dominante gode presso la comunità. In certi casi si accetta una nuova teoria nonostante il suo disaccordo con dati sperimentali che successivamente verranno smentiti; altre volte, invece, nuovi dati vengono ignorati per mantenere in vita la vecchia teoria in mancanza di una più soddisfacente.

È chiaro a questo punto quale sia il ruolo essenziale della riflessione filosofica nel contribuire a risolvere il conflitto fra sostenitori di punti di vista diversi e a determinarne l'esito. Essa infatti deve aiutare a formulare in forma esplicita e razionale le premesse metateoriche, implicite o addirittura nascoste nell'inconscio individuale dei singoli scienziati, che stanno alla radice del conflitto. È un ruolo che può avere come protagonisti sia gli scienziati più creativi e consapevoli del valore culturale, esterno alla comunità, delle scelte possibili, sia i filosofi capaci di cogliere, al di sotto dei dettagli tecnici formali delle diverse alternative, i loro diversi aspetti epistemologici e metodologici.

Essi possono così individuare legami fra proposte d'innovazione avanzate anche in campi disciplinari diversi che tuttavia condividono la stessa «metafisica influente» (Lakatos), o gli stessi «stili di pensiero» o «ideali del sapere» (Amsterdamski), rintracciandone le radici nel retroterra culturale che caratterizza lo Zeitgeist ("spirito del tempo") dell'epoca considerata. Badiale ha dunque ragione nel sottolineare che la riflessione filosofica è efficace quando rivela il nesso che lega una svolta concettuale introdotta in una data disciplina scientifica con i temi importanti e urgenti che permeano la cultura del contesto sociale corrispondente. Ma individuare le ragioni del contendere aiuta a capire come e dove ciò che è stato posssibile una volta può ancora accadere oggi.

Gli esempi che Badiale presenta dei grandi protagonisti delle svolte importanti della scienza che sono riusciti a svolgere efficacemente questo compito di "sintesi" filosofica, sono da questo punto di vista significativi, ma lasciano in ombra, mi pare, il fatto fondamentale che questa sintesi più che essere una conseguenza necessaria del successo del nuovo modo di descrivere la realtà, è stata un fattore importante per raggiungere questo successo nel conflitto con i sostenitori della rappresentazione dei fenomeni considerati accettata fino a quel momento.

Abbiamo già discusso il caso di Galileo, la cui «opera di costruzione e difesa della nuova scienza» è giustamente presentata da Badiale come la «proposta di alcuni principi metodologici [...] che sono diventati costitutivi dell'immagine moderna della scienza», e non dobbiamo tornarci sopra se non per ribadire che non basta il riferimento a quei principi metodologici — come quello del rapporto fra «sensate esperienze» e «certe dimostrazioni», o l'idea che il libro dell'Universo «è scritto in lingua matematica» — a spiegare la drammaticità del conflitto che mette a confronto Galileo con i suoi oppositori aristotelici e il carattere epocale della svolta che ne è seguita.

Non è dunque il metodo che gli permette di scoprire com'è fatto il mondo. È la sua convinzione che il mondo sia fatto in un certo modo che gli suggerisce il modo migliore per costringere la natura a dargli ragione, anche a costo di tralasciare altre evidenze empiriche contrarie (per esempio, sulla questione della natura delle comete Galileo aveva torto e padre Grassi ragione). Insomma, se si ignorano le ragioni (serie, dopotutto, visto che Aristotele aveva retto per più di 2000 anni) di entrambi i contendenti, la filosofia non ha più nulla da dire, perché scompare la materia del contendere. Si rischia così di precipitare dalla sfera dei più elevati dibattiti della storia del pensiero filosofico al livello di una banale lezione di fisica del liceo.

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L'errore del socialdarwinismo

Abbiamo visto che, nella seconda metà del Novecento, si è delineato un mutamento sostanziale nel panorama delle scienze. In sintesi, il pensiero evolutivo è diventato una componente essenziale dello "spirito del tempo". Occorre tuttavia, per prima cosa, non confondere questo nuovo contesto culturale con l'influenza esercitata dal darwinismo agli inizi del Novecento sulle teorie della società. Lo stesso Elias mette bene in guardia contro questa rozza semplificazione: «Si perviene a forme specificamente sociali, e insieme anche economiche, soltanto grazie a quella peculiarità della natura umana che distingue gli uomini da tutti gli altri esseri viventi. Proprio per questo sono vani tutti i tentativi di spiegare le leggi sociali da quelle biologiche o anche dal loro modello; tutti gli sforzi per trasformare la scienza sociale in una sorta di biologia o anche in una parte delle scienze naturali».

L'intreccio fra la teoria di Darwin e la cultura del suo tempo fu, fin dalla sua origine, assai stretto. Tutti sanno che lo stesso Darwin riconobbe di aver tratto dalla teoria di Malthus sulla diversità fra il tasso (con progressione geometrica) d'incremento della popolazione e quello (con progressione aritmetica) delle risorse disponibili l'idea della competizione fra gli individui per la sopravvivenza, che conduce alla selezione dei "più adatti".

In senso inverso, tuttavia, l'influenza del darwinismo sulla cultura contemporanea assunse connotati pessimi. Ridotto all'osso, il "socialdarwinismo" di Herbert Spencer , che sfocia poi nell'eugenetica di Galton e nelle peggiori farneticazioni razziste, diventa esaltazione della lotta feroce per la vita di tutti contro tutti, e somiglia molto di più all'hobbesiano Homo homini lupus che all'evoluzione darwiniana.

Il risultato di quest'operazione pseudoculturale è stato, in soldoni, di fornire una "giustificazione" biologica dell'abilità dell'individuo più forte nel sopraffare il più debole. John D. Rockfeller scriveva: «Lo sviluppo di una grande impresa è semplicemente un caso di sopravvivenza del più adatto. [...] Questa non è affatto una tendenza negativa dell'economia. È soltanto l'operare di una legge di Natura, una legge di Dio».

Interpretando Darwin in modo schematico e sommario, queste teorie non solo hanno indebitamente trasferito sul terreno sociale un aspetto particolare del meccanismo biologico del processo evolutivo delle specie senza tener conto della differenza essenziale che corre tra queste e le formazioni sociali soggette al processo di evoluzione culturale, ma hanno anche trascurato il fatto che in natura esistono, oltre a diverse forme di competizione più o meno violente, anche varie modalità di collaborazione fra specie diverse, che comprendono un ventaglio di comportamenti che vanno dallo scambio di compiti reciprocamente vantaggiosi fino alla vera e propria simbiosi.

Ma soprattutto, compiendo un clamoroso errore logico, il socialdarwinismo assume come norma delle relazioni fra gli individui di una stessa specie la truculenta descrizione della natura evocata da Tennyson come «la natura dai denti e dagli artigli rossi di sangue», una rappresentazione che al massimo può caratterizzare l'aspetto più brutale della competizione fra specie diverse all'interno della stessa nicchia ecologica. Senza contare che la sua estensione alla nostra specie dimentica che i nostri comportamenti non sono soltanto dettati da impulsi biologici, ma ubbidiscono anche a norme di carattere etico, frutto anch'esse di un processo evolutivo durato almeno centinaia di migliaia di anni.

Questa arbitraria e indebita trasposizione dell'evoluzionismo alla sfera dei rapporti sociali, strumentalmente teorizzata dalla classe dominante per giustificare l'oppressione e lo sfruttamento dei lavoratori, ha perciò impedito che, da parte delle organizzazioni politiche e sindacali sorte alla fine del XIX secolo, venisse colto l'aspetto più liberatorio che dalla teoria di Darwin avrebbe potuto essere trasferito sul terreno della società: quello rappresentato dall'importanza fondamentale della salvaguardia della diversità fra gli individui.

La sacrosanta battaglia contro la disuguaglianza che ha visto queste organizzazioni impegnate fino alla fine del Novecento, non solo nelle lotte per la conquista dei diritti e per l'emancipazione degli strati più deboli della società, ma anche nella formulazione e nella realizzazione di due progetti diversi di società più equa e più giusta — il primo, più graduale e pragmatico, avviato con maggiore o minore successo in alcuni paesi industrializzati, ma oggi in piena crisi; il secondo, più radicale e utopistico, fallito clamorosamente - ha infatti fatto dimenticare quella, altrettanto fondamentale, per la difesa della diversità e per la sua perenne riproduzione.

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Pagina 166

L'evoluzione della cultura

Questa storia insegna, dunque, che il "pensiero evolutivo" non deve essere una trasposizione banale della teoria darwiniana come strumento interpretativo di tutto ciò che avviene nel mondo. La conoscenza a fondo delle modalità e delle caratteristiche dell'evoluzione di tipo darwiniano - che non si limita a fornire la spiegazione a tutt'oggi più valida del processo di evoluzione della vita sulla Terra ma, come abbiamo visto, viene invocata anche per interpretare processi evolutivi diversi, come quello del sistema immunitario o quello dei processi cerebrali - è necessaria proprio per poterla distinguere da un lato dal processo della storia in generale o da forme di evoluzione del vivente basate su meccanismi differenti, come quella di tipo lamarckiano, e dall'altro dalla dinamica del cambiamento nei fenomeni della sfera della materia inerte, come quello dell'evoluzione stellare o del sistema solare.

Bisogna perciò distinguere chiaramente fra la varietà dei processi concreti studiati dalle diverse discipline delle scienze della natura e della società - gli esseri umani non si riproducono come i batteri e le idee non si trasmettono come i genomi - e la trasversalità del nuovo punto di vista evolutivo da esse adottato nell'interpretazione di tutto ciò che accade fuori e dentro di noi. È ovvio, infatti, che le modalità effettive di ogni processo evolutivo cambiano radicalmente a seconda della natura degli elementi di una "popolazione", delle modalità della trasmissione delle modificazioni subite alle generazioni successive e dei fattori che caratterizzano la natura e la struttura dei vincoli esterni che ne effettuano la selezione.

Va a questo punto sottolineato che si commettono in genere due errori speculari nel confrontare i due processi dell'evoluzione della cultura - intesa come capacità della nostra specie (anche se essa era già presente in forme più elementari nelle specie di ominidi che l'hanno preceduta) di formare gruppi caratterizzati da usi e costumi materiali e simbolici tali da garantire la sopravvivenza e la riproduzione individuale e collettiva attraverso relazioni interpersonali e con la natura definite e stabili - e dell'evoluzione biologica delle specie. Il primo, il più diffuso, è quello di liquidare la questione dicendo che la prima è di tipo lamarckiano, mentre la seconda è di tipo darwiniano. Si afferma cioè che i mutamenti, intervenuti per effetto delle circostanze storiche esterne, nella cultura di una comunità umana - cultura intesa come l'insieme degli strumenti materiali e delle conoscenze della natura che consentono il soddisfacimento dei bisogni degli individui che lo compongono, delle norme che regolano le loro azioni individuali e le loro relazioni reciproche e dei criteri condivisi di valutazione del bene e del male, del brutto e del bello, del sacro e del profano - vengono appresi pari pari dalla generazione successiva, che a sua volta trasmetterà a quella seguente le ulteriori modificazioni, e così via.

Non ci sarebbe dunque, per le culture, un nucleo duro, protetto da una barriera, trasmesso di generazione in generazione come accade con il genoma. Questo punto di vista sopravvaluta il momento della dipendenza dell'evoluzione dall'esterno rispetto a quello della trasmissione ereditaria dei caratteri identitari di una comunità. Si accentua in questo modo il finalismo immediato del mutamento e si sopprime il momento dell'autonoma creazione di novità. Il risultato sarebbe una perdita di flessibilità del sistema, che lo porterebbe rapidamente all'estinzione.

L'altro errore, quello di Dawkins e dei darwiniani ultraortodossi, consiste nel postulare l'esistenza di unità culturali discrete - i "memi" - che al pari dei geni dovrebbero sopravvivere nella trasmissione, finché non muoiono perché non più adatti al mutato ambiente circostante. Anche qui si arriva a un'altra forma di riduzionismo estremo che porta a una semplificazione troppo drastica della realtà e si perde quell'intreccio intimo fra il patrimonio ereditato e l'apprendimento acquisito attraverso l'interazione con l'ambiente (in senso lato, comprendendo in questo termine, oltre alla natura, anche le altre comunità umane) che è alla base della continua comparsa di forme nuove nel mondo della vita e della società.

In un recente piccolo libro, molto denso e stimolante, Luigi Luca Cavalli Sforza affronta la questione del rapporto fra evoluzione biologica e culturale con un'affermazione di principio che condivido, e cioè che «la teoria dell'evoluzione biologica può essere utilmente estesa per analogia all'evoluzione culturale». Si affretta tuttavia a precisare che quest'analogia comporta anche profonde differenze. In primo luogo, infatti, l'analogo culturale - un'innovazione o un'invenzione - della mutazione biologica, non solo è assai più condizionata di quest'ultima, che è puramente casuale, dal contesto e dalla storia passata, ma viene anche selezionata attraverso forme diverse di adattamento e si propaga attraverso modi differenti di trasmissione. Per quanto riguarda queste ultime, ad esempio, occorre distinguere fra trasmissione culturale verticale, assai simile a quella genetica tra genitori e figli, e quella orizzontale, simile alle epidemie di malattie infettive trasmesse per contagio diretto. La prima tende a conservare e ha tempi lenti (da una generazione all'altra); la seconda, che a sua volta può avere varie forme - da uno a uno, da uno a molti (insegnamento) e da molti a uno (mode) - è invece in genere rapidissima e tende a introdurre idee nuove.

A questo punto, la domanda che nasce spontanea è: in che misura l'evoluzione dei nostri comportamenti affonda le sue radici nell'evoluzione biologica della nostra specie? Le risposte ricoprono un arco vastissimo. Da un lato, ci sono quelle che mettono l'accento sul fattore biologico e dall'altro quelle che concentrano l'attenzione sulle condizioni ambientali. Occupiamoci per ora delle prime.

Esse risalgono alla fine degli anni Settanta, quando il celebre biologo di Harvard Edward O. Wilson propose di fondare una nuova disciplina, la sociobiologia, il cui obiettivo era quello di spiegare gli aspetti centrali della psicologia umana e della vita sociale a partire dall'evoluzione biologica. Essa si proponeva d'individuare i vantaggi adattativi di determinati comportamenti in modo da spiegarne l'origine e la persistenza con la selezione naturale, cioè con il successo riproduttivo differenziale degli individui che li adottano. Secondo Wilson, questi comportamenti devono avere una base genetica, perché la selezione naturale non può operare in assenza di variazione genetica.

La proposta suscitò violente reazioni, in primo luogo da parte di coloro che sottolineavano come le modalità dell'evoluzione culturale fossero più complesse e rapide del processo darwiniano di evoluzione biologica. Un volume collettaneo, pubblicato nel 1980, raccolse i contributi di sette specialisti di discipline differenti e di diverso orientamento culturale, chiamati a esprimere una valutazione dell'approccio proposto dalla sociobiologia. Senza entrare in dettagli, accenno soltanto ad alcune delle questioni sollevate dall'antropologo Marvin Harris in un dibattito con lo stesso Wilson, riportato per esteso alla fine del volume. Seguiamone sommariamente alcune battute.

Il primo scambio riguarda ciò che abbiamo in comune con i primati in generale. A questa domanda di Harris, Wilson risponde proponendo l'esempio delle espressioni facciali degli esseri umani che «appaiono davvero strettamente collegate e in molti casi paragonabili a quelle osservate negli scimpanzé». Harris risponde:

D'accordo, non v'è dubbio che, come conseguenza dell'evoluzione della muscolatura facciale, i primati e gli umani hanno un inconsueto grado di mobilità facciale e di abilità nell'esprimere emozioni col viso. [...] Ma non è forse vero che con pochissimo addestramento sociale gli individui sono capaci – in particolari tradizioni culturali – di dissimulare del tutto qualunque predisposizione genetica possa esistere? Non è forse vero che tante differenti culture usano le espressioni facciali in modi opposti? [...] Se le cose stanno così, allora la componente genetica sembrerebbe essere, in questo caso, meno importante di quelle culturali.

Il secondo scambio riguarda il problema dell'altruismo. Wilson afferma:

Qui tocchiamo una materia riguardo alla quale credo che la sociobiologia biologica possa offrire un contributo all'antropologia, aiutando a definire ciò che ho chiamato "altruismo a oltranza", basato su particolarissimi tipi di catena genetica tramite l'aiuto ai parenti, e l'"altruismo moderato", basato sulla reciprocità del contratto sociale, che governa tanta parte del comportamento sociale. [...] Per essere definito "altruista", in senso biologico, è sufficiente impegnarsi in un comportamento che sacrifica se stesso a beneficio di altri. Negli animali inferiori, ciò può essere una reazione automatica. [...] Noi esseri umani, in gran parte del nostro comportamento, siamo consci delle conseguenze e le calcoliamo; tuttavia prendiamo delle decisioni in base a precetti morali guidati essi stessi in larga misura dalle nostre reazioni emotive.

La risposta di Harris è netta e, a mio giudizio, definitiva.

Penso che quando i principi sociobiologici vengono applicati nel modo corrispondente al calcolo del gene egoista al fine di spiegare vari aspetti della vita umana, tali spiegazioni risultino superflue rispetto a spiegazioni molto più semplici a livello socioculturale. Tecnicamente, ciò che abbiamo appena fatto viene chiamato "riduzionismo". Abbiamo ridotto a livello genetico un fenomeno perfettamente spiegabile a livello culturale. E, sebbene possa esservi una corrispondenza fra i due, mi pare che uno sia in grado di spiegare in termini puramente culturali un comportamento quale il salvare una persona che sta annegando, o aiutare i vecchi, o uno qualunque dei comportamenti che corrispondono ai nostri codici morali; esso possiede un sistema molto più efficiente per spiegare perché la gente si comporta come si comporta, che non questa scomoda riduzione al livello genetico.

Il terzo scambio riguarda il tabù dell'incesto. Ancora una volta, Wilson lo spiega come un comportamento vietato da «irresistibili ragioni genetiche per evitarlo, viste le conseguenze disastrose in termini di difetti genetici che questa pratica comporterebbe». A quest'affermazione, Harris contrappone l'argomento che, anche se esistesse una protezione genetica all'apprendimento di regole sociali contrarie all'incesto, questa protezione sembra «debolissima, visto che deve essere sostenuta dalle durissime punizioni e sanzioni imposte dalla cultura. [...] Mi è difficile credere all'esistenza di un insieme di geni che definiscono i limiti dell'accoppiamento di esseri umani, dato che abbiamo una così enorme varietà di comportamenti sessuali, di attività copulatorie e di forme di matrimonio».

In sostanza, il problema del rapporto fra biologia e cultura si colloca a un livello diverso da quello ipotizzato dai sociobiologi. Stephen J. Gould ci spiega bene l'errore epistemologico (di tipizzazione logica, direbbe Bateson ) che sta alla base della sociobiologia:

Credo che i sociobiologi abbiano fatto un errore fondamentale nelle categorie. Stanno cercando la base genetica del comportamento umano al livello sbagliato. Stanno cercando tra i prodotti specifici delle regole generanti – l'omossessualità di Joe, la paura di Marta per gli stranieri – mentre sono le regole stesse le strutture genetiche profonde del comportamento umano. [...] Se ci fissiamo sugli oggetti e cerchiamo una spiegazione del comportamento di ciascuno nei suoi propri termini, siamo perduti. La ricerca, tra comportamenti specifici, della base genetica della natura umana, è un esempio di determinismo biologico. La ricerca di sottostanti regole generanti [quei comportamenti] esprime un concetto di potenzialità biologica. Il problema non è la natura biologica rispetto a quella non biologica. Il determinismo e la potenzialità sono entrambe teorie biologiche, ma cercano la base genetica della natura umana a livelli fondamentalmente diversi.

Il problema dell'apparente discrasia fra la ristrettezza della base anatomica e la vasta gamma dei comportamenti umani si risolve, anche per Gould, ammettendo che quest'ultima nasce come conseguenza dell'evoluzione e dell'organizzazione strutturale del nostro cervello. L'unicità umana sta nella flessibilità di ciò che il nostro cervello può fare. «Non c'è dubbio - scrive Gould - che la selezione naturale abbia agito nella costruzione dei nostri sovradimensionati cervelli, e che essi siano diventati grandi per un adattamento a ruoli definiti. Queste assunzioni non portano però al concetto, spesso abbracciato in modo non critico da darwiniani stretti, che tutte le principali capacità del cervello debbano sorgere come prodotti diretti della selezione naturale».

I nostri antenati non leggevano, non scrivevano e non si chiedevano perché la maggior parte delle stelle non cambia le posizioni relative mentre cinque punti di luce vaganti e due dischi più larghi si muovono lungo una via chiamata "zodiaco". Perciò, conclude Gould, «la gran parte dei "tratti" comportamentali che i sociobiologi cercano di spiegare può non essere mai stata soggetta a selezione naturale diretta e può quindi mostrare una flessibilità che proprietà cruciali per la sopravvivenza non possono mai mostrare».

Anche Cavalli Sforza, retrospettivamente, dichiara di essere stato un critico severo della sociobiologia e di esserlo ancora nei confronti della sua versione più moderna, la psicologia evoluzionistica. «La teoria è migliorata, - scrive - ma continua a ignorare la potenza dell'eredità culturale e la difficoltà di distinguerla da quella biologica. [...] La psicologia evoluzionista ignora anche il fatto che nell'uomo il comportamento è largamente appreso, per insegnamento diretto e per l'esempio fornito dalla società di appartenenza (e anche da altre società)».

L'interazione tra evoluzione biologica e culturale può addirittura agire, sottolinea ancora Cavalli Sforza, da quest'ultima sulla prima, cioè in senso inverso a quello ipotizzato dai sostenitori della psicologia evoluzionistica. Due interessanti esempi lo dimostrano. Il primo è quello delle conseguenze genetiche del passaggio all'agricoltura indotte dal mutamento delle abitudini alimentari. In particolare, si tratta della tolleranza degli adulti al lattosio, lo zucchero del latte: «Fra tutti i mammiferi, e certamente fra i primi uomini moderni, l'enzima (lattasi) che utilizza il lattosio è prodotto nei primi finché dura l'allattamento materno. Se la lattasi non serve più, non la si fabbrica: i geni inutili possono essere perduti senza danno, e in genere lo sono». Ma la possibilità di avere a disposizione mammiferi domestici - come bovini, ovini, equini e camelidi - ha suggerito a qualche gruppo etnico di consumarne il latte. In assenza di lattasi, tuttavia, questo consumo produce disturbi intestinali in età adulta. L'evoluzione genetica ha tuttavia fornito la soluzione: una mutazione che blocca il meccanismo che interrompe la produzione di lattasi nell'età adulta ha permesso agli individui che la possegono di bere latte a ogni età. La selezione ha fatto il resto. Il numero d'individui che continuano a produrre lattasi per tutta la vita è aumentato abbastanza rapidamente e ha raggiunto quasi il 100% in Scandinavia, e anche in certe tribù africane. «Il vantaggio selettivo della mutazione che fa perdere l'inibizione della produzione della lattasi - conclude Cavalli Sforza - è, in questo caso, una conseguenza inattesa di un'innovazione culturale».

Il secondo esempio di «vantaggio di origine culturale in cui l'uomo ha dimostrato di saper fare meglio della natura» è costituito dalla menopausa, cioè dell'arresto, nelle femmine della specie umana, della produzione di cellule uovo, e quindi della sospensione o della fertilità prima della fine della vita. «Dev'esserci qualche vantaggio evolutivo - si chiede Cavalli Sforza - nel diventare sterili; ma quale sarà? Questo fenomeno sembra in contraddizione con i dettami della selezione naturale e certamente la specie umana è l'unica a mostrare questa caratteristica». Una risposta plausibile a questa domanda proviene dalle ricerche dell'antropologo Barry Hewlett sui pigmei africani. Presso queste popolazioni esiste infatti una regola morale secondo la quale una donna deve smettere di avere gravidanze quando la prima figlia ha a sua volta un figlio. La ragione è evidente: la madre deve dedicarsi, con la sua esperienza, ad aiutare la figlia ad allevare il bambino e non essere in concorrenza con lei. «È molto verosimile - conclude l'autore - che la menopausa biologica abbia avuto questa motivazione principale; difficilmente un meccanismo biologico avrebbe potuto avere la precisione di una regola morale».

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Capitolo 6

Dove andiamo?


La globalizzazione

Tutto il potere al mercato

La società globalizzata che l'economia capitalistica sta realizzando nel XXI secolo è fondata sulla prospettiva di soddisfare attraverso il mercato tutti i bisogni individuali e collettivi che investono l'intero arco delle esperienze umane. Secondo il pensiero neoliberista dominante, che sta alla base dei programmi e degli interventi delle tre istituzioni internazionali — l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca Mondiale - responsabili dell'economia mondiale, l'unico modo per assicurare il massimo benessere possibile a tutti gli abitanti del pianeta è infatti quello di attribuire al mercato il potere di regolare, attraverso la sua "mano invisibile", tutte le azioni umane.

Tuttavia, molti autorevoli esponenti della classe dirigente del capitalismo mondiale - dal Nobel per l'economia Joseph Stiglitz , ex-vicedirettore della Banca Mondiale, dimessosi dalla carica per dissenso con la politica di quest'istituzione, al notissimo finanziere Georg Soros, che ha costruito un impero speculando nel mercato finanziario - sono fortemente scettici sulle possibilità di raggiungere questo fine senza modificare profondamente le regole del processo di globalizzazione.

Il primo scrive ad esempio: «Chi denigra la globalizzazione troppo spesso ne sottovaluta i vantaggi, ma i suoi fautori sono stati, se possibile, ancor meno imparziali. Per loro, la globalizzazione (associata tipicamente all'accettazione del capitalismo trionfante, sul modello americano) è progresso; i paesi in via di sviluppo devono accettarla se vogliono crescere e combattere la povertà in modo efficace. Ma per molti nel mondo in via di sviluppo la globalizzazione non ha portato i vantaggi economici sperati».

Il secondo, pur ribadendo che «in effetti la globalizzazione è uno sviluppo per molti versi auspicabile», riconosce che «la globalizzazione ha anche un lato negativo». Soros spiega:

In primo luogo, molte persone (in particolare nei paesi meno sviluppati) sono state danneggiate dalla globalizzazione senza avere alcuna rete di sicurezza sociale che le proteggesse; molte altre sono state emarginate dai mercati globali. In secondo luogo, la globalizzazione ha provocato una ripartizione iniqua delle risorse tra beni privati e beni pubblici. Il perseguimento del profitto, indifferente a ogni altra considerazione, può nuocere all'ambiente ed entrare in conflitto con altri valori sociali. Terzo, i mercati finanziari globali hanno una naturale tendenza alla crisi. [...] Tutti e tre questi fattori si sommano e ne risulta un "terreno di gioco" estremamente ineguale.

Queste posizioni critiche, che esprimono la preoccupazione che la via seguita finora possa mettere in serio pericolo la stabilità del sistema, restano comunque tutte interne alla cultura economica dominante, secondo la quale «il mondo sta orientandosi al capitalismo perché questo si fonda su presupposti circa la natura umana e la tecnologia che paiono corrispondere meglio alla realtà degli atteggiamenti degli uomini e della tecnologia moderna».

Per quanto mi riguarda, invece, come ho già anticipato nel Prologo, non appartengo - nonostante il fallimento dei tentativi novecenteschi di realizzare, attraverso l'utopia comunista, una società socialista alternativa al capitalismo - alla schiera di coloro che si rassegnano ad ammettere che il capitalismo, e comunque questo capitalismo, sia l'unico sistema sociale possibile. Non si tratta solo di fedeltà agli ideali d'uguaglianza e di giustizia che hanno portato alla nascita del movimento operaio e socialista nella seconda metà dell'Ottocento. Si tratta della consapevolezza del fallimento del capitalismo - un insuccesso altrettanto grave e drammatico del primo - nell'obiettivo di assicurare, per lo meno in una prospettiva visibile, a tutti gli abitanti del pianeta una vita serena e dignitosa, nonostante esistano ormai tutte le conoscenze e tutti i mezzi economici e tecnologici necessari per realizzarlo. In altri termini, posso dire che - pur non essendo sicuro che, come dicono i new-global, "un altro mondo sia possibile" - sono certo che Un altro mondo è necessario. Vediamo dunque meglio le argomentazioni che dimostrano questo secondo fallimento. Ricorrerò, visto che non sono del mestiere, a estese citazioni tratte dai libri di autorevoli economisti.

Il primo è Jean Ziegler , giornalista e uomo politico svizzero impegnato da molti anni a far luce sui loschi retroscena del capitalismo internazionale, che è stato anche consulente dell'ONU per i problemi della fame nel mondo. «In primo luogo occorre ricordare - scrive - che il dogma ultraliberista dice che, abbandonato a se stesso e affrancato da ogni tipo di limite o di controllo, il capitale si dirige spontaneamente e in ogni istante verso il luogo in cui i suoi profitti saranno massimi. La comparazione dei costi di produzione determina dunque il luogo d'impianto della produzione delle merci».

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La corporation

La fantascienza ha più volte presentato scenari terrificanti di un mondo dominato da macchine che hanno "preso il potere" sottomettendo il genere umano a una dittatura che non ha altro fine che quello dell'autoreplicazione di macchine, ovviamente amorali, sempre più sofisticate. Il tema della possibilità di produrre macchine autoreplicanti è diventato tuttavia realistico con John von Neumann. Abbiamo già visto come Giuseppe Longo abbia scritto su questo tema pagine di grande sensibilità e acutezza. Il filo conduttore della sua ricerca, al tempo stesso letteraria e scientifica, lo ricordiamo, è quello della simbiosi fra uomo e computer, e in particolare della coevoluzione fra la specie umana e la rete. Le sue conclusioni sono improntate al pessimismo:

Se l'intelligenza umana rinuncerà alle sue prerogative specifiche per adeguarsi a quelle dell'intelligenza artificiale, ne uscirà sconvolta e impoverita. La repressione di quei caratteri provocherà frustrazioni e infelicità, senza che queste frustrazioni possano emergere e sfogarsi con forza e dignità, perché sarebbero oggetto di scherno da parte degli "uomini-macchina" già avviati alla simbiosi. Se invece l'intelligenza umana cercherà di mantenere le proprie specificità, non mancheranno coloro (e già ci sono) che vorranno arricchire l'intelligenza artificiale dotandola anche di quelle caratteristiche, magari a scopi puramente utilitari o edonistici, ad esempio per ottenere "macchine da compagnia" meno esigenti e fastidiose degli esseri umani. Pur rimanendo diversi, vista la diversità della loro storia evolutiva, – l'artefatto (intelligenza artificiale) e l'originale (intelligenza umana) – non c'è dubbio che a qualche livello un confronto sarebbe possibile, e prima o poi l'uomo lo perderebbe, perché i parametri di valutazione sarebbero sempre più meccanici e sempre meno umani.

Come ho già anticipato, non condivido la tesi — esplicita in Galimberti e, in parte, implicitamente accettata da Longo — dell'ineluttabilità del processo di deumanizzazione (o se si vuole di "macchinizzazione") dell'uomo ad opera di un'inesorabile marcia della tecnica che stritola tutto ciò che trova sul suo cammino. O per meglio dire non condivido l'idea che sia la tecnica stessa il motore della propria marcia. Secondo me, l'instaurazione di una dittatura di macchine tecnologiche che incorporano nel loro universo uomini disumanizzati non è lo sbocco ineluttabile di uno sviluppo inesorabile della tecnica, ma la possibile conseguenza della dittatura, ben più attuale e onnipresente, delle vere e proprie "macchine" socio-economiche — le imprese multinazionali, o corporation — che utilizzano le tecnoscienze per integrare e sottomettere masse umane crescenti nel proprio ciclo di autoriproduzione.

L'uso del termine "macchina" non è una semplice metafora. La tesi che il mondo sia già dominato da entità autonome, irresponsabili nei confronti del mondo al loro esterno e che agiscono soltanto al fine di ottimizzare i propri vantaggi riproduttivi, senza rispondere in alcun modo dei danni che le loro azioni possono produrre sugli altri soggetti sociali individuali e collettivi, è ampiamente documentata in uno splendido libro di Joel Bakan intitolato The Corporation, dal quale è stato anche tratto un film.

«Le corporation al giorno d'oggi — così si apre il libro — controllano le nostre vite: decidono cosa mangiamo, cosa vediamo, cosa indossiamo, dove lavoriamo e cosa facciamo. Siamo inesorabilmente circondati dalla loro cultura, dalla loro iconografia e dalla loro ideologia». La natura della corporation è fissata in modo chiaro dalla legislazione degli stati moderni instaurata alla metà dell'Ottocento. Essa è «una "persona" giuridica la cui ragione sociale si fonda sulla valorizzazione di interessi privati, a prescindere da qualsiasi considerazione di ordine etico. Quella che in un essere umano sarebbe pressoché unanimemente ritenuta una personalità aberrante, se non psicopatica, è invece unanimemente accettata nell'istituzione economica più potente della nostra società».

Il punto di partenza dell'atto di accusa di Bakan è che la legge vieta espressamente che la corporation, e per essa gli uomini che la dirigono, sia socialmente responsabile delle sue azioni. Lo spiega chiaramente un esperto di diritto societario, Robert Hinkley:

Chi guida una corporation ha un dovere legale verso gli azionisti, e questo dovere consiste nel realizzare profitti. Venir meno a questo dovere, per amministratori e dirigenti, può significare essere citati in giudizio dagli azionisti. La legge consacra la corporation al perseguimento dei propri interessi (e ne identifica l'interesse con quello degli azionisti). Nessuna menzione è fatta della responsabilità verso l'interesse pubblico. [...] La legge pertanto considera le preoccupazioni etiche e sociali come irrilevanti, o come ostacoli al mandato fondamentale della corporation.

La corporation dunque è equiparabile a una persona psicopatica priva di qualunque regola morale. Il dottor Robert Hare, esperto internazionale di psicopatologia, ne analizza così i comportamenti:

La corporation è irresponsabile, perché nel tentativo di raggiungere i suoi obiettivi è disposta a mettere a rischio chiunque. Le corporation cercano di manipolare tutto, inclusa l'opinione pubblica, e sono megalomaniache nel ripetere continuamente "Siamo i numeri uno, siamo i migliori". [...]

Altri tratti salienti della corporation sono l'assenza di empatia e le tendenze asociali: un comportamento che denota l'assoluta mancanza di attenzione nei riguardi delle loro vittime. Le corporation spesso rifiutano di accettare la responsabilità delle loro azioni e sono incapaci di provare rimorsi: quando sono colte in fallo, pagano multe salate e continuano imperterrite a fare quello che facevano prima; anche perché le multe e le sanzioni comminate sono insignificanti rispetto ai profitti che si mettono in tasca.

Insomma, una persona in carne e ossa che si comportasse come la persona giuridica corporation sarebbe messa in manicomio, o in galera, o comunque stigmatizzata come socialmente pericolosa. Perché la corporation è invece considerata socialmente degna di rispetto e persino d'ammirazione e di gratitudine? Perché non è una persona, ma è una macchina, e una macchina è fatta per realizzare uno scopo, senza occuparsi di ciò che è giusto o sbagliato, buono o cattivo. Per di più, è una macchina molto utile perché produce ricchezza. Pecunia non olet, dicevano già i romani.

La modalità principale attraverso la quale la corporation produce profitti è la pratica di produrre esternalità, cioè di scaricare all'esterno i costi dei danni prodotti dall'attività dell'impresa.

Tutti i mali che colpiscono le persone e l'ambiente come risultato della spasmodica — e giuridicamente obbligata — ricerca del profitto da parte delle corporation sono pertanto sistematicamente classificati dagli economisti come "esternalità": cioè, problemi altrui.

In sostanza, spiega l'uomo d'affari Robert Monks: «La corporation è una macchina per esternalizzare, allo stesso modo in cui uno squalo è una macchina per uccidere. [...] Non è questione di cattiva volontà: l'impresa, così come lo squalo, ha dentro di sé quelle caratteristiche che la mettono in condizione di fare ciò per cui è stata creata. [...] La corporation è in realtà una macchina di morte». Un altro industriale di successo che ha riconsiderato criticamente le sue convinzioni passate, Ray Anderson, descrive la corporation come «uno strumento di distruzione dei tempi moderni, per la sua innata propensione a esternalizzare qualsiasi costo che il pubblico sprovveduto o indifferente le consenta di esternalizzare».

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