Copertina
Autore Fabio Coccetti
Titolo Piena di grazia
Sottotitoloda Bernadette all'industria delle apparizioni
Edizionemanifestolibri, Roma, 2006, Società narrata , pag. 160, cop.fle., dim. 145x210x10 mm , Isbn 978-88-7285-432-7
LettoreLuca Vita, 2006
Classe storia sociale , antropologia , religione , psicologia , libri
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Indice

Prefazione come post scriptum                              7

Intertoilette                                             13
La preghiera                                              15
(Questa non è) Una profezia                               19
Tra storia e leggenda                                     25
Il positivismo s'inchina al presepe                       41
Specchio I. "Come in uno specchio"                        49
Specchio II. Errare humanum est, multiplicare diabolicum  59
Specchio III. Il luogo sacro, il santuario                67
Illazioni su una proposta di matrimonio                   77
Simulazione e dissimulazione I. La seconda volta          85
Sorvegliare e punire                                      95
Simulazione e dissimulazione II. Nascondere il corpo,
    nascondersi dietro al corpo, diventare invisibile    101
Specchio IV. Il fantasma. Lo specchio velato.
    In speculo veritas                                   109
Il corpo in vetrina                                      117
Piccolo catechismo positivista                           123
Frontiere del Kitsch: i ceri di Lourdes, la Bestia umana
    e l'acqua della buona Madre dei Cieli                131
Santuario caldo, santuario freddo                        143
Epifania (della Befana)                                  155

Riferimenti bibliografici (in ordine di apparizione)     157

 

 

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Pagina 7

PREFAZIONE COME POST SCRIPTUM



Nel suo Bartleby e compagnia Enrique Vila-Matas racconta, attraverso l'avatar/alter ego di un narratore che improvvisamente si rimette al lavoro dopo venticinque anni di silenzio, dell'intenzione di scrivere un libro strutturato come delle note a piè di pagina, commento a un testo invisibile, mai scritto, e che però incombe, sta sospeso alla stregua di un fantasma, sul destino della letteratura contemporanea. Il testo invisibile non sarebbe altro che quello che si sono rifiutati di scrivere tutti i potenziali autori tiratisi indietro, diciamo così, sul più bello: quelli che avevano il talento per riuscirci e non lo hanno fatto, oppure quelli che hanno smesso di farlo dopo qualche tentativo peraltro felice, o ancora quelli che hanno cominciato a farlo senza venire però mai a capo dell'impresa. Tutti coloro che insomma, come il famoso scrivano di Melville, hanno infine preferito sottrarsi, soggiacere al fascino indiscutibile dello scomparire, al potente richiamo del nulla, restando, più o meno piacevolmente, invischiati nel labirinto dei No, come lo chiama Vila-Matas. Il testo invisibile costituirebbe dunque l'altro polo dei testi così come siamo abituati a considerarli, i testi con i quali ci capita quotidianamente di confrontarci. Invisibile rispetto a questi, «ma non per questo inesistente», giacché potenzialmente in grado, dal suo altrove situato al di là dello specchio, di orientarne la struttura, di definirne le finalità, di influire, senonaltro come memento, contrappeso o numero immaginario, sulla loro esistenza di oggetti reali. Bene: ciò detto, siamo poi così sicuri che la visibilità possa fungere da tratto distintivo fra i testi effettivamente scritti rispetto a quelli che non sono, non furono né saranno mai scritti?

In realtà, penso che tutti i testi siano per loro natura programmati per l'invisibilità. E che il destino dei libri effettivamente scritti, quindi reali, sia del tutto assimilabile a quello dei libri mai scritti, restati sulla soglia della scrittura, dunque potenziali – immaginati o immaginari. Il non nascere è solo uno dei modi possibili per scomparire. Forse il più sicuro, ma certo non il modo esclusivo. Perfino il nascere, che sembra porsi come esatto contrario del non nascere, come iniziativa in tal senso addirittura controproducente, finisce per condurre, pur fra qualche peripezia, allo stesso identico esito. Alla sparizione.

Tutto ciò che è stato scritto, a un dato momento si propone come qualcosa che non sia mai stato scritto. Basta lo spostamento di una virgola, e l'affermazione acquista un significato, se possibile, ancora più radicale. Tutto ciò che è stato scritto a un dato momento, si propone come qualcosa che non sia mai stato scritto. Fin dal primo momento, cioè.

Non appena l'autore stacca la penna dal foglio, il testo prende ad affondare nel mare magnum librorum. Il libro appena uscito dalla tipografia è già in procinto di essere inghiottito, ricoperto dal grande rumore di fondo delle voci di tutti i libri già scritti. Θ comprensibile l'affanno dell'editore per promuoverlo presso i recensori, i distributori, i librai, l'ansia dell'autore nel presentarlo al pubblico, ai premi, ai colleghi. Il libro già affonda. Molto più delle stroncature, che pure cooperano al naufragio ma sono in effetti poca cosa, a spingerlo a fondo è la sua naturale riluttanza a restare a galla, in superficie, sul pelo dell'acqua, lì dove l'autore l'ha lasciato, è lecito supporre non senza dargli prima un'affettuosa spintarella, un piccolo abbrivio benaugurante. Niente da fare: il testo affonda, il suo destino è di affondare, di mescolare la propria voce al rumore di fondo del mare magnum librorum. Ciò non toglie che periodicamente non possa riaffiorare per caso, e magari solcare in lungo e in largo le onde in balia delle correnti, secondo rotte che somigliano molto a derive. Oppure, che non possa essere oggetto di una consapevole e deliberata operazione di recupero attraverso i batiscafi della critica. Ricerche spesso al buio, nell'oscurità senza fine degli abissi, all'inseguimento di una flebile indicazione di presenza, forse solo un presentimento, o una vaga testimonianza raccolta in proposito. Da questa parte ci dev'essere qualcosa. Certo. Da ogni parte, ovunque si cerchi, c'è qualcosa nel mare magnum librorum. Solo a rimestare l'acqua, un libro dal fondo risale in superficie. Ma una volta che riaffiora, qualcosa è intervenuto nel frattempo. Il testo è diventato altro, tanto che anche l'autore, nella ventura – assai improbabile, peraltro – che sia presente a questa nuova epifania, paragonabile a una vera e propria resurrezione, stenterebbe a riconoscerlo, a riconoscerne la voce.

Quella voce, che sembrava eppure così distinta, così netta, così rotonda all'atto del varo, quando riemerge dal mare magnum librorum è solo un rumore di fondo, un vocio da interpretare. Qualcosa, a causa di questo bagno promiscuo, si è irrimediabilmente perduto. Il testo, con ciò che significa e comporta in termini di prodotto storico, di manufatto estetico, di esperienza individuale «finita», finisce nel momento stesso in cui l'autore lo congeda. Poi è la volta della testualità, di questo sprofondamento inesorabile nel rumore di fondo delle voci di tutti i testi di tutti i tempi, interrotto e inframmezzato talvolta da affioramenti casuali, necessari, velleitaristici, decisionistici che provano a contrastare il richiamo inesorabile dell'abisso, dell'oblio, del tenersi all'oscuro.

Non siamo più di fronte a un oggetto dai contorni netti e dalla sostanza spessa, ma a un ritrovamento che impone un approccio ermeneutico dinamico e incessante, e sollecita un processo di «estrazione» del senso dagli esiti mai definiti in partenza e mai definibili in termini di compiutezza, del quale l'autore non solo ha perduto il controllo, ma pure il diritto ad esercitarlo. Θ un'esperienza ben nota, connaturata direi, ai filologi del mondo classico, chiamati a confrontarsi ogni giorno con testi/relitti alla cui interpretazione è affidata la nostra possibilità di comprendere civiltà delle quali altro di fatto non rimane. «Tutto ciò che di quei mondi ci resta è "testo"», scrive Luciano Canfora presentando l'edizione italiana dell' Introduzione alla filologia greca (a cura di Heinz-Gόnther Nesselrath). Il mondo antico si offre interamente come testo, esclusivamente come testo. Ma non è questa una condizione generale che si applica a qualsiasi esperienza umana, nel momento stesso in cui si produce e diventa segno fra i segni, segno nel mare, nell'oceano dei segni? Non è in fin dei conti un'illusione che la vicinanza spaziotemporale che condividiamo con un'esperienza possa guidarci, in forza di una presunta scia, di una sorta di cordone ombelicale o di un codice di tracciabilità, con maggiore sicurezza nella sua interpretazione? Quando un testo affonda nel mare dei testi, abbiamo forse qualche garanzia, o almeno qualche solido indizio, che – senonaltro all'inizio della sua traiettoria – si mantenga ancora alla portata della mano che l'ha lasciato cadere, che l'ha, si può dire, accompagnato nella caduta? Non accade piuttosto, più di frequente, che, appena sotto la superficie, esso già scompaia alla vista, se ne perda immediatamente il contatto, che il vortice che agita le acque lo risucchi rapinosamente per portarlo lontano, lontano da ogni approdo, magari sul fondo?

Bernadette Soubirous, alias suor Marie-Bernard, negli ultimi anni della sua vita fu costretta a confrontarsi con il proprio racconto, incalzata a più riprese dagli storici che, in polemica reciproca, si contendevano il diritto di renderne il senso. Lei stessa più volte non poté fare a meno di ammettere l'incapacità di riaffermare l'autorità del proprio punto di vista, ciò che aveva saputo fare invece con tranquilla fermezza negli anni immediatamente seguenti le apparizioni. Tutto le appariva ormai estraneo: erano davvero sue le parole che i vari Lasserre, Sempé e Cros le presentavano, facendo riferimento alle dichiarazioni dei testimoni e ai verbali dei numerosi, puntuali interrogatori cui la veggente era stata sottoposta a suo tempo? Bernadette non le riconosceva o non se ne ricordava più, arrivando perfino, sull'onda dello sconforto, a dubitare della verità delle apparizioni. «Ormai sono lontane, molto lontane quelle cose...», confessa nel settembre 1877 a monsignor Bourret, che molto si era adoperato per ottenere di incontrarla e vide infine la sua insistenza premiata da un colloquio privato con la veggente, «non me ne ricordo più, non mi piace parlarne, perché, mio Dio, se mi fossi ingannata...».

Lo stesso testo, il racconto delle apparizioni, diventa presto indistinguibile dal commento, dall'interpolazione, dalla nota a piè di pagina, tanto che la stessa autrice non riesce più a raccapezzarsi di fronte a studiosi che, facendo un uso più o meno corretto delle fonti, senz'altro agguerrito, sembrano ormai saperne più di lei, e le sottopongono, perché Bernadette li risolva, problemi e contraddizioni che lei, di fatto, non è più in grado di risolvere. «A forza di infiorettarle», fu il suo commento desolatamente rassegnato, «le cose si snaturano». Ma ciò che era accaduto alle sue parole non è il destino riservato a ogni esperienza umana? Il messaggio di Bernadette, (o riferito in esclusiva da Bernadette, qualora si voglia attribuirlo non alla veggente ma alla Santa Vergine in persona), non appartiene più a lei, e non perché siano intervenuti necessariamente fraintendimenti o manipolazioni. Ve ne sono stati, senza dubbio, ma la dinamica che porta un autore ad essere espropriato del suo messaggio riposa sulla natura stessa del messaggio. Appena un messaggio confonde la sua voce con la voce di tutti gli altri messaggi, diventa altro, portando con sé la traccia, la colatura di tutti gli altri messaggi che l'hanno sfiorato, intercettato, distorto, amplificato o soffocato nel corso del suo viaggio senza meta e senza fine in quello che ho chiamato il mare magnum librorum. Ecco perché, andando a pesca del messaggio di Bernadette, l'ho trovato «infiorettato», come dice lei: ho trovato impigliati nella mia rete, all'atto di ritirarla, tutta una serie di testi che gli contendono la pretesa della sua individuale, irriducibile unicità – la candida pretesa di ogni testo. Sono i testi che l'hanno infiorettato della loro presenza, affidandogli forse parte della propria aspirazione a non scomparire. Così si arrangiano i testi per sopravvivere. Stingendo un po' del proprio colore a ogni incontro con l'altro, lasciandosi a propria volta impregnare del colore altrui, diventando l'uno glossa, portavoce o interprete dell'altro.


P.S. Corollario del precedente: è impossibile, durante l'esplorazione del mare magnum librorum, imbattersi in qualcosa di mai attinto prima, qualcosa che non sia insomma un post scriptum come questo. La forma del post scriptum, più o meno esplicitata, sarà dunque la matrice essenziale di queste note. Sono diciotto capitoli, come furono diciotto le apparizioni di cui fu testimone Bernadette: se la Madonna si è fermata a diciotto, Dio sa per quale motivo, chi sono io per contraddirla? Ognuno dei diciotto capitoli rimanda a qualcuno degli altri. Eppure ciascuno va per la sua strada, assumendo fin dalla prima riga una traiettoria decisamente centrifuga. Tutti dovrebbero parlare di Bernadette, ma ne parlano allontanandosi dal centro. Il centro, dove si presume debba trovarsi appunto lei, resta non occupato, chiuso al traffico, o, meglio, il traffico vi transita ma senza sapere che si tratti del centro o dando a vedere di non saperlo – si confida evidentemente sulla manica larga di chi è chiamato a vigilare i varchi d'accesso. Sono diciotto apparizioni di Bernadette, o intorno a Bernadette: la luce s'infrange sul prisma, si scompone, s'irradia, fugge in diciotto direzioni diverse, sparisce. Sono perlopiù apparizioni fugaci. L'auspicio, se non la promessa, è che, alla stregua di quel che accade per le fughe musicali, quando risuona infine l'ultima nota al termine di un lungo vagabondare, la musica – che si appresta ormai a sfumare nel silenzio, che forse ha già varcato quella soglia – ancora porti con sé l'indicibile nostalgia della cellula iniziale che l'ha generata.

P.P.S. Questa – ma ormai l'avrete senz'altro capito – non è una biografia.

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Pagina 13

INTERTOILETTE



La Madonna era una signorina piena di grazia: le era stato annunciato dall'angelo, quindi con tutti i crismi e la pompa dell'ufficialità. Lourdes, pur non sapendolo ancora, era destinata anch'essa a diventare una località piena di grazia, nonché di alberghi e pellegrini. Bernadette, lei non era graziosa. Aveva due sopraccigli folti e neri, che le davano uno sguardo duro, di pietra. Forse aveva preso dal padre. Il padre che, proprio a causa di una scheggia di pietra, mentre scalpellava la macina del mulino, era rimasto orbo da un occhio. Con l'altro, ad ogni modo, il solo occhio buono che gli era restato, continuò a sorvegliare il lavoro della mola, almeno finché fu in grado di pagare l'affitto del mulino di Boly. Poi i suoi occhi – il buono e il guercio – furono tutti per le sue adorate ragazze. Il signor Soubirous, per la verità, non si aspettava molto dalle figlie, benché si augurasse, come ogni padre del mondo, di sbagliarsi, di venire prima o poi smentito dall'evidenza dei fatti. La seconda, qualcosa forse l'avrebbe pure potuta combinare nella vita, se non fosse stata battezzata con il nome infausto di Toilette, probabilmente in un momento di ottusa amarezza. Al riguardo l'uomo era disposto ad ammettere – non in pubblico, sia ben chiaro – qualche responsabilità. Ma Bernadette, la primogenita, lei era talmente fragile e malaticcia che solo un miracolo, solo un miracolo...

Nella foto dove, ormai celebre, appare con il vestito nero e il velo da conversa che le copre la testa, la veggente ricorda, anzi anticipa la posa di un autoritratto di Frida Kahlo. Tiene il mento leggermente abbassato sul petto così da evidenziare la solidità delle ossa frontali, con le quali, simile a una tignosa capra pirenaica, avrebbe seguitato a incocciare, come peraltro sempre aveva fatto, il mondo ostile e la disgrazia. Frida e Bernadette avevano in comune la stessa tenacia e lo stesso corpo offeso. Quanto al talento, ne ebbero in sorte ognuna uno diverso, ognuna il suo. Frida dipinse piccoli quadri, Bernadette vide la Madonna.

P.S. La sorella cadetta di Bernadette non si chiama Toilette, naturalmente. Il suo nome autentico, più decente se non più sonoro, è Toinette, che sta per Antoinette. L'ho chiamata Toilette perché una buona parte dei siti dedicati a Lourdes, e alla più famosa Bernadette, la chiama così. Ciò che la dice lunga sulla qualità della roba – immondizia deliziosamente confezionata per un riciclo virtuoso nel mondo – che circola talvolta, o più spesso ristagna, in Internet. O dovrei chiamarla piuttosto Intertoilette? Ad ogni modo è roba preziosa: perché sottovalutarne la portata? Quale luogo – fisico o metaforico – meglio di una discarica ben organizzata ma che non funziona come dovrebbe, può rappresentare il destino e, insieme, la destinazione del nostro operato sulla terra? Lassù, in quota, uccelli dalle grandi ali vi volteggiano, incerti all'infinito, fra tanta abbondanza, su cosa scendere a spiluccare.

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Pagina 15

LA PREGHIERA



Prima di morire, Bernadette scrisse una preghiera. Θ il proprio personale Getsemani, l'ora del dubbio, del combattimento interiore, benché nel suo caso non è del tutto pacifico come sia andata a finire, se l'invocazione finale a Gesù suona «Per voi, assente e presente». Eccetto che per qualche refuso che non ho potuto impedirmi di correggere per deformazione professionale (alla quale si può anche ascrivere il rifiuto di chiamarla Bernardetta e la decisione quindi di rifrancesizzare i nomi propri italianizzati), la riporto così come l'ho trovata in un sito web, accompagnata da un cappello introduttivo che dà prova di certezze che, per quanto mi riguarda, debbo confessare fatico a condividere.

Bernadette Soubirous è diventata suor Marie-Bernard, conversa delle suore di Nevers, ha 35 anni ed è morente.

Colei che ha visto e parlato con la Madonna a Lourdes guarda al passato con occhio stupito, diremmo incredulo di fronte alle cose operate dal Signore in Lei: la vita dura e miserevole condotta nella sua casa, la fame sofferta, le terribili ingiustizie subite, i dileggi, le incomprensioni anche da chi era più vicino. Guarda al passato e scrive quanto il cuore le annota; e ciò diventa preghiera vera e rara...

Per l'indigenza di mamma e papà,
per la rovina del mulino, per il vino della stanchezza,
per le pecore rognose: grazie, mio Dio!
Bocca di troppo da sfamare che ero;
per i bambini accuditi, per le pecore custodite, grazie!
Grazie, o mio Dio, per il Procuratore,
per il Commissario, per i Gendarmi,
per le dure parole di Peyramale.
Per i giorni in cui siete venuta. Vergine Maria,
per quelli in cui non siete venuta,
non vi saprò rendere grazie altro che in Paradiso.
Ma per lo schiaffo ricevuto, per le beffe,
    per gli oltraggi,
per coloro che mi hanno presa per pazza,
per coloro che mi hanno presa per bugiarda,
per coloro che mi hanno presa per interessata.
Grazie, Madonna!
Per l'ortografia che non ho mai saputa,
per la memoria che non ho mai avuta,
per la mia ignoranza e per la mia stupidità, grazie!
Grazie, grazie, perché se ci fosse stata sulla terra
una bambina più stupida di me, avreste scelto quella!
Per la mia madre morta lontano,
per la pena che ebbi quando mio padre,
invece di tendere le braccia alla sua piccola Bernadette,
mi chiamò suor Marie-Bernard: grazie, Gesù!
Grazie per aver abbeverato di amarezza
Questo cuore troppo tenero che mi avete dato.
Per Madre Joséphine che mi ha proclamata:
«Buona a nulla».
Grazie!
Per i sarcasmi della madre Maestra, la sua voce dura,
le sue ingiustizie, le sue ironie,
e per il pane della umiliazione, grazie!
Grazie per essere stata quella cui la Madre Thérèse
Poteva dire: «Non me ne combinate mai abbastanza».
Grazie per essere stata quella privilegiata
dai rimproveri, di cui le mie sorelle dicevano:
«Che fortuna non essere come Bernadette!».
Grazie di essere stata Bernadette,
minacciata di prigione perché vi avevo vista,
Vergine Santa!
Guardata dalla gente come bestia rara;
quella Bernadette così meschina che a vederla si diceva:
«Non è che questa?!».
Per questo corpo miserando che mi avete dato,
per questa malattia di fuoco e di fumo,
per le mie carni in putrefazione,
per le mie ossa cariate, per i miei sudori,
per la mia febbre, per i miei dolori sordi e acuti,
Grazie, Mio Dio!
Per quest'anima che mi avete data, per il deserto
    dell'aridità interiore,
per la vostra notte e per i vostri baleni.
per i vostri silenzi e i vostri fulmini;
per tutto,
per Voi assente e presente, grazie! Grazie, o Gesù!


Non so voi, ma a me, quando l'ho letta la prima volta, questa roba ha dato i brividi. Gli stessi brividi che mi colgono ogni qual volta rileggo l'ultima, estrema frase del diario di Eva Braun ospite del bunker sotto la Cancelleria, così come l'ha ricreato, questo diario probabilmente mai esistito, Harry Mulisch in Siegfried, il romanzo in cui si immagina, egli immagina che Hitler abbia avuto un figlio dalla sua amante. Anche Eva Braun, come Bernadette, sa che sta per morire. La pagina porta la data del 29 aprile 1945. Θ più solo questione di ore. Le capsule di cianuro sono pronte. Però ha appena coronato il sogno di tutta la vita: sposare il suo adorato Adi. Che importa se in un bunker sotterraneo di una città sotto assedio, sbriciolata dalle bombe? Che importa se questa felicità è dovuta passare attraverso l'assassinio del piccolo Siegfried, condannato dal semplice sospetto (peraltro destato ad arte e calunnioso) che non fosse di razza pura? Eva è raggiante: Hitler finalmente è suo marito. «Tra un po' – scrive eccitata come ogni sposina in luna di miele – busserà educatamente alla mia porta per venirmi a prendere per la nostra prima notte nel fuoco». La nostra prima notte nel fuoco... Dà i brividi, non è vero? La prima volta che ho letto la preghiera di Bernadette, ho sentito lo stesso odore di zolfo. Di santità al contrario, al negativo, con il segno meno. Più che di Spirito, di Antimateria. «Per questo corpo miserando che mi avete dato, / per questa malattia di fuoco e di fumo, / per le mie carni in putrefazione, / per le mie ossa cariate... Grazie, mio Dio!» Certo, con un po' di buona volontà, che è sempre richiesta agli uomini che ce l'hanno, si può anche prenderla per una preghiera. Volendo, si può.


P.S. Se il diario apocrifo di Eva Braun ha un autore accertato, altrettanto non si può dire di questa preghiera, fortemente indiziata di inautenticità. Non se ne trova traccia in nessun documento ufficiale, né del resto Bernadette aveva molta dimestichezza con la scrittura, l'oratoria e il fuoco mistico. Dal momento in cui fece il suo ingresso nel convento di Saint-Gildard a Nevers fino alla morte (in altre parole, durante gli ultimi tredici anni di vita), le si attribuiscono in tutto 857 parole, tra scritte e orali, amorevolmente repertoriate da René Laurentin assistito dalle suore della Carità e dell'Istruzione cristiana (Messori, 1996; Laurentin, Bourgeade, 1976). Ad ogni modo, quando era bambina, all'epoca delle apparizioni, conosceva in tutto quattro preghiere: il Pater, l' Ave e il Credo, nonché O Marie conηue sans péché. Ne avrà certamente imparata qualcun'altra durante gli anni trascorsi in convento, ma la preghiera che in assoluto le andava più a genio erano le invocazioni brevi e reiterate delle giaculatorie (dal latino iaculum, giavellotto). «Non riesco – diceva – a dire delle preghiere lunghe, allora rimedio con le giaculatorie». Rapidi dardi scagliati verso il cielo, che lei, alla luce della propria non trascurabile esperienza in materia, si sentiva di raccomandare alle consorelle in special modo nell'ora della malattia e dell'agonia. Perché facili da ricordare e pronunciare, perfino tra gli spasimi del trapasso.

Secondo la tradizione accreditata, Bernadette nel corso delle apparizioni avrebbe ricevuto dalla Madonna tre segreti e una preghiera, segreta anch'essa. Riguardo ai tre segreti, contrariamente ad altri veggenti cui pure ne erano stati affidati, non volle farne parola con nessuno, conformandosi diligentemente alla consegna, ragionevole ed elementare abbastanza perché potesse essere compresa anche da una mente semplice, di tenerli appunto segreti. Non li diresti nemmeno al papa?, le chiedono sconcertati a più riprese gli inquisitori, dinanzi al fermo, giocoso rifiuto di rivelarli. «La Santa Vergine mi ha raccomandato di non dirli a nessuno (à persoune). E il papa è una persona», ribatte lei con l'aria di divertirsi un mondo, come si divertono i ragazzini ogni qual volta hanno la possibilità di confrontarsi con gli adulti da una posizione di vantaggio. Ma il papa è il vicario di Gesù Cristo in terra!, insistono quelli, sempre più contrariati. Ah sì? «Il papa è molto potente sulla terra, è vero», concede Bernadette ossequiosa, «ma la Santa Vergine lo è in cielo». Parata e risposta, si direbbe nella scherma. Niente da fare, dunque. Come si impara fin da bambini, un segreto è un segreto. Se lo si spiffera in giro, che segreto è?

Quanto alla preghiera, non volle dire nulla neppure riguardo a quella. «Θ giusto adatta alla mia miseria – confidò una volta a una compagna incuriosita. – Non vi insegnerebbe proprio niente». C'è solo da augurarsi che non fosse tetra e brunita come quella riportata qui sopra, ma qualcosa invece di leggero e vivificante, di spirituale davvero, confacente ai suoi quattordici anni di ragazzina. Magari intessuta di colori vivaci, che infondano allegria e fiducia in se stessi. Come quelli, ad esempio, del vestiario in vendita nei negozi 0-12 della Benetton. Esistono preghiere per la fascia d'età 0-12? Non preoccupiamocene: la Madonna, se ce ne sono, lo saprà di certo.

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Pagina 25

TRA STORIA E LEGGENDA



IM LEGENDENTON

Se un succinto ma informato profilo biografico di Bernadette era già adombrato lungo il filo delle strofe della Preghiera fasulla di qualche pagina fa, a conferma che chi l'ha scritta, qualunque sia il motivo che lo ha spinto a farlo, era uno dei tanti cultori/propalatori del mito della veggente di Lourdes, a mia volta mi permetterò di usare senza troppe remore un tono leggendario nella mia – sottolineo mia – ricostruzione degli avvenimenti, a dimostrazione che non ho alcuna intenzione, spalancando di colpo lo sportello del forno, di rovinare il soufflé a chi si è dannato l'anima tutta una vita a farlo cuocere, crescere e gonfiare piano piano nel suo stampo, come occorre per una buona riuscita. Al di là dei gusti personali, l' haute cuisine merita sempre il massimo rispetto. Procediamo, dunque, im Legendenton.


PREPARATIVI

Gesù, la Madonna. San Giuseppe. I re magi. I pastori. Il bue e l'asinello. Se ne sono andati tutti. Però ci hanno lasciato il presepe. Ovvero uno dei luoghi in cui è possibile che illustri divinità, grossi papaveri e anonimi pezzenti condividano per un istante magico lo stesso ambiente e lo stesso destino.

Bernadette ha sempre adorato il presepe, almeno la Bernadette della biografia romanzata di Franz Werfel, il successo letterario che riportò d'attualità durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale la figura della pastorella di Lourdes e costituì anche lo spunto - a riprova delle indubbie potenzialità (melo)drammatiche del soggetto - per un film hollywoodiano immediatamente successivo, che contribuì ulteriormente a diffonderne la popolarità presso un pubblico vastissimo.

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Sono simpatici i positivisti. Perdenti ma simpatici. Me li immagino con i baffoni a manubrio e i camici bianchi da scienziati, sbottonati sopra inappuntabili completi, quando il completo era ancora completo di panciotto, ηa va sans dire, mica come adesso. A bordo di biciclette, batiscafi e palloni aerostatici. Fotografati in falangi compatte di cinquanta, cento esemplari ciascuna, per impressionare il nemico oscurantista con l'impatto del numero. Credono nell'uomo, nel progresso, nella felicità su questa terra, nella burocrazia. Ce ne fossero così... Fieri di un mondo laico. Ostinati nel volersela cavare a tutti i costi senza aiuti oltremondani. Ma ormai non è più possibile. Chi ci crede più... «Quelle là», Bernadette e Aqueró, hanno vinto. Stravinto. Θ bastata loro una grotta, un presepe, per sgominare in quattro e quattr'otto la rivolta degli Increduloni.


P.S. Il miracolo della madonnina di Civitavecchia è un esempio di questa capacità del presepe di disseminare le proprie spore per il mondo. La statuetta comprata su una bancarella a Medjugorje ha raggiunto Civitavecchia e lì, in un giardino riparato, ha messo radici in una piccola grotta di sassi. Un giorno di febbraio inizia a piangere lacrime di sangue. La statuina, da mero souvenir del miracolo, diventa del tutto inaspettatamente miracolo del souvenir, diviene essa stessa oggetto di devozione. Nell'era della riproducibilità dell'opera, l'oggetto kitsch si ripiglia così l'aura che la tecnica e Walter Benjamin pretendevano di avergli tolto per sempre. Il souvenir è stufo del suo status di vuoto «collegamento a», di «madeleine» di gesso, di inerte operatore di fantasticherie sentimentali, di essere, in due parole, una nullità. L'aspirazione del Kitsch, si sa, è piuttosto la pienezza, la medesima pienezza che si attribuisce perlopiù all'Arte con la A maiuscola e della quale esso si fa libero interprete nel senso della strabocchevolezza, della ridondanza, dell'ammicco, del pacco (regalo), del «fai vedere che abbondiamo», del «più chiaro di così si muore». Pinocchio voleva diventare bambino, la statuina non è chiaro che cosa volesse diventare. Θ tale la sua voglia ruspante di significare qualcosa, qualsiasi cosa piuttosto che niente, che fa incetta, s'ingozza, si agghinda di significati. Emette sangue umano con caratteristiche maschili, suscita visioni nella famiglia che la ospitava, procura un mezzo coccolone al vescovo di Civitavecchia (alquanto scettico sulle prime nei suoi riguardi), viene messa sotto sequestro dalla magistratura. Le storie dei luoghi che si candidano a divenire santuari, si assomigliano un po' tutte. Infine, la statuina la spunta: da madonnina diventa Madonna, finisce nella chiesa di Sant'Agostino, località Pantano, dove le folle la adorano in file composte (in zona è disponibile un'area di sosta per camperisti).

Presto, davanti al luogo di culto sorgeranno banchetti che venderanno altre madonnine. Qualcuno, fra i pellegrini in visita al nuovo santuario, ne comprerà una per portarsela a casa come souvenir. E le spore del miracolo attingeranno così un'altra terra.


P.P.S. Recentemente, Livio Fanzaga e Saverio Gaeta hanno notato che, congiungendo con un tratto di penna, come nel giochino della Settimana enigmistica, i punti sulla carta dell'Europa corrispondenti ad altrettanti santuari/luoghi di apparizioni della Madonna, ne risulterebbe il disegno di una M maiuscola svolazzante. Ovvero, per citare il titolo del libro ricavato da tale suggestiva ipotesi, la firma di Maria. Come ben sa chiunque si sia cimentato una volta in questo passatempo, sotto l'ombrellone o nello scompartimento di un treno, a ogni punto corrisponde un numero: saltare anche un solo numero nella sequenza, comporterebbe rendere confuso e irriconoscibile il disegno finale. La Madonnina di Civitavecchia aveva, quindi, tutte le ragioni di darsi da fare, di concorrere all'estrazione di un numero. Senza Civitavecchia, salterebbe la M di Maria. Un'ultima domanda: chi ha numerato la sequenza dei punti? Chi ha dato i numeri? I nostri studiosi, ovviamente.

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2. AL DI Lΐ DELLO SPECCHIO: IL MONDO ALLA ROVESCIA

            Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem.
                                            Guglielmo di Occam



Pastorelle, ragazzini, servette sono pressoché sempre i protagonisti delle apparizioni mariane. Strati sociali ininfluenti, marginali, appartenenti per di più a paesini sperduti, si conquistano il centro della scena. Ma questo è il mondo alla rovescia!, verrebbe voglia di chiosare. Il mondo sottosopra del Carnevale e della Festa di San Giovanni, che Peyramale, come tutti i preti di campagna, conosceva molto bene. Uno dei ragazzi «visionari» che seguirono l'esempio di Bernadette nel periodo immediatamente successivo alle apparizioni «ufficiali», ordinò ai devoti raccolti davanti alla grotta di recitare il rosario, sostenendo che anche il buon Dio si sarebbe unito alla preghiera. «Il buon Dio che prega Sua Madre?! Ma questo è il mondo alla rovescia!», protestò per l'appunto una signora, scandalizzata dalla credulità che la circondava. Lourdes è il mondo alla rovescia, nulla va come ci si attenderebbe che andasse. La Madonna, dimostrando di aver preso interesse a una delle più oziose dispute teologiche degli ultimi secoli – la Madre di Dio era stata concepita con o senza peccato? Si optò infine per l'assenza –, si dà il nome che le ha dato prima la credenza popolare e, ciò che più conta, da ultimo il papa. Messa di fronte a uno dei più vertiginosi, trascinati e lambiccati approdi del pensiero cattolico, la Madonna dice Centro! Bersaglio pieno! Ella si rimette e sottomette (sfinita?) all'agire del pontefice che nel 1854, quattro anni prima, aveva proclamato il dogma dell'Immacolata Concezione e, sull'onda di un isolamento che inclinava al narcisismo paranoide, nel 1870 giungerà a proclamare, ormai in un delirio di onnipotenza probabilmente sovralimentato dall'imprevedibile nonché insperata approvazione ultraterrena, il dogma della propria infallibilità. Il Vaticano, anziché insospettirsi che una delle principali divinità del proprio pantheon si prenda il disturbo di render noto che segue le vicende del papato (come le puntate di un'interminabile telenovela), ne approva la guida e ne condivide le decisioni, si compiace invece della prodigiosa, inaudita novità. Sì, la Madonna dunque si tiene informata e, sia pure con un ritardo di tre anni e mezzo (imputabile alle difficoltà di sintonizzare il canale?), conferma la verità del dogma – che, per la verità, sarebbe vero comunque – proclamato da papa Pio IX l'otto dicembre 1854. Come mi volete, Io sono. Pirandellianamente. Mi volete Vergine? Vergine fui sono e sarò. Non vi basta che sia Vergine, mi volete anche Immacolata dal peccato originale? Così sia. Io sono... Fate voi. Aggiungete voi il resto. Al posto dei puntini. Se non è il mondo alla rovescia, questo...

Θ quel che succede però ogni qual volta il gabbato prende sul serio uno scherzo. Non solo non lo capisce in quanto scherzo. Alimenta, senza averne né l'intenzione né la consapevolezza, il ribaltamento appena avviato. Qualora se ne accorgesse per tempo, il gabbato potrebbe reagire allo scherzo, in un modo o nell'altro. Potrebbe offendersi, indignarsi, far finta di niente per vendicarsi a sua volta con uno scherzo in futuro, reprimere se ne ha il potere. Come lo stesso Peyramale aveva fatto in passato censurando e stroncando sul nascere le carnevalate dei figli dei suoi parrocchiani. «Hai finito con le tue carnevalate?», domanda a Bernadette madre Ursule Fardes, la superiora del Convento, facendo visita alla classe dove la piccola segue il Catechismo. D'altra parte è Carnevale, no? Come si distingue un'apparizione da uno scherzo di Carnevale? Direi allo stesso modo in cui si distingue il vero dal falso. Una signora del paese, tale Sophie Pailhasson, si convinse così fulmineamente di esserci riuscita che si fece indicare da una suora chi era «la stramba», la avvicinò e le diede un sonoro ceffone. Θ anche questo un modo di reagire a uno scherzo. Se fosse stato per la signora, Lourdes probabilmente sarebbe rimasto un sonnolento paesotto di povertà ed emigrazione.

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