Autore Teresa Cremisi
Titolo La Triomphante
EdizioneAdelphi, Milano, 2016, Fabula 304 , pag. 188, cop.fle., dim. 14x22x1,4 cm , Isbn 978-88-459-3086-7
OriginaleLa Triomphante
EdizioneÉditions des équateurs, Paris, 2015
TraduttoreLorenza Di Lella, Francesca Scala
LettoreAngela Razzini, 2016
Classe narrativa francese , biografie












 

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Indice


Mattina presto                          11

Tarda mattinata                         59

Pomeriggio                             109

Nove di sera                           159

Mezzanotte e mezza                     181


 

 

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Pagina 13

Ho un'immaginazione portuale.

Sono tante le cose che mi fanno battere il cuore - foto ingiallite, poesie, canzoni, scene di film - e quasi tutte mostrano o raccontano di banchine, navi, dock, balle di cotone, container, gru, uccelli marini.

Sono nata in una grande città polverosa, all'ultimo piano di una clinica nota come l'Ospedale greco, a due passi da un porto. Un porto famoso, dove la Storia ha fatto scalo a più riprese e con gran clamore; nel corso dei secoli vi ha compiuto strane incursioni, seguendo una rotta apparentemente casuale.

Un porto che ha conosciuto la gloria e l'oblio, un punto cardine, alla confluenza di tutte le strade. Lì è nata Cleopatra (qualche anno prima di me, tengo a precisarlo), e per millenni la sabbia delle spiagge ha restituito monete di ogni sorta, levigate dall'acqua, dalla salsedine e dal vento.

Un giorno mia madre ha chiesto a un gioielliere armeno di infilare le monete che aveva raccolto come fossero perle; oggi a volte mi capita di indossare quell'insolita collana in cui predomina l'argento (solo una moneta è d'oro - l'oro è più raro, più fragile - e quattro o cinque sono di rame annerito). Guardandole a una a una, ci si accorge che non tutte le figure si sono cancellate: profili, elmi, simboli di civiltà scomparse, che forse vogliono tramandarci storie di soldati o di marinai annegati, assopiti, depredati, naufragati, dimenticati.

Una filastrocca muta, che mi fa venire i brividi.


Sono nata ad Alessandria d'Egitto, sull'altra riva del Mediterraneo. Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia. Soltanto i luoghi riescono a scatenare dentro di me tempeste violente, ma la nostalgia è un sentimento che non amo coltivare.

Sono una persona pratica, con i piedi per terra.





All'inizio degli anni Quaranta, quando ero una bambina, avevo di fronte un intero universo da scoprire. A quell'età è così per tutti, ma lo spettacolo offerto da una civiltà moribonda ha in sé qualcosa di disordinato, di incongruo, di elegante. Il coesistere del vento della Storia e dei segni precursori della modernità, l'odore di putrefazione, la lebbra che corrode i muri, i fiori selvatici che spuntano alla rinfusa, le risate libere e impertinenti, l'allegro fatalismo non avevano certo bisogno di parole per lasciare il segno nella fantasia di un bambino.

Di quell'epoca felice, un'immagine si staglia sulle altre: quella del luogo dove mi piaceva particolarmente andare in gita. Ci arrivavamo in macchina. Venti, trenta chilometri di strada lungo i binari del vecchio tram che, partendo dalla stazione di Ramleh, giungeva a Rosetta. Il treno dei poveri. Noi invece ci spostavamo in Chevrolet. Eppure nei miei ricordi era un tragitto lungo: carretti, cani, bambini, ceste di verdura.

All'arrivo, un'ampia insenatura ad arco esposta ai quattro venti. La baia di Abukir.

L'insenatura aveva più o meno la forma di un amo, sulla cui punta si ergevano le rovine di un forte.


Nella foto si vedono la curva indolente della costa, la distesa di sabbia e, qua e là, qualche scuro spuntone di roccia, su cui poggiano piccole piattaforme di legno. Bar, ristoranti (se così si possono chiamare...). Sebbene la fotografia risalga a un'epoca di gran lunga precedente ai pomeriggi della mia infanzia, tutto è esattamente come lo ricordo. Il tram si ferma in una stazione rumorosa a pochi metri da lì; noi parcheggiamo la macchina accanto a una scarpata, lasciamo la chiave a un «guardiano» guercio o monco e raggiungiamo la spiaggia percorrendo un sentiero sporco, talora fangoso. L'impressione predominante è quella di una quiete sorniona. Silenzio; il mare lappa lentamente la sabbia.


«Va' a scegliere i ricci» diceva mio padre.

Sceglievamo i ricci; se non ce n'erano abbastanza, chiedevamo a uno dei ragazzi che gironzolavano attorno ai tavoli di andare a pescarne altri. Dieci, dodici, venti. Se il ragazzo era sordo o sordomuto, ci spiegavamo a gesti. Dopo pochi minuti era già di ritorno, grondante d'acqua, con in mano un paio di forbici arrugginite e un limone.

Ringrazio il cielo per avermi fatto vivere, tanto tempo fa, quei lunghi pomeriggi in un posto dimenticato, silenzioso, tra ricci di mare e forbici arrugginite.

Ben presto sono venuta a sapere da mio padre che quel luogo racchiudeva una storia piena di rumore e di furore. È stato lui a raccontarmi la battaglia del 1° agosto 1798. In seguito, grazie a tutta una serie di letture in cui mi sono imbattuta per caso, i particolari di quella battaglia navale sono andati accumulandosi nella mia memoria. Una memoria sempre attenta, che si risvegliava come un animale curioso non appena qualcuno parlava di armi e di guerra. Provo ancora un certo imbarazzo a raccontarlo: una bambina che indossava vestitini tutti ricami e svolazzi, costumi da bagno lavorati all'uncinetto dalla tata, e che poi conosceva a menadito la differenza tra i cannoni da 36 libbre e quelli da 32, era in grado di dire se erano caricati a palle, a granate o a mitraglia, e se, per sincronizzare i tiri, erano necessari due o tre uomini.

Mi ci è voluto poco per capire che non erano molte le bambine a cui piacevano le battaglie navali, e così ho sempre evitato di fare sfoggio delle mie conoscenze in ambito marittimo e militare. Era una passione inspiegabile, che non si accompagnava né a un'indole violenta né alla volontà di ottenere da simili nozioni chissà quale profitto. Avevo accumulato quelle conoscenze da autodidatta, senza una ragione precisa, e senza nessun interesse o scopo particolare. Non si addicevano né a una bambina degli anni Quaranta né alla donna che sono diventata in seguito.

Ancora oggi tendo a tenerle segrete. Mi fanno compagnia.

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Pagina 44

In quel mese di maggio tutti i tavolini all'aperto dei due bar antistanti piazza del Popolo erano occupati dagli intellettuali; a cominciare dal cappuccino della mattina fino all'ora di cena si susseguivano a ritmo serrato discussioni sul comunismo (accompagnate in genere da gesti ampi), sulla poesia o sul cinema... e sui divorzi.

I discorsi sul comunismo erano impregnati di una speranza venata di malafede. Davanti a un Campari, i nostri amici aspettavano che l'avvento del comunismo in Europa portasse al trionfo della giustizia nel mondo. Tutti erano iscritti al Partito. Mia madre mi aveva raccontato che solo Elsa Morante, una sera che passava di lì, aveva avuto il coraggio di sfidare quei parolai. «Il vostro Stalin non è meglio di Hitler!». E se n'era andata, senza neppure sedersi, con quella sua aria scontrosa e indignata.

Anche il cinema, con la sua dirompente creatività, era oggetto di molte conversazioni, che il più delle volte ruotavano intorno alla figura di Fellini. Un vero genio a detta dei più, un mezzo genio per tutti gli altri, che ne ridimensionavano un po' la grandezza. Avevo visto La strada e avevo pianto calde lacrime. In seguito avrei visto La dolce vita, che avrebbe confermato, nei toni della satira, la bontà della mia intuizione sul risveglio sensuale e sessuale della città dopo gli anni del fascismo piccolo borghese, trascorsi in una sorta di sonno forzato e innaturale.

Quanto poi all'ossessione del divorzio, balzava davvero agli occhi. Dal momento che il Codice civile non lo contemplava, i romani benestanti divorziavano a modo loro: dal mio minuscolo osservatorio, mi ero fatta l'idea che gran parte di quelli che conoscevamo sprecassero la metà del tempo a farsi certificare dalla Sacra Rota che il loro era un matrimonio bianco o invalidato da un vizio di consenso. Nessuno sembrava stupirsi granché di fronte a certi padri di famiglia con tre figli che sostenevano di essere impotenti fin dall'adolescenza, o a certe donne pronte a dichiarare sotto giuramento che, prima di essere condotte all'altare in abito bianco con tanto di strascico, erano state minacciate di morte dai familiari.


Le complicate vicissitudini legate all'acquisto del nostro appartamento possono essere così riassunte: il denaro che con tanta destrezza eravamo riuscite a trasferire in Europa non bastava per comprare un appartamento nel centro di Roma, magari con terrazza, come avevamo sperato. Non bastava neppure per comprare casa in un quartiere borghese come quello dei Parioli, dove andava ad abitare la nuova borghesia dei palazzinari e dei cinematografari.

Fu proprio un palazzinaro a proporci l'appartamento giusto per la somma di cui disponevamo: un trilocale nuovo di zecca con un bel bagno e cucina in un edificio che aveva appena costruito. Si trovava in viale Adriatico, dall'altra parte dell'Aniene, il piccolo affluente del Tevere, in fondo a via Nomentana. Non definirei quella zona, al tempo più che altro simile a un cantiere, come una periferia, data la diversa connotazione che il termine ha oggi rispetto ad allora. Diciamo che era la fine della città o il suo inizio, a seconda dei punti di vista: il suo margine insomma. La strada in cui abitavamo, asfaltata di fresco e definita pomposamente viale, cominciava nei pressi del ponte sull'Aniene e arrivava fino ai prati spelacchiati di una collina da cui all'alba si sentiva giungere il suono delle campanelle delle greggi di capre. E, siccome tutto è relativo, i giovani pastori che stavano a guardia delle greggi si fermavano allibiti, a bocca aperta, ad ammirare e invidiare la bellezza della nostra palazzina nuova fiammante con i balconi dipinti di azzurro.


Ci trasferimmo subito. Pochi giorni dopo il trasloco Gioconda, spuntata chissà da dove, prendeva possesso del divano-letto in soggiorno e cominciava a vegliare su di noi, con l'occhio sinistro socchiuso, come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Ci amava. Mia madre l'aveva conosciuta, non ricordo più né come né perché, un anno e mezzo prima e, per una qualche ragione, le aveva pagato il viaggio per Alessandria, oltre al ritorno in Italia pochi mesi dopo. Cara Gioconda, che un bel giorno sbarcò, piena di fiducia, in una grande città del Medio Oriente di cui fino allora non conosceva neppure l'esistenza! Con quella bontà che è propria dei semplici (da quanto avevamo potuto capire, da piccola era caduta a testa in giù da un nocciòlo), era riuscita subito a farsi ben volere da Mohammed e dalle altre persone che lavoravano da noi. Per non parlare della folla di mendicanti che gravitavano attorno a casa nostra: dire che ne era entusiasta è poco; immagino che credesse di essere tornata, come per miracolo, ai racconti dei Vangeli che ascoltava a messa ogni giorno. Una volta mio padre le volle spiegare come stavano le cose. Cercò di farle capire che, se proprio ci teneva, poteva baciare e abbracciare i mendicanti, ma che nessuno di loro era lebbroso e che la lebbra era stata estirpata dall'Egitto.

Gioconda era felicissima di abitare in viale Adriatico, con la prospettiva di andare, prima o poi, a fare un giro in Vaticano, e magari chissà di incontrare addirittura il Papa; in men che non si dica, mise in ordine le nostre cose, garantì il normale funzionamento della casa e permise così a mia madre di dedicarsi all'allestimento della sua mostra.

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I supermercati continuano a piacermi molto: ogni volta che sbarco in una nuova città, per celebrare il primo incontro con il paese in cui sono appena arrivata vado a farci un giro, preferibilmente da sola. Ho bisogno di raccoglimento. Certo, è passata l'epoca in cui in ogni luogo si trovavano prodotti diversi, in cui bastava uno sguardo per cogliere abitudini alimentari, ricchezza e povertà, ossessioni e miti. Ma l'omologazione non è ancora assoluta: sussistono, e sono sempre significative, differenze di assortimento e di presentazione. I nomi vengono modificati o adattati in strani modi. I campioni del marketing nell'èra della globalizzazione vi aggiungono a volte un tocco personale che fa tanto «local».

A distanza di anni dalle nostre incursioni quotidiane all'UPIM di corso Vercelli, continuo a provare un senso di pace, a respirare meglio dopo un attento giro in un supermercato.


La mia vita era divisa in due: da un lato il liceo, dove le mie capacità di adattamento si erano rivelate portentose (i tre mesi di corso intensivo di suor Gisella avevano prodotto i risultati sperati: ero ben lungi dall'essere irrecuperabile, e di conseguenza il suo affetto per me non fece che aumentare), dall'altro l'appartamento in cui vivevo con la mia famiglia, dove mi toccava far fronte a una situazione per me inedita.

Nella mia nuova vita mi trovavo meglio che in quella passata. Concentrata com'ero sull'obiettivo di non dispiacere, non avevo neppure immaginato di poter piacere. E invece era proprio quello che stava accadendo. Sentivo nascere intorno a me un sentimento di amicizia, le compagne mi accettavano fra loro in modo naturale e persino affettuoso; la ricreazione era tutta una chiacchiera, il tragitto di ritorno a casa si allungava a furia di accompagnamenti reciproci. Sapevo bene di non essere esattamente io quella che piaceva, ma in fin dei conti... si trattava pur sempre di una parte di me, sebbene edulcorata e ammorbidita dai consigli del conte Mosca.

Lo stravolgimento era totale. Stavo cambiando lingua e questo comportava una rivoluzione interiore. Ci sono interi trattati di neuropsichiatria al riguardo. La nostra stessa voce suona diversa, diciamo cose che non avremmo detto, pensiamo in modo un po' diverso, non reagiamo nella stessa maniera. La lingua che usiamo condiziona il nostro corpo e i nostri sogni. Un'altra cultura si fa strada in noi attraverso canali insospettabili, improvvisamente il mistero di una canzone, di una battuta diventa accessibile, capiamo i sottintesi, possiamo scherzare. Quando parliamo per tutto il giorno una nuova lingua può accadere che la nostra vita prenda un'altra direzione e che il nostro carattere si modifichi.

Anni dopo un amico mi ha consigliato La lingua salvata di Elias Canetti: l'ho letto con entusiasmo. Tutte quelle lingue nella sua infanzia (ancora peggio di me), per poi arrivare alla scelta esclusiva di una sola fra queste, la più ostica e l'ultima in ordine di acquisizione. Ebbi la sensazione che le sue identità dissociate coesistessero a fatica, a volte addirittura con rabbia. Descriveva con estrema precisione l'apporto di ciascuna lingua e le metamorfosi che induceva l'uso dell'una o dell'altra. Nel suo caso, sembrava che tutto questo avesse a che fare con l'arte della fuga e mascherasse un fondo di dolore. Lui, che non era né turco, né bulgaro, né svizzero, né inglese, né austriaco, aveva finito con l'eleggere a patria il tedesco, la lingua preferita dalla madre, la lingua dei suoi libri.


L'accettazione, nel complesso gioiosa, della mia nuova vita coincise con l'inizio della distruzione più o meno consapevole di quella passata. Le due lingue che non mi servivano ormai più a niente e che non parlavo più con nessuno, l'arabo e il greco, si dissolsero nel giro di qualche settimana (ricordo soltanto due canzoncine per bambini, una per ogni lingua, di cui tuttavia non conosco più il significato). Dai miei discorsi sparì ogni riferimento all'Oriente. Avevo la fortuna che Alessandria fosse anche il nome di una città del Piemonte, e più di una volta mi capitò di rispondere con un garbato sorriso di assenso alla domanda: «Alessandria? Sei piemontese?».

Abukir, le traversate del Mediterraneo, Napoleone e Nelson, l'asino che ragliava, Mohammed e i mendicanti, il deserto e le grandi tende marroni dei beduini, i sandwich al tonno che mangiavamo in barca, i racconti di guerre e di navi, lo stormire delle palme sotto la mia finestra, i dolci greci, la campagna del Delta e le piante di cotone, il canale di Suez — tutto ciò che ero, tutto ciò che costituiva la fitta trama del mio essere occupava ormai pochissimo spazio, lo stesso spazio che può occupare in uno scrigno un antico gioiello di famiglia. Accuratamente messo sotto chiave, accuratamente sistemato in un nascondiglio in fondo a un armadio. Sempre più dimenticato.

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Pagina 89

Alla fine degli anni Sessanta, Einaudi pubblicò una breve raccolta di poesie di Constantinos Kavafis.

Erano i mesi in cui mi stavo adattando al mio nuovo ruolo di dirigente di una grande tipografia, e così non feci caso all'uscita del libro, che suscitò un certo scalpore nell'ambiente che continuavo ancora a frequentare per quanto possibile. «Tu che sei nata in Egitto non puoi non conoscerlo» mi disse molto tempo dopo uno dei miei ex compagni di letture gramsciane. No, non ne avevo mai sentito parlare. Quando chiesi di lui ai miei genitori, mi risposero con il tono noncurante che riservavano alle cose del passato. «Sì, mi avevano detto che lavorava all'Ufficio irrigazioni» fu la risposta di mio padre. «Be', insomma, lavorare... Pare se ne stesse alla scrivania a non far niente tutto il giorno». «Credo di essere troppo giovane per averlo conosciuto» ammise mia madre, lasciando intendere che, se fosse stato davvero un personaggio così importante, lo avrebbe saputo.

La traduzione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti era splendida. Le poesie diventavano come trasparenti. Un'acqua limpida, ingannevolmente limpida, in cui si riflettevano l'Alessandria del passato recente e quella dei tempi andati, la povera gente e qualche personaggio storico, comparse ed eroi, rovine e palazzi rivestiti d'oro. Grazie a uno stile terso e preciso al servizio di cronache rarefatte, si intravedevano minuscole storie di personaggi minuscoli, ritratti in un preciso istante o giorno della loro vita. Si aveva la sensazione quasi fisica dello scorrere del tempo, dell'accumularsi della polvere, dell'erosione prodotta dal vento sui muri. Come Omero, di cui è lontano discendente – quello che non ha avuto la fortuna di vivere tempi eroici ma si è dovuto adattare a un'epoca di sgretolamento e di decomposizione –, Kavafis rende eterne le persone e le cose che nomina. Con mezzi deliberatamente sobri, riesce a far emergere una commovente vibrazione dai resti del passato, dal fantasma del passato, verrebbe quasi da dire dal fantasma di un fantasma.

La sua città, quella in cui ero nata pochi anni dopo la sua morte (nello stesso Ospedale greco, peraltro), era nominata o presente in ogni pagina. Di notte, quando lo leggevo con trasporto, potevo illudermi che si stesse rivolgendo a me:

    Non troverai altro luogo non troverai altro mare.
    La città ti verrà dietro ...
    non c'è nave non c'è strada per te.
    Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
    tu l'hai sciupata su tutta la terra.

Alessandria era nata proprio quando era iniziata la decadenza della Grecia classica. E fin dalla sua fondazione, ovvero da due millenni a questa parte, era diventata una specialista in decadenza. Contribuendo, nei suoi periodi bui, a trasformare o a cancellare almeno in parte storie vere e leggende, era sopravvissuta grazie alla sua capacità di adattamento. Quello spirito alessandrino, di cui Kavafis è l'erede perfettamente consapevole, era troppo mutevole e accomodante per sparire del tutto. La sua forza risiedeva nella sua elasticità. E in un singolare fatalismo:

    E se non puoi la vita che desideri
    cerca almeno questo
    per quanto sta in te: non sciuparla
    nel troppo commercio con la gente
    con troppe parole e in un viavai frenetico ...
    fino a farne una stucchevole estranea.

In quest'opera molte sono le poesie narrative nelle quali la Storia è trattata con il rispetto che si riserva alle anziane signore bugiarde. La poesia Re alessandrini, che racconta dell'incoronazione dei tre figli di Cleopatra, è un esempio quasi miracoloso delle qualità del poeta. Il contrasto fra la messinscena ufficiale e la realtà storica è violento e genera un sentimento di precarietà intenso e sottile. Non una nota di scherno. Solo la serena accettazione del lato ridicolo dell'esistenza:

    Cesarione stava più avanti
    agghindato di seta rosa...

Viene consacrato Re dei Re, ma nessuno prende la cosa sul serio:

    Gli alessandrini si rendevano ben conto
    ch'era tutto un frasario da teatro.
    Però il giorno era mite e melodioso,
    il cielo di un azzurro stemperato...

E poi ci sono le poesie intime, d'amore, che parlano della solitudine o del desiderio. Come quella che mi piaceva tanto e che oggi mi fa un po' paura:

    Mezzanotte e mezza. È passata presto l'ora
    dalle nove quando accesi la lampada...
e che finisce così:
    Mezzanotte e mezza. Com'è passata l'ora.
    Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni.

L'alessandrino, come hanno presto cominciato a chiamarlo i suoi ammiratori, probabilmente conosceva sia la lieve ebbrezza della mondanità sia la segreta tensione che può suscitare una grande solitudine. Kavafis non sceglie mai. Nelle sue opere non si danno consigli di vita. Non si parla né di bene né di male, e non si fa differenza fra le cose importanti e quelle banali. Il ritratto che ne traccia E.M. Forster, che lo aveva conosciuto da giovane quando era soltanto l'ozioso impiegato dell'Ufficio irrigazioni e l'autore di una ventina di poesie stampate su fogli volanti, mi pare colga nel segno: «Poteva capitare di incontrarlo a un incrocio. Era un gentleman greco con la paglietta in testa, che se ne stava in piedi, immobile, leggermente di sbieco rispetto all'universo».




Da sempre, ovunque mi trovi, nella città in cui abito o in un luogo di passaggio, vengo puntualmente fermata da qualcuno che mi chiede indicazioni stradali. Con amici e parenti abbiamo cominciato a scherzarci sopra: si potrebbe scommettere sul numero di persone che si rivolgeranno a me per avere lumi sul percorso da seguire per raggiungere una destinazione, un ristorante marocchino nei dintorni, il giardinetto più vicino, la farmacia di turno la domenica. Col passar del tempo ho acquisito una certa esperienza, per esprimermi uso poche parole, accompagnandole con gesti precisi — destra, sinistra, sempre dritto. Se mi trovo in una città che non conosco e di cui non parlo la lingua, abbozzo un sorriso di rammarico e allargo le braccia in un atteggiamento di desolata impotenza.

Mia madre, che si divertiva un mondo, ipotizzava a seconda dell'umore spiegazioni contraddittorie: intuiscono che hai la stoffa del generale, sembri più disponibile degli altri, non temono di farti perdere tempo, hai quest'aria perbenino... Thomas diceva che ero rassicurante, che avevano tutti voglia di parlare con me. Altri sostengono che ispiro fiducia.

Secondo me dipende dal fatto che do l'impressione di sapere dove sto andando. Con l'età questo può essere diventato quasi vero, ma per tanti anni rivolgersi a me era non meno incongruo che chiedere la strada a un bambino smarrito. Anch'io venivo da un crocevia decentrato, anch'io ero «di sbieco rispetto all'universo».

Ma facevo finta di sentirmi a casa.

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