Copertina
Autore Alessandro Dal Lago
Titolo Eroi di carta
SottotitoloIl caso Gomorra e altre epopee
Edizionemanifestolibri, Roma, 2010, Hide Park Corner , pag. 160, cop.fle., dim. 14,4x21x1 cm , Isbn 978-88-7285-595-9
LettoreLuca Vita, 2010
Classe critica letteraria , media , paesi: Italia: 2010
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Indice


Introduzione                                            9

I.   I misteri di Napoli e la letteratura              27

II.  Il ritorno di Leonida                             73

III. Un'epica per tutte le stagioni                   117


 

 

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Pagina 9

Introduzione



La critica è una questione morale. (Walter Benjamin)


Parlo agli studenti dei rapporti tra letteratura e media. Spiego come dal mio punto di vista (insegno sociologia della cultura) un libro, e soprattutto di fiction, sia un prodotto che si può e si deve analizzare anche nei suoi aspetti mediali e commerciali. La scrittura rientra in una dimensione comunicativa a cui solitamente il pubblico non pensa quando compra il libro e magari lo legge. Consideriamo il caso di Gomorra , continuo. Come spiegare il sensazionale successo mondiale del libro e il ruolo pubblico del suo autore senza chiamare in causa quei meccanismi? Uno studente alza la mano. "Non si metterà anche lei a crocifiggere Saviano?", mi chiede. "Un momento", rispondo, "chi lo crocifigge, a parte ovviamente i camorristi? A me sembra che esista un movimento d'opinione unanime a suo favore. D'altra parte, lo stesso Saviano ha dichiarato di muoversi a suo agio nei media e anzi di volere lanciare una moda". E leggo il passo di un articolo su una manifestazione anticamorra a cui ha partecipato lo scrittore:

Saviano ha scelto di parlare a lungo e con cruda chiarezza. Lui stesso si è definito una "operazione mediatica", nata e portata avanti perché si conoscano gli orrori della camorra e si capisca che riguardano tutti. Il suo "sogno" è che la lotta alla criminalità organizzata diventi una vera e propria moda. È quello che "i grandi editori, le televisioni, trovassero un punto comune, anche conveniente. Perché non creare una moda?"

"Saviano ha perfettamente ragione", interviene un altro studente, "così la camorra si può combattere sul serio". Non nascondo il mio disaccordo. C'è qualcosa che non mi convince in tutta questa storia. Non credo affatto che la criminalità organizzata si combatta così, a colpi di moda. E, visto che siamo in tema, aggiungo che ho trovato poche discussioni veramente approfondite di Gomorra e pochissime critiche articolate. Per lo più entusiasmi, incensamenti e, all'opposto, maldicenze. In ogni modo, se si pensa ai recensori di mezzo mondo per i quali Gomorra è un capolavoro, alla mobilitazione dei premi Nobel in favore di Saviano e alla grancassa dei media (articoli incessanti, apparizioni dello scrittore in televisione), è evidente che siamo davanti a una bolla comunicativa senza precedenti. Non vi sembra il caso, concludo, che tutto questo meriti un'analisi approfondita? Gli studenti non sembrano molto convinti. A questo punto mi viene in mente di saggiare le loro conoscenze letterarie: su cinquanta presenti, dieci dichiarano di aver letto Gomorra. Solo un paio sa citarmi i titoli di un libro di Kafka e di Tolstoj.

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Pagina 16

L'opinione corrente è che Saviano abbia rivelato in Gomorra i rapporti tra crimine ed economia globalizzata. Sui contenuti e sulla forma della rivelazione ho diversi dubbi (ne parlo ampiamente qui nel primo capitolo), ma la questione è seria. E tuttavia non può essere ridotta a un'equazione leggibile nei due sensi. Che la camorra, come la mafia e la 'ndrangheta, si globalizzi e investa in tutto il mondo non significa che l'economia globale sia camorrista. La tesi che il capitalismo globale è criminale, o per natura o perché colonizzato dalle mafie, accenderà le fantasie, ma dice proprio poco. E tautologica e moralistica. È un modo romantico di etichettare genericamente il capitale e un'espressione priva di significato. Anche se si ritiene che trent'anni di deregulation e di strapotere finanziario abbiano contribuito a rovinare milioni di vite (io la penso proprio così), mettere sullo stesso piano le mafie mondiali e l'economia di mercato all'insegna del capitalismo criminale significa ridurre tutto a una questione di lotta contro il Male. Qualcuno sarà confermato nelle sue ossessioni, e l'opinione pubblica liberista alzerà le spalle, data la genericità dell'equazione. Mi sembra che in questo campo sia ancora attuale quello che ha scritto Adorno delle rappresentazioni in chiave criminale del capitalismo:

Così si interpreta la presa del potere da parte dei più forti in termini in fondo molto innocui, come macchinazione di racket al di fuori della società, non come compiersi della società in sé.

Dove compare il Male sento aria di distrazione di massa. Se cominciassimo a interpretare in termini di malvagità i flussi globali di merci e servizi, legali e non, le guerre per le risorse combattute nei deserti di mezzo mondo, i fallimenti a catena delle finanziarie e delle società di accounting, con successiva depressione della cosiddetta economia reale, staremmo proprio freschi. Sì, di gente così malvagia da far impallidire i casalesi ne abbiamo vista un bel po' nell'era di George W. Bush. Ma un paio di secoli di tormentato razionalismo ci hanno insegnato che la via della comprensione dei meccanismi di dominio passa dalle parti di Marx, Max Weber e Foucault, non di Eugène Sue. Anche perché in questa storia del Male che da Scampia, Secondigliano e Casal di Principe si riversa nel mondo spuntano metafore grossolane che la pubblica opinione biascica con evidente soddisfazione: soprattutto la "peste", parola con cui Saviano ama sintetizzare quello che succede in Campania. Qualcosa che ricorda Camus o Céline, a cui Saviano dichiara di ispirarsi, e che per me sa tanto di Curzio Malaparte. Un'immagine a effetto, che ovviamente chiama in causa untori e appestati. E qui bisogna dirlo: nessuna denuncia del crimine, nessuna analisi dell'economia criminale e nessuna rivelazione dei profitti illegali giustificano la rappresentazione di chicchessia in termini di mostro. Non ci si rende conto che definire olocausto gli ammazzamenti di camorra significa violare ogni senso delle proporzioni, e quindi vaporizzare i fatti nelle iperboli? Quali che siano gli orrori di Napoli, i responsabili non sono Hitler, e tanto meno untori e orchi, così come i loro avversari non sono eroi o martiri. Dichiaro la mia avversione per questo linguaggio fumettistico, e non mi importa nulla se è epico e stimola nei giovani lo sdegno per i cattivi, l'identificazione nei buoni e l'emulazione. Suggerirei di mettere da parte i fumetti di Frank Miller (Sin City, Trecento, ecc.) e Il signore degli anelli — e leggere un po' di Brecht.

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Pagina 22

Si dovrà ammettere che il caso di Roberto Saviano e del suo bestseller Gomorra è uno dei più singolari nel panorama culturale degli ultimi decenni. L'autore di un solo libro ha conquistato fama globale. La sua figura di accusatore della camorra, e per questo minacciato di morte, ha acquistato un tale rilievo morale che qualcuno ha potuto avanzare seriamente la sua candidatura al premio Nobel per la pace. Lo scrittore è divenuto un punto di riferimento in qualsiasi discorso sulla criminalità organizzata e ha assunto un ruolo di opinion maker che gli consente di intervenire su importanti questioni di interesse pubblico. Forse, soltanto Pier Paolo Pasolini ha goduto in Italia di un'analoga notorietà di fustigatore, anche se ben più controversa. Una riflessione sul caso Saviano, dunque, è non solo legittima, ma necessaria. Ci può dire qualcosa sia sull'autore e sul suo libro, sia sulla nostra cultura che ne ha fatto due icone.

Ma di quale riflessione può trattarsi? Uno scrittore esiste in ciò che scrive e quindi è oggetto di un interesse prevalentemente critico-letterario. Nel caso Saviano, tuttavia, dietro l'autore e il suo libro si profila il personaggio – insieme vittima, testimone, accusatore e giudice – trasformato in mito contemporaneo. Ecco allora che la riflessione letteraria deve essere integrata da un'analisi culturale. Mai come in questo caso la letteratura si rivela parte di un complesso di pratiche solidali: la confezione di potenziali bestseller, il rapporto tra lo scrittore e il pubblico, la produzione di mitologie mediali, le retoriche intorno alla definizione collettiva della legalità e del crimine, e quindi del bene e del male. In questo saggio azzardo un'analisi integrata del caso Saviano. Come si sarà compreso, si tratta di una lettura assai critica di Gomorra, di ciò che l'autore è andato scrivendo dopo la sua pubblicazione e dei significati che vari attori (culturali, politici, mediali ecc.) hanno voluto individuare nella sua vicenda.

Di fronte a un'analisi di questo tipo, riguardante un testo universalmente celebrato e uno scrittore costretto alla fuga, alcuni osserveranno, come è già avvenuto, che così si delegittima la figura dell'accusatore del crimine. Ritengo tale obiezione ipocrita e oscurantista. Se l'uomo è potuto diventare ciò che è per un pubblico immenso, ciò è avvenuto a partire dal suo libro. Egli è, prima di tutto, un autore e quindi doverosamente soggetto, come chiunque altro, alla critica.

Nel primo capitolo analizzo i meccanismi narrativi e retorici di Gomorra. Nel secondo, ricostruisco, per quanto mi è possibile, l'impatto mediale della figura pubblica dello scrittore. Nel terzo, discuto il significato dell'eroismo nei discorsi letterari che fanno di Gomorra un caso esemplare di epica contemporanea. Cercherò di mostrare insomma come la vicenda Gomorra- Saviano abbia un certo ruolo strategico nella politica contemporanea della letteratura.

Un'avvertenza. Nel 2008, ho pubblicato una recensione di Gomorra, in cui, pur sollevando diversi dubbi sulla novità delle rivelazioni di Saviano e sulla qualità letteraria del libro, discutevo soprattutto la maggiore efficacia di questo tipo di racconto rispetto al grigiore di molta produzione, sullo stesso argomento, delle scienze sociali. Un lettore potrebbe notare che il mio giudizio su Gomorra e sull'autore è radicalmente mutato. Non ho difficoltà ad ammetterlo. Posso solo giustificarmi con quanto ha scritto, quasi un secolo fa, un critico che la sapeva lunga sugli inganni della scrittura e della lettura:

Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, buoni e cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi.

Genova, marzo 2010

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Pagina 29

I
I misteri di Napoli e la letteratura



                                Disse allora il Signore: "Il grido contro Sodoma
                                e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è
                                molto grave. Voglio scendere a vedere se proprio
                                hanno fatto tutto il male di cui è giunto il
                                grido fino a me; lo voglio sapere!"

                                                    (Genesi, 18, 20-21, ed. Cei)



La verità del racconto

Riconosciamolo, Gomorra è un titolo geniale. Con la semplice sostituzione di una sillaba, da un mondo criminale specifico, la camorra, siamo trasportati di colpo nel regno del Male, di cui notoriamente si occupano le religioni universali. Nel racconto biblico i crimini perpetrati a Sodoma e Gomorra, le "città della pianura", non sono troppo specificati, ma si sa che si tratta di fornicazione, degli uomini con gli uomini nel primo caso e con le donne nel secondo. Come ha scritto Alfred De Vigny:

    La Femme aura Gomhorre et l'Homme aura Sodome.
    Et se jetant, de loin, un regard irrité,
    Le deux sexes mourront chacun de son cóté.



Le due città (e soprattutto Sodoma) godono di una certa fortuna nelle lettere da quando è stato possibile parlare senza troppi veli di sessualità. Ma nulla del genere troveremo in Gomorra, libro in cui non sono risparmiati dettagli pulp, ma per il resto castissimo. Nel libro di Saviano, Gomorra, la città della fornicazione, sta per il regno, al tempo stesso materiale e onirico, del crimine (Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra è il sottotitolo). La genialità del titolo risiede dunque in uno spostamento del significante che fa scivolare immediatamente il lettore sull'orlo di un abisso morale. Aprendo il libro, egli sa che sta per iniziare un'escursione negli inferi. Il sottotitolo, da parte sua, chiarisce senza indugi che si sta raccontando la verità. Qui non si viaggia nell'immaginazione o al termine della notte. Si entra in un regno e in un delirio concreti e li si racconta. Un "incredibile, sconvolgente viaggio nel mondo affaristico e criminale della camorra [...], un libro avvincente e scrupolosamente documentato", annuncia il risvolto di copertina, che così si conclude:

... un libro anomalo e potente, appassionato e brutale, al tempo stesso oggettivo e visionario, di indagine e di letteratura, pieno di orrori come di fascino inquietante, un libro il cui giovanissimo autore, nato e cresciuto nelle terre della più efferata camorra, è sempre coinvolto in prima persona. Sono pagine che afferrano il lettore alla gola e lo trascinano in un abisso dove davvero nessuna immaginazione è in grado di arrivare.

Qualsiasi lettore, aprendo il libro, non può che provare un frisson, visto che gli si annunciano orrori a bizzeffe. Poco conta che nel testo, contrariamente a quanto promesso dal risvolto ("un libro [...] scrupolosamente documentato"), non sia presentata alcuna documentazione. Sì, è riportato qualche brano di intercettazioni e di atti processuali; ma non un riferimento alle fonti, a testi o a autori, non un ringraziamento a persone conosciute, come inquirenti o colleghi, giornalisti o scrittori che siano. "Un momento," dirà qualcuno, "parliamo del libro, non del risvolto!". Certo, ma nell'impresa letteraria il risvolto o bandella non è privo d'importanza. Elio Vittorini, per esempio, era un gran cultore dei risvolti di copertina, che sono stati definiti giustamente un'arte. Infatti il risvolto, diversamente dal resto del package di un libro (nel nostro caso, la copertina con una batteria di coltelli ripresa da Knives di Andy Warhol e, sul retro, una fotografia dell'autore), non è mero artificio pubblicitario. È la voce di una sirena che prende per mano il lettore e gli dice: "Vieni con me e saprai!". Perché allora promettere una documentazione inesistente? Perché nel libro c'è molto di più di quanto non possa offrire un misero apparato di note o un'arida bibliografia. C'è la verità umana dell'autore: "un libro in cui il giovanissimo autore, nato e cresciuto nelle terre della più efferata camorra, è sempre coinvolto in prima persona." È l'autore la scrupolosa documentazione del libro, più vera di qualsiasi materiale à l'appui. Ha scritto al riguardo l'autorevole critico Giulio Ferroni:

Formidabile libro di testimonianza, sospeso tra inchiesta giornalistica, intelligenza sociologica e riflessione personale, Gomorra è stato reso possibile dal modo in cui l'autore ha saputo mettersi in gioco, immergendosi nel fondo più lacerante della realtà, in un contatto addirittura biologico con il corpo purulento di Napoli e del suo entroterra: la pericolosa "verità" del libro, la sua forza critica è scaturita proprio dal fatto che quel mondo vi veniva percorso, attraversato, vissuto con dolorosa partecipazione.

In che cosa è dunque coinvolto il giovanissimo autore? In vicende vere, reali, vissute personalmente ("dolorosa partecipazione" ecc.) nel "contatto biologico con il corpo purulento di Napoli". Vedremo sotto come le immagini "forti" tratte da un repertorio organico-medico-scatologico siano fondamentali per definire l'atmosfera morale di Gomorra. Ma, preliminarmente, è necessario soffermarci su chi si immerge in tale realtà e quindi dobbiamo chiamare in causa la nozione di prima persona.

In letteratura non è un concetto scontato. Sul piano della pagina scritta, troviamo l'io narrante, la prima persona letteraria, dietro la quale spunta una seconda prima persona, l'autore, senza la quale la prima non esisterebbe. Ma nel caso di Gomorra ce n'è anche una terza, ovvero la prima persona reale o esistenziale, che è sia oggetto delle prime due nel testo, sia la loro condizione di esistenza [...]

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Pagina 91

Né a destra, né a sinistra, ma al di sopra

Esaminando gli interventi pubblici di Saviano da quando è stato ufficialmente battezzato eroe, si rileva una crescente bipartisanship. Nel 2004, prima di Gomorra e del suo successo, lo scrittore firma apparentemente una petizione a favore di Cesare Battisti, il latitante autore di romanzi, promossa da "Carmilla", una rivista politico-letteraria. Nel gennaio 2009, Saviano si dissocia con una breve nota:

Leggo e stimo la rivista online "Carmilla" che da anni è un costante riferimento per la discussione letteraria e d'inchiesta di questo paese. Mi segnalano la mia firma in un appello per Cesare Battisti. Vedo che è accaduto nel 2004, due anni prima di Gomorra. Finita lì per chissà quali strade del web e alla fine di chissà quali discussioni di quel periodo. Qualcuno mi mostra quel testo, lo leggo, vedo la mia firma e mi dico: non so abbastanza di questa vicenda, non mi appartiene questa causa. È una storia dolorosa, con strascichi infiniti. Chiedo quindi a Carmilla di togliere il mio nome, per rispetto a tutte le vittime.

Non è facile capire se davvero Saviano abbia firmato l'appello, e in caso affermativo se consapevolmente o no, oppure se il suo nome sia finito nella lista dei firmatari per sbaglio, "per chissà quali strade del web". È del tutto legittimo ritirare la firma dall'appello, se non lo si condivide più, come alcuni hanno deciso recentemente, e come la redazione della rivista invita a fare in caso di successivo disaccordo con se stessi. Ma il punto è nelle motivazioni del ritiro: "Mi segnalano... qualcuno mi mostra... non so abbastanza di questa vicenda, non mi appartiene questa causa... per rispetto a tutte le vittime". Supponiamo che Saviano non abbia firmato l'appello. In tal caso ci saremmo aspettati una dichiarazione come la seguente: "Non so perché il mio nome sia finito lì, io non c'entro e vi chiedo di prenderne atto". Se invece l'ha firmato, avrebbe dovuto dire francamente di aver cambiato idea. Il suo intervento è invece un capolavoro di unanimismo, se vogliamo chiamarlo così. D'altronde, come potrebbe un campione della lotta contro il male ammettere di essersi espresso, se non altro nelle "discussioni di quel periodo", a favore di qualcuno che una parte rilevante dell'opinione pubblica e le istituzioni considerano un assassino?

Un equivoco o magari un piccolo errore di gioventù, si dirà secondo i punti di vista. Tuttavia, l'unanimismo è la cifra degli interventi che Saviano dispensa regolarmente non solo sulla camorra, sua specialità esclusiva, ma su temi che evidentemente conosce bene e che non gli sono estranei. In due articoli su "Repubblica" prende posizione sul caso Englaro. Nel secondo, chiede perentoriamente agli italiani di chiedere scusa al padre di Eluana:

Da italiano sento solo la necessità di sperare che il mio paese chieda scusa a Beppino Englaro. Scusa perché si è dimostrato, agli occhi del mondo, un paese crudele, incapace di capire la sofferenza di un uomo e di una donna malata. Scusa perché si è messo a urlare, e accusare, facendo il tifo per una parte e per l'altra, senza che vi fossero parti da difendere.

Ma perché deve essere il "paese" a chiedere scusa a Beppino Englaro? Saviano dice giustamente che la vicenda è stata strumentalizzata. Ma non da tutti e non allo stesso modo. Di fatto, due parti si sono contrapposte, ma con accenti assai diversi, e comunque moltissimi appartenenti al "paese", la grandissima maggioranza, hanno giustamente taciuto. Si dovrà pure distinguere tra un governo che è intervenuto con ispezioni, atti amministrativi e un decreto contestato e chi invece, al di là delle sue convinzioni, ha tenuto un profilo basso o si è meramente espresso su questioni di diritto e non di merito. Ma nell'articolo si parla di "politici" e non si cita mai il governo. Possiamo comprendere e anche condividere lo sdegno di Saviano, e tuttavia rileviamo un tono al tempo stesso ammonitorio, da Commendatore mozartiano ("chiedete scusa!"), e vago ("i politici", "il paese"). Che cosa conferisce a Saviano l'autorità morale per rampognarci tutti? Non è difficile rispondere: la posizione di eroe o profeta programmaticamente super partes. Egli ci guarda in faccia non tanto da lontano, quanto dall'alto.

In qualsiasi presa di posizione recente su questioni di pubblico interesse, Saviano non manca di informarci dell'obsolescenza delle categorie di destra e sinistra, cioè delle "parti". In una lunga intervista, dichiara di chiamarsi fuori dalla politica in quanto questa è indifferente alla lotta contro le mafie. Rivaluta Almirante poiché, per ciò che riguarda il crimine organizzato, i suoi valori erano gli stessi di Borsellino. La lotta alla camorra, pertanto, diviene l'unico criterio di giudizio di ogni questione politica e d'attualità. Viene invitato a parlare a Roma3 dagli studenti dell'Onda, orientati a sinistra e comunque antigovernativi:

"Sento tantissimo la deideologizzazione. Io parlo ai giovani. Ai giovani di destra come ai ragazzi di sinistra o a ragazzi semplicemente che non hanno alcun tipo di posizione o non l'hanno ancora formata. E l'idea di andare a parlare all'università, anche se sono stato invitato dall'Onda, era quella: poter parlare a tutti e non solo a una parte, perché la battaglia sulla criminalità è una questione che come dire, moralmente, viene prima di tutto". [...] "Penso ad esempio agli scontri a Piazza Navona – ha proseguito Saviano – che mi sono sembrati un po', come dire, vecchi. Insomma riguardavano piuttosto più i genitori di quei ragazzi che loro". Ecco, ha aggiunto lo scrittore, "mi è sembrato un po' ridicolo quello scontro per una semplice ragione: mentre loro si picchiavano e si lanciavano sedie e tavolini dei bar, dopo pochi giorni uscì la notizia che in quella zona c'erano bar in mano alla 'ndrangheta. Ecco, è esattamente questo quello che loro vogliono."

A dire il vero, i principali quotidiani indipendenti hanno riportato che gli scontri di Piazza Navona sono stati causati da un'aggressione di militanti di destra contro gli studenti dell'Onda. E non si capisce che c'entrino i "genitori di quei ragazzi", a meno che non si tratti delle consuete allusioni al Sessantotto, padre di ogni sciagura nazionale. Ma colpisce, sia in questa intervista, sia nell'intervento all'università, l'assenza di qualsiasi riferimento al contesto, e cioè, dopotutto, a un mondo studentesco largamente mobilitato contro il governo. Evidentemente la questione è estranea a Saviano. Al punto che secondo lui gli studenti, trasformandosi in segugi anti-crimine, avrebbero dovuto preoccuparsi non del loro futuro, ma dei proprietari (la 'ndrangheta) dei bar della piazza in cui sono avvenuti gli scontri.

Che Saviano veda qualsiasi realtà del nostro tempo, vicina o lontana, nella sua ottica ossessiva di scrittore anti-camorra appare in un intervento sulla morte dei sei paracadutisti italiani in Afghanistan nel settembre 2009. Un episodio di guerra, che dovrebbe essere interpretato in primo luogo alla luce oggettiva della politica internazionale, dà la stura a considerazioni al tempo stesso deterministiche (i soldati si arruolerebbero perché non avrebbero altre alternative alla povertà, alla camorra e alla "noia") e demagogiche (i morti "urlano alla nostra coscienza" ecc.).

Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che, con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. E a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve...

Non una parola è spesa sulle circostanze del conflitto, sulla strategia degli americani e della Nato e sul senso stesso di una guerra che osservatori competenti considerano ormai una trappola a cui sarà difficilissimo sottrarsi. Naturalmente, uno scrittore sceglie il registro che vuole quando commenta un fatto come la morte dei paracadutisti; e tuttavia quanto è consonante il brano citato con i più triti luoghi comuni patriottici, con la retorica secolare della nazione proletaria e dei giovani del sud che si immolano per noi che restiamo a casa! Il richiamo ai sentimenti più convenzionali inibisce la comprensione di ciò che avviene davvero laggiù. Saviano dice in sostanza che i nostri soldati combattono in Afghanistan i signori della guerra e della droga, come se stessero pattugliando Scampia e Secondigliano in funzione anti-camorra. Un'equazione priva di senso che ha solo la funzione, una volta di più, di unificare il paese immaginario sotto le insegne del bene in lotta contro lo stesso male, interno ed esterno. Ciò che non dispiacerà a chi porta la responsabilità ultima di aver spedito quei soldati in Afghanistan.

Le opinioni di Saviano sono rigorosamente bipartisan ed evitano per lo più di prendere posizione sui conflitti politici in Italia. Si devono segnalare però due eccezioni significative. Lo scrittore ha aderito alla mobilitazione indetta dal quotidiano "La repubblica" per la libertà di stampa, e quindi contro Berlusconi, e promosso un appello contro il progetto di legge sul processo breve. Ma negli articoli dedicati alle due questioni i riferimenti a Berlusconi sono sempre indiretti, e le occasioni buone per riaffermare un'idea molto generica di tutela della libertà di opinione e di uguaglianza davanti alla legge. Così, a proposito di una manifestazione sulla libertà di stampa:

Questa manifestazione non dovrebbe veramente avere colore politico, e anzi invito ad aderirvi tutti i giornalisti che non si considerano di sinistra ma credono che la libertà di stampa oggi significa sapersi tutelati dal rischio di aggressione personale, circostanza che andrebbe garantita a tutti.

L'appello contro il processo breve ha causato un dolciastro scambio epistolare con il ministro della cultura Bondi. Questi, forse perché scribacchia poesie e si considera perciò un collega di Saviano, si è rivolto molto rispettosamente allo scrittore e dopo averlo ampiamente lodato gli ha chiesto di recedere dal suo impegno contro il processo breve. Nella risposta, Saviano, dato atto a Bondi di un tono "rispettoso e dialogante", conferma la sua posizione di contrarietà alle leggi ad personam e agli interventi del governo contro la libertà di stampa (e qui non possiamo che essere d'accordo con lui), ma non perde l'occasione di arrampicarsi un po' più in alto sul piedistallo morale e bipartisan da cui evidentemente sente di parlare al mondo:

Qualche giorno fa la Germania mi ha onorato del premio Scholl, alla memoria dei due studenti dell'organizzazione cristiana Rosa Bianca, fratello e sorella, giustiziati dai nazisti con la decapitazione per la loro opposizione pacifica, per aver solo scritto dei volantini e aver invitato i tedeschi a non farsi imbavagliare. [...] Ciò che mi spinge a raccontare dei crimini del comunismo in Russia e dei soprusi delle multinazionali in Africa non è un "farsi impadronire dal demone della politicizzazione e della partitizzazione della cultura" bensì un altro demone. Quello che ha lo scopo di raccontare le verità o almeno provarci. Un'informazione scomoda per chi la dà e per chi l'ascolta, la osserva, la legge. In Italia la deriva che lo stato di diritto sta prendendo è pericolosa perché ha tutte le caratteristiche dell'irreversibilità. È per questo che agisco in questo modo, perché è l'unico modo che conosco per essere scrittore, è questo l'unico modo che conosco di essere uomo.

Se nello scambio con Bondi siamo sul piano del "dialogo rispettoso", le opinioni di Saviano sul ministro dell'interno Maroni, ben più potente del soave ministro della cultura, sconfinano nell'apologia. Tutto comincia con un'intervista di Pietrangelo Buttafuoco, caposervizio di "Panorama", al ministro Maroni sui suoi successi nella lotta contro la mafia e la camorra. Maroni rivela che perfino Zapatero parlerebbe bene dell'azione dello stato italiano e l'intervistatore commenta: "Se lo dice Zapatero, lo dirà anche Saviano? Aspettiamo dall'autore di Gomorra una risposta." La quale arriva puntuale due settimane dopo in un'intervista al solito Buttafuoco: "Roberto Maroni? Sul fronte antimafia è uno dei migliori ministri dell'Interno di sempre". È un'opinione discutibile, benché coerente con la prospettiva monografica di Saviano. Ma nell'intervista in questione c'è di molto di più, l'insistenza sul fatto che lui, Saviano, non bada all'ideologia:

Non mi sono mai scelto gli amici per conformismo. Come scrittore, mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Céline, Carl Schmitt... E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore.

Come gli autori citati – maestri di stile nei loro generi, soprattutto Jünger, Céline e Pound – abbiano influito sulla formazione letteraria di Saviano non si sa, almeno in base a quello che ha scritto – con l'eccezione di Evola da cui probabilmente viene la fissazione per l'eroismo. Naturalmente, chiunque si occupi di letteratura e pensiero del Novecento avrà avuto tra le mani i libri dei primi tre, e quindi non c'è un particolare merito o demerito nel saperne qualcosa. Ma nella frase "mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale" c'è qualcosa al tempo stesso di dilettantesco e di ammiccante: il riconoscimento non tanto di autori ingenuamente ritenuti "maledetti", quanto della cultura di destra contemporanea che li considera i propri classici.

In ogni modo, la captatio benevolentiae di Saviano ha evidentemente lo scopo di dare di sé un'immagine ecumenica, più ampia possibile, da unità nazionale, in accordo con il clima di "volemose bene" (anzi: "vogliamogli bene") sprigionato dall'aggressione contro Berlusconi. Incalzato dall'intervistatore, che gli chiede conto del suo appello "antiberlusconiano", Saviano precisa che il suo era "un invito indirizzato a Berlusconi, non lanciato contro il Presidente del Consiglio". D'altronde le opinioni dello scrittore sul Cavaliere sono state sempre elusive. Come nella risposta a una precisa domanda di un giornalista svedese sul significato della solidarietà del Cavaliere:

[Domanda]. Che cosa significa allora il sostegno del capo di governo Silvio Berlusconi per Saviano?

[Risposta]. Il sostegno politico è un supporto da prendere cum grano salis. I vertici della società italiana sono molto spesso complici della mafia, e una rivolta contro quel potere non è mai avvenuta in Italia. Perciò non è sufficiente lavorare contro l'estorsione economica, se non si lavora contro l'esistenza dell'influenza mafiosa nel tessuto economico. Non c'è un solo direttore di banca che abbia espresso la propria opinione in merito a conti bancari sospetti.

Sul riserbo di Saviano riguardo a Berlusconi non è comunque il caso di insistere. Salman Rushdie fu colpito dalla fatwa di Khomeini nel 1989, un anno dopo aver pubblicato I versetti satanici. Immediatamente, fu posto sotto protezione per decisione del governo presieduto da Margaret Thatcher. Due anni dopo, nel 1991, Rushdie diede alle stampe una collezione di saggi in cui "scorticava" letteralmente, come dissero i recensori, la Lady di ferro, che nel frattempo si era dimessa dall'incarico di Primo ministro. Nessuno potrebbe chiedere a Saviano qualcosa del genere. Ego taceo. Non est enim facile scribere in eum qui potest proscribere, dovrebbe giustamente rispondere lo scrittore citando un collega latino del quarto secolo. L'Italia non è l'Inghilterra. Da noi, le vie del doppio gioco sono infinite, benché il sostegno pubblico allo scrittore sia apparentemente unanime, e gli apparati dello stato mantengano, in teoria, spazi di indipendenza dal potere politico.

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Noi, gli eroi

Come interpretare, nel quadro antropologico delineato sopra, l'identificazione apparentemente unanime del pubblico nello scrittore? Iniziamo a rispondere soffermandoci sul significato dell'emozione intorno al "nostro" eroe. Più ancora di quella ufficiale e governativa, strutturalmente ipocrita, ce n'è una diffusa che si manifesta nello slogan "Saviano sei tutti noi!". Scorro siti e blog degli ultimi anni. "Io sono Saviano", "Siamo tutti Saviano", "Adottiamo Saviano", "Non lasciamolo solo!", "Ammazzateci tutti" e così via. Petti che si scoprono, petizioni, cittadinanze onorarie, appelli alla solidarietà. Dovunque, nel paese dei mille comuni, la coscienza virtuosa delle cittadinanze si schiera al suo fianco, contro il crimine. Sarebbe l'altra faccia del "potere della parola" in cui crede Saviano. Lui "parla ai giovani" e loro rispondono. Va bene, questo anelito alla giustizia potrà servire a mantenere alta la guardia contro il crimine organizzato. Ma la guardia di chi? Nelle località più sperdute e nel web, consiglieri comunali e cittadini che magari fin lì non si erano accorti dell'esistenza del crimine organizzato si mobilitano. Dubito che ciò influisca sulle attività necessariamente discrete di chi, investigatore, magistrato inquirente o giudice agisce davvero contro camorra, mafia e 'ndrangheta. In cambio, però, l'eruzione di virtù comporta visibilmente un effetto che, con Gehlen, si potrebbe definire Entlastung, "sgravio" o "supplenza". Anche noi combattiamo la mafia, e quindi siamo a posto, perché ci siamo sgravati la coscienza.

Un effetto complementare a quello che precede è il trionfo degli stereotipi, letterari e non. Vi ricordate di quel calciatore della nazionale, per il quale la pubblicità mondiale intorno al film Gomorra danneggerebbe l'immagine di Napoli? Una sciocchezza che molti hanno stigmatizzato e che lo stesso Saviano ha accolto con un'alzata di spalle (e che poi il giocatore ha prontamente ritrattato, come è d'uso in Italia). Pensierini cristallizzati in etichette contrapposte, e anche un forte sospetto di narcisismo calcistico. Noi che abbiamo vinto un campionato del mondo siamo ambasciatori del bel paese, mentre quelli che tirano fuori le brutture... Eppure, siamo sicuri che si tratti soltanto di opinioni estemporanee di un calciatore? La questione è sintetizzata nell'articolo di un prestigioso settimanale tedesco.

Il bestseller di Saviano ha modificato la nostra immagine dell'Italia. Si tratta di un risultato stupefacente perché nessun'altra passione è così indistruttibilmente nutrita di cliché come il nostro amore per l'Italia. Chi ha letto Gomorra non può più semplicemente fantasticare sulla "bella Italia". C'è indubbiamente anche il cliché negativo, l'immagine di un paese eternamente segnato dalla corruzione, dal crimine e dall'economia illegale...

Ovvero: noi tedeschi abbiamo sempre guardato all'Italia come la terra in cui fioriscono i limoni, sullo sfondo di romantici ruderi, ma ora, grazie a Saviano, sappiamo che ce n'è un'altra, quella "eternamente segnata dalla corruzione, dal crimine..." ecc. D'ora in poi, il tedesco colto, se mai si spingerà a sud di Roma, saprà che a Napoli, oltre alle zagare, sbocciano anche i fiori del male. Beh, non è proprio una novità e un minimo di memoria non guasterebbe. Tra Ottocento e Novecento, dalle parti di Napoli arrivarono i dandy come Norman Douglas, che avevano eletto il Golfo a dimora degli dei. Ma prima c'era stato Il ventre di Napoli, l'inchiesta di Matilde Serao nel mondo dei bassi, dove già a fine Ottocento dominavano usura e corruzione. Poi, a partire dalla seconda guerra mondiale, gli scrittori si affacciarono su un panorama di disfacimento, rendendone, volta per volta, il senso di orrore inerte e metafisico (Il mare non bagna Napoli, di Anna Maria Ortese) o il brulichio della vita a ogni costo sotto le macerie (Napoli '44 di Norman Lewis, e soprattutto il prototipo contemporaneo di qualsiasi racconto-verità partenopeo, La pelle dell'italo-tedesco Curzio Malaparte, nato Kurt Erich Suckert). Al recensore tedesco non è venuto in mente che siamo nel campo della letteratura e che non basta sostituire uno stereotipo con il suo contrario per riequilibrare la situazione. Sempre di stereotipi si tratta.

Lo stereotipo ha, nel regno delle lettere, la stessa funzione che l'opposizione tra Eroi e Orchi svolge in ciò che potremmo chiamare morale collettiva. Semplifica. Consola. Sgrava. Permette di opporre il regno delle forme millenarie alla vita organica, il Bello all'Orrido, sotto lo stesso sole indifferente. È, appunto, la strategia di Curzio Malaparte, che a me sembra, più di Ernst Jünger e Louis Ferdinand Céline (che con dubbia modestia Saviano ama citare come suoi ispiratori o autori de chevet) il padre spirituale alla lontana di Gomorra. Anche lui visceralmente bipartisan, alla moda italiana. Fascista critico e poi comunista in odore di santità cattolica, e come tale onorato della tessera del Pci in punto di morte. Autore di un racconto intitolato Sodoma e Gomorra (una coincidenza, certamente). Meno casuale è che l'immagine che domina ossessivamente La pelle sia la peste, che dà il titolo al primo capitolo. Napoli, città infetta, in cui tutto si compra e si vende: i corpi delle prostitute, i soldati americani di colore spennati dagli sciuscià, lo spettacolo dell'imene intatto di una fanciulla. Sentina su cui si posa lo sguardo sprezzante e snob degli ufficiali alleati e soprattutto si appunta quello dello scrittore maledetto. Perché il soggetto de La pelle non è tanto la cloaca umana dei bassi, ma lo scrittore che la visita. Il suo io narrante.

In ogni romanzo-rivelazione-della-verità, il vero protagonista non è la realtà, ma il suo autore. Che si tratti dei resoconti dalle trincee di Jünger o delle visite di Truman Capote nel braccio della morte, è lo scrittore che trionfa, intermediario tra le tenebre e i lettori. Un trionfo che allo scrittore può costare caro. Non tutti, come Jünger, sono capaci di sopravvivere serenamente alla propria leggenda. Ma al pubblico questo può non interessare. Alla rivelazione di qualcosa che non conosceva, e lo fa rabbrividire, si aggiunge la testimonianza di chi è sceso negli inferi. Lo scrittore-eroe. E con ciò la rappresentazione si chiude all'insegna della consolazione suprema. Il male esiste e qualcuno lo combatte: l'eroe-scrittore — e noi che lo leggiamo, fondendoci con lui.

Siamo tutti Saviano.

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