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| << | < | > | >> |Indice7 Prefazione all'edizione italiana Fatti inattuali, esiti attuali Piercarlo Grimaldi 15 Introduzione 19 Capitolo primo La nozione e la sua storia 19 La parola e l'idea 21 Sotto la superstizione, il pregiudizio 22 Sotto la tradizione popolare, i monumenti dell'antichità 24 Il riferimento al "popolo" 27 Usi ideologici 29 Tradizioni popolari, folklore e patrimonio 33 Capitolo secondo Tradizioni popolari e scrittura 34 Nelle società senza scrittura 40 Nelle società in cui l'oralità e la scrittura interagiscono 47 Nelle società in cui prevale la scrittura 55 Capitolo terzo Le pratiche dell'espressione 56 Tradizioni dell'espressione orale 63 Tradizioni dell'espressione musicale, vocale, coreografica e strumentale 70 Tradizioni dell'espressione nel vestiario e nell'apparenza corporale 77 Capitolo quarto Tradizioni popolari e forma rituale 78 Riti e rituali della tradizione religiosa e del suo complemento, la stregoneria 84 Riti e rituali profani o secolari 95 Capitolo quinto Costumi, usi, saperi: raccolte e codificazioni 95 Tradizioni popolari e costumi codificati 98 Tradizioni popolari e usi 103 Usi, tecniche e saperi empirici 109 Saperi,comuni e saperi di mestiere 117 Capitolo sesto Tradizioni popolari e pratica sociale ordinaria 119 Tradizioni popolari, folklore e storia: il folklorismo e la fabbrica dei patrimoni culturali nazionali 123 Le tradizioni popolari nel regime comunista: folklorizzazione e innovazioni 127 Le tradizioni popolari nelle società europee occidentali: continuità, innovazioni, rotture 132 Tradizioni popolari o pratiche sociali correnti 137 Conclusioni 141 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 15IntroduzionePartecipare con le bandiere spiegate al vento a una processione che va verso una cappella sperduta o verso un tempio nel giorno di una festa religiosa, in Irlanda o in India; tutti insieme, parenti, amici e vicini raccolti per un funerale, consumare insieme il cibo rituale e prendere parte al banchetto in onore del morto, in Romania o in Bulgaria; cantare, ballare al suono del violino o della fisarmonica, la domenica, in Québec o in Finlandia: ecco alcune usanze che sono tradizioni popolari. Manifestare in un corteo con i cartelli in mano, urlando slogan per i viali di qualche grande città, a Bruxelles o a Copenaghen; tifare con scatenati cori di incoraggiamento per la propria squadra di calcio, portarne i colori sui vestiti e sugli oggetti feticcio; deporre fiori sotto la statua di Lenin dopo aver firmato un atto di matrimonio a Tallin o a Kiev in Unione Sovietica: ecco alcune usanze praticate nelle Società contemporanee che, altrettanto incontestabilmente, sono tradizioni popolari. Ma che pensare di riti civili come la posa della prima pietra? Un re, un presidente della repubblica o un sindaco che, per inaugurare la costruzione di un edificio ufficiale, prende la cazzuola e mette un po' di cemento su una pietra destinata alle fondamenta. Vogliamo considerarla una tradizione popolare? In questa semplice operazione non c'è forse una dimensione che ne supera l'aspetto convenzionale? Un gruppo di ragazzine in tenuta militare fuori ordinanza si pavoneggia con le gambe scoperte al suono di tamburi e sassofoni alla testa di un corteo per sostenere un candidato all'elezione presidenziale degli Stati Uniti. Stanno realmente seguendo una tradizione popolare? O non fanno niente altro che subire le consuetudini di una cultura politica che si alimenta letteralmente della dimensione spettacolare e che resta totalmente subalterna alla domanda dominante? E che dire della preparazione in famiglia di alcuni piatti magnificati dalle nuove mode gastronomiche che arrivano al punto di elevare addirittura a dignità di arte la cucina regionale? Sono tradizioni popolari deviate dai loro significati originari ed espulse dal loro contesto d'origine? Oppure dobbiamo considerarle pratiche comuni trasferite su un piano d'eccellenza dall'applicazione di tecniche raffinate, ma senza alcun rapporto con le tecniche utilizzate in passato? Con "tradizioni popolari" ci si riferisce evidentemente a campi diversi della pratica sociale comune. Ci si riferisce a usi, credenze e saperi trasmessi di generazione in generazione e quasi senza alcun cambiamento dalle società antiche fino a quelle contemporanee. Ecco perché questi usi, queste credenze e questi saperi li sentiamo appartenere al "popolo" o alle classi più umili della società. E li sentiamo così in opposizione alle élite o alle classi più alte di società fortemente stratificate come, storicamente, la Cina o l'India o come le società industriali contemporanee. Ma è forse necessario includere sotto questo termine anche gli usi, le credenze e i saperi analoghi diffusi nelle società economicamente avanzate? È bene dunque, prima di andare avanti, soffermarsi sulla nozione di "tradizione popolare", inserendola nella storia della cultura in cui è stata originariamente elaborata, cioè la cultura occidentale (capitolo primo). Bisognerà poi caratterizzare gli elementi della tradizione popolare secondo i grandi tipi di società, nel loro rapporto, in particolare, con la scrittura (capitolo secondo). Perché solo seguendo questo percorso si potranno descrivere il campo e i diversi generi in cui opera la tradizione popolare, cioé solo per questa via si potranno mostrare, con esempi precisi, i meccanismi generali di trasmissione e di innovazione che operano nei vari generi (capitoli terzo, quarto, quinto). Allora potremo veramente apprezzare le tante forme in cui queste tradizioni sono conosciute, conservate e più o meno valorizzate, le tante forme in cui il folklore tenta di perpetuarle, nei vari tipi di organizzazione sociale: ma, anche qui, è un folklore vivo o, al contrario, è un folklore mantenuto in vita artificialmente per fini politici o commerciali. E si potrà infine valutare se le tradizioni popolari, o più esattamente le pratiche sociali comuni, esprimono identità culturali che sono radicalmente minacciate dai cambiamenti o dal processo di mutamento della società, oppure quanto irrimediabilmente siano controllate o manipolate dai mezzi di comunicazione di massa che le forze del mercato e dei poteri possono riprendere e rianimare o, al contrario, svilire, abbandonare e rifiutare (capitolo sesto). | << | < | > | >> |Pagina 19Capitolo primo
La nozione e la sua storia
Non c'è società che non sappia distinguere, tra gli usi di oggi, quelli tramandati dagli antenati. Gli aborigeni australiani hanno una maniera propria di praticare questa distinzione, attraverso il mito e attraverso il sogno. I Polinesiani di Tahiti hanno una loro nozione dei costumi e, a seconda della necessità, sanno bene come utilizzarla. I saperi e le credenze accumulati nel corso dei millenni dai sacerdoti dell'antico Egitto sono stati raffinati dall'insegnamento nei templi e dall'amministrazione dei palazzi. Né i sumeri, né i babilonesi, né la Cina imperiale o l'India dei brahamani hanno trascurato il lavoro di raccolta delle consuetudini, degli usi e dei riti, con precisi scopi di conservazione, di codificazione o di correzione. Ma è in Grecia, sotto l'impulso dei sofisti, è ad Atene, con la guida di Socrate, che l'obiettivo di spiegare la nozione di tradizione popolare è stato perseguito con maggior vigore. Uomini di chiesa e pensatori, teologi e filosofi non hanno smesso, da allora, per lo meno nel mondo occidentale, di esercitare un'attività critica, raggiungendo risultati diversi, sui contributi dati dalla tradizione popolare alle forme più alte della cultura e, inversamente, sugli arricchimenti che la cultura alta trasmette alla tradizione popolare, fino a comporre la cosiddetta "cultura ordinaria". | << | < | > | >> |Pagina 27Usi ideologiciCarico di giudizi di valore presso i poeti e gli uomini di lettere, come presso i politici e gli uomini di chiesa, il riferimento al "popolo" rimane pieno di ambiguità presso gli "antiquari" e i folkloristi del XIX secolo. Valutate positivamente o negativamente, le tradizioni popolari offrivano, in effetti, una materia troppo ricca perché gli ideologi non se impadronissero. Come in Francia i lavori dell'Accademia celtica alimentarono una celtomania e una corrente di pensiero che proseguì fino a Vichy, in Germania e nei paesi germanici le ricerche degli storici e dei filologi fornirono indirettamente argomenti agli ideologi del pangermanesimo, le cui motivazioni, è ben noto, hanno sostenuto più di un movimento politico fino al nazismo e al razzismo di Hitler. Gli ideologi, in Russia, non hanno tardato a seguire lo stesso cammino e a riprendere anche loro le esortazioni di Herder che invitavano i popoli slavi a prendere coscienza della propria identità: il panslavismo nasce esplicitamente nel 1822. Quest'ultimo movimento continua fino ai giorni nostri a sopravvivere in una certa retorica del dibattito pubblico e in un certo modo di fare politica nelle relazioni internazionali, come si può vedere dal modo in cui la Russia ricostruisce, dopo il crollo dell'Unione Sovietica, l'aggregazione delle nazioni slave.
Dipendendo dal concetto ambiguo di "popolo", la nozione di tradizione
popolare non poteva prestarsi a un uso
esclusivamente ideologico, quello dei cantori delle identità
culturali nazionali, poiché i fatti della tradizione popolare
si presentano sotto altre dimensioni rispetto all'etnicità. È
così che il "popolo" a cui si pensa si identifica spesso con
le classi sociali più basse della società in opposizione alle
classi alte o, secondo la dizione di Karl Marx, con le classi
dominate rispetto a quelle dominanti. Si considera allora,
per paesi come l'Inghilterra, la Germania e la Francia, soprattutto la classe
operaia, ovvero il proletariato, rispetto
alla borghesia. Si dà valore, di conseguenza, ad altri aspetti
della tradizione che offrono altrettanto materiale per un
uso ideologico. Ai temi unanimisti della solidarietà delle
comunità locali, regionali e nazionali, si sostituiscono i temi militanti della
lotta di classe e delle solidarietà delle
classi anche al di là delle frontiere. Alle tradizioni secolari
condivise da tutto un popolo, o che dovrebbero essere tali,
si oppongono le tradizioni operaie praticate da tutta una
classe sociale o quelle che vengono spacciate come tali.
Tutta un'ideologia viene costruita intorno al folklore operaio e alla sua
tematica, in cui la manifestazione e lo sciopero occupano una posizione di
grande rilievo. Le manovre segrete degli "agitatori culturali" nei paesi
comunisti si ispirano direttamente a questo, fino a quando la caduta del
marxismo, che precedette quella dell'Unione Sovietica,
non lasciò nuovamente il campo alla manipolazione dell'etnicità.
Tradizioni popolari, folklore e patrimonio Ma alla fine del XVIII secolo e all'inizio del XIX secolo, così diverso e così fecondo, le tradizioni popolari non sono soltanto oggetto di una valorizzazione ideologica attraverso il discorso e la pratica politica. Vicq d'Azyr e don Germain Poirier prendono già in considerazione questo campo della pratica sociale, le sue consuetudini e gli oggetti materiali, secondo una prospettiva risolutamente scientifica, quella dell'Enciclopedia. Lo annuncia il loro celebre testo del 1794: Istruzioni sulla maniera di inventariare e di conservare, in tutto il territorio della Repubblica, tutti gli oggetti che possono servire alle arti, alle scienze e all'insegnamento. Con queste parole essi si riferiscono alle parlate, agli usi e agli abiti tradizionali in quanto portatori della differenza e quindi degni di essere considerati e in parte meritevoli di essere conservati, in un momento in cui generalmente prevale la standardizzazione della lingua e la normalizzazione dei codici. Questi stessi scienziati si impegnano ad allestire delle collezioni di oggetti che rappresentino le "arti meccaniche", in cui si troveranno "tutti gli strumenti e le macchine impiegate nelle costruzioni e nelle fabbriche di diversi generi". La loro riflessione annuncia quindi la creazione della Scuola delle Arti e dei Mestieri di Parigi (1799), un'istituzione concepita non solo per ospitare una collezione di oggetti, ma anche come un luogo per la trasmissione dei saperi. Perché per poter insegnare le arti meccaniche non sembra più sufficiente parlare e far vedere, ma appare necessario dare dimostrazioni e offrire la possibilità di mettere in pratica. In effetti, l'attività degli "antiquari" e dei folkloristi del XIX secolo è consacrata, in misura sempre crescente, alla raccolta di collezioni e alla creazione di musei di arti e tradizioni popolari. Dopo diversi infruttuosi tentativi in molte capitali europee e a Parigi, il primo museo di questo tipo, all'aperto, viene inaugurato a Stoccolma (1873) – lo Skansen – e nel Museo etnografico di Parigi viene inaugurata la Sala della Francia (1882). Imprese di questo tipo continuarono da allora a risvegliare l'interesse di coloro che succedettero ai promotori di queste istituzioni. Si tratta spesso di grandi imprese, quanto più le arti e le tradizioni popolari esprimono o si crede che esprimano identità nazionali minacciate: è quello che accadde in particolare con il Museo del villaggio di Bucarest (creato nel 1936), con cui si riafferma l'antica identità culturale della Romania che il regime di Ceaucescu aveva tentato di smantellare. Questi musei forniscono, in effetti, fino a oggi, il principale supporto delle operazioni che tendono a conservare, a trasmettere e valorizzare un patrimonio di oggetti, di documenti e di abilità, rendendoli accessibili alla massa, visibili nelle gallerie, praticabili nelle officine e attraverso gli spettacoli che spesso vengono organizzati all'interno delle stesse istituzioni. In molti paesi europei era del resto più facile produrre collezioni di arti e di tradizioni popolari o spettacoli folklorici che mettere in comunicazione un pubblico più ampio con i capolavori dell'arte mondiale. Questi ultimi sono rari, per definizione, e inevitabilmente dispersi per il mondo. Quanto agli spettacoli più eleganti e più elitari, come il teatro d'autore o l'opera, è necessario, per accedervi, aver seguito un vero e proprio percorso iniziatico. Le opere d'arte e le tradizioni popolari, unite a quella cultura dell'oralità che forma il loro contesto ordinario, si prestano più facilmente alla comprensione e anche a una riappropriazione da parte di un pubblico vasto, piuttosto che il patrimonio dei castelli e dei palazzi, delle abbazie e delle cattedrali, della grande pittura e della grande scultura che gli Stati e le chiese si onoravano di detenere e di cui la cultura alta si dilettava prima di offrirlo all'ammirazione lontana dei popoli. Tale è dunque la nozione di tradizione popolare come si è costituita storicamente nei paesi di cultura europea, fino a prendere la forma che le si riconosce generalmente oggi. Ma l'Europa e le sue estensioni oltreoceano e altrove non sono né il solo luogo né il luogo privilegiato del funzionamento delle tradizioni popolari. In altre società molto antiche e complesse, come quelle della Cina o dell'India, funzionano ugualmente ricchi complessi di tradizioni popolari. Queste culture hanno un tratto in comune con quelle europee: la scrittura, il cui possesso e il cui uso influiscono sui meccanismi della conservazione, della trasmissione e dell'appropriazione che costituiscono la tradizione. È questo rapporto della tradizione popolare con la scrittura che deve essere esaminato prima di tutto. | << | < | > | >> |Pagina 33Capitolo secondo
Tradizioni popolari e scrittura
Le società umane sono abbastanza numerose e abbastanza differenti da mostrare come il funzionamento della tradizione vari se una cultura dispone o meno della scrittura e, quando la possiede, secondo il posto che questa occupa nel fissare gli usi e nel trasmettere credenze, saperi e valori. Se, in effetti, sono il linguaggio e la comunicazione orale che tracciano l'orizzonte della cultura, allora sono la scrittura e la comunicazione grafica che introducono all'universo delle città, quell'universo chiamato, giustamente, "la civiltà". Dunque è solo in questo universo che possono nascere, prosperare ed evolversi tradizioni propriamente "popolari", perché solo in questi casi il "popolo" delle società umane si divide in strati sociali distinti. Lì solamente i sistemi di usi, di credenze e di saperi possono differenziarsi e offrire materiale per tradizioni elitarie o tradizioni popolari, per tradizioni colte o tradizioni comuni. Perché solo li, da gruppi specializzati, può nascere questa dualità, come le caste dei brahamani in India o l'ambiente dei mandarini nella Cina imperiale, che lasciano metabolizzare dalla tradizione popolare quello che non integrano nella loro tradizione elitaria. È quindi fondamentale distinguere fra tre casi: quello delle società senza scrittura, in cui la tradizione agisce nella pura oralità; quello delle società in cui l'oralità e la scrittura dividono fra loro le funzioni di conservazione, di trasmissione e di appropriazione di un patrimonio culturale comune a tutto un popolo; quello, infine, delle società in cui prevalgono la scrittura e le forme contemporanee della comunicazione, riducendo per questo i contributi della tradizione popolare al funzionamento di insieme della cultura. | << | < | > | >> |Pagina 137ConclusioniQual è dunque il destino delle tradizioni popolari, ora che nei paesi europei le pratiche sociali comuni funzionano secondo meccanismi totalmente differenti? Jakobson e Bogatyrëv ricordavano, fin dal 1929, nella loro analisi sul folklore come forma specifica della creazione, a quali condizioni una tradizione popolare può funzionare in maniera originale. Considerando un'opera di tradizione orale o un rito, la relazione fra l'opera d'arte e la sua oggettivizzazione, cioè le varianti di quest'opera d'arte interpretate da diverse persone, è del tutto analoga alla relazione che esiste fra la langue e la parole. Come la langue, l'opera folcloristica è extra-personale e non ha che un'esistenza potenziale; non è che un assemblaggio complesso di alcune norme, di alcuni impulsi, un canovaccio di tradizioni del momento che sarà animato dagli interpreti con gli ornamenti della creazione individuale, come fanno i produttori della parole rispetto alla langue. Nella misura in cui queste innovazioni individuali nella langue (o nel folclore) rispondono alle esigenze della comunità e anticipano l'evoluzione regolare della lingua (o del folclore), vengono integrate e diventano fatti della langue (o elementi dell'opera folcloristica). Jakobson ha polemizzato contro la tesi ben conosciuta secondo la quale "il popolo non produce, ma riproduce", per la ragione che non c'è una soglia insuperabile fra la produzione e la riproduzione e niente ci autorizza a valutare la riproduzione inferiore alla produzione. Ebbene, è la ripetizione di questa operazione, attraverso cui l'utilizzatore si appropria di un'opera, di un uso o di un rito, attraverso cui un officiante o un interprete riproducono una sequenza di operazioni o ripetono ancora una volta a memoria un canto, è questa operazione, dicevo, che smette di essere eseguita o che viene eseguita in un altro modo nella congiuntura attuale della cultura europea. La tradizione popolare sarebbe quindi destinata a divenire preda del folklorismo, a conservarsi solo sotto la forma di uno spettacolo a fini turistici per il fatto che proprio essa rappresenta un capitale per le collettività locali, come sta avvenendo con lo sfruttamento commerciale delle feste del Carnevale? Innumerevoli associazioni, coscienti di questo rischio, tentano di lottare per evitarlo e per conservare la conoscenza metodica dell'arte della narrazione, del canto e della danza, dell'artigianato del ferro e della tessitura, della scultura su pietra e su legno, in breve, della varietà delle arti popolari. Ma dal momento che queste arti hanno perso la finalità pratica che avevano nella situazione originale in cui si diffusero, non vengono più praticate, in realtà, che per il commercio e sfuggono al controllo delle associazioni il cui compito è conservarle. O se vengono praticate all'interno di un'associazione, è comunque senza una finalità pratica, ma per il puro piacere di praticarle. Le opere o le rappresentazioni che ne derivano smettono allora di essere rette dai meccanismi della tradizione. Si evolvono per i cambiamenti imposti dalle nuove regole del mercato o dalle fluttuazioni della moda o del gusto, che, come sappiamo, subiscono una straripante influenza dei media. Le politiche culturali adottate dalle società europee lottano con vari mezzi per evitare questo destino. Qua e là, Stato o collettività locali, fondazioni o mecenati sostengono l'artigianato d'arte, le compagnie di teatro, di musica o di danza che si dedicano a perpetuare alcune forme di spettacolo popolare, le associazioni militanti a favore delle arti e delle tradizioni popolari in generale. Ma si è di fronte a un destino ineluttabile. Perché proprio gli effetti che questa lotta produce alterano, per propria natura, il divenire autonomo delle forme di espressione, degli usi e delle opere e, ancor di più incidono su costumi e riti. Il contributo del potere pubblico alla salvaguardia delle tradizioni popolari ha in verità conseguenze ancora più radicali. In effetti, se si trattano le opere, le tecniche e gli usi come "beni culturali" che bisogna conservare e valorizzare, si modificano in profondità le loro finalità di origine e, con queste, il senso di cui i loro produttori e i loro praticanti li investono. Per esempio, certi tipi di vasellame della tradizione popolare, una giara o una ponne che originariamente erano d'uso quotidiano, diventano "oggetti d'arte" dal momento in cui cessano di essere realmente oggetti d'uso e la produzione è garantita solo dalle sovvenzioni che la sostengono. Altro esempio; il costume dei fuochi di Santa Giovanna che, nello stesso momento in cui ne è stato riconosciuto il valore culturale, si è allontanato dalla finalità originaria e dal suo carattere religioso, anche se qualcuno da qualche parte vuole perpetuarli utilizzando fondi municipali, ma con ciò stesso distruggendo il suo valore culturale, ignorando tutti i principi che l'avevano fatta nascere. Forse si potrebbe risolvere il problema elevando le tradizioni popolari e le loro opere al rango di valori e di beni patrimoniali? È la soluzione giapponese: consiste nel sostenere l'attività di un certo numero di grandi maestri delle arti e tradizioni popolari che vengono elevati al rango di "tesori nazionali viventi". A loro vengono forniti mezzi appropriati e ci si aspetta che trasmettano il loro sapere a discepoli scelti, nella speranza che le competenze e i talenti si perpetuino così di generazione in generazione. L'esperienza mostra che si possono, in effetti, perpetuare così alcune conoscenze e certe capacità e, di conseguenza, mantenere le condizioni necessarie per produrre opere e rappresentazioni tradizionali. Ma nella misura stessa in cui i sistemi completi di competenze e di talento si trasmettono così, artificialmente, in un modello che non ha niente a che vedere con quello di cui si sono alimentati, si può arrivare nel migliore dei casi a mimare la tradizione, ma non a svilupparla. Inoltre, questa tradizione non avrà proprio niente di popolare, dal momento che le procedure di selezione dei grandi maestri saranno, al contrario, profondamente elitarie. C'è comunque un'altra via attraverso la quale le tradizioni popolari vedono il proprio destino trasformarsi nel loro futuro. Ma il prezzo è alto e due rinunce vanno fatte: non trattare le tradizioni popolari come un semplice valore culturale e non rinchiuderle nei musei o nei laboratori dei grandi maestri, perché così le si neutralizza e nessuno, fra chi ama veramente studiarle, potrà più appropriarsene. Bisogna ammettere quindi che le tradizioni popolari sono ormai il passato e diventano quindi sempre più oggetto di studio dell'archeologia e della storia. E tuttavia le tradizioni popolari sono ancora parte integrante del nostro presente, ma lo sono in modo diverso. Le nostre società europee, in effetti, così piegate sotto il peso della storia, non si trasformano, per dirla con Nora, in musei della propria storia. E per fortuna! Le nostre società hanno mantenuto e manterranno la completa capacità di proiettarsi nell'avvenire fintanto che sapranno evitare di irrigidirsi nella conservazione patrimoniale del proprio passato, e riusciranno anzi a costruirlo con le proprie scelte.
Ed è così che la tradizione popolare si è perpetuata originariamente nelle
nostre società: non come un insieme di
beni e valori culturali da sterilizzare e proteggere dai nostri
macrosistemi sociali, ma come un materiale nobile, come
una materia infinitamente preziosa che senza sosta ricerchiamo e senza sosta
rielaboriamo per costruire i nostri progetti sociali come popolo e per affermare
così le nostre autonome identità.
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