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| << | < | > | >> |IndiceVII Prefazione Invisibili 3 Introduzione - Il maschile predefinito Parte prima - Vita quotidiana 41 I. Spazzare la neve è sessista? 66 II. Toilette per tutti Parte seconda - Luoghi di lavoro 97 III. Il venerdì lungo 132 IV. Il mito della meritocrazia 162 V. Effetto Pigmalione 184 VI. Quando vali meno di una scarpa Parte terza - Soggetti di design 207 VII. L'ipotesi dell'aratro 226 VIII. L'uomo è misura di tutte le cose 243 IX. Un mare di maschi Parte quarta - Nello studio del medico 277 X. Le medicine non funzionano 310 XI. La sindrome di Yentl Parte quinta - Vita pubblica 339 XII. Una risorsa a costo zero 361 XIII. Dalla borsetta al portafoglio 377 XIV. I diritti delle donne sono diritti umani Parte sesta - Quando le cose vanno male 411 XV. A chi tocca ricostruire? 420 XVI. Non è colpa della catastrofe 440 Postfazione 452 Ringraziamenti |
| << | < | > | >> |Pagina VIIPrefazioneLa storia dell'umanità, cosí come ci è tramandata, è un enorme vuoto di dati. A cominciare dalla teoria dell'Uomo cacciatore, gli studiosi del passato hanno lasciato poco spazio al ruolo delle donne nell'evoluzione culturale o biologica. Al contrario: si è deciso che le vite degli uomini dovessero rappresentare il percorso di tutto il genere umano. E cosí non sappiamo nulla di come vivesse l'altra metà: sulle donne, spesso, non vi è altro che silenzio. Ed è un silenzio onnipresente, che pervade tutta la nostra cultura. Cinema, giornalismo, letteratura, scienza, urbanistica, economia: le storie che ci raccontiamo riguardo al nostro passato, al presente e al futuro sono tutte contrassegnate - deturpate - da una «presenza-assenza» che ha la sagoma di un corpo femminile. È il gender data gap: la mancanza di dati di genere. Ma il problema non finisce qui. Quei silenzi, quei vuoti, hanno effetti che si ripercuotono sulla vita quotidiana delle donne in modi che a volte potrebbero sembrare marginali: ci sono donne che tremano dentro uffici la cui temperatura è regolata in base alle esigenze maschili, altre che devono fare acrobazie per raggiungere un ripiano comodissimo per un uomo di statura media, ma troppo alto per loro. Sono cose antipatiche, di sicuro anche ingiuste, ma almeno non si rischia la pelle. Non è come avere un incidente su un'auto con dispositivi di sicurezza che non tengono conto delle misure femminili. Non è come avere un attacco di cuore che non viene diagnosticato perché i sintomi sono considerati «atipici». In situazioni come queste, vivere in un mondo costruito a misura di maschio può costare la vita. È importante chiarire sin d'ora che l'assenza di dati di genere non è sempre malevola, e neppure premeditata. Spesso è solo la conseguenza di un modo di pensare che esiste da millenni e che, in un certo senso, è un modo di non pensare. Una duplice inerzia del pensiero, se vogliamo: gli uomini si dànno per scontati, e delle donne non si parla neanche. Perché quando diciamo «umanità», tutto sommato, intendiamo l'insieme degli individui di sesso maschile. Non è un'idea nuova. L'aveva già esposta Simone de Beauvoir nel 1949, in un suo famoso passo: «L'umanità è maschile e l'uomo definisce la donna non in quanto tale ma in relazione a se stesso; non è considerata un essere autonomo. [...] Egli è il Soggetto, l'Assoluto: lei è l'Altro». La novità è che oggi le donne continuano a essere «l'Altro» nel contesto di un mondo che si affida sempre piú ai dati e ne è sempre piú schiavo. Tutti abbiamo sentito parlare dei famosi Big Data, l'enorme patrimonio di informazioni continuamente setacciate dai Grandi Algoritmi alla ricerca di Grandi Verità. Ma se i Big Data sono contaminati da silenzi altrettanto grandi, le verità che se ne possono ricavare saranno, nel migliore dei casi, mezze verità. A volte nemmeno quelle, se si tratta di donne. Del resto lo dicono anche gli informatici: Garbage in, garbage out. Ovvero, se i dati che fornisci al computer sono privi di valore, anche i risultati lo saranno. Nel mondo contemporaneo, dunque, la necessità di colmare il vuoto dei dati di genere diventa ancor piú urgente. Al giorno d'oggi l'intelligenza artificiale aiuta i medici a formulare le diagnosi, esamina i curriculum e talvolta intervista i candidati per un posto di lavoro: il problema è che i dati di cui dispone sono molto lacunosi. E poiché gli algoritmi sono spesso protetti in quanto software proprietario, nessuno può sapere se l'incompletezza dei dati è stata in qualche modo tenuta in considerazione. A giudicare dalle prove che abbiamo sotto gli occhi, non sembra affatto così. Numeri, tecnologie, algoritmi sono elementi cruciali delle realtà che racconteremo in questo libro, ma sono solo metà della storia. La parola «dati» non è che un sinonimo di «informazioni», e le informazioni, si sa, provengono da molte fonti. Le statistiche, certo, ma anche l'esperienza umana. Per questo io sostengo che se vogliamo progettare un mondo che funzioni per tutti c'è bisogno anche delle donne. Se le decisioni che condizionano la nostra vita vengono prese soltanto da maschi con la pelle bianca, di sana e robusta costituzione, nove volte su dieci di nazionalità americana, anche questo è un vuoto di dati; proprio come lo è, nel campo della ricerca medica, l'assenza di informazioni sul corpo delle donne. Senza contare che l'esclusione a priori della prospettiva femminile alimenta una sorta di involontaria propensione al maschile che vorrebbe, spesso in buona fede, spacciarsi per assenza di connotazioni di genere. È questo che intendeva Simone de Beauvoir quando diceva che gli uomini tendono a confondere il loro punto di vista con la verità assoluta. Gli aspetti dello specifico femminile che gli uomini non tengono in considerazione si riferiscono a svariate dimensioni, ma con il procedere della lettura vi accorgerete che ci sono tre temi ricorrenti: il corpo delle donne, il carico di lavoro non retribuito che grava sulle loro spalle, la violenza maschile. Tre questioni di grande importanza, che si ripercuotono su quasi tutti gli aspetti della vita e condizionano le nostre esperienze in moltissimi ambiti: dai trasporti pubblici alla politica, senza dimenticare i luoghi di lavoro e gli ambulatori medici. Ma gli uomini, non avendo corpi femminili, non se ne preoccupano affatto: assumono su di sé una quota di lavoro non retribuito di gran lunga inferiore a quello svolto dalle donne, e se pure subiscono violenza da parte di altri maschi, ne risentono in modo diverso. Cosí le differenze vengono ignorate, e si continua a credere che il corpo maschile e le relative esperienze di vita valgano per tutti, senza distinzione di genere. Il risultato è che le donne vengono discriminate. In questo libro parlerò diffusamente di «sesso» e di «genere». Userò il termine «sesso» in relazione alle caratteristiche biologiche che distinguono gli individui maschi dalle femmine: in pratica, le coppie cromosomiche XX e XY. Quando invece parlerò dei significati sociali che si sovrappongono al dato biologico, cioè del trattamento che le donne ricevono in quanto percepite come femmine, userò il termine «genere». A differenza del sesso, il genere è una creazione umana, ma entrambi sono dati di realtà, con conseguenze importantissime per le donne che affrontano un mondo costruito sugli standard maschili. Pur conservando questa distinzione, nelle prossime pagine parlerò sempre e soltanto di mancanza di dati di genere, perché se le donne sono estromesse dall'universo dei dati non è colpa del sesso, bensì del genere. Nel dare un nome al fenomeno che arreca un danno casi grave alle vite di tante donne, mi sembrava importante chiarirne la causa profonda, e malgrado le molte dichiarazioni contrarie che leggerete in queste pagine, il problema non è il corpo femminile in sé. Il problema è il significato sociale che attribuiamo a quel corpo, e il fatto che per ragioni di natura sociale quel corpo non viene preso in considerazione. Invisibili è una storia di assenze - e come tale, non è stato facile scriverla. Se già scarseggiano i dati per la popolazione femminile in generale (perché non li raccogliamo, oppure non li separiamo da quelli dei maschi), quando si tratta di donne di colore, o disabili, o di estrazione proletaria, l'assenza di dati diventa totale. Non è che non vengano raccolti: il problema è che non vengono distinti (o «disaggregati») dalle informazioni relative agli uomini. Per esempio, le statistiche sulla rappresentanza proporzionale in vari ambiti, dalle cattedre universitarie ai ruoli cinematografici, sono suddivise in base al sesso o alla provenienza etnica, ma le donne che appartengono alle etnie minoritarie finiscono sempre per confondersi nei gruppi piú ampi. Nei rari casi in cui i dati erano disponibili li ho sempre forniti: ma si tratta, per l'appunto, di casi sporadici. Questo non è un libro di psicoanalisi. Non ho alcun accesso ai pensieri reconditi di chi perpetua nel tempo il vuoto dei dati di genere, e di conseguenza non potrò spiegare con prove inoppugnabili perché quel vuoto esista. Ciò che posso fare è presentare i dati e chiedere a voi lettori di valutare le prove. Non mi interessa sapere se il produttore di questo o quell'attrezzo a misura di maschio sia o non sia un sessista in pectore: le motivazioni personali sono irrilevanti, perché ciò che conta davvero è lo schema di fondo. Ciò che conta davvero è stabilire se, dopo aver esaminato la mole dei dati che intendo fornire, sarà ancora tollerabile affermare che l'assenza di dati di genere sia del tutto casuale. La mia tesi è che non lo è. La mia tesi è che il vuoto dei dati di genere sia al tempo stesso causa ed effetto di quella sorta di non-pensiero che concepisce l'umanità come quasi soltanto maschile. Vi mostrerò quanto sia frequente e diffuso questo inganno, e in che modo esso distorca i dati apparentemente oggettivi che condizionano una parte sempre piú ampia delle nostre vite. Vi mostrerò che persino nel nostro mondo iperrazionale guidato da inflessibili supercomputer le donne sono ancora in buona parte il «secondo sesso» di cui parlava Simone de Beauvoir, un secondo sesso che rischia di essere trattato - quando va bene - come una sottocategoria dell'umano. | << | < | > | >> |Pagina 3Introduzione
Il maschile predefinito
Vedere nel maschio l'essere umano predefinito è uno dei fondamenti della struttura sociale umana. È una vecchia abitudine che ha radici profonde: profonde come le teorie sull'evoluzione della nostra specie. Nel IV secolo avanti Cristo, Aristotele fu il primo a sostenere senza mezzi termini che l'umanità era maschile per default: «Il primo inizio è nascere femmina e non maschio», scrisse il filosofo nel suo trattato sulla riproduzione degli animali, pur ammettendo che questa «anomalia» era necessaria alla natura. Duemila e passa anni piú tardi, nel 1996, l'università di Chicago organizzò un simposio sulle società primitive di cacciatori-raccoglitori intitolato Man the Hunter. Piú di settantacinque studiosi di antropologia sociale giunsero da ogni parte del mondo per discutere l'importanza della caccia ai fini dell'evoluzione e dello sviluppo dell'uomo: tutti concordarono nel dire che sí, era abbastanza importante. Una delle relazioni presentate al congresso e in seguito raccolte in un volume sosteneva che «il nostro debito verso i cacciatori di quel lontano passato comprende tutti gli aspetti biologici, psicologici e consuetudinari che ci differenziano dalle scimmie». Ipotesi senz'altro suggestiva, non fosse che, come sottolinearono le femministe, poneva un piccolo problema relativo all'evoluzione della donna. Il libro diceva molto chiaramente che la caccia era un'attività maschile. Ma se «le nostre intelligenze, interessi, emozioni, e i fondamenti della vita sociale sono prodotti evolutivi dell'adattamento alla caccia», che cosa possiamo dire a proposito dell'umanità delle donne? Se sono gli uomini a trainare l'evoluzione della nostra specie, siamo davvero sicuri che le donne siano umane? La prima a sfidare il mito dell'Uomo cacciatore fu l'antropologa Sally Slocum, nel suo famoso saggio del 1975 intitolato Woman the Gatherer. Gli antropologi, sosteneva Slocum, «studiano il comportamento maschile e sostengono che basti a spiegare ogni cosa». Ma per smontare quel mito bastava una sola, semplice domanda: che facevano le donne mentre i maschi erano fuori a caccia? Risposta: raccoglievano erbe, radici e frutti commestibili, svezzavano e crescevano figli che restavano a lungo dipendenti dai genitori. Al pari della caccia, anche quelle attività richiedevano un certo grado di cooperazione. Assodato ciò, concludeva Slocum, «l'idea che il desiderio maschile di cacciare e uccidere sia stato un comportamento adattativo fondamentale dà un'eccessiva importanza all'aggressività, la quale dopo tutto non è che un aspetto della vita umana». A piú di quarant'anni dalla presa di posizione di Sally Slocum, le teorie sull'evoluzione non hanno ancora ricusato la propensione al maschile. «Secondo gli scienziati, l'istinto di violenza è un prodotto dell'evoluzione umana», annunciava nel 2016 un articolo dell'«Independent» dedicato a uno studio accademico intitolato The phylogenetic roots of human lethal violence, in cui si sosteneva che l'evoluzione avesse reso la nostra specie sei volte piú letale per i propri simili rispetto alla media dei mammiferi. Questo è senz'altro vero per la specie umana nel suo complesso, ma in realtà la violenza dell'uomo sull'uomo è in gran parte appannaggio dei maschi. Da uno studio sugli omicidi commessi in Svezia nell'arco di trent'anni è risultato che nove su dieci sono compiuti da maschi; il dato collima con le statistiche di altri Paesi, tra cui l'Australia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Nel 2013 uno studio su scala mondiale delle Nazioni unite è giunto alla conclusione che il novantasei per cento dei colpevoli di omicidio è maschio. Dunque è il genere umano nel suo complesso a coltivare istinti omicidi, oppure solo la parte maschile? E se in linea di massima le donne non sono delle assassine nate, che idea dovremmo farci delle loro «radici filogenetiche»? Questa sorta di propensione al maschile-ove-non-altrimenti-indicato sembra contagiare tutti i campi della ricerca etnografica. Pensiamo per esempio ai graffiti preistorici scoperti in tante grotte: raffigurano animali che erano oggetto di caccia, e poiché erano i maschi a cacciare, i ricercatori sono giunti alla conclusione che lo fossero anche gli autori dei graffiti. Peccato che in tempi piú recenti le analisi delle impronte di mani che compaiono accanto alle raffigurazioni animali in alcune grotte della Francia e della Spagna abbiano rivelato che la maggior parte dei disegni è opera di donne. Persino i resti ossei non si sottraggono alla teoria del maschile-ove-non-altrimenti-indicato. Pensavate che la determinazione del sesso degli scheletri umani si fondasse su criteri oggettivi? Ebbene, non è così. Per piú di cent'anni si è creduto che lo scheletro vichingo del X secolo noto come «guerriero di Birka», benché evidentemente dotato di un bacino femminile, appartenesse a un uomo, per la semplice ragione che era stato sepolto accanto a un ricco corredo di armi e a due cavalli uccisi in sacrificio. Tutto ciò dimostrava senza ombra di dubbio che l'occupante della tomba era un guerriero, e «guerriero» significa «maschio»: per gli archeologi, infatti, le numerose eroine combattenti della tradizione vichinga sono semplici figure mitologiche. Ma se le armi prevalgono sull'anatomia del bacino, non è detto che possano imporsi sul Dna: e cosí nel 2017 le indagini hanno confermato che quello trovato a Birka era proprio lo scheletro di una donna. Problema risolto? No, semplicemente riformulato. A quel punto si è cominciato a supporre che le ossa fossero state mescolate, o che ci fossero altre ragioni per seppellire una donna accanto a delle armi. Nessuna delle due congetture è del tutto improbabile, anche se gli autori dello studio originale le contestano entrambe appellandosi alla disposizione dei resti e degli oggetti all'interno della tomba. Comunque sia, la questione è sintomo di una dinamica alquanto significativa, giacché in circostanze analoghe nessuno solleva mai dubbi sugli scheletri di sesso maschile. Vero è che quando gli archeologi riportano alla luce i siti funerari trovano quasi sempre molti piú resti maschili, il che, come faceva notare con una certa ironia l'antropologo Phillip Walker in un suo scritto del 1995, «non corrisponde a quanto sappiamo sulla distribuzione per sesso delle popolazioni umane esistenti». E sapendo che le donne vichinghe potevano possedere beni immobili, ereditare e persino esercitare con successo la professione di mercante, vi sembra cosí impossibile che potessero anche combattere? In fin dei conti non sarebbero nemmeno le uniche: «Svariati scheletri di donne che presentavano cicatrici da battaglia sono stati rinvenuti nelle steppe eurasiatiche, dalla Bulgaria alla Mongolia», ha scritto Natalie Haynes sul «Guardian». Presso le antiche popolazioni scitiche, che combattevano a cavallo con armi e frecce, non vi era motivo per credere nella superiorità innata dei guerrieri maschi, e i test del Dna effettuati in piú di mille tumuli funerari, dall'Ucraina all'Asia centrale, su cadaveri che avevano armi nel loro corredo, hanno dimostrato che fino al tre per cento delle donne e delle ragazze scitiche era combattente attivo. La prevalenza del maschile-ove-non-altrimenti-indicato nei nostri schemi mentali potrebbe apparirci meno sorprendente se si pensa a quanto sia radicata in uno degli elementi fondanti della società umana, ovvero il linguaggio. Nella sua critica all'orientamento maschile degli studi antropologici, Sally Slocum aveva in effetti sottolineato che il pregiudizio è evidente «non solo nell'interpretazione dei pochi dati disponibili, ma nello stesso linguaggio utilizzato». La parola uomo, scriveva, «è usata in modo talmente ambiguo che è impossibile stabilire se si riferisca ai maschi oppure alla specie umana in generale». Questo crollo del significato portava Slocum a supporre che «nella mente di molti antropologi, la parola uomo, che in teoria dovrebbe riferirsi all'intera specie, sia in realtà un sinonimo esatto di maschio». Come vedremo, le prove dimostrano che il sospetto era fondato.
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Dunque il maschile è universale e il femminile è di nicchia: ecco perché un film sulla lotta delle donne inglesi per il diritto di voto è stato definito (dal «Guardian», peraltro) «bizzarramente avulso dal contesto storico» per mancanza di riferimenti al primo conflitto mondiale: un'ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, dell'attualità di quanto scriveva Virginia Woolf nel lontano 1929: «Ecco un libro importante, pensa il critico, perché parla di guerra. Quest'altro invece è un libro insignificante perché ha a che fare con i sentimenti delle donne in un salotto». È la stessa ragione per cui V. S. Naipaul bolla come «angusta» la visione del mondo di Jane Austen , mentre nessuno pretende che The Wolf of Wall Street accenni alla Guerra del Golfo, o che lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård parli di altro fuorché di sé stesso (o citi piú di una scrittrice donna) nella sua monumentale autobiografia in sei volumi che pure, secondo i critici del «New York Times», dà voce alle «ansie universali» dell'umanità.
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I libri di storia chiamano «Rinascimento» il periodo storico compreso tra il XIV e la fine del XVI secolo anche se, come ha sottolineato la psicologa sociale Carol Tavris in un suo saggio del 1991 intitolato The Mismeasure of Woman, a rinascere sono stati soltanto i maschi, giacché le donne erano ancora in gran parte escluse dalla vita intellettuale e artistica del tempo. Chiamiamo «Illuminismo» il XVIII secolo anche se l'espansione dei «diritti dell'uomo» fu compensata da una drastica limitazione dei diritti delle donne, che si videro negare il controllo sui beni di loro proprietà e sui relativi proventi, nonché il diritto di acquisire un'istruzione superiore e/o una formazione professionale. E infine: pensiamo all'antica Grecia come alla culla della democrazia, tralasciando il fatto che alla metà femminile del popolo era esplicitamente negato il diritto di voto.
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Agli albori del XX secolo, l'ingegnera, fisica e inventrice inglese Hertha Ayrton (premiata con la medaglia Hughes della Royal Society) scriveva che gli errori sono «duri a morire, ma un errore che attribuisce a un uomo ciò che in realtà è opera di una donna ha piú vite di un gatto». Aveva ragione. I libri di testo continuano a parlare di Thomas Hunt Morgan come dello scienziato che scoprí l'origine cromosomica del sesso, trascurando sia il fatto che furono gli esperimenti di Nettie Stevens sui vermi della farina a individuare il fenomeno, sia il contenuto della corrispondenza tra i due scienziati, dal quale risulta evidente che è Morgan a chiedere a Stevens di spiegargli in dettaglio l'esperimento. E fu Cecilia Payne-Gaposchkin , non il suo supervisore maschio, a scoprire che il sole è fatto perlopiú di idrogeno. Ma forse l'esempio piú macroscopico di questo tipo di ingiustizia è la storia di Rosalind Franklin, che grazie ai suoi esperimenti con i raggi X e alle misurazioni della cella elementare accertò che il Dna è composto da due catene piú una spina dorsale zucchero-fosfato, permettendo a James Watson e Francis Crick (che vinsero il Nobel e oggi sono famosi in tutto il mondo) di «scoprire» il Dna.
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L'opinione corrente è che il canone sia un derivato oggettivo dei trionfi e degli insuccessi conseguiti sulla scena musicale, ma in verità non è che l'ennesimo giudizio soggettivo formulato da una società iniqua. Le donne sono state estromesse in blocco dal canone perché nel corso della Storia quello che si considera successo in campo musicale è sempre stato al di fuori della loro portata. La loro musica, se mai gli era concesso di comporla, veniva eseguita soltanto in audizioni private negli ambienti domestici. La realizzazione di grandi opere orchestrali, cosí importanti per la reputazione di un musicista, gli era vietata perché «sconveniente». Per le donne la musica era un «ornamento», non una carriera. Non piú tardi del secolo scorso Elizabeth Maconchy (la prima donna della Storia a presiedere l'associazione dei compositori britannici) veniva frustrata nelle sue ambizioni da editori come Leslie Boosey, che «da una donna accettavano solo canzoncine». E se anche le «canzoncine» che gli era permesso comporre fossero state sufficienti a guadagnare loro un posto nel canone, le donne non avrebbero comunque avuto le risorse o la posizione sociale necessarie per mantenerlo. Nel saggio intitolato Note dal silenzio, Anna Beer mette a confronto Barbara Strozzi, prolifica compositrice seicentesca che «nel corso della sua vita riuscí a stampare piú musica di ogni altro compositore del tempo» con uno dei suoi contemporanei maschi, Francesco Cavalli. Nella sua veste di Maestro della cappella ducale di San Marco a Venezia (incarico a quei tempi inaccessibile alle donne) Cavalli aveva soldi e prestigio sufficienti a far sí che tutte le sue opere, comprese le molte ancora non pubblicate, fossero custodite presso una biblioteca. Poteva permettersi di pagare un archivista che se ne prendesse cura, e persino dare disposizioni affinché dopo la sua dipartita le messe da lui composte fossero eseguite negli anniversari della morte. Non disponendo di altrettante risorse, Barbara Strozzi e la sua musica erano destinate all'oblio: per questo dico che insistere sul valore di un canone che esclude le donne equivale a perpetuare le ingiustizie del passato. L'esclusione delle donne dalle posizioni di potere, se da un lato ne spiega l'apparente assenza dalla storia culturale, dall'altro viene utilizzata come scusa per giustificare un insegnamento della Storia che si concentra in modo quasi esclusivo sulle vite degli uomini.
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Tanto piú che la spartizione della vita in una sfera «pubblica» e una «privata» sembra arbitraria e priva di un reale fondamento, poiché pubblico e privato non fanno che contaminarsi a vicenda.
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La storia del genere umano. La storia dell'arte, della letteratura, della musica. La storia dell'evoluzione. Ci sono state presentate come fatti oggettivi, ma in realtà nascondono un inganno, giacché sono distorte dalla mancata percezione di metà del genere umano, e persino dalle stesse parole che vorrebbero esprimere quelle mezze verità. Una mancata percezione che ha creato vuoti informativi, che ha alterato ciò che pensiamo di sapere su noi stessi e alimentato il mito dell'universalità maschile. E anche questo è un fatto. Il mito dell'universalità maschile continua a condizionare l'immagine che abbiamo di noi stesse, e se c'è una cosa che è apparsa chiara negli ultimi anni è che il modo in cui ci vediamo non è affatto un problema secondario. L'identità è una forza poderosa: se scegliamo di ignorarla o travisarla, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Per citare tre esempi recenti: Trump, la Brexit, l'Isis sono fenomeni globali che hanno sconvolto l'ordine mondiale e sono anche, nel profondo, fenomeni identitari. Ma l'ottenebrante mascolinità camuffata da universalità senza distinzioni di genere ci induce a travisare o ignorare la nostra identità. Un tale con cui sono stata brevemente fidanzata tempo addietro pretendeva di avere l'ultima parola nelle discussioni, accusandomi di essere accecata dall'ideologia. In quanto femminista, diceva, ero incapace di vedere il mondo in maniera oggettiva o razionale: misuravo ogni cosa con il metro della mia ideologia. Quando gli facevo notare che anche lui, in quanto «libertario» (cosí si definiva) vedeva la realtà da una prospettiva ideologica, protestava sempre con vivacità. Il suo era semplice, oggettivo buon senso: la «verità assoluta» di cui parla Simone de Beauvoir. Il suo modo di vedere il mondo era universale, mentre il mio femminismo era «di nicchia». Ideologico.
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La presunzione che ciò che è maschio sia universale è una diretta conseguenza del vuoto dei dati di genere. Bianchezza e maschilità sono date per scontate per la semplice ragione che la maggior parte delle altre identità non viene mai presa in considerazione. D'altro canto, però, l'universalità maschile è anche una causa del vuoto dei dati di genere: poiché le donne non sono né viste né ricordate, poiché i dati declinati al maschile formano gran parte del nostro sapere, ciò che è maschile finisce per essere considerato universale e le donne, ovvero l'altra metà della popolazione globale, assumono il ruolo di minoranza: una minoranza con un'identità di nicchia e un punto di vista soggettivo. Il loro destino è di essere dimenticabili, ignorabili, eliminabili: dalla cultura, dalla Storia, dai repertori di dati. E cosí diventano invisibili. Invisibili racconta quel che succede quando ci si dimentica di prendere in considerazione metà del genere umano. Denuncia i danni provocati dall'assenza di dati di genere lungo il corso piú o meno normale della vita di ogni donna. Pianificazione urbana, politica, lavoro: questi sono alcuni dei settori dove il danno è piú evidente. Per non parlare della sorte che, in un mondo costruito su dati maschili, attende le donne a cui le cose vanno male. Le donne che si ammalano, o che perdono la casa in seguito a un'inondazione, o che da quella casa devono allontanarsi per colpa di una guerra. Ma in questo libro c'è anche molta speranza, perché quando i corpi e le voci delle donne riescono a uscire dall'ombra, le cose cambiano. Le lacune si colmano. Nella sua essenza piú profonda, Invisibili è anche un appello al cambiamento. Per troppo tempo le donne sono state considerate un'aberrazione rispetto alla norma, e come tali costrette all'invisibilità. È ora di cambiare prospettiva. È ora che le donne diventino visibili. | << | < | > | >> |Pagina 66II.
Toilette per tutt*
Nell'aprile del 2017 un'affermata giornalista della Bbc, Samira Ahmed, aveva bisogno di usare la toilette. Si trovava a Londra, e stava assistendo a una proiezione del documentario I Am Not Your Negro nella sala cinematografica del Barbican Centre. Era da poco iniziato l'intervallo. Ogni donna che frequenti i cinema o i teatri sa cosa vuol dire: appena si riaccendono le luci in sala le donne si affrettano verso la toilette, sperando di risparmiarsi l'inevitabile fila che di li a poco si allungherà serpeggiando fino al foyer. Le donne sono abituate a fare le code quando escono. È una cosa irritante, che può mandargli storta la serata: sanno già che all'intervallo, invece delle chiacchiere rilassate con gli amici, le aspetta la solita noiosissima fila davanti alle toilette, ravvivata soltanto da un incrociarsi di sguardi costernati mentre si attende il proprio turno. Quella sera di aprile, però, qualcosa sembrava diverso. La coda era piú lunga del solito. Molto piú lunga. A riprova di un disinteresse verso le donne cosí assoluto da sfiorare il ridicolo, l'amministrazione del Barbican aveva deciso di eliminare le distinzioni di genere dai servizi igienici, e lo aveva fatto sostituendo le targhette «Donne» e «Uomini» con due nuove indicazioni: «Per tutti, con cabine» e «Per tutti, con orinatoi». Successe quel che doveva succedere: la coda davanti alla toilette «Per tutti, con orinatoi» era formata da soli uomini; l'altra era mista. Piuttosto che eliminare davvero la disparità di genere, quella mossa aveva di fatto offerto una nuova opportunità agli uomini: è noto che le donne non sono molto a loro agio con gli orinatoi, mentre gli uomini sono perfettamente in grado di usare tanto questi ultimi quanto le normali cabine wc. Come se non bastasse, nella toilette «Per tutti, con orinatoi» non c'erano nemmeno i cestini per gli assorbenti igienici. Samira Ahmed decise di protestare sui social media: «Ah, che ironia: dovervi spiegare cos'è la discriminazione dopo aver visto I Am Not Your Negro NEL VOSTRO CINEMA», twittò al Barbican Centre, aggiungendo che se davvero avessero voluto eliminare le disparità di genere la soluzione migliore sarebbe stata «ristrutturare la toilette dei maschi eliminando gli orinatoi. Non c'è MAI tanta coda dagli uomini, e lo sapete». Una verità lapalissiana, che però doveva essere sfuggita ai responsabili (in gran parte maschi) del Barbican Centre: strano, perché in genere persino i piú svagati esemplari della specie maschile si accorgono che davanti alla toilette delle donne c'è sempre fila. La spiegazione del fenomeno, invece, la conoscono in pochi, sia uomini sia donne. Come al solito si tende a dar la colpa alla fisiologia femminile anziché agli stili di progettazione a misura di maschio, quando in realtà è proprio qui che sta il problema. A prima vista sembra giusto e corretto assegnare un'identica porzione di spazio ai sanitari delle signore e a quelli dei signori; in fin dei conti si è sempre fatto cosí. La divisione fifty-fifty della metratura disponibile è addirittura sancita nero su bianco dalle norme per la costruzione degli impianti idrici. Ciononostante, nelle toilette maschili dotate sia di orinatoi sia di cabine il rapporto tra numero di potenziali utilizzatori e superficie del locale è molto piú vantaggioso rispetto alle toilette femminili che hanno soltanto le cabine. Ed ecco che all'improvviso la parità di spazi non è piú tanto giusta. Se i servizi maschili e femminili avessero un'identica quantità di cabine, però, il problema non sarebbe ancora risolto, perché la quantità di tempo necessaria a una donna per utilizzare una toilette può essere fino a 2,3 volte superiore a quella di un uomo. Anziani e disabili ci mettono ancora di piú, ed entrambe le categorie hanno una componente maggioritaria femminile. E sono in prevalenza le donne ad andare ai servizi in compagnia di un bambino o di un anziano disabile. Infine bisogna tener conto di quel venti, venticinque per cento di donne in età fertile che nei giorni del ciclo potrebbe aver bisogno di cambiare un assorbente o un tampone. Ci sono poi altri motivi per cui le donne usano il bagno piú spesso degli uomini: le gravidanze, per esempio, riducono in misura significativa la capacità della vescica, e le probabilità di contrarre un'infezione del tratto urinario sono otto volte maggiori per la popolazione femminile. Alla luce di tante differenze anatomiche, l'idea che un'identica metratura dei servizi igienici sia il modo corretto per affrontare la questione è un chiaro sintomo di un egualitarismo che privilegia la forma a scapito della sostanza. | << | < | > | >> |Pagina 97III.
Il venerdí lungo
Verso sera, gli islandesi avevano già cominciato a chiamarlo «il venerdí lungo». Era il 24 ottobre del 1975, e tutti i supermercati del Paese avevano finito le salsicce, «il piatto pronto piú gradito a quei tempi». Gli uffici erano stati invasi da torme di bambini «drogati» dalle caramelle con cui gli adulti cercavano di tenerli buoni. Scuole, asili, fabbriche, erano tutti chiusi o funzionavano a capacità ridotta. E le donne? Be', le donne si erano prese un giorno libero. Alcuni mesi prima le Nazioni unite avevano annunciato che il 1975 sarebbe stato l'anno delle donne: ebbene, le islandesi erano decise a fare sul serio. Dopo una fase di confronto, il comitato composto dalle rappresentanti di cinque grandi organizzazioni femminili del Paese deliberò di organizzare uno sciopero. Il 24 ottobre le islandesi avrebbero incrociato le braccia: non sarebbero andate al lavoro, non avrebbero né cucinato, né pulito la casa, né accudito i bambini. I maschi avrebbero dovuto cavarsela senza il lavoro invisibile e quotidiano con cui le donne mandavano avanti il Paese. Alla sciopero aderì il novanta per cento della popolazione femminile. Venticinquemila donne si radunarono per una manifestazione - la più partecipata delle oltre venti che si tennero in tutta l'isola - nella piazza centrale di Reykjavík, e venticinquemila persone sono tante, su una popolazione complessiva di duecentoventimila. Un anno dopo, nel 1976, il governo approvò una legge per la parità di diritti che metteva al bando la discriminazione sessuale nelle scuole e sui luoghi di lavoro. Cinque anni dopo, Vigdís Finnbogadóttir ebbe la meglio su tre candidati maschi e divenne la prima donna presidente della repubblica; oggi l'Islanda ha il parlamento piú paritario del mondo, e il risultato è stato raggiunto senza l'aiuto delle quote di genere. Nel 2017 si è piazzata per l'ottava volta consecutiva al primo posto nella classifica Global Gender Gap Index del Forum economico mondiale. Secondo l'«Economist», l'Islanda è il miglior Paese al mondo per le donne lavoratrici. È una buona notizia, questo è ovvio, tuttavia non si può fare a meno di avanzare una piccola critica ai giornalisti dell'autorevole settimanale: se c'è una cosa che lo sciopero delle islandesi ha dimostrato con chiarezza è che l'espressione «donna lavoratrice» è una tautologia. Non esiste una «donna non lavoratrice»: esiste tutt'al piú una donna che non viene pagata per il suo lavoro. In tutto il mondo, il settantacinque per cento del lavoro non retribuito è svolto dalle donne; la quantità di tempo dedicata ogni giorno al lavoro gratuito va dalle tre alle sei ore, contro una media maschile che varia da trenta minuti a due ore. La disparità comincia presto (le bambine di cinque anni sbrigano già molte piú faccende domestiche dei loro fratelli) e aumenta con il passare degli anni. Persino nel Paese in cui gli uomini lavorano gratis per il maggior numero di ore, cioè la Danimarca, le ore di lavoro gratuito maschile sono sempre meno delle ore di lavoro gratuito a carico delle donne norvegesi; e la Norvegia è il Paese in cui le donne lavorano di meno. Ogni volta che mi capita di sollevare la questione della disparità tra il carico di lavoro non pagato di uomini e donne, la reazione di chi mi ascolta è sempre la stessa: «Ma ultimamente le cose vanno meglio, no? Poco per volta gli uomini si stanno abituando a fare di più, giusto?» A livello individuale, certo, ci sono uomini che fanno di piú. A livello nazionale, purtroppo, non è cosí: la quota di lavoro non retribuito maschile non accenna a crescere. In Australia, ad esempio, persino nelle famiglie piú agiate che possono permettersi un aiuto domestico rimane una parte di lavoro non retribuito che tocca soprattutto alle donne. Nel corso del tempo, la crescente partecipazione femminile alla forza lavoro retribuita non è stata bilanciata da una crescente partecipazione maschile al lavoro non pagato: le donne si sono semplicemente rassegnate a lavorare piú ore, e da numerosi studi svolti negli ultimi vent'anni risulta che il carico di lavoro non pagato svolto dalle donne è comunque maggiore, indipendente dal loro contributo proporzionale al bilancio domestico. | << | < | > | >> |Pagina 277X.
Le medicine non funzionano
Michelle ha dovuto aspettare ben dodici anni per avere una diagnosi. «Ho cominciato ad avere i primi sintomi a quattordici anni, - mi racconta, - ma non sono mai andata dal dottore perché mi vergognavo troppo». E cosí per due anni Michelle non racconta a nessuno delle sue urgenti, frequenti e dolorose defecazioni, spesso accompagnate da sanguinamento; finché una notte il dolore diventa impossibile da nascondere. «Ero sdraiata in posizione fetale sul pavimento del bagno e non riuscivo a muovermi. Ho avuto paura di morire». Aveva sedici anni. I genitori la portarono di corsa in ospedale. Il medico del pronto soccorso le chiese (in presenza dei genitori) se per caso era incinta. No, impossibile, spiegò Michelle: era vergine, e comunque i suoi erano dolori intestinali. «Senza la minima spiegazione mi hanno portata in un ambulatorio e mi hanno fatto appoggiare i piedi sopra due staffe. Un secondo dopo avevo uno speculum grosso e freddo dentro la vagina. Mi faceva troppo male, cosí ho strillato e mi sono tirata su: l'infermiera mi ha fatta sdraiare e mi ha tenuta giú con la forza mentre il dottore confermava che sí, in effetti non ero incinta». Dopo un po' la mandarono a casa «senza alcuna terapia, a parte una specie di aspirina che costava uno sproposito», e le dissero di stare a riposo per un giorno. Nei dieci anni successivi Michelle chiese consiglio ad altri due medici generici e a due gastroenterologi (maschi): tutti asserivano che il suo era un problema di testa, che doveva controllare meglio l'ansia e lo stress. Aveva ventisei anni quando una dottoressa le fece fare la colonscopia che mise finalmente in luce la sua patologia intestinale: la diagnosi parlava di sindrome da colon irritabile e di colite ulcerosa. «Dopo tutto non era un problema di testa», scherza Michelle. Ma il ritardo nella diagnosi e nella terapia la espone a un rischio maggiore di cancro al colon. È difficile leggere una testimonianza come questa e non sentirsi in collera con i medici che non hanno assicurato a Michelle le cure di cui aveva bisogno. Purtroppo non si tratta di casi isolati, di poche «mele marce» da estirpare. Storie come quella di Michelle sono frequenti in una sanità che discrimina sistematicamente le donne: non le comprende, non le cura, non diagnostica le loro malattie. Il problema comincia nelle aule universitarie. Per secoli e secoli si è pensato che il corpo maschile e quello femminile differissero soltanto per dimensioni e fisiologia riproduttiva: la scienza medica si è concentrata su un'ipotetica «norma» maschile, etichettando come «atipico» o persino «abnorme» tutto ciò che non rientrava in quei parametri. I manuali di medicina abbondano di riferimenti all'«individuo medio del peso di settanta chili», come se quella misura fosse valida per uomini e donne quando invece, come mi è stato fatto notare da un medico, non è granché rappresentativa nemmeno per gli uomini. Nei rari casi in cui si accenna alle donne, si tende a presentarle come una sorta di deviazione dallo standard umano. Agli studenti si insegnano la fisiologia e la fisiologia femminile; l'anatomia e l'anatomia femminile. Come ha scritto la psicologa sociale Carol Tavris nel suo saggio del 1992 The Mismeasure of Woman, «Il corpo maschile è l'anatomia stessa». La propensione al maschile risale quanto meno ai tempi dell'antica Grecia, giacché fu Aristotele a lanciare l'idea che la donna fosse un «maschio dal corpo mutilato» (grazie, eh!). La donna era un uomo «a rovescio»: le ovaie (nome che gli fu attribuito soltanto nel XVII secolo) erano i testicoli femminili, l'utero era lo scroto femminile. Il fatto che si trovassero dentro al corpo invece che fuori (come nei normali esseri umani) dipendeva dalla carenza tipicamente femminile di «calore vitale». Il corpo maschile era un ideale a cui le donne non erano degne di arrivare. Va da sé che al giorno d'oggi i medici non vedono piú nella donna una specie di maschio mutilato, ma la rappresentazione del corpo maschile come corpo umano per antonomasia resiste tuttora. Da un'analisi condotta nel 2008 su una serie di libri di testo consigliati dalle «più prestigiose università europee, statunitensi e canadesi» risultava che, su un totale di 16329 illustrazioni, le «parti del corpo neutre» raffigurate con immagini maschili erano tre volte più numerose delle raffigurazioni femminili. Sempre nel 2008, un'indagine sui testi adottati nelle facoltà di Medicina dei Paesi Bassi ha rilevato una carenza di informazioni esplicitamente riferite ai due sessi anche laddove si affrontavano argomenti (la depressione, per esempio, o gli effetti del consumo di alcol) in cui le differenze tra uomini e donne sono note da tempo; inoltre i risultati dei test clinici venivano presentati come validi per entrambi i sessi anche quando le donne erano state escluse dallo studio. Le scarse difformità a cui si faceva cenno erano «difficilmente rintracciabili attraverso gli indici o dall'impianto generale dell'opera» ed erano comunque liquidate con poche e vaghe parole: si diceva per esempio che «le manifestazioni atipiche di dolore toracico sono piú frequenti nelle donne». Come vedremo piú avanti, in caso di attacco di cuore solo una donna su otto lamenta dolore al petto, che invece è un sintomo tipicamente maschile: quindi la frase appena citata non è soltanto vaga, ma anche inesatta. Un paio d'anni fa sono entrata in una libreria del centro di Londra che vanta un'imponente sezione medica per scoprire se nel frattempo fosse cambiato qualcosa. Nessuna novità. Le copertine dei manuali di «anatomia umana» erano ancora adornate da foto di giovanotti muscolosi. Le illustrazioni di parti anatomiche comuni a entrambi i sessi contenevano ancora irrilevanti membri maschili. Ho visto cartelloni intitolati «L'apparato otorinolaringoiatrico», «Il sistema nervoso», «Il sistema muscolare», «Il sistema vascolare e l'addome», e in tutti era disegnato un uomo. A onor del vero, il cartellone del sistema vascolare aveva un riquadro intitolato «La pelvi femminile»: io e la mia pelvi abbiamo apprezzato la piccola concessione. L'assenza di dati di genere osservata nei libri di testo trova eco nei programmi delle facoltà di Medicina.
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Come l'assenza delle donne dai manuali di anatomia, anche la mancata inclusione delle donne nei test clinici è un problema storico che nasce dall'idea che il corpo maschile sia il corpo umano per definizione; un pregiudizio che si è rivelato in tutta la sua pericolosità una cinquantina d'anni orsono, a seguito di uno dei piú gravi scandali medici del XX secolo. A partire dal 1960 molti dottori avevano cominciato a prescrivere il talidomide alle gestanti che soffrivano di nausee mattutine. Il farmaco, già diffusamente utilizzato come blando sedativo fin dalla fine degli anni Cinquanta, era considerato sicuro perché i suoi inventori «per quanto avessero alzato di parecchio i dosaggi, non erano riusciti a uccidere nemmeno un topo». Ma anche se non uccideva i topi, il talidomide aveva effetti teratogeni sui feti umani (cosa che peraltro i produttori sapevano già dal 1951). Nei due anni che trascorsero prima che fosse ritirato dal mercato, piú di diecimila bambini in tutto il mondo vennero alla luce con disabilità correlate a quel farmaco. Sulla scia dello scandalo, nel 1977 la Food and Drug Administration statunitense pubblicò nuove linee guida che escludevano le donne in età fertile dai test farmacologici. Nessuno contestò la decisione. Nessuno contestò l'ennesima conferma del maschile come norma. Quel principio ha tuttora un numero assai esiguo di oppositori: a dispetto delle evidenze, alcuni ricercatori si ostinano a sostenere che il sesso biologico non abbia rilevanza in campo medico. Una ricercatrice presso un'istituzioqe sanitaria pubblica si è vista respingere per ben due volte le sue richieste di finanziamento con le seguenti motivazioni: «Sarebbe ora di smetterla con queste sciocchezze sui sessi e di tornare a occuparsi di scienza», e «Lavoro in questo campo da vent'anni e so benissimo che [la differenza biologica] non ha alcuna importanza». Non sempre sono commenti anonimi: nel 2014 «Scientific American» ha pubblicato l'articolo di un collaboratore esterno della rivista, il quale sosteneva che l'inclusione di entrambi i sessi nelle sperimentazioni fosse uno spreco di risorse; nel 2015 un altro collaboratore esterno profetizzava dalle pagine della rivista ufficiale dell'Accademia delle scienze statunitense che «concentrarsi sulle differenze di sesso precliniche non annullerà le disparità tra i sessi in ambito medico». Oltre a insistere sul fatto che le differenze tra maschi e femmine non sono rilevanti, alcuni ricercatori si dichiarano contrari all'inclusione di soggetti femminili nelle ricerche mediche: anche se il sesso biologico dovesse avere una qualche rilevanza, l'assenza di dati comparabili ne sconsiglierebbe comunque l'impiego - quando si dice «avere il danno e la beffa». I corpi femminili, della specie umana come delle altre specie animali, sono troppo complessi, troppo mutevoli, troppo costosi per la ricerca. L'integrazione di sesso e genere nelle ricerche è giudicata «onerosa». Si ritiene che vi sia nella ricerca un «eccesso di genere» che andrebbe invece eliminato in nome della «semplificazione»: a tale proposito, vale la pena di notare che alcuni recenti studi sui topi hanno evidenziato una maggiore volubilità dei maschi rispetto a un certo numero di marker. E dunque, dove sta il problema?
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Scavando piú a fondo nelle cifre emerge un altro elemento che gli autori hanno tralasciato: i farmaci sono stati testati su donne che si trovavano in fasi diverse del ciclo mestruale? È molto probabile che la risposta sia no, perché questa è la prassi. Nei rari casi in cui le donne partecipano alla sperimentazione di un farmaco, il test gli viene somministrato all'inizio della fase follicolare del ciclo, quando i livelli ormonali sono al minimo: quando cioè una donna somiglia di piú a un uomo. Lo scopo è «evitare che estradiolo e progesterone interferiscano con i risultati dello studio»: ma la vita vera non è un esperimento scientifico, e nella vita vera gli ormoni femminili - che impertinenti! - non possono non interferire. Per ora è stato dimostrato che il ciclo mestruale incide sugli effetti degli antipsicotici, degli antistaminici e degli antibiotici, nonché di alcuni farmaci per curare le cardiopatie. Certi antidepressivi hanno effetti diversi a seconda delle fasi del ciclo, per cui il dosaggio rischia di essere talora eccessivo e talora insufficiente. Ci sono poi terapie farmacologiche che possono causare alterazioni del ritmo cardiaco, con un rischio particolarmente elevato per le pazienti nei primi quattordici giorni del ciclo. Un rischio che può anche essere fatale.
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Per migliaia di anni la medicina si è fondata sull'assunto che i corpi maschili potessero rappresentare l'umanità intera. Il risultato è che oggi abbiamo un'enorme carenza di informazioni sul corpo femminile: un vuoto di dati che purtroppo continua a crescere, poiché i ricercatori si ostinano a ignorare la pressante necessità etica di estendere il loro ambito di studio alle cellule femminili, sia animali sia umane. Che tutto ciò accada ancora oggi, nel XXI secolo, è un vero e proprio scandalo che andrebbe denunciato a gran voce dai giornali di tutto il mondo. Ci sono donne che muoiono, e la scienza medica è complice della loro morte. È ora di smetterla. | << | < | > | >> |Pagina 420XVI.
Non è colpa della catastrofe
Il paradosso del mettere a tacere le donne quando le cose vanno male sta nel fatto che è proprio in quei momenti estremi che i vecchi pregiudizi sono meno giustificati, perché le donne soffrono già in misura eccessiva le conseguenze dei conflitti, delle pandemie e dei disastri naturali. Ci sono pochissimi dati sull'impatto dei conflitti (mortalità, morbilità, esodi forzati) sulle popolazioni femminili, e i dati disaggregati sono ancora piú sporadici. Ma ciò che abbiamo è sufficiente per supporre che le donne siano le prime a farne le spese. Nelle guerre moderne sono i civili, piú che i militari, a morire. E se molti dei traumi fisici e morali inflitti alle popolazioni in guerra colpiscono in pari misura uomini e donne, spesso queste ultime devono sopportare un carico supplementare di ingiustizie. Durante i conflitti armati le violenze domestiche contro le donne si fanno piú frequenti, tanto da risultare piú diffuse delle violenze sessuali specificamente correlate alla guerra. Per collocare questo dato in un contesto basti pensare che nei tre anni di guerra in Bosnia circa sessantamila donne hanno subito violenza sessuale, e nei cento giorni del genocidio in Ruanda ci sono stati duecentocinquantamila stupri. Secondo stime dell'Onu, piú di sessantamila donne sono state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002); piú di quarantamila in Liberia (1989-2003) e almeno duecentomila nella Repubblica democratica del Congo, dal 1998 a oggi. Con tutta probabilità, le cifre effettive sono molto maggiori: in aggiunta alle solite carenze di dati, c'è anche il fatto che durante le guerre spesso non esistono autorità a cui sporgere denuncia. Anche lo sconvolgimento dell'ordine sociale che segue a una guerra colpisce con piú durezza le donne. Stupri e violenze domestiche rimangono frequenti anche nei cosiddetti contesti postbellici, giacché «una volta congedati e rientrati a casa, i soldati addestrati all'uso della forza si trovano ad affrontare la trasformazione dei ruoli di genere o la frustrazione della mancanza di lavoro». Prima del genocidio ruandese del 1994 l'età media delle ragazze al momento del matrimonio andava dai venti ai venticinque anni; nei campi profughi, durante e dopo il genocidio, le ragazze erano date in sposa a quindici anni. | << | < | > | >> |Pagina 440PostfazioneDispute tra il papa e il re, e guerre e pestilenze a ogni pagina; gli uomini sempre buoni a nulla, e quasi mai una donna - è molto tedioso. JANE AUSTEN, Northanger Abbey A Daina Taimiņa sono bastate due ore per trovare la soluzione che da piú di un secolo sfuggiva a molti matematici. Era il 1997, e Taimiņa stava partecipando a un laboratorio di geometria alla Cornell University condotto da David Henderson. Il professore stava tentando di costruire un piano iperbolico servendosi di sottilissime strisce di carta unite con il nastro adesivo. «Una vera schifezza», avrebbe poi commentato la matematica lettone. Un piano iperbolico è «l'opposto geometrico di una sfera», spiega Henderson in un'intervista al periodico culturale «Cabinet». «In una sfera, lo spazio si curva su sé stesso ed è chiuso. Un piano iperbolico è una superficie in cui lo spazio si curva allontanandosi da sé stesso a ogni punto». Esiste in natura nelle foglie di lattuga riccia, in certi cardi, nelle lumache di mare e in alcune cellule cancerose. La geometria iperbolica è usata dagli statistici per la gestione dei dati multidimensionali, dagli animatori della Pixar quando vogliono raffigurare in modo realistico i movimenti di un tessuto, dai designer che studiano l'aerodinamica dei veicoli, dagli ingegneri acustici che progettano le sale da concerto. È la base della teoria della relatività, quindi è «il modo migliore che abbiamo di avvicinarci a comprendere la forma dell'universo». Insomma, è una faccenda parecchio importante. Per migliaia di anni, tuttavia, lo spazio iperbolico non è esistito. Almeno non per i matematici, che credevano nell'esistenza di due soli tipi di spazio: quello euclideo, piatto come una tavola, e quello sferico. Lo spazio iperbolico fu scoperto nel XIX secolo, ma solo in teoria. Per piú di un secolo i matematici tentarono invano di rappresentarlo fisicamente, ma nessuno ci riuscí finché Daina Taimiņa non si iscrisse a quel seminario alla Cornell. Perché Daina Taimiņa, oltre a insegnare matematica, ha la passione dell'uncinetto. Gliel'avevano insegnato a scuola. A quei tempi in Lettonia (ancora parte dell'Unione Sovietica) «tutti erano capaci di ripararsi la macchina, o il rubinetto della cucina, - spiega. - Quand'ero ragazzina, saper lavorare ai ferri o cose del genere significava potersi confezionare indumenti diversi da quelli di tutti gli altri». Eppure, benché si fosse, resa conto che anche in quel campo si utilizzavano modelli e algoritmi, Taimiņa non aveva mai pensato di collegare le sue competenze domestiche e femminili con la professione di matematica. Mai, fino a quel famoso seminario del 1997. Quando vide la malriuscita approssimazione cartacea di Henderson, ebbe un'idea: posso farlo all'uncinetto! E cosí fu. Passò l'estate seduta accanto alla piscina, lavorando a un corredo didattico di oggetti iperbolici. «La gente mi passava accanto e chiedeva: "Che fai di bello?" E io: "Oh, niente, sto uncinettando il piano iperbolico"». Da allora a oggi ha creato centinaia di modelli: quel lavoro le è servito ad «avere una visione molto concreta dello spazio che si espande in modo esponenziale. I primi giri di uncinetto si fanno in fretta, ma per gli ultimi possono volerci addirittura ore: hanno una tale quantità di punti! Alla fine si ha una comprensione viscerale di che cosa significhi "iperbolico"». A tutti gli altri, invece, è bastato guardare i suoi modelli. In un'intervista al «New York Times» la matematica lettone racconta di quando un professore che aveva insegnato per anni gli spazi iperbolici vide uno dei suoi modelli e disse: «Ah, quindi è cosí che sono fatti». Oggi le creazioni di Daina Taimiņa sono uno strumento fondamentale per spiegare il concetto. Il contributo fondamentale di Taimiņa allo studio del piano iperbolico non ha, come è ovvio, colmato un vuoto di dati direttamente correlato alle tematiche di genere. La morale di questa storia è che l'annullamento del gender data gap ha effetti positivi che vanno al di là della questione femminile in sé e per sé. Visto il contributo che le donne hanno dato e possono dare nei campi piú disparati, dalla politica alla diplomazia, dal design alla pianificazione urbana, compensare il vuoto di dati fa bene a tutti. Persino ai matematici. Quando si esclude il cinquanta per cento dell'umanità dalla produzione di conoscenza, ciò che si perde sono idee che potrebbero cambiare il mondo. Qualcuno è convinto che i matematici maschi sarebbero arrivati da soli all'idea semplice ma elegante che ha avuto Daina Taimiņa? Improbabile, dato che i maschi appassionati di uncinetto non sono tantissimi. In lei, però, la tradizionale competenza femminile dell'uncinetto è entrata in cortocircuito con la sfera tradizionalmente maschile della matematica. Ed è stato grazie a quel cortocircuito che si è risolto un problema al quale molti suoi colleghi si erano arresi. Taimiņa ha offerto loro l'anello mancante. Troppo spesso, però, alle donne non è permesso dare un contributo alla risoluzione dei tanti problemi mondiali che continuiamo a ritenere insolubili. Come Freud, seguitiamo a lambiccarci il cervello sui soliti cosiddetti enigmi. E se invece, come la rappresentazione dello spazio iperbolico, non fossero problemi insolubili? E se, in questo come negli altri problemi dei famosi concorsi scientifici, mancasse soltanto una prospettiva femminile? I dati in nostro possesso sono incontrovertibili: è ora che nel costruire, progettare e sviluppare il mondo si cominci a prendere in considerazione le vite delle donne. O, per meglio dire, è ora di dare la giusta attenzione ai tre elementi che definiscono la relazione tra le donne e il mondo. Il primo elemento è il corpo femminile; o piuttosto, l'invisibilità del corpo femminile. La caparbietà con cui lo si è estromesso dalla progettazione - che si trattasse di strumenti medici, tecnologie o architetture - ha creato un mondo meno ospitale e piú pericoloso per le donne. Rischiamo di farci del male perché ci sono mansioni e automobili che non sono state progettate per i nostri corpi. Moriamo a causa di farmaci che su di noi non funzionano. Il mondo che è stato creato è un mondo a cui le donne non sono granché adatte. Quando c'è bisogno di raccogliere dati, il corpo femminile è invisibile: il che è ancor piú paradossale se si considera quanto invece la visibilità del corpo femminile sia decisiva in rapporto al secondo dei tre elementi, ovvero la violenza sessuale contro le donne: una violenza che non misuriamo, che non consideriamo nel progettare il nostro mondo, alla quale permettiamo di limitare la nostra libertà. Il motivo per cui le donne vengono violentate non è la biologia femminile. Non è a causa della biologia femminile che le donne sono minacciate e violate mentre vivono gli spazi pubblici. La violenza non dipende dal sesso ma dal genere: dai significati sociali che abbiamo imposto ai corpi maschili e femminili. Per garantire il funzionamento degli stereotipi di genere, deve essere chiarissimo a quali corpi corrispondono quali tipi di trattamento. Ed è proprio cosí: come ormai sappiamo, «la sola vista di una donna» basta a «evocare un insieme ben preciso di caratteristiche e attribuzioni». A inquadrarla subito come qualcuno a cui si può dare sulla voce. A cui si può fischiare dietro. Qualcuno che si può seguire. Che si può violentare. O forse solo qualcuno a cui chiedere di prepararci un tè. Ed è qui che incontriamo il terzo elemento, forse il piú significativo in termini di impatto sulla vita delle donne di ogni nazione: il lavoro di cura non retribuito. Le donne fanno ben piú della loro giusta parte di quel lavoro, cosí necessario a tenere insieme le vite di tutti. E come nel caso della violenza maschile, non è la nostra biologia a fare automaticamente di noi delle badanti. Ma ogni bambina che sia riconosciuta come femmina sarà educata ad aspettarsi e accettare quel ruolo. Ogni donna che sia riconosciuta come femmina sarà considerata la persona giusta per riordinare l'ufficio dopo che tutti sono andati via. Per scrivere i biglietti natalizi ai parenti del marito e occuparsi di loro quando si ammaleranno. Per essere pagata di meno. Per scegliere il lavoro part-time quando arrivano i figli.
Non raccogliere dati sulle donne e sulle loro vite significa continuare a
dare per scontata la discriminazione di sesso e di genere, e al tempo stesso non
rendersi conto della sua esistenza.
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