|
|
| << | < | > | >> |Pagina 21DIALOGO DI CAMUNIO E MINDONIO– Mindonio, ci sei? Sei presente a te stesso oppure anche tu dormi in questa notte? – Sai che io mi dileguo nel sonno, Camunio, ma non ho paura della notte. Le stelle e la luna: sono io, la luce che resiste al nulla della tenebra. Questo è un tempo di scurochiaro. Più scuro, in verità. – A me pare che tu abbia dormito, a lungo e profondamente, se generò tante cragne. – Le genera, le genera, Camunio. Mi turba il presente che è passato, come pure il futuro. E, il nostro, un secolo come arcuato su se stesso con la testa fra i piedi, dove inizio e fine coincidono. Imperversa la nichilina, sua serva sgualdrina... No, non ho dormito. Ho resistito e agito per quanto e come mi è stato concesso di fare: osservare, analizzare e memorizzare senza mai poter giudicare e agire, proprio perché, come ben sai, hanno preferito certi miei surrogati, più debolucci e cagionevoli, meno problematici, dai quali, per paura della solitarietà, mi sono lasciato per un certo tempo abbindolare. Ma adesso comincio ad averne abbastanza di questo presuntuoso ermafrodito, che si sente, in quella postura poi, autosufficiente, mentre è scoperto e indifeso, che se lo piglia nel bòcciolo da tutti. Un secolo onanista, uno struzzo, che nasconde la testa sotterra, per non vedere e per non sapere. Quasi quasi gli rifilo un bel calcione... – Non dovrei essere io a dirtelo, Mindonio, non essere impulsivo! O ti sei dimenticato che devi essere ponderato, riflessivo e raziocinante, distaccato, meno emotivo? Ti dirò: mi pare che la disassuefazione a te stesso ti abbia alquanto indebolito; mi sembri un po' superficiale e schematico anche, lasciatelo dire, velleitario... – Siamo daccapo con le provocazioni? Vuoi che ci allontaniamo nuovamente? – Calmo, calmo! Anch'io ti ho osservato e, contrariamente alle mie abitudini, a lungo e con calma, dato che anch'io sono stato emarginato, assediato da tante bollicine. Sai? quelle pulsioni! Come l'acqua troppo gassata; ti gonfia e basta: rutti e meteorismi... – Sempre creativo, tu! Mai che esprima un concetto con parole appropriate; sempre tangente, metaforico, anche analogico e allegorico. Non hai ancora imparato a comunicare. – Ad informare, vorrai dire. – ? – Ma dai, che lo sai meglio di me! Oggi si scambiano informazioni, non c'è più comunicazione, che è soggetto e oggetto, espressione e informazione insieme. Se manca il soggetto!... È vero! Separati, tu lassù e io quaggiù, e lontani noi due siamo niente; tu verresti ridotto a puro automatismo, dati aridi e freddi, utili certo per l'economia e la politica, ma per l'uomo?... Io sarei solo cieca proiezione. Come la chiamano? Ah, macchina desiderante! Pensa un po'! Ma io mi muovevo per bisogni concreti e mirati, non per vacui consumi. Le pulsioni, invece, sono onnivore e schizzano caotiche in ogni dove, fanno conflagrare la persona teleguidata e piena di bisogni non naturali e non necessari. Io sono mirato e radicato dentro il soggetto, auto diretto: soggetto, appunto, non oggetto. – La durata e il divenire. Tu sei la permanenza che ha in sé, come tutta la vita, la consunzione. Io invece sono nel divenire che ambisce alla durata. Tu duri per natura, io per artificio... – ... e tutti e due abbiamo un comune nemico: la morte. – Non parlarmene. Questo secolo moribondo puzza di morte. Tutti la rimuovono, ma tutti ne sono sedotti, ci giocano, ci guazzano dentro. – Non offenderti, Mindonio. Come ti ho detto, ti ho osservato attentamente ed ora mi confermi il tuo difetto: generalizzazioni e semplificazioni. Allora non hai imparato proprio niente?! Come fai a dire: tutti. Vabbè che nel buio tu non ci vedi molto, non sei mica gatto come me, e non hai potuto distinguere molto. Io vedo nell'oscurità... – Ma come? Tanti particolari. Ti manca una visione d'insieme; per questo mi pare abbiano vinto le bollicine. Reagisci, ma non sei capace di progettare. – Ma di ragionare sì, però! Qualcosa me lo hai lasciato. Rifletti un po': di quale morte parliamo? Sulla morte naturale non ci piove. Fortuna che c'è, che è l'unica certezza della nostra esistenza; quindi, è inutile frignarci sopra; anzi, teniamocela sempre sottobraccio: apprezzeremo di più la vita. | << | < | > | >> |Pagina 41Mi mescolo alla folla tra le bancarelle, che la luce del sole rende ancora più colorate e accattivanti. Mi è sempre piaciuta questa cittadina, per questo ci sono tornato, fin dai tempi del liceo, un po' budapestina nelle sue incongruenze e varietà architettoniche, per il suo sito sintesi di valli montane e porta verso la pianura indefinita, dove si smarrisce l'orizzonte; località di transiti ma anche luogo stabile per concludere gli affari; centro della periferia e periferia del centro. Lassù in alto sfavilla ancora la marmorea statua della Madonna, sulla cima della montagna, dove la terra si strema per farsi cielo, nel luogo visibile del sacro, dove dovrebbero incontrarsi umano e divino. Lei è ancora lì, ma è come se non ci fosse... Ho avvisato il ristorante che preparino il tavolo per due persone? A pranzo devo vedermi con Cino; non lo incontro da tanto tempo, ma ci scriviamo spesso: è il mio legame buono con le origini.- Non posso - avrei voluto dire a Federico - accettare il tuo discorso sul dialetto, perché per me la lingua italiana è stata una conquista caparbia e faticosa ed anche il senso dello Stato, che è poi una questione di maturità. Nato con la Repubblica, con quegli avi e con questo nome ho creduto in un'unità delle diversità, tanto più che ho riconosciuto nel nonno l'Alighieri: la stessa consapevole accettazione del proprio destino personale e impegno per il miglioramento civile e morale del nostro Paese. Sì, con la P maiuscola, perché la tua p... Sono confuso ma convinto che queste diversità debbano rimanere unite e funzionali come le vene e le arterie (Nota del Ghost-writer: ricorda un pensiero di Leopardi): "L'immaginazione de' settentrionali rispetto alla meridionale quanto è generalmente e tutta insieme, più forte, viva, vigorosa, attiva, feconda e maggiore, tanto ancora è più sombre, lugubre, trista, malinconica, funesta, e si può dir, brutta. Perocché, lasciando l'altre circostanze, essa è nutrita dalla solitudine, dal silenzio, dalla monotonia della vita; e la meridionale dalle bellezze e dalla vitalità ed attività della natura; e le opere di quella nascono tra le pareti di una camera scaldata da stufe; le opere di questa nascono, per così dire, sotto un cielo azzurro e dorato, in campagne verdi e ridenti, in un'aria riscaldata e vivificata dal sole"... Che ora tu e i certi barbari vogliate farmi credere che non è necessario uno Stato nazionale, un vivere civile che non annaspi tra infantilismi e parassitismi tra castrazione freudiana e costrizione impiegatizia!... Una cittadinanza che, sorretta da una feconda tradizione, persegua un'ideale unione di umanità e di razionale e limpida interiorità? Senza un ideale superiore crollano anche quelli privati e veniamo abbatuffolati nelle pastoie anguste del nostro io. Se non hai capito questo, brancola pure tra Ciapaminchioni e il tuo dialetto, ma tieni a mente che il localismo e il provincialismo "portano al poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, per cui la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d'altra cagione, tra individui che continuamente si odiano, s'invidiano e cercano in tutti i modi di nuocersi gli uni agli altri". Il giovane si aggirava, come sto facendo io ora, per questa piazza e per queste strade in sintonia anche con i suoi studi: albergo Roma, caffé Manzoni, piazza XX settembre, su cui si affaccia pacificato ormai il Duomo, il palazzo veneto del Comune, via Cavour, piazza Mazzini e Garibaldi; le vie dei Patriarchi, Gregorio da Montelongo e Giovanni da Moravia; le vie della vita popolare, Cascina, Lavatoio, Rosta del Pievano; le vie della guerra di Liberazione e dei benemeriti della città e di questa terra; le vie del lavoro produttivo, Industria e Artigianato; la via romana, e i nomi dei fiumi e delle vallate: tutto confluiva nel piccolo centro, gli strati della storia e l'evoluzione sociale ed economica, il vicino e il lontano, autonomia e dipendenza; un occhio dentro di sé ed uno per gli altri. | << | < | > | >> |Pagina 54Il ricordo dell'osteria arresta il flusso verbale di Camunio con un groppo alla gola e gli dilata nell'animo un'untuosa tristezza. Nella locanda, ricorda, si aveva la sensazione di essere immersi non nel passato, ma nell'antico, un tempo atemporale e storico in uno, che dava l'illusione, per quanto durava la magia dello stare e dire assieme, di avere lasciato fuori della porta il divenire, lo scorrere impietoso della vita, e di vivere nella durata, la lenteur di Milan Kundera, compartecipi di un'altra dimensione, in armonia col tempo cosmico. Essa rifletteva pienamente la duplice anima di un popolo, pagana e profana, godereccia, nulla a che vedere con l'odierno edonismo consumistico, ma anche devota di una particolare religiosità, che trovava lì la sua conciliazione e fusione senza lacerazioni. Ne ricordava una in particolare, che nel nome evocava l'idea di comunità raccolta, Al Borgàt, il borgaccio dei poveri, dove d'estate verso il tramonto seduti fuori su poltrone di vimini sotto un fresco pergolato si poteva godere della protettiva piazzetta dal sapore ancora da sabato del villaggio con l'intima chiesetta di santa Caterina, all'interno della quale si può ammirare una splendida pala d'altare rinascimentale dell'Amalteo, nipote del grande Pordenone. Dentro, schivando talora qualche goccia da pancetta trasudante appesa in alto, dopo aver raggiunto un tavolo massiccio con poggiapiedi ed essersi seduti su una pesante sedia, che nella forma ricordava lo sgabello della filatrice del locale Museo delle Arti e Tradizioni Popolari, si era colpiti innanzitutto da un ubiquo ciclo pittorico di bottiglie, di vini anche rari e di annate pregiate, dalle etichette multicolori, che già di per sé costituivano un piacere dell'occhio, che amplificava quello del gusto e dell'olfatto, sintetizzati tutti da una musica di sottofondo. Però se si guardava con più attenzione, ma pochi tra gli avventori oggi sono curiosi, si scopriva una infinità di oggetti, che rapivano in un viaggio immaginario nella civiltà contadina: tornio del 1600; statua lignea di sant'Agata Martire di scuola friulana tra 1700 e 1800; armadio a doppia porta proveniente dalla fabbrica Linussio; due tele con Santi di scuola veneta; un sant'Antonio di scuola d'oltralpe 1600; ritratto di frate 1600; ritratto di prete 1700; un torchio per mosto; madia in noce del 1700; forcone a due punte usato nella caccia; torchio per uve con marchio ecclesiastico per torchiature modiche in rovere 1600; carro in legno proveniente da una bottega di Baûs 1700; vaso in ceramica prodotto nei laboratori di Cercivento 1700; due tegole carniche della fornace di Muina recanti incisioni con chiodi ad attestare la prima cottura con firma e date 1747 e 1846; documenti incorniciati della repubblica Cisalpina; lettere autografe di Mussolini, scritte agli amici di Tolmezzo, dove aveva insegnato nel 1907, tre giorni dopo la marcia su Roma... Se avevi occhi per vedere, dentro non solo eri avvolto dalle sicurezze dell'antico, ma sentivi la storia e il passato come presenza viva, non vietume, dagli innumerevoli oggetti della civiltà alpina e della religiosità popolare, dal cibo particolare e tradizionale, dall'arredamento e dal rito del bicchiere di vino in compagnia. Camunio non sceglieva un tavolo nella saletta appartata, ma vicino al bancone, al centro dell'affollamento: in un'accordata disarmonia godeva di quella intimità casinara e di quel vocìo, attraversato da melodiche difformi polifonie, contrappuntate dalle varietà consonantiche tronche e dai diversi timbri del melting pot delle varianti linguistiche locali, provenienti dai tavoli vicini: duetti terzetti quartetti sestetti con il solito predominante trombotavolone, anche se talora qualche bombardino birichino di turno lo sopravanzava, ma la loffa era attutita e assorbita dai profumi che sfuggivano dalla cucina: anche il solitario veniva intrecciato in quella trama intessuta di parole, battute e discorsi che si incrociavano allo stesso tavolo o intratavoli. Covava con gli occhi gli avventori uno ad uno e se li ricordava: sparagnini e generosi, rudi e calorosi, aggressivi per timidezza, di carattere ruspone e tenero, socievoli e diversi, difensori del loro privato e solidali, taciturni e chiacchieroni fluviali, seriosi e scioperati, laboriosi ed edonisti, musoni e mattacchioni al punto da ricordare nei loro pungenti motteggi gli antichi cachinni contro i potenti, diffidenti e di una ingenuità puerile di fondo, che li esponeva fragili indifesi sprovveduti agli inganni: quando se ne avvedevano, di essere stati traditi nella loro buona fede, diventavano aggressivi e litigiosi, ma, soprattutto, autolesionisti, perché si erano fatti buggerare, perdevano autostima e amor proprio, si lasciavano andare, crollavano interiormente, si collocavano psicologicamente fuori della storia, proprio come i bambini, in un tempo naturale, e lasciavano fare. Era questa, sospirava Camunio, la forza e la debolezza di questa popolazione, d'essere prepolitica: acuta, critica ma incapace sovente di incanalare le analisi in progetti e azioni politiche, di diventare grande, consapevole e responsabile: l'ambiente naturale favorisce l'abbandono in un alveo regressivo al di qua dell'impegno e della partecipazione in prima persona alle vicende collettive; i furbi lo sanno e solleticano soprattutto l'aspetto deresponsabilizzante, delegate e lasciate fare a noi, e l'illusione che tanto c'è qualcuno che opera al posto loro, come durante la nera cuna del Ventennio.| << | < | > | >> |Pagina 104Al rumore che sale dal baccanale nella saletta appartata del potere fa da controcanto fuori e dintorno il silenzio desolato dello spopolamento della montagna, paesi e valli sempre più vuoti. Questo, con una classe politica divorante, è accaduto anche all'Appennino, a mezza Italia, saccheggiata e abbandonata, privata della sua memoria storica e di sopravvivenza futura; perché montagna, secondo Italico, sono anche le periferie urbane e le pianure isterilite dalle monoculture. Una volta, si dice idealizzando, le valli montane erano abitate dal silenzio compiuto della sacralità della natura e da gente solitaria e serena ad un tempo, che fluiva nel moto costante dell'universo senza paura del tempo e della morte. Ora s'intende il silenzio vuoto della desolazione e del degrado, spezzato solo dal rumore della speculazione edilizia, e agli alberi si sono surrogate le foreste delle antenne televisive, suicidi e sofferenza psicologica, solitudine e disperazione incattivita, un infiacchimento e disorientamento generale degli animi, il rifiuto del lavoro e la rincorsa al facile arricchimento, anche se non sempre onesto.E presto, dietro il sipario delle sembianze si spalancherà anche lo scenario del deserto naturale, specchio di quello sociale e culturale. Le invadenti e pervasive abetaie, un'idiota monocoltura, alimentata dall'annuale festa degli alberi cui sono ancora dannati gli scolaretti, paiono infiocchettate come un regalo di Natale dai batuffoli bianchi delle processionarie, parassiti che suggono la linfa vitale e svuotano la vita dall'intimo.
Un tempo la natura era anche specchio della cultura e raccontava la storia e
le credenze, i tipi umani e i pregiudizi della
comunità attraverso i nomi attribuiti alle piante: erba giudaica, maleodorante;
l'albero della morte, la
taxus baccata
dal frutto rosso carnoso ma dal seme molto velenoso: non fidarsi
delle apparenze; e la fanciullaccia, l'erba delle emorroidi, la
scrofolaria, l'erba dei vermi e della Madonna; l'erba di
sant'Alessio, che non doveva essere molto simpatico, d'un
odore tutt'altro che gradevole; l'erba zizzania e cacapuzza, i
capelli del Signore e i diavoli; l'erba gatta, viperina, maga,
detta anche circea, bellica, cornacchia, scopina, impaziente,
pidocchiaia, strega, lunaria, pelosella, delle mammelle, astrologa dai frutti
grossi, fetidi e pendenti; fior di morto, turca,
tormentilla, corregiòla, civetta, piscialetto, latte di strega,
pignola, vedovina selvatica, vedovella campestre, bambagia
selvatica, piede di gatto, ciliegia di volpe, lingua di cane,
bocca di lupo, lingua di vacca, orecchi di topo, e il narciso
detto trombone; i coglioni di prete, il berretto di prete, ma
anche la strozzapreti, la chierica di prete, rubasoldi in chiesa,
capelvenere, amorino giallo, barba di Giove, parnassia, cacciadiavoli, sigillo
di Salomone. Nell'ultimo atto la scena sarà
occupata totalmente dagli alberi della nebbia e non si guarderà più niente,
perché non ci sarà più niente da vedere.
|