Autore Paul Dietschy
CoautoreStefano Pivato
Titolo Storia dello sport in Italia
Edizioneil Mulino, Bologna, 2019, Le vie della civiltà , pag. 280, cop.fle., dim. 13,5x21,2x1,7 cm , Isbn 978-88-15-28373-3
LettoreDavide Allodi, 2019
Classe sport , salute , storia sociale , paesi: Italia , storia contemporanea d'Italia












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


Introduzione                                               7


I.  Un'altra culla dello sport?                           11

    1. Il problema della definizione                      11
    2. Dalla tradizione antica al rinascimento del corpo  17
    3. Tra passione e violenza                            21
    4. Circolazioni sportive                              25


II. Il corpo della nazione                                33

    1. Il pallone prima del calcio                        33
    2. Ginnastica e Risorgimento                          42
    3. E dall'Inghilterra arriva lo sport                 47
    4. La Belle Époque                                    61
    5. Abbasso lo sport                                   65
    6. Futuristi                                          70


III. Un ventennio sportivo                                79

    1. Sport e fascismo: affinità elettive?               79
    2. La fascistizzazione dello sport                    85
    3. I1 mito dell'uomo nuovo                            89
    4. La fabbrica del consenso                           95
    5. Quale totalitarismo sportivo?                     100
    6. Dagli «imboscati» ai partigiani                   105


IV. Il sorpasso                                          123

    1. La Ricostruzione                                  123
    2. Coppi e Bartali                                   125
    3. Eroi                                              129
    4. Il calcio sorpassa il ciclismo                    134
    5. La politica nel pallone                           139
    6. Le Olimpiadi di Roma                              148
    7. Radio e televisione                               152


V.  Anni di piombo e d'oro                               165

    1. Il Sessantotto dello Sport                        165
    2. Cambia lo sport cambia l'informazione             177
    3. Edonismo sportivo                                 181
    4. Campioni del mondo                                189
    5. L'importante è vincere                            196
    6. La colonna sonora del tifo                        203


VI. Nell'età della globalizzazione                       211

    1. Dopo Don Camillo e Peppone                        211
    2. La sfida europea e mondiale                       222
    3. Globalizzazione a due e quattro ruote             235
    4. Brutti, sporchi e cattivi                         247
    5. Un popolo sportivo?                               257


Indice dei nomi                                          269


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

Introduzione


In questi ultimi anni gli studi sulla storia dello sport si sono moltiplicati. L'universalità e il radicamento del fenomeno nella nostra esistenza collettiva hanno determinato l'abbandono della sufficienza con la quale in passato, soprattutto negli ambienti accademici, lo sport veniva considerato. Questo spiega il perché di questo libro che prende le mosse dalla seconda metà dell'Ottocento, allorché ginnastica e sport hanno costituito due dei principali luoghi della costruzione della nazione. In un paese appena giunto all'unificazione l'educazione fisica mira a curare il corpo dell'Italia malata e a riscoprire un passato che evoca l'antica Roma e il Rinascimento, periodi nei quali la penisola italiana è stata un campo di sperimentazione di pratiche la cui eredità è identificabile nell'estetica del corpo o nella scherma. Nell'Ottocento la patria si difende con l'esercito, ma anche con la preparazione atletica: corpo e nazione per l'appunto.

Alla fine dell'Ottocento si incontrano e si scontrano due modelli: lo sport dell'Inghilterra vittoriana e la ginnastica di ispirazione nazionalista. In questo contesto l'emergere di una cultura industriale e la reinvenzione delle tradizioni urbane concorrono a disegnare il nuovo corpo dell'italiano e a predisporlo alle nuove sfide nel concerto europeo.

L'avvento del fascismo eleva l'Italia al rango di «nazione sportiva per eccellenza» e lo spirito competitivo è al centro di un progetto di trasformazione antropologica della nazione. Al tempo stesso il regime costruisce le strutture dello sport italiano destinato a rappresentare la vitalità della nazione. Tant'è che anche gli storici più tradizionalisti non hanno esitato a riconoscere nell'atletismo uno dei più efficaci strumenti del consenso al regime mussoliniano.

Ma lo sport contribuisce a plasmare le trasformazioni sociali anche dopo la Liberazione. Nel dopoguerra esso diventa strumento di riscatto di una nazione umiliata nel corso della Seconda guerra mondiale: la conquista del K2 o le vittorie di Coppi e Bartali risarciscono il sentimento nazionale. Ma fino agli anni Settanta lo sport è anche un luogo di demarcazione delle due grandi culture politiche della Repubblica: quella cattolica e quella comunista. L'agonismo diventa un terreno sul quale si confrontano e si sfidano le divisioni della guerra fredda.

L'egemonia del calcio, a partire dalla fine degli anni Quaranta, non può essere compresa senza il potente movimento di urbanizzazione accompagnato dalle migrazioni durante il boom economico. All'ideologia del corpo da rigenerare, propria dell'epopea postunitaria, il benessere economico sovrappone un'ideologia rivolta al raggiungimento del benessere e della felicità promessa dalla società dei consumi. In quegli anni alla mobilità lenta della bicicletta si sostituisce la rapidità dell'automobile. Al tempo stesso la vertigine del ghiaccio e della neve comincia a proporsi a un numero crescente di italiani e italiane.

Dagli anni Settanta e Ottanta lo sport accompagna i nuovi miti di una nazione proiettata nel lancio del made in Italy: la vittoria della nazionale di calcio ai campionati del mondo del 1982, i trionfi della Ferrari o le imprese di Azzurra paiono certificare l'inserimento dell'Italia nel novero delle economie più avanzate del mondo. Ma lo sport e la sua disciplina regina, il calcio, porta anche le inquietudini e le patologie del tempo quando gli stadi, a partire dagli anni Sessanta, diventano luoghi di violenza politica e sociale. E nel decennio successivo esso sembra celebrare in maniera gioiosa la fine degli anni di piombo.

Insomma la storia dello sport non come mero elenco di record, primati e classifiche, ma come cartina di tornasole del nostro sviluppo sociale ed economico. E come indizio che spiega l'evoluzione del costume nazionale.

La storia recente non è meno significativa: l'Italia delle «cento città» di risorgimentale memoria non smette di reinventarsi e di ottenere successi eclatanti poco dopo essere stata messa alla gogna dall'Europa e dal mondo dello sport. Dagli anni Novanta il fenomeno costituisce in effetti un buon indicatore del modo in cui il paese fronteggia le sfide dell'integrazione europea e della globalizzazione: con la sua rinascita nelle discipline motoristiche, i suoi successi nel calcio, nel ciclismo o nello sci, ma anche con gli scandali legati alla corruzione, al doping e alla violenza degli ultras.

La crisi del 2008 e le difficoltà del paese hanno avuto un impatto molto forte sul modello sportivo che fatica a reinventarsi. Anche se, in una nazione dove il consumo di sport ha pochi paragoni al mondo e che si dibatte fra pulsioni europeiste e tensioni sovraniste, l'azzurro sembra sempre costituire una certezza granitica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

Capitolo primo

Un'altra culla dello sport?




Il problema della definizione


Sport è una parola inglese che deriva dal francese antico desport, con cui si designavano gli esercizi di svago e di divertimento dell'aristocrazia nel Medioevo. Quando il termine nella sua forma moderna riattraversa la Manica, il dizionario francese Littré considera sport: «tutti gli esercizi all'aria aperta come la corsa dei cavalli, il canottaggio, la caccia a cavallo, il tiro, la pesca, il tiro con l'arco, la ginnastica, la scherma, ecc.». Una vasta gamma di pratiche da cui si svilupperanno le discipline atletiche e motoristiche. L'etimologia della parola sport pone però anche un problema di storicità. Va utilizzata solo per parlare delle pratiche nate alla fine del XVIII secolo e codificate nella seconda metà del secolo successivo? Oppure è invece preferibile adottare un punto di vista più ampio e rintracciare una genealogia di lungo periodo, andando a ricercare le origini dello sport fino all'antichità? Nel caso dell'Italia, questo interrogativo è legittimo. Prima di tutto perché la tradizione atletica ellenica viene esportata nel Sud d'Italia e gli atleti della Magna Grecia, fra cui il celebre Milone di Crotone, partecipano ai principali Giochi panellenici fin dal VII secolo. Poi perché gli etruschi, influenzati dalla cultura corporale greca, sviluppano a loro volta manifestazioni ed esercizi fisici non molto distanti dalle forme moderne di sport, come testimoniano peraltro le splendide tombe di Tarquinia. E soprattutto perché una prima forma di sport-spettacolo si afferma a Roma e in tutti i territori dell'Impero. Gli aurighi che gareggiano con i carri sono infatti dei divi paragonabili agli attuali campioni di Formula 1 e le folle che assistono alle corse dei loro carri non sono meno turbolente delle curve degli ultras. La civiltà dell'Impero romano è inoltre legata ai bagni termali, che ricordano sia le piscine, sia le odierne sale da fitness, presenti ovunque nelle nostre grandi metropoli globalizzate. Anche se questa cultura sopravvive fino alla caduta di Costantinopoli, le invasioni barbariche segnano, per l'Italia e per il resto dell'Europa occidentale, un momento di cesura nella millenaria storia degli esercizi corporali e favoriscono l'emergere di divisioni e particolarismi territoriali. Così come in Inghilterra e Francia, anche nella Penisola italiana l'eredità della cultura del corpo dell'Età antica viene in buona parte dimenticata fino al Rinascimento. Alla fine del Medioevo emergono comunque delle forme violente di esercizio ludico-fisico, come il calcio fiorentino, che meritano una particolare attenzione. Nel Cinquecento, poi, i fasti delle corti principesche e la diffusione della stampa favoriscono lo sviluppo di una nuova concezione umanistica del corpo e la formalizzazione dell'arte equestre e della scherma. Proprio come avviene nel campo delle arti, la Penisola italiana è il cuore di questa trasformazione e diventa un modello per tutti i paesi vicini.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 27

Nelle corti principesche italiane, in particolare grazie a Grisone e Fiaschi, vengono anche poste le basi dell'arte equestre e dell'equitazione moderna. Nobile napoletano, Federico Grisone apre una scuola a Napoli nel 1532. Pur facendo un uso, oggi ormai dimenticato, delle punizioni, Grisone propone un approccio sensibile al cavallo, invitando il cavaliere alla comprensione della sua cavalcatura per aiutarlo ad associare equilibrio e impulso. Il conte ferrarese Cesare Fiaschi «si focalizza sugli esercizi di addestramento, soprattutto, sul rilassamento del cavallo sul cerchio». Pubblica un libro fondamentale nel 1556, Trattato dell'imbrigliare, maneggiare e ferrare cavalli, ma è l'opera di Grisone che diventa un vero e proprio best seller all'estero. Il suo Gli Ordini di Cavalcare (1550) è tradotto in francese nove anni più tardi «e in meno di un secolo il libro appare in sedici edizioni italiane e quattordici edizioni spagnole, portoghesi, tedesche, inglesi e francesi». Tuttavia il relativo declino culturale delle corti italiane e la costruzione di una società di corte di Stato da parte della monarchia assoluta francese portano a un cambio della guardia. Dopo aver studiato l'arte equestre in Italia e servito i re di Francia Enrico II ed Enrico III, Antoine Pluvinel de la Baume (1555-1620) apre a Parigi un'accademia destinata a insegnare ai gentiluomini l'arte del cavallo e della spada. Dopo la sua morte, il suo insegnamento viene trascritto ín due opere, Le Manège royal (1623) e l' Instruction du roi en l'exercice de monter à cheval (1625). Per Pluvinel bisogna cercare di comprendere il cavallo, entrando in sintonia con lui e giocando con il suo piacere; il rilassamento dell'animale deve essere oggetto di una cura particolare. Pluvinel è anche il fondatore di un'equitazione di maneggio e di corte, che si addice perfettamente all'esercizio di rappresentanza e di grazia dei caroselli e che viene sviluppata nelle scuderie della reggia di Versailles. Come ha osservato Elizabeth Mackenzie Tobey:

Nel XVII secolo la Francia sostituisce l'Italia come punto di riferimento dell'equitazione e oggi i movimenti delle haute école di dressage, come la capriole, la pesade, la courbette, la levade, la piaffe e il passage, sono conosciuti con i loro nomi francesi anche se molti hanno origini italiane.


La medesima considerazione potrebbe essere fatta a proposito dell'altra arte che si addice a un gentiluomo: la scherma. Se l'uso della spada è insegnato ovunque in Europa e soprattutto nel Sacro Romano Impero germanico, è però in Italia che comincia a essere teorizzato e razionalizzato. La scherma moderna nasce infatti dalle trasformazioni delle tecniche della spada: la prima metà del XVI secolo vede un regresso delle armi pesanti concepite per portare dei colpi di taglio, a vantaggio della maneggevole spada da filo, la cui punta permetteva di infliggere delle stoccate. Con quest'arma italiana, la spada conquista un suo spazio sociale come mezzo di autodifesa, segno di distinzione sociale e arbitro dell'onore di aristocratici e borghesi.

Come per il cavallo, l'uso della spada da filo viene inizialmente insegnato da maestri italiani come Achille Marozzo, che amava farsi chiamare il «gladiatore di Bologna» e che nel 1536 pubblica Opera Nova, seguita nel 1568 da un trattato intitolato Arte dell'Armi:

Preoccupato come i suoi contemporanei di sottomettere i corpi alla disciplina dello spirito, coglie la questione essenziale della nuova pedagogia: inventare un linguaggio verbale o figurativo capace di esprimere il senso effimero di un gesto, elaborare una retorica fedele tanto al cammino dello spirito quanto alla materialità del corpo.


Nella seconda metà del Cinquecento, tutte le corti europee reclutavano dei maestri d'arme italiani:

In Inghilterra il conte di Essex, favorito della regina, ottiene i servigi del padovano Vincentio Saviolo, a Dresda, Carolo, re di Polonia ingaggia un certo Don Ruggiero Di Roco, a Copenhagen, il re di Danimarca assume il bolognese Salvatore Fabris ed Enrico, il re di Navarra, impara a tirare di scherma con un certo Girolamo Airoldo.


La superiorità della scuola italiana è riconosciuta ovunque ma i suoi insegnamenti vengono assimilati rapidamente. Già a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, infatti, la scuola francese, inserita in un efficace sistema di accademie soppianta la sua omologa transalpina grazie a maestri d'arme come Charles Besnard. Autore del Maistre d'armes libéral (1653), preconizza una scherma cartesiana basata sull'uso ragionato del corpo e un controllo delle passioni. Tuttavia se questo nuovo magistero si manifesta ancor oggi nelle competizioni di scherma in cui i comandi «En Garde», «Etes-vous prêts», «Allez» sono detti in francese, la storia dei tornei olimpici e mondiali è segnata, a partire dalla Belle Époque, dalla rivalità tra gli schermidori francesi e italiani.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 129

3. Eroi


Gianni Brera, ricordando Fausto Coppi qualche anno dopo la sua scomparsa, scrive che «gli eroi autentici vanno per tempo rapiti in cielo. Non possono vivere fra noi, al nostro mediocre livello».

Mario Fossati, nella stessa occasione, sostiene che «quel funerale si portava via gran parte della storia ciclistica: forse tutta».

Nell'immaginario del XX secolo il campione sportivo viene a sostituire una delle figure più caratteristiche della cultura classica: quella dell'eroe. Infatti, come ha scritto anni fa uno storico della letteratura, sono proprio le figure dei campioni sportivi che, nel corso del Novecento, sostituiscono il logoro mito letterario dell'eroe:

Il bisogno del mito, della costruzione degli eroi che la letteratura di fine secolo ha deluso o sconvolto, proprio con la morte dell'eroe, venga invece accolto e accontentato dalla mitologia sportiva, che sforna nuovi tipi di eroi e all'uomo inetto, all'uomo senza qualità oppone un tipo schietto e patetico di eroe, semplice e bello.

È proprio la fine di due dei più popolari miti del dopoguerra a presiedere il cambio di testimone fra due pratiche sportive. La morte di Fausto Coppi, massimo campione del nostro ciclismo, è preceduta dalla scomparsa, nel maggio del 1949, della compagine calcistica che domina la scena del dopoguerra: il Torino. Il 4 maggio 1949 l'aereo che trasporta la squadra di ritorno da una trasferta si schianta contro la collina di Superga. Trentuno le vittime dell'incidente nel quale periscono quei giocatori granata che costituiscono la quasi totalità della nazionale italiana. Nel disastro aereo muoiono anche i dirigenti e gli accompagnatori della squadra.

Il giorno dei funerali centinaia di migliaia di persone scendono in piazza per dare l'ultimo saluto ai giocatori in un clima di commozione generale che attraversa tutto il paese. Secondo Paolo Spriano:

Il primo vero dolore collettivo del dopoguerra fu causato da una sciagura sportiva. Quella del rogo di Superga [...]. Fu anche una lezione umana e politica. A Torino era più evidente che altrove. I funerali si trasformarono in un momento di emozione generale straordinaria. Uscirono dalle soffitte certe vecchiette che non si incontravano mai per istrada: operai e borghesi piangevano attorno a quelle 31 bare circondate da fiori.

Il Torino rappresenta quello che uno dei più popolari giornalisti sportivi ha definito «un altissimo fatto emotivo nel calcio italiano» anche per un credito con la sorte che ogni tanto sembra colpirlo. Come quando, nel 1967, il più popolare ed estroso giocatore granata, Gigi Meroni, viene ucciso da un'auto mentre attraversa la strada.

Nella letteratura la morte prematura consegna la figura dell'eroe al mito. E così in tutte le religioni, anche in quella dello sport. E dunque, secondo quanto scrive Montanelli dopo la tragedia di Superga, «gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede».

Tuttavia quelle morti, oltre a proiettare nel mito i protagonisti, sono anche destinate a segnare il cambio di testimone fra i due sport più popolari. Il dolore collettivo per la fine del Torino contribuisce a convogliare le emozioni e le simpatie degli italiani verso il mondo del calcio: come a dire che la tragedia di Superga segna l'inizio della fine dell'incontrastata popolarità del ciclismo il cui definitivo declino è segnato da un'altra morte, quella di Fausto Coppi, il 2 gennaio 1960.

Nonostante le vittorie in campo internazionale durante gli anni Trenta, il calcio italiano non è così popolare come il ciclismo. Guerra, Girardengo e Binda fra gli anni Venti e Trenta, Coppi e Barrali a partire dal decennio successivo elevano lo sport delle due ruote in cima al tifo degli italiani. Le differenti modalità di accesso allo spettacolo del calcio e del ciclismo non consentono comparazioni statistiche. Le migliaia e migliaia di tifosi che si accalcano sulle strade o affollano i velodromi all'arrivo di una corsa ciclistica saltano all'occhio di fronte alle poche centinaia di spettatori delle tribune di calcio.

L'arrivo delle corse ciclistiche in velodromi come il Vigorelli o in stadi calcistici, che in certe occasioni ospitano traguardi importanti, consentono una sia pur limitata comparazione del numero degli spettatori a favore del ciclismo. Nel 1952 un attento osservatore della realtà italiana, in occasione di un'inchiesta svolta per conto della Fondazione Olivetti, arriva alla conclusione che il ciclismo è «più popolare del football». Lo studioso basa la sua affermazione non solo evocando le folle che durante una corsa ciclistica si accalcano urlanti davanti alla sede milanese della «Gazzetta dello Sport», ma anche considerando le alte tirature dei giornali specializzati nello sport della bicicletta proprio durante le gare ciclistiche. Doglio ritiene che una copia di un giornale specializzato in ciclismo equivalga a un biglietto di ingresso allo stadio. Per cui - questa la conclusione -- il fatto che durante í mesi estivi «e soprattutto durante il Giro d'Italia e il Tour de France "La Gazzetta dello Sport» passa da 300.000 copie a 500.000 e oltre» costituisce la prova più evidente della maggiore popolarità del ciclismo sul calcio all'inizio degli anni Cinquanta.

E, per confermare la sua asserzione, Doglio sostiene che «non è del tutto un aneddoto caro ai reazionari, che Bartali salvasse l'Italia dalla rivoluzione al tempo dell'attentato a Togliatti» ma, semmai, un ulteriore indizio della capacità del ciclismo di suscitare emozioni e dunque sviare l'attenzione delle masse.

A ulteriore conferma della maggiore popolarità del ciclismo rimane il fatto che nessuno sport, fino agli anni Cinquanta, ha potuto vantare scrittori di primo piano della nostra letteratura come Dino Buzzati, Vasco Pratolini, Anna Maria Ortese o Alfonso Gatto. Ma la popolarità del ciclismo è dovuta soprattutto a quella sorta di identificazione che si stabilisce fra lo sport di Coppi e Bartali e il mezzo sul quale i due campioni compiono le loro imprese. La bicicletta diventa una delle protagoniste dei desideri degli italiani nel dopoguerra. Gli attori di uno dei film più popolari di sempre, Ladri di biciclette, uscito nel 1948 per la regia di Vittorio De Sica, sono personaggi umili che recitano assieme alle biciclette presenti durante tutta la durata della pellicola trasformandosi prima in sogno, poi in oggetto del desiderio e infine in incubo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 165

Capitolo quinto

Anni di piombo e d'oro




1. Il Sessantotto dello Sport


Come se per un trentennio il calcio nostrano fosse stato relegato in purgatorio, e a tratti all'inferno, fra il 1968 e il 1970 il pallone nazionale conosce una vera e propria resurrezione. Grazie a una serie di risultati positivi questa disciplina sembra improvvisamente ricordarsi di avere attraversato una fase che l'aveva collocata ai vertici mondiali. Due Coppe del mondo (1934 e 1938) e l'alloro olimpico di Berlino (1936) avevano proiettato l'Italia nell'olimpo delle nazioni sportive. Nel dopoguerra inizia invece uno dei periodi più bui del calcio nostrano e la sconfitta patita dalla Corea del Nord ai mondiali del 1966 ne segna uno dei punti più bassi.

Due anni più tardi, íl 10 giugno 1968, la nazionale italiana è di nuovo ai vertici mondiali. Quella sera un manipolo di giocatori sotto la guida del commissario tecnico Ferruccio Valcareggi conquista la Coppa Henry Delaunay, il campionato d'Europa per nazioni istituito nel 1960 dalla Uefa e che porta il nome del suo creatore. A quella vittoria l'Italia giunge dopo una doppia finale contro la Jugoslavia: l'8 giugno gli azzurri pareggiano 1 a 1 e, due giorni dopo, Riva e Anastasi fissano sul 2 a 0 il risultato.

Due anni dopo la conquista del trofeo europeo la nazionale ancora guidata da Valcareggi partecipa, in Messico, alla fase finale della Coppa Rimet. Il 14 giugno gli azzurri affrontano la compagine di casa e conquistano l'accesso alle semifinali. Il 17 giugno l'Italia è opposta alla Germania Ovest. Quella partita per i tedeschi passa alla storia come Jahrhundertspiel; gli inglesi la definiscono Game of the Century; Partido del siglo è infine chiamata, in lingua spagnola, sulla lapide che campeggia all'esterno dell'Azteca, lo stadio di città del Messico che aveva ospitato le due squadre. La «partita del secolo» termina i primi novanta minuti con il risultato di 1 a 1 e quello che succede nella successiva mezz'ora dei due tempi supplementari passa alla storia grazie a una serie di capovolgimenti, emozioni e tensioni dall'una e dall'altra parte. Quasi 18 milioni di italiani davanti al televisore assistono al risultato finale che premia l'Italia con quattro goal a tre. Quella vittoria avrebbe oscurato anche le polemiche che avevano accompagnato la nostra nazionale a proposito della «staffetta» tra l'interista Sandro Mazzola e il milanista Gianni Rivera, che l'anno precedente, primo calciatore italiano, era stato insignito del Pallone d'Oro.

Gli aggettivi che elogiano gli azzurri si sprecano sui giornali e nei commenti televisivi: «favolosi», «leggendari», «incredibili», «mai domi». Quella partita sarebbe stata così sintetizzata da Antonio Ghirelli:

L'eco dell'avvenimento fu enorme. I tifosi messicani decisero su due piedi di murare una lapide all'esterno dello Stadio Azteca per eternare una partita che aveva esaltato il gusto latino-americano per lo spettacolo e la battaglia. Un banchiere italiano, che seguiva la partita per televisione a Montevideo, cadde fulminato da un infarto. In Italia oltre trenta milioni di appassionati [...] rimasero incollati davanti al video, sebbene fosse mezzanotte passata. Molti andarono a coricarsi, sconsolati, quando Schnellinger aprì il fuoco nei tempi supplementari, ma alla rete di Burgnich un urlo lanciato in centinaia di case [...] e l'esito finale della pugna spinsero migliaia di appassionati nelle strade e nelle piazze... .

In quel clima di generale euforia e baldanza si prepara la finale della Coppa Rimet che si disputa il 21 giugno e, dopo un primo tempo chiuso sull'1 a 1, viene conquistata dal Brasile di Pelé, con il punteggio di 4-1.

La delusione per quella sconfitta, seguita da 28 milioni di connazionali, è cocente e le reazioni per certi aspetti sconcertanti. Le polemiche per il risultato e, soprattutto, la disputa sulla «staffetta», finiscono per determinare una paradossale reazione. La nazionale, al suo rientro in Italia, è accolta da una contestazione aspra dei tifosi che sembrano perfino aver dimenticato la «partita del secolo» e la brillante prestazione dei calciatori azzurri.

Solo qualche tempo dopo, sbollita la rabbia e la delusione, si inizia a guardare a quella spedizione con occhi diversi. Il campionato europeo del 1968 e il secondo posto al campionato del mondo del 1970 hanno pienamente riabilitato il calcio nostrano di fronte all'opinione pubblica.

Al campionato mondiale del Messico erano stati convocati 6 giocatori di una squadra che poche settimane prima aveva vinto il campionato italiano di Serie A dopo aver raggiunto la seconda posizione nel 1968-1969 alle spalle della Fiorentina: il Cagliari. La formazione cagliaritana aveva condotto la squadra isolana alla conquista del primo scudetto per una compagine del Mezzogiorno. Con quella affermazione il calcio diventa uno sport nazionale bilanciando, almeno per un'occasione, lo storico squilibrio fra le squadre del Nord e quelle del Sud. Come scrivono i giornali di allora lo scudetto del Cagliari rappresenta il vero ingresso della Sardegna in Italia e l'evento sancisce l'inserimento definitivo dell'isola nella storia del costume sportivo italiano.

Il decennio calcistico si era aperto con lo scudetto al Milan, che nel 1960 schiera un giovanissimo Rivera, ed era proseguito con í successi della Grande Inter di Helenio Herrera. Nel 1967 il campionato è vinto dalla Juventus. Di fronte a queste squadre blasonate il Cagliari costituisce la vera novità.

Certo, dietro l'exploit della squadra sarda ci sono i danari dei petrolieri italiani: Angelo Moratti, presidente della Grande Inter nel 1962, crea la Saras (Società anonima raffinerie sarde), ma la retorica (e la poesia) dello sport avrebbero consegnato alla storia del calcio una favola davvero singolare. «Gioioso» è l'aggettivo più frequente al quale i giornalisti dell'epoca ricorrono per definire quello scudetto. E «gioioso» è in realtà l'ambiente della compagine sarda.

Manlio Scopigno, l'allenatore che guida al successo il Cagliari, viene definito il «filosofo» per la sua aria trasognata e per i suoi metodi antiautoritari in un ambiente tradizionalmente conservatore. Così Pierluigi Cera, uno dei giocatori protagonisti di quella stagione, ricorda l'arrivo dell'allenatore:

Scopigno era arrivato da poco. Eravamo in ritiro per una partita di Coppa Italia e in sette o otto, in barba alle regole, ci eravamo dati appuntamento in una camera per giocare a poker. Fumavamo tutti e giocavamo a carte sui letti. C'era anche qualche bottiglia che non ci doveva essere. Ad un tratto si apre la porta: è Scopigno. Oddio, penso, ora ci ammazza [...] se ci va bene ci leva la pelle e ci fa appioppare una multa! Scopigno entrò, nel fumo e nel silenzio di noialtri che aspettavamo la bufera, prese una sedia, si sedette vicino a noi e disse tirando fuori un pacchetto di sigarette «Do fastidio se fumo?» In mezz'ora eravamo tutti a letto ed il giorno dopo vincemmo 3-0.


Fra i singolari atteggiamenti del «filosofo» si ricorda il suo esonero dal Bologna nel 1965 perché, durante una trasferta della squadra negli Stati Uniti, è sorpreso a orinare nel cortile dell'Ambasciata italiana a Washington.

Un personaggio decisamente in controtendenza considerato che negli Sessanta fa scuola e tendenza un allenatore come Helenio Herrera: il «mago» della Grande Inter è puntuale fino all'ossessione, predica la morigeratezza sessuale e invita i giocatori a un'assoluta sobrietà nei costumi.

In un ambiente così conservatore fa notizia Manlio Scopigno definito non a caso «l'antimago». Ma destano sconcerto anche gli atteggiamenti di un giocatore che milita nel Torino: Luigi Meroni. Capelli lunghi, camice sgargianti e stile di vita decisamente anticonformista, il calciatore granata, fra i più talentuosi calciatori degli anni Sessanta, è spesso accusato dalla stampa di atteggiamenti «pagliacceschi».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 169

Nel 1968, due anni prima dei campionati del mondo di calcio, sempre a città del Messico si svolgono quelle Olimpiadi che costituiscono uno spartiacque nel rapporto fra sport e politica. Per i giovani della baby boom generation i Giochi olimpici di quell'anno sono passati alla storia non per un'impresa sportiva ma per una delle più potenti immagini che si siano mai impresse nella memoria: la foto che ritrae i velocisti afroamericani Tommie Smith e John Carlos con il pugno chiuso guantato sollevato durante la premiazione della gara dei 200 metri, in segno di protesta contro il razzismo e a sostegno del movimento per i diritti civili. Sei mesi prima di quel gesto Martin Luther King, profeta del riscatto del popolo nero, era stato assassinato a Memphis. Quei pugni chiusi portano anche alla ribalta la rivolta studentesca che qualche giorno prima della cerimonia di apertura dei giochi messicani, l'esercito aveva represso nel sangue provocando decine di morti. Alle Olimpiadi di Monaco, nel 1972, è la questione palestinese a monopolizzare l'attenzione mondiale. Un commando dell'organizzazione terroristica palestinese Settembre nero irrompe all'interno del villaggio olimpico negli alloggi destinati agli atleti israeliani, uccidendo due atleti che avevano tentato di opporre resistenza e prendendo in ostaggio altri nove membri della squadra olimpica. Un successivo tentativo di liberazione da parte della polizia tedesca porta alla morte di tutti gli atleti sequestrati, di cinque fedayn e di un poliziotto tedesco.

Sono proprio quegli episodi e le analisi dei seguaci della Scuola di Francoforte a suscitare sentimenti di diffidenza e ostilità nei confronti dello sport da parte dei giovani del Sessantotto. Anche perché quell'anno sembra rispolverare un non mai sopito antisportismo che all'inizio del Novecento aveva caratterizzato i comportamenti dei giovani socialisti, anarchici e repubblicani. E se alla fine dell'Ottocento il profeta dell'antisportismo era stato il sociologo radicale americano Thorstein Veblen , un secolo più tardi è Gerhard Vinnai ad aggiornare l'interpretazione dello sport come «oppio dei popoli». Secondo Vinnai lo sport, e il calcio in particolare, sarebbe un veicolo di modelli culturali funzionali al potere e legato alle dinamiche psicologiche dell'aggressività e del narcisismo. Il successo del libro di Vinnai, Il calcio come ideologia, pubblicato da una piccola casa editrice tedesca è immediato e il saggio viene tradotto e più volte ristampato anche in Italia.

Ispirato alla Scuola di Francoforte di Adorno , Horkheimer e Marcuse , Vinnai denuncia la mercificazione dello sport e lo accusa di farsi portavoce di una cultura aggressiva e narcisistica.

Anche Ulrike Prokop in Le olimpiadi dello spreco e dell'inganno, mette sotto processo le contraddizioni dell'idea decoubertinianals. Uscito alla vigilia delle Olimpiadi di Monaco del 1972, il libro della studiosa tedesca mette al centro della sua attenzione la contraddittorietà di una grande manifestazione sportiva che si ammanta della retorica di un messaggio di pace e fratellanza per coprire colossali interessi commerciali.

Diffidenza, indifferenza e aperta ostilità: vari sono i sentimenti dei giovani del Sessantotto nei confronti dello sport e così li sintetizza oggi Adriano Sofri , uno dei leader del movimento fra i fondatori di «Lotta continua»: «Io sono una delle persone che non avrebbero saputo ricordare che l'Italia per la prima volta ha vinto il campionato europeo di calcio [...] Nel sessantotto avevamo altro da fare».

In realtà, fra gli studenti impegnati in quei giorni a fare la rivoluzione l'indifferenza nei confronti dello sport è assoluta. Di più, testimonia ancora Sofri, il calcio è scomparso: «non ne parlavano più [...] il tifo si teneva nascosto come un'attività cospirativa di cui vergognarsi un poco [...] era scomparsa la discussione sul calcio». Tuttavia all'indifferenza nei confronti dello sport subentra da parte dei giovani del Sessantotto anche un sentimento di vera e propria ostilità quando, il 2 ottobre del 1968, gli studenti di città del Messico si riuniscono nella Piazza delle Tre culture e vengono brutalizzati dalla polizia. L'intento degli studenti messicani è quello di aumentare la visibilità delle proteste grazie all'attenzione mediatica che si è creata intorno alle Olimpiadi che si sarebbero inaugurate di lì a pochi giorni. La notizia che decine di studenti cadono sotto i colpi della polizia fa il giro del mondo e suscita un'immediata reazione. «La strage - ricorda ancora Sofri - getta un'ombra sinistra su tutto lo sport», che i giovani iniziano a considerare «come una delle cose più sporche del potere».

A fare le spese della contrarietà allo sport della generazione del Sessantotto è anche la nazionale di calcio. Gianni Riotta , allora giovane redattore del «Manifesto», il giornale fondato da un gruppo di dissidenti del Partito comunista italiano, ricorda di avere introdotto nelle stanze della redazione «una controversa riforma, tener accesa la televisione nella stanza delle riunioni (che duravano dalle 9 alle 22, nell'azzurrino fumo da Gauloises) durante le partite di calcio. Gli intellettuali se ne sdegnarono, e venivano puntualmente a tifare contro la nazionale».

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 174

Sia pure con sfumature di varia natura, il Sessantotto pone al centro dell'attenzione un inedito rapporto fra la politica e lo sport. Esemplare al proposito è anche la disputa della finale di Coppa Davis a Santiago del Cile, nel 1976. In quella occasione la squadra italiana, composta da Nicola Píetrangeli, capitano non giocatore, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Adriano Panatta e Corrado Zugarelli sconfigge l'Australia in semifinale e guadagna, per la prima volta nella sua storia, l'accesso alla finale. La seconda semifinale oppone la squadra dell'Unione sovietica a quella del Cile. La nazionale dell'Urss si rifiuta di partecipare all'incontro con una formazione che rappresenta la dittatura del generale Pinochet, instauratosi al potere nel settembre del 1973 con un colpo di stato che ha portato all'uccisione di Salvador Allende. Oltretutto la disfida è prevista allo Estadio Nacional, luogo simbolico della lotta alla dittatura perché teatro di torture e omicidi degli oppositori politici di Pinochet.

Acceso è il dibattito in Italia circa l'opportunità di partecipare a quella trasferta. La spedizione italiana è contestata da numerosi gruppi politici: «Lotta continua» e «il Manifesto» sono fra i principali fogli della Nuova sinistra che mobilitano la piazza e invitano i tennisti italiani al boicottaggio. Il governo, guidato da Giulio Andreotti, e il Coni preferiscono non prendere posizione, lasciando la decisione alla Federazione italiana tennis, che autorizza la partecipazione.

Adriano Panatta, reduce da una fortunata stagione in cui ha conquistato due fra i più importanti tornei del mondo su terra rossa, Roma e Parigi, è intenzionato a partire assieme agli altri giocatori. Decisivo nella vicenda si mostra il ruolo di Enrico Berlinguer. Il segretario del Partito comunista italiano fa arrivare alla squadra italiana un messaggio nel quale si dichiara favorevole alla trasferta. Secondo testimonianze postume Berlinguer aveva concordato la partecipazione italiana con il leader comunista cileno Luis Corvalan. Entrambi infatti ritenevano che un eventuale boicottaggio avrebbe provocato delle ricadute a favore del dittatore cileno rinsaldando un consenso nazionalistico che Pinochet avrebbe potuto sfruttare sul piano interno.

La finale si svolge dal 17 al 19 dicembre 1976 a Santiago e l'Italia riporta una netta vittoria per 4 a 1.

Nel corso dell'incontro di doppio Adriano Panatta, noto per le sue simpatie socialiste, decide di giocare con una maglietta rossa, in omaggio alle vittime della repressione di Pinochet, convincendo il suo compagno Bertolucci a fare altrettanto. I colori del socialismo, indossati all'interno dello stadio simbolo della repressione fascista, suonano come una presa di distanza dal regime di Pinochet. Sull'episodio tuttavia, cala, allora e in seguito, il silenzio stampa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 177

Il Sessantotto condiziona anche una disciplina elitaria come quella dell'alpinismo. All'inizio degli anni Settanta nasce un movimento, Nuovo Mattino , che contesta i metodi e gli scopi della scalata classica. Rompendo con la tradizione di Compagnoni e Lacedelli, il movimento si prefigura come ecologista ante litteram e lancia l'idea di basare l'alpinismo sulla scoperta della libertà e della trasgressione. Di qui non solo il rifiuto della conquista della vetta a tutti i costi, ma anche la denuncia dello sfruttamento ambientale delle montagne e l'importazione in Italia del free climbing, la tecnica dell'arrampicata libera che in California si trasforma in un movimento hippy di aperta contestazione alla società.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 180

Nel 1980 fa il suo esordio la rubrica che avrebbe cambiato il volto dell'informazione televisiva: il Processo del lunedì. Curato da Aldo Biscardi che nel 1982, dopo i mondiali di Spagna, ne diventa il conduttore, il Processo del lunedì rivoluziona i modi un po' seriosi e paludati dell'informazione sportiva. La trasmissione diventa una sorta di sfogatoio del tifoso del bar la cui cifra distintiva è la rissa. Un programma un po' cafone nel quale tutti parlano e si offendono contemporaneamente, al punto da far passare alla storia la frase di Biscardi che invita il pubblico a non parlare «in più di tre o quattro alla volta che sennò non si capisce niente».

Oliviero Beha uno dei pochi giornalisti che in quegli anni non manca di criticare l'eccessivo consumo di sport da parte degli italiani così riassume l'evoluzione dell'informazione:

E che cosa vedono in Tv, sentono per radio, leggono sui giornali gli italiani? Essenzialmente calcio. Un terzo del totale di tirature e vendite dei quotidiani, la più o meno solita, misera somma inferiore a 6 milioni di copie divise per 57 milioni di cittadini, è infatti fatta dei giornali esclusivamente sportivi, cioè calcistici [...] E di che parlano gli italiani, in pubblico e in privato? Tranquilli, essenzialmente di calcio. Stiamo vivendo gli anni del pallone.

L'evento calcistico viene vissuto come un fatto di assoluto rilievo e il suo linguaggio si trasforma da settoriale a modello di comunicazione. Anche politica. Tant'è che Berlusconi di lì a poco dichiara la sua «discesa in campo» e Achille Occhetto sostiene di «giocare a tutto campo». Gli elettori rivelano di fare «il tifo» per un determinato personaggio politico incitandolo a «fare goal» o a «sbarrare il passo all'avversario». L'Italia diventa la patria della «chiacchiera sportiva», un gigantesco Bar sport , per riprendere il titolo di un romanzo di grande successo che Stefano Benni pubblica nel 1976.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 183

Quasi a fare da controcanto all'ascesa economica dell'Italia alcuni sport di squadra che non sono mai appartenuti alla tradizione nostrana giungono inaspettatamente ai vertici mondiali. Alle Olimpiadi di Mosca del 1980 gli azzurri del basket sotto la guida di Sandro Gamba, vincono il primo alloro olimpico della loro storia. L'argento conquistato da Meneghin, Marzorati e Villalta inaugura gli anni del grande basket azzurro che conquista l'oro ai mondiali di Nantes del 1983 e il bronzo di Stoccarda nel 1985. Anche la pallavolo conosce il suo periodo d'oro a partire dagli anni Ottanta: nel 1984, infatti, la nazionale conquista il bronzo al torneo olimpico di Los Angeles. A quell'isolato acuto seguirà la serie incredibile di trionfi della cosiddetta «generazione di fenomeni», espressione mutuata dal giornalista Jacopo Volpi dall'omonima canzone degli Stadio. Giocatori leggendari come Lorenzo Bernardi, Luca Cantagalli, Andrea Lucchetta e Andrea Zorzi danno vita a quella che è considerata una delle squadre più forti di tutti i tempi inanellando una serie incredibile di successi fra i quali tre titoli mondiali consecutivi.

Ma sono anche altre le pratiche che fra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta contribuiscono a ridistribuire gli interessi sportivi degli italiani. La mania salutista degli anni Ottanta, il phisical fitness e una nuova cultura del corpo non solo innescano diffusi cambiamenti e di attitudine nei confronti dell'attività fisica, ma stimolano l'attenzione verso la valorizzazione di pratiche assolutamente inedite per la tradizione italiana. A cominciare dai cosiddetti sport californiani (dal free-climbing, al wind-surf, al beach-volley), che in quegli anni fanno irruzione nel costume e nelle abitudini come simbolo dell'eterno giovanilismo, del gusto del rischio e della sfida oltre il limite.

In una nazione che sta definitivamente mettendosi alle spalle la miseria del dopoguerra anche uno sport aristocratico come la vela si ritaglia un pezzo del tifo grazie alle vicende di Azzurra, la barca voluta dall'Aga Khan e da Gianni Agnelli e che nell'estate del 1983 arriva a un passo dalla conquista della Coppa America. Capeggiati dallo skipper Cino Ricci e dal timoniere Mauro Pelaschier, Azzurra è sostenuta da 17 aziende dell'industria nautica. Le disfide si svolgono oltre Oceano: gli italiani passano notti insonni a seguire le gare scoprendosi tifosi di uno sport nel quale la nostra nazione non aveva alcuna tradizione.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 185

In un contesto di generale miglioramento gli italiani si adattano a un nuovo modello di modernità dalle forti influenze americane che, con un tormentane rilanciato da Roberto D'Agostino nella trasmissione di Renzo Arbore Quelli della notte, viene definito «edonismo reaganiano». L'espressione, rilanciata da filosofi come Gianni Vattimo e politici come Giuseppe Vacca, mette al centro della propria visione quel consumismo che, contestato nel 1968, si impone come un nuovo modello di comportamento fino a eclissare i valori collettivi del decennio precedente: alla figura dello hippy si sostituisce quello dello yuppie. Tramonta Ia stagione dei valori collettivi e si inaugura quella dell'ostentazione e dell'individualismo esasperato.

La stagione dell'edonismo reaganiano tiene a battesimo una nuova cultura del corpo che obbedisce all'imperativo narcisistico di una forma fisica sempre più perfetta.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 186

Se nelle società occidentali dell'Ottocento il capitale di tempo libero a disposizione di ciascun individuo nell'intero arco di una vita si aggira attorno alle 25 mila ore, all'inizio del Duemila esso si è accresciuto di quasi dieci volte e ciascun individuo dispone di 226.000 ore.

L'aumento del tempo libero a disposizione conduce a un consumo che in Italia ha pochi paragoni al mondo: nel nostro paese la spesa annua pro capite per lo sport alla fine degli anni Ottanta risulta la più elevata a livello europeo: 293 dollari, contro i 230 dell'Olanda e i 210 della Germania.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 260

Il censimento faceva parte di una delle nuove missioni assegnate al Coni da quando, nel 1999, il decreto Melandri del 23 luglio ha abrogato la legge del 1942 che organizzava il Coni. Non si trattava di allineare l'Italia ai suoi vicini europei che hanno dei veri e propri ministeri e amministratori pubblici dello sport. Uno dei primi obiettivi della riorganizzazione del Coni è stato piuttosto quello di restituire lo sport ai suoi dirigenti e ai suoi praticanti, in altre parole favorire lo sviluppo della società civile dello sport. Ormai le federazioni sportive sono dotate di una personalità giuridica di diritto privato mentre il Coni resta un'ente pubblico. Il decreto del gennaio 2004 definisce il Coni come una «confederazione delle federazioni sportive nazionali» e «delle discipline associate». Allo stesso tempo viene dato maggior spazio agli sportivi. Per candidarsi alla presidenza è necessario un tesseramento di almeno 4 anni a una società sportiva, un'attività sportiva in quanto praticante o dirigente. Almeno il 30% dei posti del Consiglio Federale, l'organo supremo del Coni, è riservato ad atleti e tecnici. Si è voluto poi razionalizzare la governance distinguendo il Coni, l'organo pubblico di orientamento, dalla Coni Servizi SpA, la struttura privata di gestione. Il finanziamento del Coni è ancora assicurato dalle scommesse. Lo stato cede al Coni il 5% del totale delle entrate erariali da «Giochi e scommesse» e il 10% dalla raccolta per «Giochi a base sportiva», ossia circa 400 milioni di euro distribuiti alle federazioni sportive a seconda della loro importanza. L'obiettivo è quello di favorire «la massima diffusione della pratica sportiva» e di andare al di là dei 4,5 milioni di tesserati che conta l'Italia all'inizio degli anni Dieci del nuovo millennio.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 261

Ma sono soprattutto tre supercampionesse a ispirare le giovani leve dello sport femminile: Valentina Vezzali, Francesca Schiavone e Federica Pellegrini. Valentina Vezzali, la più grande schermitrice di tutti i tempi, è la prima donna a vincere tre titoli olimpici consecutivi nel fioretto dal 2000 al 2008. Conquista in tutto sei medaglie d'oro olimpiche e 13 titoli mondiali individuali o a squadra. Formata dal maestro d'armi Ezio Triccoli, poi allenata da Giulio Tomassini, Vezzali mette in mostra, a partire da una tecnica impeccabile, un senso tattico fuori dal comune che le permette di mantenere un vantaggio psicologico sulle sue avversarie. Una volontà di ferro l'aiuta a conquistare il titolo mondiale del 2005 solo quattro mesi dopo aver partorito. La jesina smette di martirizzare i suoi avversari nel 2016 all'età di 42 anni per consacrarsi alla carriera di deputata.

Due anni dopo un'altra campionessa straordinaria decide di ritirarsi: Francesca Schiavone. Se la Vezzali brilla in una disciplina «italiana», la Schiavone porta in alto il tricolore in uno sport che non ha troppo sorriso agli sportivi azzurri: il tennis. Dotata di una mente straordinaria, apprezzata per il suo carattere caloroso dalle giocatrici del circuito femminile, la milanese è una tennista completa, capace di variare i colpi e correre su tutte le palle. Nel 2010 a trent'anni diventa la prima italiana a conquistare un torneo del grande slam, il Roland Garros, imponendosi 6/4 7/6 contro l'australiana Samantha Stosur. Si avverano così due dei suoi sogni: vincere il Roland Garros e diventare una top 10. Quattro anni prima, con Flavia Pennetta, Mara Santangelo e Roberta Vinci, Schiavone aveva conquistato contro il Belgio guidato da Justine Henin, la sua prima Fed Cup con l'Italia, un trionfo bissato due volte nel 2009 e 2010.

La tenacia e la longevità della Schiavone e della Vezzali si ritrovano anche in Federica Pellegrini. Non si diventa campioni di nuoto se non alzandosi all'alba e macinando chilometri in vasca. È ciò che ha permesso all'atleta veneziana, attraverso un esilio doloroso all'età di 15 anni a Milano, di diventare vicecampionessa olimpica ad Atene nel 2004 sui 200 metri stile libero. La «divina» vince l'oro nel 2008 a Pechino, dove conquista anche íl record del mondo, che continua a detenere nel 2019. Si aggiudica poi 5 titoli mondiali e 7 europei in vasca grande. Ma la Pellegrini diventa ben presto una star paragonabile a Valentino Rossi. Nel 2007 vestita da angelo, apre il carnevale di Venezia scendendo dal Campanile di San Marco a Palazzo ducale legata a una corda. I suoi amori finiscono sulle prime pagine delle riviste popolari, da Luca Marin, che per lei lascia la sua rivale francese Laura Manaudou, a Filippo Magnini. Dalla Manaudou, la Pellegrini prende anche l'allenatore Philippe Lucas che l'accompagna nel suo ritorno vincente ai campionati del mondo del 2011. La passione però è prima di tutto il nuoto. Pur avendo partecipato alla giuria della trasmissione Italia's Got Talent, e, come la Vezzali, gareggiato a Ballando con le stelle, e pur non esitando a vendere a riviste maschili delle sue foto osé, prosegue ostinatamente la sua carriera con l'intenzione di finire in bellezza alle Olimpiadi di Tokyo del 2020, da donna libera.

| << |  <  |