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| << | < | > | >> |Indice5 PREFAZIONE 7 INTRODUZIONE 11 CAPITOLO 1 Pre-ascolto 11 La radio in Italia: Uri e Eiar 14 Voglia di radio libere, dalla Resistenza alla ricostruzione 16 Gli anni Cinquanta 17 Rock'n'roll in the Usa 19 L'Europa dei pirati 21 Radio estere per l'Italia 24 Novità e successi in casa RAI 26 Giovani fermenti 30 Radio Libera 33 Problemi, proposte, provvedimenti 36 Cosa è successo 40 Alternative da ascolto 43 CAPITOLO 2 I Cento Fiori 43 I primi pionieri, fuorilegge dalla RAI 46 La Milano radiofonica: RMI 51 La Milano radiofonica: Canale 96 e Milano Centrale 54 Diverse radio 56 Altri prototipi 64 Cento Fiori radiofonici 69 Radio a ruota libera 74 Libere in città 82 Incontri tra l'etere 87 CAPITOLO 3 Radio boom 87 La sentenza della svolta 89 Risvolti nel sentire 95 Uno scenario ampio 98 La politica inonda 105 Musica stereo in Fm 108 Radiomovimenti nel Settantasette 117 Un '77 archiviato 120 Ascolti liberi 122 Il caso italiano 127 Radio fa Provincia 131 CAPITOLO 4 Segnali in libertà 131 Guerra, giungla, funghi e far west 133 Diretta 135 Al telefono 139 L'epopea della dedica 141 La radio-azienda 144 La Roma radiofonica 148 L'evasione inonda 150 Sfogo, servizio, speranza 158 In cerca di sostegno 166 Retaggi di libertà... 171 E la RAI? 174 Fuori i nomi! 179 Fine decennio, fine di una stagione 181 APPENDICE Evoluzione quantitativa delle radio italiane, 1975-1979 183 BIBLIOGRAFIA 191 NOTE 203 INDICE DELLE RADIO |
| << | < | > | >> |Pagina 11CAPITOLO 1
PRE-ASCOLTO
La radio in Italia: URI ed EIAR La radio l'ha inventata un italiano: Guglielmo Marconi. Più precisamente, questo celebre scienziato e industriale che ha studiato la radiotelegrafia, da autodidatta, aprendo straordinari orizzonti alle comunicazioni umane, è considerato il padre della moderna radiofonia. Se sul piano tecnico c'è condivisione sulla paternità di Marconi, che mette a punto il nuovo medium poi arricchito di migliorie altrui, sui contenuti mediali il discorso è molto complesso e non può essere più di tanto semplificato. L'invenzione in Italia è già sfruttata commercialmente attraverso la sua Radiofono, quando nel 1924 nasce l'Unione radiofonica italiana, URI. I rapporti tra Marconi e il governo di Benito Mussolini, nonostante l'ostilità di alcuni suoi consiglieri, sono buoni. Solo pochi anni dopo le diversità di vedute li raffredderanno. E mentre l'inventore vorrebbe un'Italia più filobritannica, il Duce stringerà i destini del regime a quelli della Germania di Adolf Hitler. Ma il mezzo sonoro è avviato alla sua storia italiana. Dopo ripetute sperimentazioni, si era costituito altrove, da prima negli Usa, poi in Francia, un modello convenzionale di radio, ovvero di trasmissione di musica e di parole per un pubblico dotato di apparecchi riceventi e sovente fruitore di pubblicazioni in tema. In realtà, i modelli delineati erano due e, anzi, lo erano da metà Ottocento, col telegrafo. In America il telegrafo accompagna l'espansione delle ferrovie, in Europa segue le poste legandole per sempre a telegrafi e telefoni. Si creano da quegli anni le condizioni della differenziazione tra sistema misto e privato statunitense, da una parte, e struttura monopolistica pubblica europea, dall'altra. Un dualismo di cui la radio è esempio dai primi decenni del Novecento. Negli Stati Uniti d'America il modello era controllato pubblicamente, ma gestito da privati. In Europa, invece, era prevalentemente fondato sulla presenza dello Stato che, pur con le dovute articolazioni nazionali, oltre a controllare le frequenze, in quanto bene pubblico, fondava compagnie radiofoniche da esso direttamente controllate. L'Italia si rifà all'impostazione continentale: nel regime di mercato il servizio di radiodiffusione è accentrato in un solo operatore. La particolare storia nazionale porterà a infrangere decenni di monopolio in modi risonanti e imprevedibili. Per delinearla è utile ripercorrerne alcune tappe dal primo Novecento. | << | < | > | >> |Pagina 30Radio LiberaIl Sessantotto e i giudizi critici sull'Italia del "miracolo economico" non risparmiano il sistema della comunicazione di massa, mettendone in crisi l'assetto e il ruolo, il modo di produrre l'informazione e i detentori. Dalla fine del decennio se ne raccoglieranno gli esiti. Da questo snodo, si leva il j'accuse per la gestione esclusiva della comunicazione radiotelevisiva da parte dello Stato. Nel rispetto dei diritti della Costituzione, l'informazione si vorrebbe in carico ad altri soggetti politici, culturali, sociali e religiosi. Il confronto con un modello radiofonico alternativo alla RAI ormai interessa parte del pubblico, mentre la sua potenziale realizzazione non sfugge solamente agli appassionati, anzi, si fa spazio nel pensiero di intellettuali, opinion leader e analisti della società italiana. Tale pensiero sembra dettato più da motivi etico-politici che economico-commerciali. In aggiunta a ciò, ci si comincia lecitamente a interrogare se la motivazione storica su cui si è fondato il monopolio, cioè che l'etere sia una risorsa scarsa, fosse ancora valida, in una fase in cui a livello generale la miniaturizzazione e l'abbattimento dei costi nell'industria elettronica consegnavano i benefici delle tecnologie radiotelevisive. È il momento di cominciare a far presente all'opinione pubblica le nuove sollecitazioni e di passare ad azioni pratiche, anche operando al limite della legalità. In verità la comunicazione legata alla contestazione in Italia avviene esclusivamente attraverso un'attività scritta mediante ciclostile, manifesti, riviste a tiratura e diffusione limitate. La radio in Italia è sempre RAI. Il fenomeno piratesco delle radio contro i monopoli che riprende vigore in qualche congiuntura legata al Sessantotto, come in Francia con la studentesca RADIO CAMPUS, arriva da noi con un'onda lenta. Lo stesso vocabolo "pirateria" sarà adoperato per connotare le trasmissioni illegali delle nascenti radio libere italiane, ma in un periodo ancora confuso. Poiché in Italia ci sarà un boom di emittenti, si ritiene propriamente valido solo per casi isolati e anteriori, dal 1970 al 1976. L'espressione si riferisce all'interruzione di trasmissioni radiofoniche regolari, in semi-legalità e spesso in clandestinità, o all'emissione su frequenze non autorizzate. Nel 1970 ci sono due episodi legati alla voglia di liberare energie contro il monopolio in Italia. La prima occasione, effimera e marginale, è a Trento: le provocatorie interferenze di RADIO GAP, una pseudoemittente espressione di un gruppo ideologico locale legato a "Lotta Continua" che tenta di inserirsi sulle onde di Stato, riuscendo un paio di volte a interrompere il telegiornale della RAI con messaggi definiti "partigiani". Molto più clamoroso il caso di pirateria radiofonica della stazione installata da Danilo Dolci, Franco Alasia e Pino Lombardo del "Centro studi e iniziative" di Partinico, in provincia di Palermo. Largo Scalia, 25 marzo '70, ore 18.30. Breve suono di flauto in segno di SOS, seguito dalla voce di Dolci:
«Qui parlano i poveri Cristi della Sicilia occidentale attraverso la radio
della nuova resistenza. Siciliani, italiani, uomini di tutto il mondo ascoltate:
si sta compiendo un delitto di enorme gravità. Assurdo. Si lascia spegnere
un'intera popolazione. La popolazione delle valli del Belice, dello Jato e del
Carboi, la popolazione della Sicilia occidentale non vuole morire. Siciliani,
italiani, uomini di tutto il mondo avvisate immediatamente i vostri amici, i
vostri vicini, ascoltate la voce del povero Cristo, che non vuole morire,
ascoltate la voce della gente che soffre assurdamente. Siciliani, italiani,
uomini di tutto il mondo non possiamo lasciar compiere questo delitto. Le
baracche non reggono, non si può vivere nelle baracche, non si vive di sole
baracche.
Lo Stato italiano ha sprecato miliardi in ricoveri affastellati fuori tempo
confusamente, ma a quest'ora tutta la zona poteva già essere ricostruita con
case vere, strade, scuole, ospedali. Le mani capaci ci sono, ci sono gli uomini
con la volontà di lavorare, ci sono le menti aperte a trasformare i lager della
zona terremotata in una nuova città viva nella campagna con i servizi
necessari per garantire una nuova vita. Gli uomini veri di tutto il mondo
protestino con noi. L'Italia, il settimo Paese industriale del mondo, non è
capace di garantire un tetto solido e una possibilità di vita ad una parte del
proprio popolo. Uomini di governo lasciate spegnere bambini, donne, vecchi,
una popolazione intera. Non sentite vergogna a non garantire subito case,
lavoro, scuole, nuove strutture sociali ed economiche ad una popolazione
che soffre assurdamente? Se si vuole, in pochi mesi una nuova città può
esistere, civile, viva. Chi lavora negli uffici, di burocrazia si può morire. I
poveri Cristi vanno a lavorare ogni giorno alle 4 di mattina. Occorrono dighe,
rimboschimenti, case, scuole, industrie, strade. Occorrono subito. Questa è la
radio della nuova resistenza. Abbiamo il diritto di parlare e di farci sentire.
Abbiamo il dovere di farci sentire. Dobbiamo essere ascoltati...».
Questo è ciò che è andato in onda per i primi 3 minuti nell'esordio clandestino delle sue trasmissioni in modulazione di frequenza (98.5) e su onde corte (m 20.10) nell'area della vallata del fiume Belice e della provincia palermitana. È RADIO LIBERA, altrove indicata meno fedelmente RADIO SICILIA LIBERA e RADIO LIBERA PARTITICO. Danilo Dolci, oltre che scrittore, poeta e sociologo, è grande agitatore e attivista per il popolo di Sicilia. La parte di esistenza che passa a Partinico è costellata da grandi gesti simbolici ed episodi di solidarietà per i più poveri. Azioni non-violente, scioperi della fame, marce di piazza accanto alle classi umili ed emarginate. Personalità forte e fuori dagli schemi, Dolci è un intellettuale che si sporca le mani, occupandosi di problemi concreti: lavoro, sviluppo, cultura. Sfida le mentalità, la politica, la mafia, adattando le lezioni del cristianesimo e del pacifismo non violento ai valori del popolo siciliano. La zona interessata dalla vicenda di RADIO LIBERA e i suoi paesi erano stati distrutti da un violentissimo terremoto – uno dei maggiori del XX secolo italiano – poco più di due anni prima. In più, era stata abbandonata al suo destino di dissestato luogo di sprechi e speculazioni. Comprensorio dove per anni la gente vive nelle baracche tra le incertezze sul futuro: una "non ricostruzione". A quel punto, Dolci ha una trovata palpabile per continuare l'opera già avviata coi libri e gli articoli. Invia lettere informative di responsabilità alle forze dell'ordine e indirettamente alle alte cariche dello Stato: nessuna interferenza e nessun nocumento saranno procurati dalle trasmissioni. I suoi due collaboratori più stretti, senza coinvolgere troppo il "Centro studi e iniziative", si barricano dentro Palazzo Scalia con 100 litri di benzina e un gruppo elettrogeno. L'emittente di Partinico riesce a mandare in onda le ingiustizie subite dai cittadini del Belice, rendendo pubbliche le sofferenze con la voce stessa della gente comune e il suo linguaggio. Vengono intervistate decine e decine di persone della zona terremotata per comprendere meglio qual è la situazione paese per paese: bambini, donne, anziani, agricoltori, operai, medici, sindaci. Si trasmettono come segnali di SOS pensieri, sentimenti, desideri, problemi e priorità. Alcuni intellettuali amici inviano messaggi di solidarietà, anche dall'estero. Dove sono finiti i fondi? Dal sisma del 15 gennaio '68 non un solo miliardo dei 162 stanziati per la ricostruzione è stato speso. RADIO LIBERA dà la parola ai "poveri Cristi", vuole essere la voce dei senza voce contro inerzia e corruzione. L'idea è di mettere il microfono davanti al popolo e permettergli di parlare e di ascoltarsi. C'è un sogno vagamente populista in tutto ciò, perché si crede che la spontaneità popolare alla radio possa esprimere di per sé una comunicazione eversiva. Un progetto di comunicazione liberatoria accompagnato dalla fascinazione del mezzo e dalle sue potenzialità. Si trasmettono messaggi liberi, diretti, puri come sono esternati. | << | < | > | >> |Pagina 43CAPITOLO 2
CENTO FIORI
I primi pionieri, fuorilegge dalla RAI «Qui RADIO BOLOGNA per un'informazione democratica»: ecco l'annuncio. La sera di sabato 23 novembre 1974, dalle ore 23, "RADIO BOLOGNA per l'accesso pubblico" dà inizio a una settimana di trasmissioni dimostrative. Diffonde da una roulotte bianca parcheggiata in una vecchia cascina sul colle dell'Osservanza. Con un manico di scopa come attacco dell'antenna, irradia su un raggio di 50 chilometri con un potenziale d'ascolto di circa 700mila abitanti. Un radioamatore di Treviso aveva messo a disposizione il trasmettitore militare dal valore di mezzo milione e un tecnico aveva appena ritoccato le frequenze. La ricezione, intorno ai 100 MHz in Fm, fa partecipe qualche migliaio di bolognesi. I promotori dell'idea sono un gruppetto di giovani operatori, riuniti nella Cooperativa lavoratori informazione, intorno a Roberto Faenza. Questi aveva già debuttato nella regia cinematografica ed era stato negli Stati Uniti d'America a studiare le nuove possibilità del video tape e della televisione via cavo. Con lui c'è Rino Maenza, studente e presidente della cooperativa, e una decina di altri tra cui Mario Bortolini, Pier Giorgio Righi, Pier Luigi Franzoni, l'avvocato Giorgio Finzi ed Elda Ferri, funzionaria della Regione. Inventano un palinsesto lì per lì, ma deciso in linea di massima prima di partire, con una declinazione tutta pubblica e d'interesse generale. «Avevamo paura che in assenza della legge ci impedissero di andare avanti», ricorda Roberto Faenza. Ma perché proprio una radio? «...perché eravamo convinti che fosse il mezzo di comunicazione più potente, quello che raggiunge più persone e si ascolta in ogni momento, senza impegno». Ne è convinto anche Rino Maenza: «Per fare comunicazione e cultura la radio è il mezzo più versatile e incisivo, con un'elasticità che gli altri non hanno. È quella che meglio ti consente di penetrare nella società». Si va in onda con una comunicazione antagonista al monopolio «senza chiedere il permesso», come un manuale di Faenza che nel 1974 fa clamore. Non c'è l'intenzione privatistica, quanto la richiesta di decentramento dell'informazione radiotelevisiva. La data della nascita di RADIO BOLOGNA non è casuale. Di qui a pochi giorni, il 30 novembre, il governo di Aldo Moro dovrebbe pronunciarsi con un decreto sulla riforma dell'emittenza di Stato. Ecco allora l'idea di Faenza e compagni: dimostrare che il decentramento dell'informazione, la possibilità per tutti di essere ammessi a parlare alla radio, è realizzabile e costa poco. Molto poco. Il materiale da mandare in onda si procura così: studenti e impiegati girano per i quartieri o nei luoghi di lavoro con il registratore in mano, raccogliendo le opinioni della gente su problemi di interesse maggioritario. Dunque sono i protagonisti delle situazioni e delle problematiche, sforniti di mediazioni o filtri, a poter parlare per la prima volta con spontaneità, con ruvide "esse" bolognesi che sibilano nel microfono. La formula aperta, la possibilità di fare informazione in prima persona, coinvolge gli ascoltatori che rispondono con decine di telefonate alla radio. O meglio, al numero del contadino che abita vicino alla roulotte. Stipati all'interno, magari facendo confusione con i nastri durante la diretta, e vigilando per sette giorni fino al fatidico 30 novembre legislativo, la piccola radio continua a diffondere. Le proposte da RADIO BOLOGNA, con servizi registrati da vari parti d'Italia, sono varie. Si capta un po' di tutto: la voce tonante di Marco Pannella, impegnato in una delle sue roventi invettive sulla necessità di democratizzare l'informazione; un dibattito sul traffico cittadino dal quartiere San Ruffillo; le lamentele in diretta di un tassista bolognese sulle corsie preferenziali intasate dagli abusivi; un reportage sulle ripercussioni della congiuntura economica sulla vita delle famiglie e nelle fabbriche della città. Non solo comizi e quartieri, ma anche musica selezionata: jazz e classica. Partecipano ospiti prestigiosi come Livio Zanetti, direttore de "L'Espresso", mentre il sindaco Zangheri è disponibile a mandare in onda i suoi interventi. Insomma, l'accoglienza è buona, non solo a Bologna. Vicino, dentro una jeep anonima con un'antenna di cinque metri sul tetto, due sconosciuti registrano tutto. È il "grande orecchio" della RAI? Faenza avrebbe spiegato questo tacito consenso. Le loro trasmissioni erano seguite a distanza dall'Escopost e sarebbero state riversate sui canali di servizio dell'ente pubblico. Giulio Andreotti ammetterà l'importanza dell'esperimento della roulotte. E Bernabei, il direttore, organizzava a Roma un gruppo di ascolto e un meeting sul fenomeno bolognese. Pare che ripetesse: «Ma chi sono questi?». Se RADIO LIBERA in Sicilia era ancora l'«archeologia di un mito», questa è l' incipit dell'epopea e della sua manifestazione concreta e continuativa. Nata come dimostrazione, RADIO BOLOGNA diviene rapidamente l'anello di una lunga catena di emittenti "pirata" in tutto il Paese, che faranno dell'Italia un caso unico. | << | < | > | >> |Pagina 64Cento Fiori radiofoniciL'epopea è appena iniziata. Gli studi sull'industria culturale italiana fanno iniziare nel 1975 la cosiddetta stagione dei "cento fiori".
«Una vasta schiera di militanti politici, giovani ideologi, scatenati disk
jockey e loro ascoltatori sull'onda del 1968 e dei leninistici furori della
controinformazione, vedono nell'emittenza radiofonica uno strumento per fare
politica, musica, intrattenimento e quindi (...) partecipare e far partecipare.
Nasce così la stagione dei "cento fiori" radiofonici, in cui molte emittenti
locali, dialettali, politiche, culturali, emarginate, riescono ad avere una loro
voce in una delle tante emittenti private».
L'espressione, ripresa dagli studiosi e convenzionalmente attribuita al periodo storico, è importata dalla Cina di Mao e in tutt'altro contesto di liberalizzazione. La terminologia individua le molteplici coloriture, non solo ideologiche ma anche relative alla programmazione e agli stili produttivi e trasmissivi, delle nuove radio libere. È Vittorino Colombo, ministro delle Poste e fautore del pluralismo nell'etere, a scomodare il motto maoista poco dopo lo sbocciare, dichiarando «dovrebbero nascere cento fiori». Gli elementi da considerare in questa fase sono multiformi. Fondare un'emittente è trasgressivo. Non vi sono leggi né regolamenti, le conoscenze tecniche sono spesso improvvisate. La radio conquista una grande carica simbolica. Si mette in discussione il modo di "fare radio" con la teoria e soprattutto la pratica. L'emittente campione nasce come anti-RAI. Si vogliono cooptare nella comunicazione radiofonica locale le minoranze, gli argomenti discriminati dall'ente di Stato e la voglia di musica. Nelle radio libere il "fai da te" è imperante. Si va avanti con volontari, familiari, gruppi di amici, formazioni politiche, associazioni che provano a gestire abitazioni-studi semplici, senza modelli organizzativi. Sulle pareti, a smorzare rumori e riverberi, imballaggi delle uova quando non si trova dove e come comprare e disporre i pannelli fonoassorbenti. I diversi ruoli professionali distinti che funzionavano da anni in RAI, nelle piccole private sono confusi e talvolta inesistenti. Poche persone riassumono in loro le figure del regista, dello speaker, del centralinista, del tecnico, del programmatore musicale, del pubblicitario e così via. Il modello per la regia è quello del bancone con tutto l'occorrente vicino, come la consolle del disc jockey in discoteca. Il necessario di base della radio libera è un mixer, collegato con due piatti, con un microfono e con una piastra a cassette poiché il registratore a bobine è già alta tecnologia, così come il compressore, per livellare la dinamica e dare più risalto alla voce. In aggiunta si usa un sintonizzatore o una radio per risentire il proprio segnale in uscita. L'apparato tecnico trasmittente di partenza è un amplificatore, un trasmettitore, un'antenna. In questi primissimi anni, la radio privata nasce con investimenti alla portata e spese di gestione modeste, ma intensa passione nei pionieri protagonisti. Una piccola stazione completa costa di impianti (in norme internazionali del comitato Ccir) minimo 10 milioni di lire, con una gestione mensile allegata tra 1 e 5 milioni. In molti sono riusciti ad abbassare l'indicativo "minimo" e ad aprire radio con un investimento minore. Per non pronunciarsi sui costi di mantenimento mensili, ai quali hanno contribuito sostegni, finanziamenti e sottoscrizioni di ogni sorta, volontariato, scambi di favori, autocostruzioni, dischi da casa, registrazioni e ritrasmissione varie. Di aneddoti ve ne sarebbero in gran quantità... Dal punto di vista dei contenuti, i testi non sono scritti, ma inventati al momento e senza autori. Ognuno è autore di se stesso. I toni non sono ufficiali e seriosi, come in RAI, ma eterodossi, politicizzati, pomposi, allegri, confidenziali, ingenui. In una parola: diversi. Le private si distinguono subito come radio di musica (in genere leggera) e usano grandemente la diretta. Anche sotto questo aspetto trasmettono molta leggerezza e contaminazione. Con dei programmi, la non-stop-music o senza schemi e con un flusso continuo di suoni e chiacchiere più o meno improvvisate travolgono chi si mette all'ascolto. La musica, italiana e internazionale, consente di sperimentare in libertà, più per le logiche delle persone che per conformità delle radio. Soprattutto in questo inizio di epopea, le canzoni si legano agli individui che le propongono dallo studio ancor più che alle radio che li ospitano. L'emittente ha un suono incoerente, non è ancora un attore con una linea musicale, ma una somma esibita di gusti musicali dei suoi addetti. Il marchio musicale verrà fuori poco dopo. Ora le antenne libere fondano la loro identità su numerosi generi diversi che le caratterizzano, rendendole soprattutto differenti dalle radio di Stato. Mettono in onda specialmente canzoni anglosassoni in prevalenza statunitense, ma alcune fanno scelte nettamente "etniche", con musica napoletana, romanesca o liscio. Le voci più politiche e meno alla moda vanno alla scoperta totale della musica, giocando a tutto campo tra generi, epoche e posti del mondo, ricercando suoni off. | << | < | > | >> |Pagina 74Libere in cittàRADIO POPOLARE, CONTRORADIO, RADIO RADICALE, RADIO CITTÀ FUTURA a Roma, TORINO CITTÀ FUTURA, RADIO ALICE sono alcune delle storie che meritano approfondimento. A Milano, alla vigilia di Natale del '75, viene registrata al tribunale la testata RADIO POPOLARE. La sede è in via Pisanello. Il progetto è scandito in un manifesto inviato a tutti i soggetti ritenuti come possibili interlocutori: partiti politici, sindacati, gruppi extraparlamentari. Tutti sono invitati a entrare nella nuova proposta radiofonica, ciascuno contando per uno. Alcuni accettano, altri, come il Pci, no. All'inizio il gruppo fondatore viene da una parte assecondato, dall'altra osteggiato. Ricorda come testimone diretto il giornalista Piero Scaramucci: «in quel momento ci trovammo contro non soltanto l'establishment conservatore, non soltanto la destra, non soltanto la Dc, ma anche settori della sinistra. Alcuni perché dicevano che noi rompevamo il monopolio, altri perché dicevano che eravamo una radio in un certo senso di sinistra qualunquista. Perché contavano invece sulla formula "una radio di partito", "una radio di linea", "una radio altoparlante". Un'idea vecchia perché era ancora di nuovo ripetuta in altra salsa la chiave della radio autoritaria, unidirezionale». Ci vorrà qualche anno per smorzare le critiche e ottenere riconoscimenti. RADIO POPOLARE sul nascere vuole far parlare le masse attraverso il suo microfono. Il suo intento non è cercare una soluzione definitiva, ma aprire un dialogo continuo. In questo senso, superare il monopolio deriva dalla volontà di rompere un tabù per entrare in contatto con la gente. Così, a Milano appaiono i manifesti con su scritto «RADIO POPOLARE, una radio da usare». Argomenta Scaramucci che nel pensiero dei promotori gli interlocutori della nuova emittente:
«non avrebbero dovuto essere i militanti di questo o quel gruppo, questo o
quel sindacato, questo o quel partito, ma gli strati sociali a cui questi
soggetti politici facevano riferimento. E quindi nacque un progetto di una radio
"popolare", da qui il nome perché non si trovò niente di più brillante allora.
Una radio che nasceva sicuramente dalla cultura della sinistra, si faceva carico
dell'esperienza storica della sinistra, ma non era inchiodata alla targa di
un partito, di una sigla, di un'identità settoriale. Anzi, una radio che
assumeva le varie posizioni che si manifestavano nella sinistra, gruppi, partiti
o sindacati che fossero, li assumeva come elementi dialettici, all'interno di un
grosso strumento per affrontare i problemi della società».
Mentre CANALE 96 prosegue da sola, RADIO MILANO CENTRALE è a una svolta. Il 1° giugno del 1976 passa il testimone e si ferma virtualmente. Marchio, frequenze e risorse si fondono sotto il nome di RADIO POPOLARE, dando vita ad una lunga storia che prosegue tuttora. Nell'operazione di accorpamento sono coinvolti movimenti sindacali e politici, specie della sinistra extraparlamentare: Fim-Cisl, Fiom, Uilm, Avanguardia operaia, Acli, Lotta continua, Movimento lavoratori per il socialismo, poi Pdup e altri. CONTRORADIO nasce, per così dire, in due tempi. Spenta nel 1975, risorge poco dopo, quando c'è un'assemblea in via dei Calzaioli, in pieno centro di Firenze, all'interno di una casa occupata. Si costituisce una cooperativa con Pio Baldelli direttore e Claudio Popovic editore. Le trasmissioni riprendono il 31 marzo 1976, per diffondere quella che è e rimarrà CONTRORADIO. L'emittente, animata da un nutrito gruppo di ragazzi, è prevalentemente parlata e diretta alla giovane generazione e all'ambiente cittadino. La nascita è insieme popolare e di nicchia. Intercetta un pubblico più vasto di quello che si poteva immaginare. Laddove nascono moltissime radio locali, soprattutto nella provincia di Firenze (Scandicci, Bagno a Ripoli e non solo), CONTRORADIO si distingue dalle stazioni commerciali per un'attenzione particolare alla scelta della musica e dei palinsesti. Trova una sua originalità coniugando alla dimensione locale la proposizione di temi diversi e di linguaggi d'avanguardia. Nelle dirette aperte interloquiscono giovani, ma anche personaggi insospettabili, professori, casalinghe, operai, i quali si imbattono in una comunicazione nuova e imprevedibile. Così, secondo il pensiero di Baldelli espresso in un libro sulla comunicazione, le mille voci locali e di controinformazione si devono contrapporre alla voce romana e nazionale della RAI. Qui va aperta una riflessione sulla questione e sui meriti di quest'uomo. Le radio libere in Italia nascono, nell'anarchia dell'etere, senza un direttore responsabile. In pratica, nel Paese dove persino per editare un bollettino parrocchiale è necessario avere un responsabile, una radio poteva permettersi di diffamare qualcuno senza risponderne, senza trovare una soluzione all'attribuzione delle responsabilità. Una condizione assurda, ma reale, che si protrae negli anni. Il 3 giugno '77, a chiusura di un processo a carico del responsabile di RADIO SICILIA SUD a Pachino, il verdetto del tribunale di Siracusa è che le radio private non incorrono nel reato di diffamazione a mezzo stampa nella relativa aggravante prevista dal Codice penale allorché offendono un privato cittadino. Le prime poche emittenti informative che vogliono essere professionali si pongono subito il problema. Pio Baldelli, saggista, giornalista pubblicista, aveva dato la sua disponibilità per comparire formalmente come direttore responsabile del quotidiano "Lotta Continua". Nonostante gli ingombri di questo ruolo, egli si presta per svolgere la stessa mansione per CONTRORADIO. Non solo, lo sarà presto anche per altre radio libere, che hanno bisogno di un direttore giornalista per poter esercitare un'attività informativa. A Roma RADIO RADICALE, nella storica sede, inizia a trasmettere il 3 marzo 1976. In verità, il progetto di una società per un'emittente radio che potesse annunciare la cultura radicale era intenzione di un gruppo di militanti iscritti o vicini al Partito radicale già prima dell'avvio del segnale dalla palazzina di via di Villa Pamphili. L'idea di una radio libera per i radicali è descrivibile come quella di «emittente di informazione e accesso di gruppi e di singoli, sul presupposto di garantire, attraverso un mezzo di comunicazione di massa, una risonanza adeguata a iniziative di ampio respiro politico e civile». RADIO RADICALE si caratterizza per una sua incomparabile funzione di servizio e per la diretta, sempre e comunque. Uno strumento informativo per i cittadini che possono e che vogliono partecipare in onda a vicende e dibattiti esclusivi, trasmessi dagli studi (attualità, iniziative e temi sociali e politici tra i più disparati) e dalle altre sedi di snodo istituzionale. Vuole, insomma, «estendere al maggior numero possibile di cittadini-utenti quel diritto all'informazione che, della libera partecipazione democratica è l'ingrediente indispensabile». | << | < | > | >> |Pagina 87CAPITOLO 3
RADIO BOOM
La sentenza della svolta La realtà italiana dice che ormai "radio", così come "televisione", non vuol dire solo "RAI", sebbene ciò non venga affermato da nessun testo legislativo. Dagli anni Sessanta a livello normativo il regime monopolistico rimane sostanzialmente immutato, laddove una rilevanza l'assume la giurisprudenza della Corte costituzionale con decisioni che condizioneranno la produzione legislativa in materia, talvolta anzi sollecitandola apertamente. La ripetizione di programmi esteri e la diffusione locale via cavo, mortificata in impianti monocanale, sono lecite, ma non significative, in quanto la partita – tutta da giocare – riguardava l'etere. È l'etere il mezzo per liberare i segnali italiani delle radio italiane libere. Lo spazio radioelettrico del cielo, l'etere appunto, è un limitato bene demaniale, pianificato da accordi internazionali, ma non così indisponibile come la legge aveva fatto credere. Dopo l'avvento di radio e Tv via cavo e di una tecnologia come la Fm, che permette tranquillamente la convivenza di più canali, la Corte costituzionale non se la sente di difendere il monopolio, perché non è più proponibile la giustificazione della limitatezza delle frequenze. A questo punto la realtà delle radio attive nel Paese è più che evidente. Alla porta della Corte bussano i pretori di Ragusa, Livorno, Castelfranco Veneto, Lecco, Biella, Novara, San Miniato, Ancona e il giudice istruttore del tribunale di Reggio Emilia e quello di Genova. Nella risposta si mette in previsione la fine del mercato monopolistico e l'apertura su sfera locale. S'erano affermate varie istanze: fondatezza costituzionale del monopolio pubblico, ricorsi pretorili, azioni legali dell'avvocatura generale dello Stato e della RAI, spinte della società e degli interessi privati. Sulla base di tali vari elementi, più o meno decisivi, c'è la svolta. La Corte costituzionale il 28 luglio 1976 deposita la sentenza 2023, con la quale si dichiara l'illegittimità di alcuni articoli della legge 103 del 1975 che non consentono istallazione ed esercizio di impianti di diffusione radio non eccedente l'ambito locale. Negare la disponibilità alla libertà di iniziativa privata (articolo 41 della Costituzione italiana) equivale a violare i principi di uguaglianza (art. 3) e di libera manifestazione del pensiero (art. 21). Alla RAI il monopolio resta limitato alle trasmissioni nazionali. La sentenza è un caposaldo storico e indispensabile del diritto, poiché riconosce la cosiddetta "libertà di antenna", attraverso i principi del pluralismo, della economicità di gestione e della preminenza del servizio pubblico e segna la nascita "semiufficiale" delle stazioni radiofoniche — e televisive — private via etere, un sistema, obiettivamente, esistente da tempo. Infatti, la Corte stima quasi 400 radio (a luglio è più plausibile fossero 600) e fornisce anche criteri utili e basilari alla loro regolamentazione. Tocca al Parlamento, dice la Corte, legiferare sulle condizioni per il rilascio delle autorizzazioni per l'esercizio del diritto di iniziativa privata, sulle modalità di assegnazione delle frequenze, sulla definizione di limiti temporali alle trasmissioni pubblicitarie e all'ambito locale (con parametri geografici, socio-economici e civici) per evitare forme di concentrazione oligopolistiche. La legge non arriverà. Per anni e anni le radio si proporranno da sole, in un quadro sregolato privo di coerenza e rigore, percorrendo una selezione darwinista. Al di là della portata rilevantissima della sentenza, si ripete una leziosa quanto innaturale procedura, già avviata con la vicenda della legge 103 del '75, in cui la Corte interviene e modifica le leggi, il Parlamento le aggiorna, quando e come vuole per riparare alla situazione di fatto. Il risultato ha l'effetto di una fiacca altalena che tornerà a dondolare, senza stabilità. Il ping-pong tra i poteri repubblicani non diverte nessuno e gioca un ruolo determinante nello svolgersi di questa storia italiana, in cui le radio assistono da spettatori passivi alle partite, provocando una reiterata incertezza legislativa per tutto il settore. Per colmare la falla normativa aperta dalla sentenza, qualcuno ipotizza l'adozione di un regime: autorizzatorio, concessorio o nell'ambito del "diritto di accesso".
In ogni modo, si commenta che «la campagna per la "libertà di antenna" ha
vinto perché ha saputo organizzare uno schieramento composito (...) al di là
delle diverse motivazioni». L'esultanza delle radio d'evasione è alta e la
paura dei sigilli lascia il passo alle speranze di aprirsi nuovi spazi
pubblicitari e commerciali. Anche le voci locali scorgono ora il pretesto
libertario, un appiglio da afferrare. Mentre non mancano commenti negativi o
dubbiosi sulla liberalizzazione del settore subordinata a
una normativa statale ancora ignota. Sono scontenti i vertici di viale Mazzini e
qualche radio di area democratica, quasi a esprimere «un pernicioso atteggiamento
di privilegio dovuto alla situazione di fatto». Quale futuro per la RAI? «Fra
poco — afferma con tono profetico Finocchiaro — avremo la guerra delle onde».
Per l'azienda di Stato, che aveva in mente di costituire una quarta rete oppure
di creare tante radio locali di cui avrebbe concesso l'uso a enti locali e
sindacati, si apre una stagione di ripiego e di scelte difensive, le cui
conseguenze generano nella radio un cosiddetto "complesso d'inferiorità", perché
da qui in poi la televisione assorbe «non solo una mole crescente di risorse
umane, finanziarie e tecniche, ma il 100% della capacità strategica
dell'azienda».
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