Copertina
Autore Monica D'Ambrosio
Titolo Vent'anni son già troppi
SottotitoloRomanzo di lotta e di vita
EdizioneNuovi Equilibri, Viterbo, 2008, Ecoalfabeto , pag. 96, cop.fle., dim. 12x17x0,8 cm , Isbn 978-88-6222-031-6
LettoreSara Allodi, 2008
Classe narrativa italiana
PrimaPagina


al sito dell'editore


per l'acquisto su IBS.IT

per l'acquisto su BOL.IT

per l'acquisto su AMAZON.IT

 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Prefazione di Livia Pomodoro          3

Introduzione di Stefano Apuzzo        5

Vent'anni son già troppi             25


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 2

************************************************************
Questo libro è rilasciato con la licenza Creative Commons Attribuzione-Non Commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia. Pertanto esso può essere riprodotto e distribuito con ogni mezzo, a condizione che se ne riporti correttamente la paternità, che non lo si usi per fini commerciali e che non lo si alteri o lo si trasformi, né lo usi per creare un'altra opera. Il testo completo della licenza è consultabile all'indirizzo http://creativecommons.org.
************************************************************

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 25

Vent'anni son già troppi



Genova, 7 ottobre 199...

Per otto anni ho camminato lungo i suoi vicoli fino in fondo, per le sue salite, le sue discese, le sue scale, scalette e scalinate, le sue funicolari rosse, le passeggiate, il mare.

È stato il vento però.

La sua aria salmastra, salata, pungente, continua, i pini marittimi, il clima...

Si. È stato il clima ad iniziarmi.

...So come cade la pioggia sui ciottoli di pietra delle scalinate, so come i genovesi si comportano sugli autobus e nei negozi, e hanno un modo tutto particolare, nei loro rituali, sono burberi, selvatici. So come sono fatti i loro volti, cosa contengono i loro armadi.

So che l'estate, ancora oggi, la vita diventa quasi agreste, coi vasi colmi di ruvidi gerani sui "poggioli", e i gatti, quanti gatti, addormentati al sole.

Conosco Genova di giorno e di sera. So che è sempre viva.

È viva anche quando in giro non c'è più nessuno. I suoi muri, i suoi vicoli, la sua gente un po' pettegola, la sua cantilena, la Lanterna.

E l'amo.

L'amo con quell'amore di chi si sa rifiutato. Io l'ho sempre amata, sempre seguita, sempre cercata, ma da spettatrice.

Io non le sono mai appartenuta veramente.

La città a cui appartengo è Milano, sicuramente, anche se non ci sono nata. Milano mi ha presa tra le braccia per guarirmi.

A Genova ho sempre sofferto, bene o male, e prima di tutto, mi ha sempre e solo regalato malattia.

Ma di questo non voglio parlare.

Non adesso.

Adesso è forse tardi.

Parlerò invece dell'altro brutto momento della mia vita.

Io ora ho diciannove anni. E ho avuto due periodi veramente brutti fino ad oggi: uno è quello di Genova, della mia infanzia fino a sette anni, della mia lunga, continua, estenuante malattia fisica, per tutto il tempo che vi ho abitato. L'altro è quello che parte dai miei diciassette anni, che non è ancora finito, ma credo abbia visto il suo apice veramente due anni fa.

Sono stata da molti dottori, ma solo uno ho apprezzato sul serio. Gli altri, a parer mio, erano ciarlatani. A lui devo perlomeno riconoscere il merito di avermi dato il coraggio e la voglia di cominciare la mia autoanalisi.

Questo dottore aveva due occhi azzurri penetranti e per questo mi piaceva. Poi era anziano, e io con le persone anziane mi trovo sempre a mio agio. Aveva dunque gli occhi azzurri ed era anziano. Come mio nonno quando è morto.

Mi ispirò subito fiducia.

Eccomi quindi seduta davanti a lui.

È sprofondato in una poltrona di pelle nera, di fronte alla scrivania. Sulla parete davanti a me c'è una libreria piena di volumi, nella quale è incastrato un divano marrone con un piccolo cuscino rivestito da carta bianca. Questa situazione non è per me diversa da molte altre analoghe situazioni. Ma qualcosa mi dice che devo fidarmi lo stesso. Anche perché altrimenti sarebbe tutto da capo e dovrei andare da un altro ancora.

...Il dottore sta chiaramente aspettando che mi decida a parlare.

Sono sola con lui e questo un po' mi spaventa. Sempre, come tutte le volte, la parte di me che detesto formula l'odiosa domanda per la quale mi disgusto e mi disprezzo: "gli piacerò?". Così comincio, debolmente: – Dottore, sono malata da molto tempo. Ho voluto io stessa venire da lei, non ce la faccio più a vivere.

Classico. classico. classico.

Mi odio! Mi odio perché so che questa è solo retorica, queste sono solo balle, so che è sbagliato, è brutto voler piacere agli altri a tutti i costi... far di tutto per essere accettati: è terribile. So che è giusto apparire per quello che si è, per sé stessi.

...Ma chi sono io? Come sono? Questo è il punto.

(E anche la scusa).

I suoi occhi mi fanno capire che devo andare avanti, che mi sta ascoltando.

...Ma nervosa com'ero, rinchiusa com'ero nel mio universo, come facevo a trovare le parole che sarebbero passate tra me e lui?

Come facevo a gettare un ponte tra l'agitazione e la calma, il chiaro e l'oscuro, come facevo a saltare la fogna, la corrente maligna della mia paura che ci separava, me da lui, me dagli altri?

...Avevo molte storie da raccontare. Molte avventure. Carine, anche. A volte.

Ma della storia che abitava dentro di me, l'Angoscia, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlare?

E poi io sono sempre stata abituata a prendere le cose alla lontana, prudente, come un gatto, per vedere se conviene poi davvero, se vale la pena di rivelarsi, o se è meglio... nascondersi.

L'Angoscia era una colonna densa e spessa, percorsa talvolta da spasmi, affanni e da movimenti inattesi, lenti, come duelli sott'acqua.

Mi cadevano allora gli oggetti dalle mani, avevo un'assoluta incapacità di reggere qualsiasi cosa tenessi in mano.

I miei occhi non erano più finestre: benché fossero aperti, sapevo che li avevo chiusi. Che erano solo due fette di globi oculari. Mi vergognavo di quello che mi succedeva dentro, di tutto quel fracasso, quel disordine, quell'agitazione. Nessuno doveva mai guardare là dentro, nessuno doveva sapere, nemmeno il dottore. Mi vergognavo dell'Angoscia. Qualsiasi altra condizione di vita mi sembrava preferibile. Navigavo senza tregua in acque terribilmente pericolose, piene di vortici, di rapide, di rettili e insidie nascoste. Tutto questo, dovendo continuamente far finta di scivolare su un lago tranquillo, come fossi un cigno.

— Può dirmi qualcosa delle conseguenze di queste crisi? — stava dicendo il dottore. Di questo potevo parlare.

Potevo recitare una lunga lista di lame, lamette, taglierini, pietre appuntite, cocci di vetro, grattugie, lime, carta vetrata, rasoi, coltelli, temperini, cacciaviti, forchette, cicatrici, tagli, aperture, incisioni, bruciature, scorticature, graffi, punti, corse al Pronto Soccorso, pastiglie, pillole, sonniferi, tranquillanti, capsuline deliziose di tutti i colori...

Potevo parlare del sangue, della sua presenza dolce, tiepida, rassicurante fra le mie dita, ...il suo ipnotizzante fluire, con le sue affascinanti variazioni d'intensità, mi era ormai familiare e a volte, indispensabile.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 69

Mio nonno era un'altra gigante figura della mia infanzia.

Quando morì fu diverso.

Niente Angoscia.

Solo il vuoto, un grande vuoto, semplicemente.

A cinque anni, per me il nonno era la persona più importante dell'universo. Sentivo che lui mi adorava, e io vivevo attraverso di lui. Mi dava la sicurezza, la protezione e l'attenzione di cui ero affamata, ed era la mia guida, il mio maestro.

Dopo di lui ci furono solo i libri, e dopo i libri, me stessa.

Per questo era così importante. Quando morì fu orribile.

È morto in un brutto modo, sotto ai miei occhi, sotto la mia incredulità, la mia incertezza. Ebbe un ictus cerebrale, all'improvviso, a tavola. La mamma e la nonna erano in cucina a finire di cucinare, in sala da pranzo c'eravamo io e lui. Lui mi raccontava qualcosa, non so più, poi d'un tratto il gomito gli scivolò dalla tavola, una volta, due volte, tre volte. Io lo trovavo ridicolo ed ero in imbarazzo per lui. Alla fine si è rovesciato con la faccia sul piatto. Uova e patatine fritte, le mie preferite.

L'uovo gli stava colorando di giallo tutta la faccia quando arrivò mia madre. Io ero lì a guardare. Non mi veniva in testa nulla. Poi mi spedirono a giocare con lamia amica del piano di sopra, e dalla finestra ho visto arrivare l'ambulanza.

Forse è strano a dirsi, ma ho capito benissimo che cos'era successo, ma non provavo niente, perché non mi sembrava possibile.

Non volevo chiedere niente ai vicini perché sapevo che li avrei messi in imbarazzo. E anche la sera, non dissi nulla a mia madre e a mia nonna, e so che loro pensarono che non avessi capito.

Il giorno dopo non volli andare all'asilo.

Mia madre mi portò a fare compere con lei.

– Come stai? – mi disse, incerta.

– Sto bene. Dov'è il nonno?

(Tutto quel silenzio mi aveva stancata e poi a lei potevo chiederlo, di lei non mi vergognavo).

– È in ospedale, non sta bene...

– Ma torna?

– Certamente che torna, non preoccuparti...

Preoccuparmi? E di che?.. Del fatto che lui era morto e io lo sapevo? Del fatto che non l'avrei più visto, più sentito, più toccato? Mio nonno era morto, mio nonno con la faccia nel piatto. Mio nonno così pieno di vita, così pieno di amore per le bestie e per le persone. Mio nonno che mi portava a raccogliere le fragole, che mi insegnava l'allevamento dei cani e dei piccioni. Che mi leggeva Goethe dicendo: "Questa bambina capisce il dottor Faust!", che mi portava a comprare i pesciolini per i gatti randagi, che mi consolava quando i miei litigavano e io scappavo da lui nella sua stanza... mio nonno, morto.

Non potevo sopportare quell'idea.

Mia madre si fermò a un semaforo e io aprii la portiera e scappai fuori, di corsa, schivando la gente, cercando di nascondermi da mia madre che aveva piantato lì l'auto e mi correva dietro gridando. Io non avevo paura, volevo perdermi. Perdermi e basta. Mi sembrava che tutto fosse diventato troppa brutto e spaventoso e non valeva la pena tornare a casa.

Invece mi ci riportarono, e imparai a vivere senza di lui. Imparai a dormire e a piangere anche senza di lui, i suoi miti occhi azzurri, la sua saggezza, la sua calma.

Ma ancora adesso, certe volte, sento di tanto in tanto il bisogno fortissimo di correre, spinta dalla gioia, dalla sicurezza di essere voluta, protetta, e rifugiarmi tra le sue braccia. Lui mi parlerebbe piano piano, mi farebbe ridere e chiacchierare, in un ritmo lento e tenero e mi direbbe: "Ecco qua, mia pulcetta, non è successo niente, ci sono qua io, piccola...". Ancora oggi, certe sere, mentre cerco di spiegarmi questa paura, quest'inquietudine, sdraiata sul letto con gli occhi chiusi e l'orso stretto accanto, al buio per meglio comunicare con l'abile, l'impenetrabile, l'ignoto, cerco di far rivivere mio nonno.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 88

Leggevo come una matta: non di tutto, ma cose ben precise, De Sade, per abituarmi, e Sartre, che mi infiammava con la sua filosofia... cominciai a osservare attentamente la gente, la loro vita, i loro gesti, i loro punti deboli. Leggevo tutto ciò che mi poteva aiutare in proposito, Freud, Adler, Stekel, Rank, ma anche Goethe, Dostoevskji, Franz Kafka, Proust. Ma devo dire che Sartre è stato il più grande. Leggerlo è stato per me una delle gioie più grandi.

Di lì a poco, cominciai a collezionare cuori infranti. Riuscivo a tenere in piedi innumerevoli fili, mi imbaldanzivo, non avevo più nessun rispetto per i sentimenti degli altri. Ai ragazzi non concedevo mai niente, e soprattutto, non ci andavo mai a letto, e mi ero convinta che proprio quella era la condizione essenziale per farli innamorare come volevo io... Ma questo particolare non toglieva il marcio di tutta la situazione e, se da un lato ricavavo vanità e sicurezza, dall'altro mi ero abituata ad autodefinirmi "sporca" dentro. I ragazzi, probabilmente, avvertivano in me questa profonda ambivalenza di sentimenti e personalità, e si innamoravano proprio di questo... prima erano incantati da quella che definivano la mia "purezza", la mia serierà, diversità dalle altre, si sentivano commossi, nasceva in loro un senso di protezione, mi chiamavano "piccola" e all'inizio davo loro sicurezza, calore, li inebriavo, li facevo sentire grandi, forti, speciali. Poi, cominciavano a scoprire il doppio, il triplo gioco, le bugie, i misteri, i casini. Ma era troppo tardi. Pensavano di avermi e l'accorgersi che al contrario erano in costante pericolo di perdermi, li legava a me ancora di più. Era un gioco sottile, le cui regole non erano neanche tanto complicate. Unica condizione fondamentale per vincere sempre questo gioco, era astenersi dal provare veri sentimenti.

Non dico che tutto questo non mi sia servito, al contrario. Mi ha anche aperto gli occhi su molte cose, e a parte i testi femministi, è stata all'esterno, per la strada, nei negozi, in giro, che ho cominciato a vederci chiaro, sugli odi, apparentemente inspiegabili, della Carla per i "maschi" in genere: è stato fuori che ho capito che cosa significava essere definita "una donna".

Fino ad ora non avevo mai messo in discussione il concetto di "femminilità", questa qualità specifica di certi esseri umani col seno, i capelli lunghi, il viso truccato e altre caratteristiche graziose e maliziose, di cui era pieno il mondo. Avevo sempre detto, a chi me lo chiedeva, di essere "maschilista", solamente perché mi sembrava, così dicendo, di far l'originale, e di essere più accettata agli occhi del sesso maschile, cosa per me importantissima, prima della nascita della Carla. Non avevo ancora assimilato il suo totale cinismo, il suo trovarli ridicoli e meschini.

È stato solo dopo di lei, e grazie a lei, che ho cominciato a guardarmi intorno, a scoprire questi esseri misconosciuti (le donne) che si muovevano tra toni pastello, il rosa, l'azzurro chiaro, il bianco, il lilla, il verde muschio. Persone il cui ruolo consisteva nell'essere la serva del padrone, o la moglie del "capofamiglia", o la mamma dei bambini, o l'infermiera del dottore, o la ragazza di questo, la fidanzata di quest'altro... sempre e comunque un ruolo subalterno.

Adornate, profumate, decorate come se fossero ninnoli o soprammobili, immobili su precari tacchi a spillo, impicciate da calze delicate, reggicalze, i movimenti impediti dalla moda e dalla "buona educazione"... rappresentate nei film e nei romanzi sempre fragili, delicate, illogiche, traditrici, incoerenti, con cervelli di gallina, sempre pronte a barattare per ricevere. Era falso.

Io non mi ci riconoscevo. Io sapevo cosa significava essere donna, ero una di loro. Sapevo cosa significava odiare bambole e pentolini, e quanto fosse gratificante salire invece sugli alberi, più in alto dei maschi, più in alto di tutti... Sapevo quanto era mortificante a scuola, nelle lezioni di applicazioni tecniche, dover restare lì in classe a ricamare e a cucire, con la vecchia idiota insegnante, e vedere i maschi andare nell'aula di applicazioni a piallare il legno, forgiare, creare, costruire...

Vedevo le donne fare di una cena un affare di stato, nella paura di non saper cucinare bene per gli ospiti della sera, e i mariti, i figli, seduti a tavola a chiederle continuamente il sale, il formaggio, la forchetta, e lei, la donna, la moglie, la mamma, l'amica, sempre, instancabilmente in piedi, con la roba fredda nel piatto e la sua lodevole "buona volontà". ...Giurai a me stessa di non fare mai, mai, per niente al mondo, la loro stessa fine.

Dopo di allora, con il solito fanatismo che mi contraddistingue, cominciai a leggere tutta la letteratura femminista che riuscii a trovare, dalla De Beauvoir alla Maraini.

Era per me un vero sollievo trovare altre donne che la pensavano così, e non solo, ma lo scrivevano e lo urlavano a gran voce, ed erano ascoltate, i loro testi venivano stampati, pubblicati, letti, assimilati.

...Donne coraggiose, con una loro testa, un cervello, pensanti e autonome. Libere. Non come la Carla però, libera sì, e cattiva anche, ma divorata dall'odio. E nemmeno come me, con un cervello, ma divorata dall'Angoscia... libere e forti, e felici, delicate, realizzate, contente. Che casino!

Tutte le porte aperte, tutti gli ormeggi mollati! Che felicità!

Questa volta una luce, stava davvero brillando. C'ero davvero vicina, molto vicina.

| << |  <  |