Copertina
Autore Fabrizio Denunzio
Titolo Pieghe del tempo
SottotitoloI film di guerra e di fantascienza da Philip K. Dick a «Matrix»
EdizioneEditori Riuniti, Roma, 2002, King Kong , pag. 160, dim. 140x210x11 mm , Isbn 978-88-359-5200-8
LettoreCorrado Leonardo, 2002
Classe cinema , fantascienza , critica letteraria , semiotica
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Indice

  7 Introduzione

    Pieghe del tempo


 19 I. Philip K. Dick: archeologia del tempo

    l. Dick e la fantascienza: teoria di un
       genere letterario, p. 19
    2. Dick e il tempo: archeologia di una
       società di massa, p. 35
    3. Dick e la guerra: analitica del male,
       p. 46.

 65 II. Il war-movie: guerre del tempo

    L'immagine-originativa, p. 65
    L'immagine-agonale, p. 78
    L'immagine-intrattabile, p. 88
    L'immagine-simbolica, p. 94
    L'immagine-residuale, p. 99.

109 III. La fantascienza: curve del tempo

    Un inizio fuori testo, p. 109
    Territori, p. 113
    Visione, p. 122
    Paradosso, p. 128
    Memoria, p. 131
    Matrice, p. 135
    Per non concludere: corpo, p. 139.

143 Bibliografia
151 Indice dei film citati
 

 

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Pagina 7

Introduzione


1. Questo libro parla di tempo, di letteratura e di film di fantascienza, di film di guerra. Esso discute anche di filosofia, di immaginario e di cultura di massa, di semiotica e, perché no?, di politica, quella che riguarda i nodi fra la nostra vita e l'ambiente dei segni - in particolare quelli audiovisivi del cinema - che danno respiro e senso al nostro tempo.

Il principale intento perseguito nel volume è penetrare nel mare magnum del cinema dei generi con una prospettiva da studioso dei media, da appassionato, ma anche con quella dell'indagatore delle forme di pensiero da esso poste in opera. I tre saggi dedicati alla fantascienza di Philip K. Dick, al film di guerra e ai film di fantascienza - specialmente quella spettacolare e tecnologica da Star Wars in poi - seguono percorsi d'indagine soltanto apparentemente autonomi; in realtà aprono piste che in vari punti s'incrociano: il tema della complessità del cinema, del rapporto creativo e combinato fra i media, e la nozione di un tempo - anzi di tempi molteplici - che, nei film e nella letteratura di genere (iniziando da quella verticalmente filosofica di Philip K. Dick), trova la possibilità di esprimersi con soluzioni originali.

Uno degli scopi della nostra ricerca è sottolineare come il tempo nel cinema non abbia solo cadenze ritmiche, musicali, di nessi del movimento, ma che esso va colto nella sua poliedrica volumetria, a strati, nel suo insinuarsi in universi ben poco prevedibili - fra visioni, dialoghi, posizioni dei personaggi, ecc. Se si riesce a cogliere questa densa stratificazione di modi d'essere del tempo nel cinema, quest'ultimo potrà palesarsi come una rete di tempi ricamata fra spazi, sguardi, energie emotive, identità e differenze. Il concetto di piega è una semplice approssimazione, utile, icastica e semplice da afferrare, tramite cui intendere come il medium filmico sia in grado - a oltre un secolo dalla sua nascita - di produrre fenomeni dell'innovazione. Soltanto che questa, troppo spesso confusa e identificata nelle sue modalità tecnologiche, in realtà consiste in procedure fondamentalmente conoscitive. Si tratta cioè di innovazioni del sapere, di forme e di idee che combinano sensibilità e progettualità nuove. Quasi sempre dagli apologeti e ideologi dell'età contemporanea, cinema e film di generi vengono bollati come dispositivo di seduzione strumentale e di falsificazione della realtà; noi sosteniamo invece - tentando di dimostrarlo nel corso dei tre saggi del libro - che, viceversa, nella profondità della scorza spettacolare del cinema, ibridato con le tecnologie digitali e con i mille rivoli della cultura di massa, si cementano figurazioni e immaginazioni in grado di interpretare il mondo senza soluzioni preconcette, senza formule ideologiche, senza astratti viatici.

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Pagina 19

I. Philip K. Dick: archeologia del tempo


1. Dick e la fantascienza: teoria di un genere letterario

Entrare nell'opera di Philip K. Dick significa essere risucchiati dai labirinti della Klug Enterprises di The Zap Gun (Il sognatore d'armi, 1967) di fronte ai quali da semplici spettatori ci si trasforma immediatamente, per empatia, in protagonisti; significa farsi una dose di Sostanza M o di Chew-Z e condividere l'alterazione di coscienza di tanti suoi personaggi drogati; significa incontrare le ossessioni di Dick sulla natura della realtà, i presenti alternativi e gli universi paralleli; significa interpretare quelle figure simboliche come i simulacri di cui egli non aveva alcun rispetto; significa affrontare una lettura onirica della Critica dell'economia politica di Marx fatta a una nazione, l'America, che per bocca del grossista Ed von Scharf di In Milton Lumky Territory (In terra ostile, 1987) rinfaccia senza sosta ai suoi figli di non avere mai «abbastanza capitale» per realizzare sogni di felicità domestica e successo negli affari.

Per entrare nell'opera di Dick bisogna, al pari di quanto avviene in The Game-Players of Titan (I giocatori di Titano, 1963), scoprirsi telepati, sviluppare capacità psioniche di autodislocazione spazio-temporale, diventare stregoni per esaminare quella strana «zona inerte», la sua opera, fatta di «pulsioni ambivalenti e di desideri, ansie, dubbi nebulosi e abortiti intrecciati con idee regressive e moti della libido di natura fantastica». Allo stesso tempo, è anche necessario evitare le trappole astutamente collocate da Dick all'interno dei suoi percorsi di scrittura al fine di deviare, ritardare, rendere nulla ogni specie di lettura che tenti una qualsivoglia «cattura» del suo senso.

Pensiamo a ciò che avviene con «La trilogia di Valis», vero e proprio calderone in cui si condensano e ricuociono nefandezze e perversioni infantili regresse (rapporto con il Nome-di-Dio-Padre), traumi biografici e generazionali vissuti dallo scrittore a partire dagli anni '60 in poi (esperienza della droga, la visione della «luce rosa»). Con la «Trilogia» Dick, negli ultimi suoi romanzi, si impegna a riscrivere con uno sforzo colossale le coordinate narrative della sua opera, tanto da rendersi irriconoscibile al lettore. Molti gli elementi di questa riscrittura: in Valis (id., 1981) lo sdoppiamento psicotico della voce narrante; le teorie sulla natura informazionale dell'universo raccolte nel delirante Tractatus: Criptica scriptura di cui è autore Horselover Fat, il doppio di Dick; l'annuncio di un nuovo messia dalla forma femminile, il Cristo bambina Sophia Lampton; e, in The Divine Invasion (Divina invasione, 1981) la lotta degli ultimi giorni tra il principio del bene Emmanuel/Cristo e quello del male Zina/Belial e la loro riconciliazione finale. Questi romanzi sono un'anomalia selvaggia rispetto a quanto Dick aveva scritto in precedenza. Non solo. Al lettore ormai disorientato (dire sconvolto sarebbe piú giusto) dai primi due volumi della «Trilogia», Dick non risparmia, con il terzo, un ulteriore scuotimento: The Transmigration of Timothy Archer (La trasmigrazione di Timothy Archer, 1981) è narrazione secca e pacata in prima persona femminile delle vicende del vescovo Archer in cui, nonostante ci sia del materiale di pura trascendenza ultramondana - i «documenti zadochiti» - Dick non lascia spazio alcuno a sbavature cosmogoniche o ad allucinazioni mistiche. Esso è un vero e proprio miracolo di creazione letteraria, un'impossibilità realizzatasi a dispetto di tutto ciò che si veniva progettando e annunciando con i primi due volumi, Valis e Divine Invasion, della «Trilogia».

Quindi, cadere, fallire, essere fagocitato e poi rigettato senza pietà dall'opera di uno scrittore amato, è un rischio a cui ogni lettore di Dick si espone, ed è solo grazie a questo rischio mortale che l'incontro con l'opera può avvenire. Dobbiamo partire dal presupposto che l'opera resista, ma per quante resistenze essa opponga, lascerà sempre aperta una strada per accedervi. E, nel caso di Dick, questa strada è la fantascienza (SF).

Spesso sull'adesione formale di Dick al genere letterario fantascientifico sono state condotte operazioni teoriche tese a dissolverne ogni appartenenza. Come se, per accettarne la grandezza e le genialità, fosse necessario «rifargli la verginità», dargli altri natali, possibilmente piú illustri, come se occorresse salvaguardarne una purezza e un'integrità di pensiero seriamente compromesse da un tipo di scrittura seriale fortemente codificato, massificato, mercificato. Come dire, se Dick è un grande scrittore, lo può essere solo a patto di sottrarlo al genere: riconoscere Dick «autore» solo ridimensionandone la popolarità, solo vedendo in essa un mero accidente.

È vero che il retroterra culturale di Dick è estremamente variegato, raffinato, colto, composto «dall' Anabasi all' Ulisse», finanche enciclopedico (la quantità di documenti storico-filosofici studiati per scrivere la «Trilogia»), ma è ancor piú vero che la SF rimane il suo dominio principale. Dick ha la «consapevolezza di trovarsi in questo campo per scelta, per propria scelta», decide liberamente di occupare e abitare questo campo con una fermezza tale da farne il suo territorio, ciò che di piú proprio gli appartiene e a cui non può rinunciare: «non ho intenzione di mollare. Ci vuole ben altro perché io rinunci a scrivere storie di fantascienza».

Visto che la SF «è il genere narrativo piú vasto e consente l'uso delle idee piú potenti e avanzate a disposizione», e dato che permette lo «studio dell'uomo nel contesto di società di tipo e complessità variabili», essa diventa per Dick la monade-medium dominante, la monade con cui percepisce in modo chiaro e distinto il mondo che lo circonda, attorno alla quale si vanno a organizzare tutti gli altri saperi: «nessuna idea può essere esclusa dalla SF».

Quindi, per noi, se Dick è un grande scrittore lo è innanzitutto perché grande scrittore di SF.

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Pagina 109

III. La fantascienza: curve del tempo


Un inizio fuori testo

1. Questo saggio sulla fantascienza (da ora in poi SF, science fiction) nasce dalla visione di un film che con la SF non ha nulla a che fare, e dalla lettura di un autore che, invece, con la SF ha molto da spartire.

L'incipit del fihn Snake Eyes (Omicidio in diretta, 1998, di Brian De Palma) è fortemente legato alla narrativa di James Ellroy: un poliziotto corrotto, il mondo della boxe... insomma non siamo lontani da White Jazz, il romanzo con cui Ellroy chiude la sua quadrilogia (The Black Dalia, Dalia nera, 1987; The Big Nowhere, Il grande nulla, 1988; L.A. Confidential, id., 1990; White Jazz, id., 1992) su Los Angeles. A colpire dell'ouverture è il procedimento formale, un lunghissimo piano-sequenza di circa dieci minuti che richiama, per il cinema classico, quello di Touch of Evil (L'infernale Quinlan, 1958, di Orson Welles) e, per il cinema moderno, quello di Professione: reporter (1974, di Michelangelo Antonioni).

Piano-sequenza, quello di De Palma, volto piú all'esplorazione del tempo in cui si muove e si definisce il personaggio che non alla costruzione dello spazio, cosi come avveniva in Carlito's Way (id., 1993). Questo è il passaggio tra i due capolavori di De Palma: dal disegno dello spazio alla scaturigine del tempo.

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Pagina 113

Territori

1. Fin dal suo apparire l'opera di Frank Herbert Dune (id., 1965) presenta una forza e un'originalità uniche nel panorama della SF degli anni '60. La letteratura di SF di quel periodo si lasciava alle spalle il suo momento sociologico, che aveva visto nelle riviste F & SF e Galaxy, dirette rispettivamente da Anthony Boucher e da Horace Gold, il luogo di elaborazione di una forte critica dell'esistente, ossia, di quelle componenti della realtà sociale totalmente reificate: il lavoro (in rapporto alle macchine), le relazioni tra gli uomini (in riferimento al razzismo), la vivibilità (in corrispondenza agli agglomerati urbani e alla sovrappopolazione), il comportamento (condizionabile dalla pubblicità). Space Merchants (I mercanti dello spazio) di Frederick Pohl e Cyril Kombluth del 1953 resta un testo esemplare al riguardo.

La SF degli anni '60, fedele al progetto elaborato da Ballard in Qual è la strada per lo spazio interiore del 1962, in cui si dice che «è lo spazio interiore e non quello esterno a dover essere esplorato», sposta conseguentemente la sua attenzione dalla realtà esterna a quella interiore:

- della mente, per il Roger Zelazny di The Dream Master (Il signore dei sogni, 1965): «lui era Render, il Plasmatore, uno dei circa duecento analisti speciali dotati di una psiche capace di esaminare dall'interno i vari tipi di nevrosi»;

- della lingua, per il Samuel Delany di Babel 17 (id., 1966): «la lingua stessa è pensiero. Il pensiero costituisce l'informazione e la forma che essa si sceglie... La fonna concretizza una lingua»;

- del corpo, per il Thomas Disch di Camp Concentration (Campo Archimede, 1967): «Sto molto peggio. Ho fitte lancinanti ai fianchi e alle articolazioni... Il mio naso e la mia bocca sanguinano. I miei occhi mi fanno male... Inoltre sto diventando calvo»;

- dello studio televisivo, per il Norman Spinrad del grandioso Bug Jack Barron (Jack Barron e l'eternità, 1969): «l'interno dello studio... C'era una creatura che portava il suo nome, ci viveva dentro, e guardava fuori attraverso occhi-monitor, ascoltando con orecchie-videofoni, controllava le sue condizioni interne grazie ai sensi sintetici della consolle».

Non che la critica sociale passi in secondo piano, semplicemente la new wave la persegue con altri mezzi: cosa diventa l'esistenza quando una mente può essere manipolata con pratiche psicanalitiche, quando il potere passa attraverso la conoscenza di una grammatica, quando un corpo rischia la reclusione in un campo di concentramento, quando da uno studio tv è possibile influenzare un'intera popolazione?

Di fronte a tutto ciò Herbert dichiara la sua non appartenenza, la sua totale estraneità. Ma lo fa non solo in relazione con ciò che gli è contemporaneo (new wave) o immediatamente precedente (SF sociologica), ma anche con quelle opere che, svincolatesi dal genere e da ogni legame con la propria contingenza storica, risplendono nella costellazione dei classici: la Trilogia galattica di Isaac Asimov composta da Foundation (Cronache della galassia, 1951), Foundation and Empire (Il crollo della galassia centrale, 1952), Second Foundation (L'altra faccia della spirale, 1953).

Con la sua opera, Dune, Herbert chiama in causa Asimov esclusivamente per segnarne le distanze, marcarne le diversità, rivendicare la propria ricchezza, e non per celebrare similitudini o somiglianze. L'opera di Asimov si costituisce e sviluppa attorno a un unico concetto, quello di psicostoriografia, cioè «la quintessenza della sociologia... la scienza del comportamento umano ridotto a equazioni matematiche». La psicostoriografia

studia le reazioni, non dell'uomo come singolo individuo, ma come massa di milioni di esseri umani. Per mezzo di queste scienze si potranno prevedere le reazioni delle masse a determinati stimoli con una precisione assoluta.

In Asimov non ci sono eroi, solo movimenti economici e sociali con cui si narra la Storia dell'Impero, delle Fondazioni (bellissime al suo interno le storie relative all'era dei mercanti), del terribile e potente mutante dai grandi poteri mentali, il Mule.

Herbert capisce che la sua SF non ha bisogno di concetti, ma di un'entità soggettiva, di un'emozione, un affetto, l'onore (sulla cui poetica è tornato Jim Jannusch con Ghost Dog - The Way of Samurai, Ghost Dog - Il codice del samurai, 1999) che diventi cuore della narrazione: «Mio figlio ha la sincerità degli Atreides... Ha quel tremendo e quasi ingenuo senso dell'onore... in verità, una formidabile forza».

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