Autore Nando dalla Chiesa
Titolo Per fortuna faccio il prof
EdizioneBompiani, Milano, 2018, Overlook , pag. 240, cop.fle.sov., dim. 15x21x2 cm , Isbn 978-88-452-9668-0
LettoreLuca Vita, 2018
Classe universita' , sociologia , storia criminale , citta': Milano












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prefazione                                                9

Il ritorno                                               11

Scienze politiche                                        25

Perché la strada si fa camminando...                     39

Il cortile                                               59

Mestiere di prof                                         71

Tesi di laurea                                           91

L'università itinerante                                 111

Ritratti                                                143

All'estero                                              179

Ribelli in Lombardia (ovvero la formula della felicità) 197

Un paese senza mafia                                    217

Riservata personale (ma non troppo)                     225


Appendice.

Milano, facoltà di Scienze politiche:
storia di una traversata collettiva                     231

Tracce                                                  235


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 9

PREFAZIONE



Questo non è un libro di denuncia dei mali dell'università. Non è lamento, non è cahier de doléances. Non è accusa contro lo Stato che non investe nella ricerca. E nemmeno deplorazione delle distanze tra strutture e tecnologie dei nostri atenei d'eccellenza e quelle dei maggiori atenei stranieri. O degli astronomici divari di efficienza e semplicità di leggi e burocrazie, di borse di studio e di stipendi.

È invece un libro che canta la bellezza dell'insegnare e del vivere in università. Racconta il piacere delle sfide culturali, la meraviglia dell'incontro con le generazioni più giovani, la scoperta di realtà e sentimenti sempre nuovi, la ricchezza nascosta dei percorsi collettivi. Ricorda quel che l'umanità dimentica cinque volte al secolo: che le idee e il cuore smuovono le montagne, possono spesso più del denaro. E che il primo vero finanziamento di cui l'istruzione ha bisogno è una grande iniezione d'amore verso il mondo che ci circonda. È un libro, ancora, che spiega la fortuna di vedersi affidate dal destino giovani vite in cerca di senso, e quella, ancora più grande, di diventarne parte.

Eppure non è un libro scritto in un campus felicemente sollevato sui grandi drammi del paese. L'università che vi viene narrata vive anzi in totale immersione nei problemi sociali. Li cerca, addirittura, senz'altro più di quanto facciano i governi stessi e l'informazione. Per contribuire a risolverli. Sentendo come propria missione quella di dare un valore sociale alla conoscenza.

In questa università pubblica si incontrano le storie antiche e nuove delle persone, l'armonia dei luoghi che vissero le rivolte e le speranze, i visi innocenti e irriverenti che annunciano il futuro. Così è nata dal nulla un'area intera di studi e discipline fino a pochi anni fa misconosciuti, rompendo indifferenze secolari. Rovesciando pregiudizi intellettuali. Dimostrando che il nostro sguardo serve non solo a vedere le cose ma anche a farle nascere. Che la cultura scientifica può farsi cultura civile e propagarsi, a un certo punto, come incendio nella prateria.

È il racconto di una storia che non aspettavo e che ho vissuto come un dono.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

SCIENZE POLITICHE



Ora devo però raccontare che cosa rappresenta la facoltà di Scienze politiche di Milano nella mia storia più lunga. Poiché la nuova vita battezzata dalla neve non andò a incominciare in qualche luogo lontano o sconosciuto. Nelle pampas o a Oxford o sui Carpazi. Ma fiorì in un posto a me familiare, un rimescolarsi dolce di ricordi, di simboli, di passioni, di affetti. In genere i rivolgimenti della vita si associano con nuovi pesaggi, territori vergini al proprio cuore e alla propria memoria. Qui è stato diverso, il rivolgimento è sbocciato in un luogo "di sempre". Come innamorarsi di una compagna delle elementari. E questo spiega la bellezza misteriosa di quanto è accaduto.

Diciamo subito che la facoltà di Scienze politiche ha un posto preciso nella storia sociale e politica di Milano. La sua nascita fu uno dei frutti più succosi e duraturi della grande stagione della rivolta giovanile. Nacque di slancio dall'omonimo corso di laurea, ancora inquadrato nella facoltà di Giurisprudenza presso la sede storica di via Festa del Perdono, sotto la spinta impetuosa delle iscrizioni e della partecipazione appassionata di nugoli di studenti. Gonfiata dalla liberalizzazione degli accessi ma anche dalla grande promessa di cui era portatrice: quella di studiare la società e la politica, rivolta a chi, a quel tempo, solo di società e politica voleva parlare. Il modo in cui fu istituita rappresentò a meraviglia la lotta in corso tra il vecchio ordine accademico-baronale presidiato dal ministero e una generazione di studenti in subbuglio, spesso fiancheggiati da una nuova leva di giovani studiosi. Il ministero, guidato da un eminente notabile calabrese, Riccardo Misasi, cercò disperatamente, e con ogni tipo di espedienti, di mettere la nascente facoltà nelle mani di qualche ossequiente e inamidato giurista, non importa se totalmente eccentrico rispetto agli studi che vi avrebbero preso cittadinanza. Ritardò il passaggio alla nuova sede di via del Conservatorio, nel solenne, armonioso palazzo Resta-Pallavicino, nei pressi di piazza San Babila. Fece di tutto perché non si insediasse nel comitato istitutivo un sociologo di simpatie socialiste amatissimo dal Movimento studentesco, Angelo Pagani. Costui era un omone laureatosi oltre i quarant'anni e che diede un contributo inestimabile allo sviluppo di diversi rami della sociologia: dagli studi sull'imprenditorialità a quelli sulla povertà o sulla mobilità sociale. Io lo avevo avuto come docente di Sociologia alla Bocconi e ne ricordo, esemplarmente e più di ogni cosa, un sacrosanto scatto di indignazione contro uno studente dalla barba rivoluzionaria che si professava marxista e che alla prova dell'esame dimostrava di sapere, di Marx, praticamente zero. Lo trattò, giustamente, come un parassita dell'ideologia. Chissà mai se quel lontano pomeriggio bocconiano ha inciso in qualche misura sulla mia convinzione che chi vuole combattere una cosa deve prima di tutto conoscerla. Pagani aveva accettato, e ne ero stato molto inorgoglito, di fare da relatore alla mia tesi di laurea. Purtroppo morì di infarto nel 1972, complici probabilmente anche le fatiche della travagliata apertura di Scienze politiche, mentre facevo il servizio militare. Seppi poi che ai funerali avevano partecipato più di diecimila studenti. Riuscì in ogni caso a incanalare sulla strada più coerente la nuova facoltà. Dove io giunsi nell'ottobre del 1974, dopo essermi laureato con Alberto Martinelli, suo allievo e incaricato di Sociologia economica, e dopo sei mesi di stage al centro studi di una merchant bank londinese. Più di quarant'anni dopo Alberto ha trovato una lettera di sette pagine che gli avevo scritto a mano da Londra per tenerlo al corrente dei miei progetti di studio sulla mafia, su cui mi accingevo a pubblicare il mio primo libro, Il potere mafioso. Letto oggi, l'inizio fa tenerezza: "Le accludo l'articolo sull'economia della Sicilia, che purtroppo non ho potuto battere a macchina perché non sono riuscito a trovare nessuno, disposto a prestarmela." In realtà nei mesi londinesi quel che accadeva in Italia mi era mancato da morire. Mi ero perfino perso la vittoria del "no" nel referendum per l'abrogazione del divorzio. Quando mi proposero il prolungamento dello stage non ebbi esitazioni: grazie mille, ma torno in Italia. Un breve viaggio in Scozia con Maurizio, amico bocconiano, e fui di nuovo a Milano. Mi proposi a Martinellí per dedicarmi sotto la sua guida alla sociologia economica. L'economia restava infatti il punto di vista assolutamente irrinunciabile. Perché mi ero laureato in economia, certo. Ma soprattutto perché a questo mi obbligavano i miei ideali politici. Ero o non ero andato, a Londra, a farmi fotografare da Maurizio davanti alla tomba di Marx con il pugno chiuso? E non sosteneva forse Marx che proprio nell'economia politica fosse da cercare "l'anatomia della società civile"?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 36

Seguivo con affetto, non solo con interesse, questa nuova generazione post-rivoluzionaria che tutti davano per convertita al consumismo e all'apatia. Era ricca di idee, valori e forse soprattutto di fantasia. Lo dimostrò quando nacque il breve Movimento della Pantera , nel 1990. Il nome veniva da una pantera avvistata una notte del dicembre 1989 in via Nomentana a Roma. La caccia all'animale era risultata infruttuosa. Da lì lo slogan coniato dal Movimento che era sbocciato pochi giorni prima, e significativamente, all'università di Palermo: "La Pantera siamo noi." Per rivendicare la sorpresa, l'esistere quando e dove nessuno se lo sarebbe aspettato. Durò un anno, non di più. Ma segnò una generazione che si opponeva al ritorno dello spirito di guerra in agguato (la guerra del Golfo del 1990-91) dopo la caduta del muro di Berlino. E che chiedeva più democrazia e più moralità pubblica. Scienze politiche ne fu a Milano una delle culle. Rimasi colpito un mattino vedendo decine e decine di miei studenti che ritenevo tranquilli e rispettosi dell'ordine costituito animare con allegra irriverenza una grande manifestazione nel cortile saltando e intonando uno slogan sino allora mai sentito, e che sulle prime non riuscii a decifrare. Diceva: "Chi non salta socialista è, è." Andarono avanti, con qualche breve intervallo, per circa mezz'ora. Saltando, felici della loro trasgressione. Ho ripensato spesso a quel mattino. E mi sono convinto che se ai dirigenti e ai militanti socialisti di allora piace ancora oggi pensare che il proprio partito sia stato sgominato nel 1992 da un complotto di giudici politicizzati, in realtà esso aveva iniziato ad andare a picco già due anni prima sotto gli slogan pacifici e festosi di quei giovani. I quali chiedevano non cose eversive, ma una civiltà politica diversa. Scienze politiche era un termometro di quanto stava accadendo, soprattutto sul versante progressista. Ne ebbi la conferma una sera di primavera del 1991. Nella grande sala della provincia era in programma la presentazione alla città di Milano del neonato Movimento della Rete. Che avevo contribuito a fondare con Leoluca Orlando, sindaco già democristiano eversivo di Palermo, e con alcuni altri amici del movimento antimafia (da Alfredo Galasso a Claudio Fava a Carmine Mancuso) e l'ex sindaco di Torino Diego Novelli. La Rete faceva della lotta alla mafia la sua principale ragione di vita. Quella sera lo spettacolo della sala fu impressionante, inebriante. Strapiena come non l'ho mai più vista. Straripante di ragazzi, che letteralmente non ci stavano e che perciò, esauriti i molti metri quadri dei pavimenti, vennero a procurarsi circa duecento posti in più appollaiandosi sul palco. Mi accorsi che gli studenti di Scienze politiche erano un'infinità. Con mia nuova sorpresa. Perché io, in facoltà, sulla Rete non mi ero mai fatto sfuggire una parola.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 54

Laureati triennali di provenienza disparata, giovani avvocati e ricercatori, ma ormai sempre più esponenti delle forze dell'ordine, o titolari di funzione antifrode o antiriciclaggio in banche e amministrazioni: si formò così un altro importante tassello della "nostra" comunità scientifica. Generando effetti imprevisti. Perché il corso ha via via sospinto il ruolo internazionale di Scienze politiche nella ricerca sociale e nelle relazioni culturali. E anche nell'impegno civile. In particolare ha prodotto nel tempo una scelta che mi inorgoglisce come poche: quella di fare "nostra" la tragedia messicana e sostenere la causa dei familiari delle vittime dei narcos. Mi accompagna in particolare un ricordo. Un pomeriggio del marzo del 2015 ospitammo nel corso la testimonianza di Yolanda Moran, madre di un giovane desaparecido messicano. Quando Yolanda si alzò in piedi nell'aula seminari per prendere la parola mi sembrò una specie di Manitù femminile, la cui energia muta mandò in subbuglio il cuore di tutti. Yolanda è di Coahuila. Ed è la madre di uno dei ventisettemila mai ritrovati. La ripeté spesso quella cifra, come un mantra. Ventisettemila. Per spiegare che il suo paese è allo stremo, di fatto dicendoci che le mille e più vittime innocenti delle mafie che contiamo in Italia in un infinito rosario civile sono nulla davanti a ciò che accade nella sua terra. Ventisette volte solo gli scomparsi, più delle vittime del conflitto afghano; e centocinquantamila i morti. Rimproverò indirettamente chi parla solo degli studenti di Ayotzinapa, massacrati e rapiti nel settembre del 2014. "È stato un episodio terribile," disse, "ma prima ce ne sono stati a migliaia senza che nessuno se ne accorgesse." Nemmeno i giovani. "Perché da noi e con noi i giovani non ci sono," denunciò con voce bassa, ma dalla forza di tuono. "Come non ci sono gli intellettuali, che fingono che non stia accadendo nulla. Dopo la tragedia di Ayotzinapa, chissà se alla marcia che faremo il 10 maggio non saranno finalmente con noi anche gli studenti." Parlava tenendo appesa al collo la foto del figlio Dan Jeremel Fernández, sequestrato sei anni prima dai militari. Alle spalle, appoggiato a una finestra, teneva un altro cartello. Altre cinque foto. Quelle dei nipoti, dei figli del figlio. Una scritta straziante: "Donde está mi papà?" Spiegò però che a dispetto delle foto lei voleva parlare di tutti, perché tutti i ventisettemila erano mis hijos, miei figli. Così davanti ai nostri occhi si materializzarono di colpo gli scenari internazionali in carne e ossa. Fu una lezione senza confronti possibili. Quella specie di divinità india che raccontava il dolore senza piangere, e che diceva di volere ritrovare vivo suo figlio senza emettere un gemito, spiegava esattamente la Storia che si sbarazza dei diritti e del progresso con una gomitata. Al termine Rosaria, una allieva calabrese con il sogno di diventare magistrata, si gettò al collo di Yolanda e si strinse a lei per lunghissimi minuti, guancia a guancia, in un silenzio irreale, davanti a tutti. Allora Thomas, il giovane ricercatore che si occupa della resistenza civile messicana, annunciò senza più esitazioni: il 10 maggio io ci vado. A quel punto tutti, a partire da me, guardando il viso di Yolanda demmo un valore infinitamente più alto agli studi che stavamo facendo.

Studi e passione civile, università e comunità scientifica si erano fusi in quei lunghi minuti. La strada si fa camminando, mi piace insegnare da vent'anni citando una bella poesia di Antonio Machado. Il nostro cammino era nato per dotarsi di conoscenze superiori. Per non orecchiare, per capire sempre di più. E per schierare poi la conoscenza dalla parte della civiltà e dei diritti umani. E la strada, non disegnata prima, si era fatta proprio camminando. Di sicuro non avevamo immaginato di trovare nel suo mezzo la domanda di giustizia di una donna messicana.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 68

Credo che proprio questa sia in fondo la forza misteriosa, l'energia sublime di Scienze politiche. Perché l'amore per il sapere, la passione dello studio insieme, l'interesse per le cose del mondo surclassano qui le cento ragioni di precarietà, rovesciano gli schemi causa-effetto più classicamente invocati. Quante volte l'abbiamo sentito chiedere, in forma retorica? "Come volete che venga voglia di studiare in quegli ambienti? Come si può chiedere a qualcuno di lavorare con entusiasmo quando non gli si danno condizioni logistiche decenti?" E invece no. Qui tutto si ribalta. Tutto è "come se". Sgabuzzini adibiti a stanze di professori? Corridoi addobbati a luoghi di studio? Spazi comuni da grande depressione? Non importa. Il dipartimento, dicono le valutazioni dell'apposita Agenzia nazionale, è il primo d'Italia. Che bello poterlo raccontare. Qui vive lo slancio delle elementari di montagna, spira il coraggio delle università di massa e, in generale, della bistrattata scuola italiana; energia che si sprigiona di continuo dall'interno della nostra storia culturale. Millenaria, capace di trascendere i regni e la materia. Di far sì che le ansie scientifiche, civili, anche quelle di cui stiamo parlando, travolgano le accidiose trincee del non possumus. Forse lo spirito e lo slancio antimafioso dei miei studenti sono irruenti e vitali anche per questo. Perché tutto è stato ascoltato, studiato, sedimentato, sognato, discusso, costruito, senza un'unghia di lusso, senza mai camminare sui tappeti rossi. I movimenti controcorrente, d'altronde, non sono mai andati in carrozza. Quella, nelle mie prime memorie cinematografiche, spettava nel Gattopardo al principe di Salina.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 73

Ecco, voglio dire che non si può insegnare, non si può entrare in relazione con la vita altrui se non si è saputo entrare in relazione con la propria. Perché è nella propria vita che vanno trovati i segreti dell'insegnamento. A partire dalla quantità di volte che vorremmo avere visto affrontare un problema o esercitare un ruolo con responsabilità. O da quelle volte, in genere la minoranza, in cui abbiamo visto qualcuno, un medico, un pubblico impiegato, un giudice, farsi carico di un nostro diritto con senso di responsabilità. Magari a rischio della propria vita. Non minore di quello di cui abbiamo beneficiato deve essere il nostro senso di responsabilità verso gli altri. Il destino ci affida il futuro di giovani vite, e noi possiamo incidere con un nonnulla su questo o quell'aspetto del loro corso. Un comportamento, una parola, un gesto, un libro. Provo di nuovo a ripescare nelle mie memorie. La professoressa di matematica delle medie e la sua storiella delle "undici pi": "Prima pensa poi parla, perché parola poco pensata può portare pregiudizio." Altro che le scuole di diplomazia. O il professore di greco al liceo prima di congedarci per la pausa estiva: non vi assegno nessun compito delle vacanze, ma non chiudete mai una giornata se non avete letto qualcosa, le pagine di un libro o anche un articolo di giornale, l'importante è leggere, non vivere come gli animali. O il professore di Storia economica all'università: i libri vanno riletti ogni dieci anni perché ci troverete dentro sempre cose nuove.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 87

Ed è qui che giunge un'altra delle grandi, incalcolabili fortune del mestiere di professore: il rapporto con la memoria sociale, il rapporto con il tempo. Una delle maggiori fonti di frustrazione per chi ha alle spalle decenni di attività lavorativa, per chi è prossimo alla pensione, è infatti di non ricordare più bene da un certo punto in poi la fisionomia degli anni. Troppo lunghi sono i periodi che si succedono pressoché uguali; quelli in cui il flusso della vita tende a farsi uniforme e ripetitivo alla memoria esattamente quanto è scandito di scoperte ed emozioni continue nell'adolescenza. Per questo si dice che da un certo punto in poi la vita prende la rincorsa e vola via. Ecco, ai professori non capita. La loro memoria pullula di visi, quasi sempre gioiosi. Possiedono una folla inestimabile di ricordi collegati con certi momenti, certe discussioni appassionate, magari con quel corso introdotto in quell'anno. E vorresti ricordare esattamente il nome di ciascuno dei protagonisti, perché proprio non ce la fai a tenerli tutti a mente. Ogni tanto spunta in aula o in istituto un cognome che appartiene a un tuo lontano passato. Ma ha un altro viso. È il figlio o la figlia di un tuo allievo. E in quei momenti, anziché sconfortarti per il tempo che passa inesorabile e spietato, pensi alla sorte meravigliosa che hai avuto di contribuire a "formare" madre e figlio, padre e figlia. E a chi altro capita?

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 144

Alessandro, per esempio. Sembra un moschettiere del re. O un giovane profeta. Con la barba bionda e i lunghi capelli che si fermano prima delle spalle, gli occhi dipinti di un azzurro generoso, Alessandro Sipolo sarebbe tagliato, come attore, per molte parti di "buono". Fatto sta che da anni si guadagna la fiducia dei rifugiati che arrivano a Brescia, città simbolica per quegli esseri umani su cui oggi il mondo ricco si divide, se ricacciarli indietro o restituire loro la speranza. Alessandro ha scelto questo mestiere incerto e ne ha fatto un percorso di vita, rinunciando a un dottorato già vinto. Una formazione di sinistra, buon senso senza partito, principi solidissimi ma niente ideologie, ha sempre pensato di dovere legare la sua esistenza a una qualche grande causa. Per questo, appena conclusa l'università se ne era andato con il servizio civile internazionale in Sudamerica. Per un anno, dal marzo 2011. Ad Arequipa, nel Sud estremo del Perù. Con la Caritas ma inventandosi poi sul posto, in autonomia, un progetto originalissimo: di microcredito per le madri di disabili abbandonate dal coniuge. Da lì mi aveva scritto più volte per aggiornarmi su attività ed emozioni.

Quando è tornato in Italia non ha smesso di pensare agli ultimi. Alle folle che chiedono scampo dalla violenza e dalle guerre. Era incominciata un po' così, questa storia dei rifugiati, qualche iniziale dilemma sulla precarietà del lavoro che stava intraprendendo, poi ci si è buttato lo stesso anima e corpo, con orari che facevano polpette dei ritmi impiegatizi. E la missione di accogliere, di dare una casa, in un progetto gestito dal comune di Brescia, ove ora ha responsabilità importanti. Ma non si esaurisce qui il suo impegno sociale. Perché in provincia di Brescia e soprattutto sul lago di Iseo Alessandro è molto conosciuto anche per la sua militanza nell'anpi. Prese la tessera partigiana a diciassette anni, "appena è stata approvata la regola che apriva l'associazione a tutte le generazioni". Provaglio di Iseo: ecco il luogo delle sue altre battaglie civili. Uno pensa che sul lago e nelle valli che arrivano fino alle sponde non ci sia nessun movimento contro la mafia, e invece ci trova questo trentenne con i suoi amici che riempie sale, organizza eventi pubblici, ammonisce i più adulti contro il rischio della rimozione. Radicale e gentile. Perfino dolce, quanto sa essere secco nella difesa di ciò che non gli appare negoziabile nemmeno a parole.

Gentile come i versi delle canzoni che compone, poiché questo è infine il suo terzo volto, quello del cantautore. Che mostra con la chitarra una intimità fraterna. Sempre a portata se viaggia con gli amici. Pronto a sfoderare il repertorio dei grandi cantautori, De André, Guccini, De Gregori, Lolli, "anche se per la mia formazione devo molto alla Bandabardò". Ma con la vena di far sentire anche le proprie, di canzoni. Parole di poesia, musica fluida e invitante. Una voce da cantastorie romantico, non c'è nemmeno bisogno di dirlo. Un primo disco nel 2013, poi nel 2015 il nuovo, Eresie si chiama, "un po' più cattivo". Musica e parole sue, "ogni tanto per gli arrangiamenti ho amici che mi aiutano". E ora il successo alle viste, i concerti affollati.

Se gli si chiede quale sia la sua strada vera, se i rifugiati o il successo da cantautore, sorride imbarazzato. Poi risponde "tutti e due". I rifugiati per sentirsi "una persona varia, perché tutti, diceva Whitman, ci portiamo dentro delle moltitudini. Ma vorrei anche continuare a coltivare la mia parte creativa, a dare sfogo a quel che ho dentro". Cantare, d'altronde, è anche un modo per propugnare le sue cause. Dice in una sua canzone, Migranti: "Regolare è già ogni uomo / e ogni cuore è clandestino." E sua è l'unica, bellissima, canzone che abbia sentito sulla 'ndrangheta al Nord, Le mani sulla città.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 219

Da una lunghissima esperienza costellata di fatti e di pensieri inquieti è nata dunque la convinzione che la criminalità organizzata dovesse diventare finalmente materia di studio per l'università. E che il suo insegnamento dovesse poi produrre altri insegnamenti, sempre più specializzati, anche sul versante della prevenzione e dell'educazione. E inoltre laboratori e centri di ricerca e riviste. Salendo sempre più su, fino al curriculum di laurea magistrale o al dottorato di ricerca. Perché questa conoscenza potesse poi rovesciarsi nel tessuto sociale e irrorare le amministrazioni, le professioni, anche l'arte.

Sapevo perfettamente che era necessario fare tutto questo in un paese in cui impera da decenni la spending review, che sempre si abbatte, prima che su altro, su scuola, università e cultura. Perché dallo stipendio di una maestra non escono tangenti. E che occorreva dunque fare qualcosa di simile allo "sciopero a rovescio" di Danilo Dolci. Lavorando di più se ti tolgono i fondi. Non perciò "facendo un favore al sistema", come sentenzierebbe il sindacalista medio. Ma contestandolo alla radice, se i tagli alla cultura esprimono, di quel sistema, la filosofia e l'obiettivo: una società meno pensante. Lo scrisse un giorno su un muro un geniale spray studentesco: "Fotti il sistema, studia!"

E poi ho imparato subito perfettamente che era necessario fare tutto questo in una università impazzita, manicomio condiviso in cui i professori e i ricercatori vengono valutati usando le mediane e gli algoritmi, dove scrivere banalità in inglese su una rivista finlandese vale più che dotare di conoscenze nuove i cittadini del tuo paese, e chiosare teorie altrui è più importante che fondarne di tue. Di più: che era necessario farlo in un paese in cui la legalità viene perseguita inzeppando ossessivamente di norme e divieti la vita quotidiana, in una stratificazione inarrestabile di camicie di forza, che i pazzi mettono ai sani.

Mi sono chiesto a un certo punto, non so se con ironia, con rassegnazione o con orgoglio, se esattamente questo non fosse scritto nel mio movimentato destino. Di affacciarmi alla vita pubblica a diciotto anni battendomi con la mia generazione per scardinare un'università chiusa e sorda ai drammi e ai problemi del mondo; per ritrovarmi nella parabola finale della mia vita a battermi con una generazione tanto più giovane della mia per aprire varchi in un'università (fatta dai sessantottini di allora...) ancora chiusa e sorda, almeno al problema che mi sta più a cuore: lo stesso, pensa di nuovo la combinazione, su cui ho fatto la mia tesi di laurea più di quarant'anni fa. Contestare l'università prima a venti e poi, di nuovo, a sessant'anni. In forma diversa. Ma sempre da suo innamorato. Iniziare la vita pubblica nelle aule e lì tornare a chiuderla, dopo essere passato per molti incarichi istituzionali e politici. Eppure non di arretramento si è trattato. Ma di passo avanti, compiuto dopo avere scoperto (ed è occorso molto tempo...) che la conoscenza è perfino più importante dell'indignazione morale o della "battaglia politica" se vuoi costruire "un paese senza mafia".

L'ho fatto, questo passo, per tante ragioni. Starei per dire per amore del mio paese, se non potesse sembrare a buon diritto retorico. Ma certamente per un bisogno di decenza e di libertà. E ancor più certamente per il futuro dei miei studenti. Per rispetto verso chi è caduto contro la mafia affrontando difficoltà ben maggiori, nella solitudine inflitta da un paese che non sapeva e non capiva. L'ho fatto anche per un'idea di università. Luogo di bellezza e di cultura, di gioventù e di sapere, di libertà e di servizio. Di fatica che cambia il mondo. Perché questo l'università dev'essere. E solo per questa ragione non ho qui parlato se non di sfuggita e per non più di qualche decina di righe dei suoi mali e delle sue follie.

| << |  <  |