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| << | < | > | >> |Indice9 Prefazione di Giuliano Amato VIVA LA REPUBBLICA EUROPEA 15 Introduzione L'Europa è una Repubblica? Parte prima La Repubblica europea: perché? 31 Capitolo 1. Il mondo in cui viviamo 32 1. L'angoscia globalizzata 34 2. Globalizzazione e mercati 36 3. Globalizzazione e modelli sociali 43 4. La pressione demografica e i rischi del futuro 47 Capitolo 2. Il successo dell'integrazione europea 47 1. Le ceneri e la fenice 50 2. Il metodo Monnet 52 3. L'integrazione attraverso le istituzioni 55 4. Mercato unico. Moneta unica 57 5. Il populismo: una sfida al successo europeo? 61 Capitolo 3. Perché l'Europa non funziona più 62 1. Il blocco economico: una questione costituzionale 68 2. Il blocco ideologico: il neoliberalismo 75 3. Il blocco della democrazia: la collaborazione intergovernativa 78 4. Lisbona: la falsa via d'uscita 82 5. La necessità del coordinamento delle politiche: le «esternalità» 86 6. I rischi dell'allargamento Parte seconda La Repubblica europea: come? 91 Capitolo 4. L'Europa e la sua Costituzione 92 1. Nizza: il fallimento programmato 95 2. Le lacune del progetto di Costituzione 101 3. Il prezzo di càtti a Costituzione 105 4. Le istituzioni e la volontà generale 109 5. La democrazia e la sfera politica europea 113 6. Democrazia europea 116 7. Costruire la casa della Repubblica 119 Capitolo 5. La governance economica: disoccupazione, inflazione, deficit 119 1. La disoccupazione 121 2. La politica monetaria 123 3. La politica finanziaria 125 4. Riforme strutturali e politica macroeconomica 127 5. Deficit democratico e politica finanziaria 129 6. Un vero governo con una strategia economica per l'Europa 133 7. Il bilancio europeo 137 Capitolo 6. La Repubblica europea e gli altri 138 1. I limiti della Repubblica europea 139 2. La massa critica: l'unione monetaria 142 3. La casa nel giardino 146 4. Una sola voce, una sola azione 147 5. In conclusione: bisogna ratificare la Costituzione? 151 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 15Ha un futuro l'Europa? Dopo cinquant'anni di integrazione siamo giunti a una svolta. Abbiamo raggiunto un blocco istituzionale. Il Trattato costituzionale, infatti, non è stato ratificato. Agli occhi di un numero crescente di cittadini, l'Unione Europea non appare più come una garanzia di prosperità, ma una fonte di insicurezza e di precarietà. Le politiche adottate dai governi sembrano impotenti a cambiare il corso della storia e i suoi cittadini si arrendono pensando di accettare le condizioni attuali, non avendo altra scelta. Il deficit democratico provoca un rigetto dell'attuale gestione. L'Europa funziona male: stagnazione economica, blocchi politici, disoccupazione attestata su livelli elevati, sistema sociale in pericolo e una liberalizzazione del mercato del lavoro che sembra non contribuire a creare un equilibrio sociale. Per quanto riguarda la politica finanziaria, l'Unione Europea è priva di risorse proprie, giacché vive sui contributi degli stati membri, i quali si interrogano sul perché dovrebbero tassare i propri cittadini a vantaggio di quelli di altri paesi. Il bilancio dell'Unione rappresenta meno dell'1% del PIL dell'Unione Europea. Questa situazione aumenta l'acrimonia tra gli stati e fa crescere il sospetto dei cittadini. A causa del Patto di stabilità e dello sviluppo e della necessità di equilibrare il bilancio si è verificata una riduzione della spesa pubblica. I grandi paesi hanno affrontato quelli più piccoli sull'eventualità di una sospensiva, pur esistendo una disposizione istituzionale chiave dell'Unione. Nel 2005, la «riforma» del Patto di stabilità ne ha diminuito gli obblighi iniziali. Questo cambiamento ha avuto come ripercussione la sostituzione della regola con l'arbitrio. Lo svolgimento del lavoro delle istituzioni a venticinque avviene ancora attraverso il ciclo formale delle riunioni interministeriali, ma è vano cercare qualcosa di concreto nelle dichiarazioni sulla strategia di Lisbona, sul metodo aperto di coordinamento o sulla proprietà (ownership) delle politiche europee. In materia di politica internazionale, i governi si sono spaccati a proposito dell'Iraq, nonostante i cittadini europei fossero quasi unanimemente contrari all'intervento americano e a qualsiasi genere di partecipazione alla guerra. Quello che sta accadendo dimostra chiaramente che la cooperazione volontaria tra stati, elemento decisivo durante la fondazione dell'Unione Europea, oggi è arrivata al capolinea. Nonostante Jean Monnet, nel 1957, dichiarò: «Noi non coalizziamo gli stati, uniamo gli uomini», l'Unione Europea è sempre più una coalizione di stati in cui i cittadini non hanno in realtà la possibilità di esprimersi. Riviviamo l'Ancien Régime: con i ministri e i burocrati che si comportano da aristocratici e gli intellettuali da membri del clero. Se l'Europa vuole progredire, deve implementare nuovi metodi di governance, dotandosi di un vero e proprio governo eletto dai cittadini. Gli stati dovrebbero invece occuparsi delle questioni di ordine nazionale. L'Europa deve costituirsi in un'Unione politica e una democrazia moderna. Chiamo questa nuova Unione democratica «Repubblica europea». Non sono il solo. Dopo il fallimento del Trattato costituzionale, altri hanno tentato di far ritrovare all'Europa la propria capacità di operare. Guy Verhofstadt, l'ex primo ministro belga, ha lanciato un appello affinché siano creati gli «Stati Uniti d'Europa», formati dai paesi membri della zona euro. La Costituzione non è stata rifiutata perché troppo ambiziosa, ma perché priva di ambizione: «Ciò di cui abbiamo bisogno è un progetto chiaro, un obiettivo ben definito, una volontà politica. Abbiamo bisogno di un nuovo progetto per l'Europa, grazie al quale, invece di sprofondare nei cavilli, ci si può dedicare ai compiti principali: riconoscere a un tempo l'identità e la specificità culturale degli stati membri e disporre di istituzioni forti e di autonomia finanziaria». Gli Stati Uniti d'Europa saranno diversi dagli Stati Uniti d'America.
Il concetto di Stati Uniti d'Europa non è un'idea che
circola da secoli: parte da
Immanuel Kant
, Claude Henri de Saint-Simon,
Victor Hugo
e
Giuseppe Mazzini
; prosegue nel 1925, con il programma SPD di Heidelberg
e, nel 1946, con Winston Churchill a Zurigo; termina,
negli anni cinquanta, con il Comitato d'Azione per gli
Stati Uniti d'Europa di Jean Monnet e con il manifesto di
Ventotene stilato da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi.
Oggi è tempo che nuove istituzioni rappresentino il bisogno di unirsi degli
europei, se l'Europa non vuole scomparire. Nonostante cinquant'anni di
cooperazione tra cittadini e stati europei abbiano trasformato la società per
quanto riguarda le pratiche quotidiane e le istituzioni, l'obiettivo resta
incompiuto. Gli effetti dell'integrazione europea sono ormai un patrimonio
comune acquisito: il mercato unico, l'euro, lo spazio senza frontiere
di Schengen, il ruolo dell'Unione nel mondo. Questo patrimonio deve essere
gestito, e bene.
Secondo il filosofo John Rawls un governo deve preservare il patrimonio dei cittadini, definito come tutto ciò che procura benefici a chi abita in un dato territorio. Gli individui sono proprietari del bene collettivo e lo stato ne è l'agente, ossia l'organizzazione preposta a vigilare su di esso. Di conseguenza, lo stato ha una responsabilità verso i cittadini. I cittadini sono proprietari del patrimonio collettivo, e la cittadinanza non è definita in base all'appartenenza alla nazione — lo slato non si confonde con la nazione. L'Unione Europea iniziò come comunità economica e, contribuendo alla prosperità degli europei, ha costituito un patrimonio. Oggi, deve formare un'Unione politica. L'amministrazione del patrimonio richiede un agente capace di agire con efficacia in nome dei cittadini, di garantire la preservazione e l'accrescimento del valore del patrimonio, di rendere conto della propria azione ai cittadini, una vera «Repubblica». Il concetto di una Repubblica europea può suscitare qualche perplessità. Per francesi e italiani, «la Repubblica è una e indivisibile» (articolo 1 della Costituzione francese e articolo 5 della Costituzione italiana). Considerando la diversità delle culture europee, può la Repubblica europea essere «una e divisibile» come la Repubblica americana? La risposta è no, se l'identità culturale è il criterio su cui si fonda. La risposta è invece sì, se la Repubblica europea costituisce un patrimonio collettivo. Nel dibattito europeo, le due concezioni si mescolano in modo tale che è talvolta difficile discernere l'una dall'altra. Nella visione moderna rifiuta l'idea che l'identità dell'individuo venga dalla sua appartenenza a una collettività. Il patto sociale tra cittadini invece dà origine a un patrimonio comune di cui tutti gli individui sono proprietari e del quale il governo deve assicurare la buona gestione. Da cinquecento anni questa nuova ideologia sta sostituendo la vecchia. L'ideale di cittadinanza democratica e repubblicana ha accompagnato lo sfaldamento dell'identità comunitaria tradizionale e, contemporaneamente, ha definito l'emergere dell'identità sociale contrattuale e individualista, che costituisce il fondamento della visione moderna. L'istituzione del governo repubblicano ha eliminato l'identificazione comunitaria, ma essa si è spostata al livello della nazione. Voltaire disse che: «un repubblicano è legato alla patria più di quanto lo sia un suddito [del re], per la semplice ragione che si ama di più il proprio bene di quanto non si ami quello del padrone» (Pensée sur l'administration publique). La Francia, per i rivoluzionari francesi, era il bene più prezioso perché il popolo ne era il proprietario. L'idea di un popolo francese però nacque durante l'assolutismo, il quale creò una società civile ben organizzata e omogenea di individui responsabili del bene pubblico, adesso della Repubblica. Il problema del concetto di popolo sta nella sua fusione con quello di identità culturale. Un cittadino è un individuo libero e autonomo mentre il membro di un popolo è assoggettato all'ordine, alle tradizioni e ai valori morali (quello che Hegel chiamava Sittlichkeit). Il cittadino può definire i propri interessi; mentre il membro del popolo ha i suoi interessi stabiliti dall'appartenenza a un gruppo con il quale si identifica. Karl Popper ha definito olismo (totalità) la sottomissione dell'individuo a questo genere di collettività. Essa è incompatibile con una società aperta, moderna e democratica. (In questo libro uso il termine olismo nel senso di collettivismo autoritario, e più in generale nel senso di una concezione gerarchica e autoritaria della società, basando la politica su elementi esclusivamente comunitari, o etnici, o linguistici, anziché su di una prevalente adesione, democraticamente espressa, a principi costituzionali posti al di sopra di razza, religione, interessi economici e corporativi). In Europa, l'attaccamento emotivo alla comunità nazionale, divenuto nazionalismo, è stato motivo di grandi sofferenze. Il nazionalismo impedisce il dibattito sulla Repubblica europea. In ogni modo la Repubblica si compone di diverse aree politiche che appartengono tutte allo stesso patrimonio comune. I cittadini della Repubblica esprimono la loro volontà collettiva tanto alle elezioni municipali, quanto a quelle regionali o nazionali. Ogni cittadino è perfettamente consapevole che nella vita quotidiana può essere proprietario di beni diversi, come l'automobile, l'appartamento o il denaro depositato in banca.
Perché il cittadino non deve essere anche proprietario
dei beni comuni? I benefici che si ottengono dai servizi
pubblici della propria città come quelli che provengono
dalla sicurezza sociale o dall'esistenza dell'euro sono tutti beni che devono
essere gestiti correttamente per consentire il massimo beneficio al cittadino.
Nell'ambito della Repubblica europea gli uomini e le donne potranno
esercitare i loro diritti come cittadiuni europei proprietari del patrimonio
collettivo europeo.
In Germania, il concetto di Repubblica federale è un dato acquisito. La Repubblica unisce repubblicanesimo democratico e comunitarismo olistico. La Repubblica federale tedesca è divisa in Länder, che rappresentano le diverse tradizioni e identità culturali tedesche. Quando le istituzioni federali tedesche si identificano principalmente con la propria regione ostacolano l'unificazione europea. Può l'esempio tedesco divenire rischioso per la democrazia europea? Innanzitutto lo sfaldamento delle identità culturali tradizionali accade lentamente in Germania. Autonomia individuale e uguaglianza politica non sono riuscite a divenire principi imprescindibili, capaci di dominare in modo incontestabile i sentimenti comunitari. La Costituzione tedesca riconosce (articolo 20) che «il potere dello stato è emanazione del popolo». La definizione di stato però ingloba anche le istituzioni federali, regionali e locali (Bund, Länder, Gemeinden). Lo stato è dunque un'unità istituzionale «al di là dei cittadini, perché li inserisce nel trittico Volk (popolo), Staat (stato), Staatsangehörigkeit (nazionalità)». I cittadini appartengono allo stato e non inversamente. Il federalismo tedesco, quindi, ha un'immagine comunitaria e non repubblicana. Nonostante il diritto federale prevalga su quello del Land (articolo 31), l'esercizio dei poteri statali e l'assolvimento delle missioni dello stato dipendono dai Länder (articolo 30), e i Länder sono definiti dal loro comunitarismo regionale e dai loro legami storici e culturali. L'identificazione locale e l'attaccamento viscerale all' Heimat consentono ai governi dei Länder di ergersi a difensori dei loro interessi particolari. Di conseguenza, il federalismo tedesco non è fondato sul principio di gestire l'amministrazione dei beni pubblici e del patrimonio collettivo, ma consiste in una metodologia per amalgamare identità culturalmente eterogenee e per compiere scelte collettive nel processo legislativo. In una Repubblica moderna invece la volontà generale emerge dai dibattiti e dalle decisioni dei cittadini le cui opinioni convergono, dopo una riflessione, verso un consenso. La struttura della Repubblica federale tedesca al contrario affida la volontà generale alle regioni. Questa descrizione è beninteso un po' enfatizzata. La politica del governo federale domina i mass media, accelerando così l'emergere di una volontà generale tedesca. In Germania, dunque, la legittimità democratica poggia tanto sulle istituzioni dello stato quanto sulla volontà dei cittadini. Le decisioni prese a livello nazionale non riflettono che parzialmente gli impegni per i quali il governo nazionale è stato eletto, questo a causa dell'accesso formale e informale ai processi decisionali nazionali, che il federalismo tedesco garantisce ai Länder. I cittadini non possono dunque considerarsi interamente sovrani, vale a dire gli autori delle leggi vigenti. Il federalismo tedesco non deve servire da modello per l'Europa. L'Europa resterebbe essenzialmente una coalizione di stati, impedendo il dibattito repubblicano tra i cittadini responsabili del patrimonio comune. Le particolarità e le differenze culturali sarebbero estremizzate e i disaccordi politici non sono generati in funzione degli interessi degli individui, ma in rapporto al senso di appartenenza culturale. Il sistema impedirebbe l'emergere di una volontà generale europea. I cittadini devono essere riconosciuti come fonte unica della sovranità. La Corte costituzionale tedesca nella sentenza sul Trattato di Maastricht ha anche insistito che non può esistere democrazia europea finché non c'è un popolo europeo. Il popolo quindi definisce la democrazia e non i cittadini. Ormai il modello di federalismo comunitario è in crisi anche nella stessa Germania perché ostacola l'azione politica e, sempre più, l'economia. Per due terzi, i Länder hanno la possibilità di bloccare la legislazione del governo federale. Bisogna evitare che l'Europa adotti questo modello. L'Europa però sembra rischiare di avviarsi verso un sistema intergovernativo simile al federalismo tedesco. Così come i francesi devono capire che la Repubblica può essere «una e divisibile», i tedeschi devono accettare che la Repubblica federale sia prima una Repubblica che una federazione. La Repubblica italiana si colloca tra il modello francese e quello tedesco. La Costituzione della Repubblica italiana del 1948 aderisce pienamente ai principi del costituzionalismo moderno. Afferma il principio della sovranità popolare e rompe così con la monarchia e con il fascismo. Nella Costituzione si è mantenuto, alla fine del processo di unificazione italiana, uno stato unitario che riconosce venti regioni amministrative. Nonostante la Costituzione italiana sia più vicina al modello francese, il federalismo comunitario tedesco incide sulle idee populiste, sostenute dalla Lega Nord propugnatrice delle particolarità regionali e dell'identità comunitaria. In realtà, in Italia, si affrontano più apertamente che in qualunque altra parte d'Europa due tradizioni di federalismo. Una è repubblicana; dà il potere ai cittadini che controllano lo stato con il suffragio universale e la volontà generale emerge da dibattiti democratici. Alcuni compiti amministrativi tuttavia sono decentrati a livello delle Regioni e dei Comuni: è la concezione confermata dal referendum costituzionale del 2005 e sostenuta dai grandi partiti del centro-sinistra e del centro-destra. La tradizione anarco-comunitaria invece rigetta lo stato a favore di una legislazione basata su una comunità culturalmente ed etnicamente omogenea; spesso è composta di xenofobia che si è trasformata rapidamente in ostilità verso l'Europa: è il modello della Lega Nord. La Costituzione italiana dichiara esplicitamente la sovranità del popolo. Il popolo può essere definito come l'insieme di cittadini, liberi e autonomi, che si assumono la responsabilità dei beni pubblici. Rischia però di definire un'entità etnicamente e culturalmente omogenea, che sottomette l'individuo alla collettività. Storicamente, l'omogeneità del popolo italiano (quand'anche esista!) fu creata molto più tardi dell'unità dello stato. Contrariamente a quanto accadde in Francia, dove la monarchia assoluta impose una certa omogeneità culturale, al momento dell'unificazione italiana, nel paese non esisteva ancora un'identità popolare omogenea. Dominava l'eterogeneità culturale. Il marchese d'Azeglio, uno dei protagonisti del Risorgimento, disse: «L'Italia è fatta; ora dobbiamo fare gli italiani». Al momento dell'unificazione del 1861, l'italiano era la prima lingua di solo il 2,5% della popolazione. La coesione comunitaria dei «popoli locali» (piemontesi, veneziani, sardi, napoletani, siciliani) precede quella italiana. Da questo punto di vista, Italia e Germania sono simili. In entrambi i paesi, come del resto anche in Spagna, il fascismo ha imposto sul popolo un'identità nazionale omogenea che non esisteva. Questa affinità storica potrebbe spiegare le tendenze dello stato italiano verso il modello federalista tedesco. L'Italia del dopoguerra però si è orientata verso un repubblicanesimo alla francese. Il dibattito sul federalismo italiano è apparso solo nella transizione politica degli anni novanta. Al di fuori della Lega, il consenso politico italiano sembra oggi convergere verso un altro federalismo, che chiamerò repubblicano. Esso si basa sul decentramento amministrativo e non sull'affermazione di identità regionali. L'esperienza italiana, come quella degli Stati Uniti d'America o anche della Germania, mostra che l'omogeneità del popolo non è un prerequisito per avere una costituzione. La democrazia ha invece bisogno dell'impegno dei cittadini. Anche nel Trattato costituzionale d'Europa i cittadini europei sono definiti sovrani al pari degli stati: «Ispirandosi alla volontà dei cittadini e degli Stati d'Europa di costruire il proprio avvenire comune, la presente Costituzione istituisce l'Unione Europea, alla quale gli stati membri attribuiscono competenze per raggiungere i loro obiettivi comuni» (Progetto di Trattato istituente una Costituzione per l'Europa, 2004, articolo 1). In futuro, la Costituzione europea dovrà riconoscere che la sovranità del cittadino rende la Repubblica il patrimonio degli individui. Certe funzioni dello stato dovranno dunque essere ridistribuite a livelli più decentrati, regionali o comunali. Numerosi paesi europei hanno recentemente ridefinito i compiti della funzione pubblica secondo diversi livelli giuridici: Italia, Belgio, Spagna naturalmente, ma anche stati unitari come Francia o Regno Unito. Il progresso tecnologico ha anche reso possibile una governance decentrata più efficace. La trasmissione dell'informazione, che ha assunto nuove forme nell'epoca di internet, ha messo in discussione il ruolo di un servizio essenziale come quello postale. L'investimento nell'infrastruttura, il rinnovamento delle città, la valorizzazione dell'agricoltura, del commercio, dell'artigianato e del turismo sono oggi garantiti meglio a livello regionale, purché una legislazione generale assicuri i criteri di qualità e dia un quadro normativo alla concorrenza «leale». Questo inquadramento, a causa di fattori esterni, ha bisogno di essere allestito anche a livello europeo. Trovare un ordinamento efficace è il compito della Repubblica europea. | << | < | > | >> |Pagina 31Nel Manifesto del partito comunista del 1848 Marx ed Engels scrivevano: «Uno spettro si aggira per l'Europa». In Europa oggi gira un nuovo spettro: la globalizzazione. La globalizzazione genera un'inquietudine simile a quella causata dal capitalismo del XIX secolo. In entrambi i casi, i cittadini attribuiscono la responsabilità dello stravolgimento di un sistema consolidato, della preesistente società, a forze economiche, cieche e incontrollabili, che agiscono in nome del progresso. La globalizzazione, come il capitalismo, da un punto di vista economico crea ricchezza e mobilità; nonostante ciò le conseguenze sociali e politiche possono essere negative. Durante gli sconvolgimenti causati dal capitalismo o dalla globalizzazione, alcuni guadagnano e altri perdono. Alcune classi sociali si arricchiscono economicamente e culturalmente, mentre altre si sentono rigettate nella precarietà, nell'incertezza e nell'oblio. La globalizzazione e il capitalismo sono forze ambivalenti. Il socialismo del XIX secolo cercò di contrastare il capitalismo conquistando la gestione dello stato per porre fine all'ineguaglianza. Con la globalizzazione, questo rimedio ha perso efficacia. Lo stato-nazione di dimensioni medie è diventato troppo piccolo rispetto ai mercati mondiali per esercitare una vera influenza.
I perdenti allora rifiutano la globalizzazione dicendo:
«Stop, basta mercato!». Gli antiglobal non esprimono un
drastico rifiuto del progresso tecnico e un'avversione per
il cambiamento. Lottano invece contro il deterioramento
delle condizioni di vita e l'aumento della disoccupazione.
Le loro azioni però sono solo difensive. Bisogna invece
trovare un nuovo inquadramento istituzionale per regolare i rapporti economici
del grande mercato europeo e mondiale, acquistando un maggiore controllo delle
dinamiche di mercato e creando un maggiore equilibrio tra libertà e uguaglianza.
La «globalizzazione» è legata a un processo di intensificazione e di approfondimento delle transazioni economiche internazionali. La globalizzazione, almeno fino a che non avrà raggiunto un proprio equilibrio, aumenta le disuguaglianze anche all'interno dei paesi sviluppati. Ma quello che è importante è che tende a diminuire la disuguaglianza tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati; e che la percentuale delle persone sotto la soglia di povertà tende a diminuire in tutti i principali paesi. Nella Cina maoista ed egualitaria del 1978 c'erano 250 milioni di poveri, mentre in quella di oggi, molto più popolosa, sono ora molte decine di milioni. L'Europa accelera la globalizzazione con il suo grande mercato e la sua moneta unica, ma questo procurerà benefici o avrà conseguenze negative? Coloro che si oppongono alla globalizzazione sostengono che il libero scambio e la deregolamentazione dei mercati aumentino le disparità tra ricchi e poveri, cioè coloro che si ritrovano ai margini di questa evoluzione. I paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Canada, Germania, Francia, Italia e Regno Unito) producono due terzi del PIL mondiale, pur rappresentando solo l'11% della popolazione. Nel 2005, la percentuale della Cina ha quasi uguagliato il PIL della zona euro, l'India è allo stesso livello del Giappone. Bisogna tener conto che la popolazione della Cina conta 1,3 miliardi, quella dell'India 1 miliardo, mentre l'Unione Europea, con i suoi 456 milioni di abitanti, rappresenta soltanto il 7% dell'umanità (la zona euro conta 310 milioni di abitanti e realizza il 4,8% del PIL mondiale). Chi può ancora credere che questi gnomi continuino a essere grandi nazioni? La disuguaglianza aumenta all'interno dei paesi industrializzati, così come cresce anche la povertà. La globalizzazione, malgrado quanto appena detto, rappresenta indubbiamente un impulso essenziale per la crescita economica mondiale. Cresce il tenore di vita dei singoli individui e della collettività e migliora la produttività a causa degli scambi internazionali. Nonostante le disparità economiche relative nel mondo siano aumentate, il livello assoluto di povertà è diminuito. Alcuni paesi, considerati fino a poco tempo fa sottosviluppati, oggi hanno raggiunto un livello di industrializzazione avanzato grazie alla loro integrazione nell'economia mondiale. Gli europei sono dibattuti tra queste due antinomie. E il dibattito nasce da una situazione attuale che ha una certa analogia con quella che si venne a creare con la nascita del socialismo del XIX secolo. A quel tempo, Karl Marx stesso affermò che solo l'accrescimento delle forze produttive avrebbe reso possibile l'emancipazione degli operai. Oggi, molti europei sono consapevoli del fatto che l'apertura dei mercati crea nuove opportunità e partecipano alla vita economica e culturale generata dalla globalizzazione. Riconoscono tuttavia che esiste un numero di persone tenute ai margini di questo movimento che ne pagano le conseguenze negative. Quanti dirigenti delle piccole e medie imprese fanno fatica a stare al passo con le grandi imprese mondiali? Quanti sono i lavoratori licenziati in seguito alla delocalizzazione della loro unità produttiva verso paesi con mano d'opera meno onerosa? Un certo senso di insicurezza nei cittadini e il timore di una crisi latente fanno perdere legittimità all'integrazione europea e alla politica in generale. Come cambierà l'Europa le sorti del gioco? Una Repubblica europea potrebbe riconquistare il margine di manovra necessario. Il perimetro d'azione degli stati-nazione lentamente si riduce, la Repubblica europea deve produrre gli strumenti necessari per riequilibrare il proprio potere decisionale in campo politico e nell'attività economica. | << | < | > | >> |Pagina 116La nuova Europa si edificherà dunque a partire da istituzioni in cui il cittadino europeo sarà davvero sovrano. In questo caso, a cosa potrebbe assomigliare la casa della nuova Repubblica? Quali saranno le sue fondamenta? Come saranno collegate le stanze l'una all'altra? Come sarà il tetto? La risposta a queste domande verrà attraverso un dibattito pubblico. Ma possiamo fin d'ora avanzare qualche motivo di riflessione. Innanzitutto la vera casa della Repubblica dovrà avere una Costituzione che dovrà regolare anche i rapporti tra inquilini e visitatori occasionali. In secondo luogo, l'Europa avrà bisogno di un governo europeo responsabile di gestire i beni pubblici europei. L'ex primo ministro belga, Guy Verhofstadt, ha chiaramente tracciato i compiti centrali di questo governo: l'articolazione di una strategia socio-economica, l'incoraggiamento dell'innovazione tecnologica, lo sviluppo di uno spazio europeo di giustizia e di sicurezza, una diplomazia europea e la formazione di un esercito europeo. Agli stati spetteranno altri compiti, come la cura della salute, la sicurezza sociale, l'insegnamento, la gestione dei servizi pubblici e dell'apparato giudiziario. Il governo centrale dovrà però assicurare una compatibilità fra gli stati per tutelare la mobilità dei cittadini. Infine, il governo della Repubblica dovrà disporre di un vero bilancio e di un'amministrazione adatta. La Repubblica europea potrebbe poggiare sull'infrastruttura dei servizi della Commissione, servizi che già assolvono a questa funzione amministrativa. Ma il governo centrale dovrà disporre di risorse proprie. Il dramma dei vertici europei del 2005 per mettersi d'accordo su un planning finanziario mostra che il sistema di finanza europeo in cui ogni stato membro paga il proprio contributo e cerca un «giusto ritorno» non funziona più. O l'Unione riesce a concludere, o muore di fame. Il governo europeo dovrà finanziarsi con un'imposizione appropriata, basata sull'IVA, sugli utili di impresa o sulle rendite. Ciò avrebbe il vantaggio di evitare le eventuali distorsioni del mercato unico, dovute alla concorrenza sleale degli stati membri. Un punto fondamentale è se la Repubblica europea debba adottare un regime parlamentare o presidenziale. Ci sono pro e contro per ciascuna soluzione; ma non si può prescindere dalla storia passata del processo di integrazione europea. E il modello parlamentare è senza dubbio quello logicamente e realisticamente più adatto. In un regime presidenziale, il capo dell'esecutivo è eletto a suffragio universale e rappresenta l'insieme dei cittadini. I candidati alle elezioni presidenziali formerebbero dunque coalizioni al di là delle frontiere, integrando i cittadini. Il Parlamento però rappresenterebbe solo gli interessi particolaristici, nella misura in cui ogni deputato difenderebbe la propria circoscrizione. In un regime parlamentare, il primo ministro è responsabile di fronte al Parlamento. Ma dando al governo il potere di sciogliere il Parlamento, si spingono i deputati a seguire il loro capo. Nel regime parlamentare i poteri governativi sono meno separati, permettendo una maggiore coesione legislativa, una maggiore possibilità di approvazione delle leggi. In ogni caso, sarebbe logico costruire la Repubblica europea tenendo conto della sua storia e adottare dunque il sistema parlamentare. Ciò permetterà di integrare le preferenze politiche senza porre ostacolo all'azione governativa. Per assicurare l'equilibrio tra diversità e azione governativa, il primo ministro della Repubblica europea sarà eletto dal Parlamento europeo. Se il governo emergesse dalle istituzioni esistenti dell'Unione Europea (vedi il capitolo 6), il premier potrebbe essere il presidente della Commissione. Perché possa esserci un dibattito politico, il primo ministro dovrebbe essere espressione dei partiti politici che presentano liste transnazionali. Sarebbe contrario allo spirito democratico che questo candidato fosse scelto o imposto dal Consiglio europeo, cioè dai capi di stato e di governo. Naturalmente per garantire l'uguaglianza tra i cittadini, le modalità per l'elezione del Parlamento dovranno essere identiche per tutti i paesi. Come sarà organizzata la casa della Repubblica europea? Il capo del governo sarà libero di definire i grandi orientamenti politici e di nominare i ministri in funzione delle priorità espresse dagli elettori. Gli stati membri non avranno però diritti formali di ottenere specifiche posizioni ministeriali. Nelle democrazie, il capo del governo tiene conto della rappresentatività regionale dei suoi ministri, e lo stesso dovrà accadere nella Repubblica europea, anche gli interessi dei cittadini saranno più importanti delle rispettive origini geografiche.
Infine, quale sarà il rapporto tra la Repubblica e i governi nazionali? Gli
stati avranno sempre un ruolo preponderante nell'esecuzione delle politiche,
nazionali o europee. Il governo della Repubblica europea invece gestirà
l'iniziativa e l'orientamento politico per tutto ciò
che riguarda l'insieme dei cittadini.
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