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| << | < | > | >> |Pagina 7Ogni famiglia ha la sua pecora nera - nella nostra era zio Petros.Mio padre e zio Anargyros, i suoi fratelli minori, fecero in modo che i miei cugini e io ereditassimo, incontestata, l'opinione che avevano di lui. "Quel buono a nulla di mio fratello Petros è uno dei prototipi del fallito," diceva mio padre, ogni volta che se ne presentava l'occasione. E zio Anargyros, durante le riunioni famigliari, abitualmente disertate da zio Petros, accompagnava sempre ogni menzione del suo nome con sbuffi e smorfie che esprimevano, a seconda del suo umore, disapprovazione, disprezzo o semplice rassegnazione. Devo però dire una cosa a loro merito: nelle faccende finanziarie i due fratelli lo trattavano con scrupolosa correttezza. Benché zio Petros non avesse mai condiviso, neanche in minima parte, le fatiche e le responsabilità della gestione della fabbrica che i tre avevano congiuntamente ereditato da mio nonno, mio padre e zio Anargyros gli versavano immancabilmente la sua quota di profitti. (Questo per un forte senso della famiglia, altra eredità comune.) E zio Petros li ripagò della stessa moneta. Non essendosi mai fatto una famiglia, quando morì lasciò a noi, suoi nipoti, figli dei suoi magnanimi fratellì, il patrimonio che si era moltiplicato nel suo conto in banca, rimasto praticamente intatto nella sua interezza.
A me in particolare, il "nipote prediletto" (parole
sue), lasciò inoltre la sua enorme biblioteca, che io, a mia
volta, donai alla Società Matematica Ellenica. Tenni per me
soltanto due pezzi, il diciassettesimo volume dell'
Opera omnia
di Leonard Eulero e il numero 38 della rivista
scientifica tedesca
Monatshefte für Mathematik und Physik.
Questi piccoli ricordi avevano un valore simbolico,
in quanto delineavano i confini di quella che fu, in
essenza, la sua vita. Il punto di partenza è in una lettera
del 1742, inclusa nella prima raccolta, dove il modesto
matematico Christian Goldbach richiama l'attenzione del
grande Eulero su una certa osservazione aritmetica. E la
conclusione, per così dire, possiamo trovarla alle pagine
183-198 dell'erudita rivista tedesca, in uno studio dal
titolo
Su proposizioni formalmente indecidibili in Principia Mathematica
e in sistemi affini,
scritto nel 1931 dal matematico viennese
Kurt Gödel,
allora totalmente sconosciuto.
Fino a metà dell'adolescenza, vedevo zio Petros solo una volta all'anno, nella rituale visita del giorno del suo compleanno, il 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo. La consuetudine di questa riunione annuale era stata avviata da mio nonno ed era diventata di conseguenza un sacro obbligo per la nostra famiglia ipertradizionalista. L'intera tribù si metteva in viaggio per Ekali, oggi un sobborgo di Atene ma allora una sorta di isolato borgo silvano, dove zio Petros viveva da solo in una piccola casa circondata da un grande giardino e da un frutteto. Lo sprezzante atteggiamento di mio padre e di zio Anargyros nei confronti del fratello maggiore mi aveva sconcertato fin dai più teneri anni ed ero arrivato a considerarlo un vero mistero. La discrepanza fra le loro descrizioni e l'impressione che m'aveva fatto nei nostri rari contatti personali era talmente clamorosa che anche una mente immatura come la mia non poteva fare a meno di interrogarsi. Invano tenevo d'occhio zio Petros durante le nostre visite annuali, cercando nel suo aspetto o nel suo comportamento segni di dissolutezza, d'indolenza o di altre caratteristiche dei reprobi. Ogni raffronto, anzi, tornava indiscutibilmente a suo vantaggio. I fratelli minori erano collerici e spesso decisamente villani nei rapporti con la gente, mentre zio Petros era cortese e rispettoso, e i suoi azzurri occhi infossati brillavano di gentilezza. I due erano grandi bevitori e fumatori, mentre lui non beveva che acqua e aspirava soltanto l'aria profumata del suo giardino. Inoltre, a differenza di mio padre, che era corpulento, e di zio Anargyros, che era addirittura obeso, Petros aveva la sana magrezza che deriva da una vita frugale e fisicamente attiva. La mia curiosità cresceva col passare degli anni. Con mia grande delusione, però, mio padre si rifiutava di darmi informazioni su zio Petros, all'infuori della solita sprezzante formula stereotipata, "uno dei prototipi del fallito". Da mia madre, seppi invece qualcosa delle sue attività quotidiane (non si poteva certo parlare di un'occupazione): si alzava ogni mattina allo spuntar dell'alba e passava quasi tutte le ore di luce sgobbando nel suo giardino, senza l'aiuto di un giardiniere o di qualche moderna macchina per risparmiar fatica - e i fratelli, sbagliando, per questo lo tacciavano di spilorceria. Usciva raramente di casa, se non per recarsi una volta al mese in una piccola istituzione filantropica fondata da mio nonno, dove offriva gratuitamente i propri servigi di tesoriere. E a volte andava in "un altro posto" che lei non specificava. La sua casa era un vero eremo; a parte l'annuale invasione della famiglia, non riceveva mai visite. Zio Petros non aveva, insomma, nessuna vita sociale. La sera rimaneva in casa e - a questo punto mia madre aveva abbassato la voce fin quasi a un sussurro - "s'immergeva nei suoi studi". Allora la mia attenzione toccò improvvisamente il massimo. "Quali studi?" "Lo sa Dio," rispose mia madre, evocando nella mia immaginazione fanciullesca visioni di alchimia, di esoterismo o peggio. Un'altra informazione inaspettata mi permise di identificare il misterioso "altro posto" frequentato da zio Petros. La fornì una sera un signore invitato a cena da mio padre. "L'altro giorno, al club ho visto tuo fratello Petros. Mi ha distrutto con una 'Karo-Cann'," aveva aggiunto, e io allora intervenni, guadagnandomi un'occhiata irritata di mio padre. "Cosa intende dire? Cos'è una 'Karo-Cann'?" Il nostro ospite spiegò che aveva voluto alludere a una particolare apertura degli scacchi che prendeva nome dai suoi inventori, i signori Karo e Cann. Evidentemente, zio Petros aveva l'abitudine di andare ogni tanto in un circolo scacchistico di Patissia, dove sbaragliava regolarmente i suoi malcapitati avversari. "Che giocatore!" sospirò l'ospite, con ammirazione. "Gli sarebbe bastato iscriversi a un torneo ufficiale per diventare un gran maestro." A questo punto, mio padre cambiò discorso. | << | < | > | >> |Pagina 20Il giorno in cui la Società Matematica Ellenica doveva commemorare il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Leonard Eulero, arrivai nell'auditorium in anticipo, pieno di aspettative. Benché la matematica che s'insegnava alle medie non mi desse alcun aiuto per penetrarne l'esatto significato, il titolo della conferenza annunciata - "La logica formale e i fondamenti della matematica" - mi aveva affascinato da quando avevo letto l'invito. Avevo sentito parlare di "risposte formali" e di "logica elementare", ma come potevano combinarsi questi due concetti? Avevo imparato che gli edifici hanno delle fondamenta - ma la matematica?Attesi invano, mentre pubblico e oratori prendevano posto, di vedere fra loro la figura magra e ascetica di mio zio. Come avrei dovuto immaginare, non venne. Sapevo già che non accettava mai inviti; appresi ora che non faceva eccezione neppure per la matematica. Il primo oratore, il presidente della Società, citò il suo nome con particolare rispetto. "Il professar Petros Papachristos, il matematico greco di fama mondiale, non sarà purtroppo in grado di rivolgerci il suo breve saluto, a causa di una lieve indisposizione." Sorrisi compiaciuto, fiero di essere l'unico dei presenti al corrente del fatto che la sua "lieve indisposizione" era d'ordine diplomatico, una scusa per proteggere la propria tranquillità. Malgrado l'assenza di zio Petros, rimasi lì fino alla fine. Ascoltai affascinato un breve riassunto della vita dei personaggio celebrato (a quel che si disse, Leonard Eulero aveva fatto scoperte epocali in tutti - o quasi - i settori della matematica). Poi, quando l'oratore principale sali sul podio e cominciò a sviluppare il tema dei "Fondamenti delle teorie matematiche secondo la logica formale", rimasi incantato. Benché avessi capito completamente soltanto le prime parole, la mia anima sguazzava in una beatitudine mai provata di concetti e definizioni sconosciuti, simboli di un mondo che, per quanto misterioso, mi s'impose fin dall'inizio come quasi sacro nella sua insondabile saggezza. Nomi magici, mai uditi prima, si susseguivano quasi senza interruzione, ammaliandomi con la loro musica sublime: il Problema del continuo, Aleph, Tarski, Gottlob Frege, Ragionamento induttivo, Programma di Hilbert, Teoria della dimostrazione, Geometria riemanniana, Verificabilità e non-verificabilità, Prove di coerenza, Prove di completezza, Insieme di insiemi, Macchine universali di Turing, Automi di von Neumann, Paradosso di Russell, Algebra booleana... A un certo punto, mentre queste inebrianti ondate verbali si riversavano su di me, per un momento mi sembrò di riconoscere le fondamentali parole "Congettura di Goldbach", ma prima che potessi mettere a fuoco la mia attenzione, il soggetto si era sviluppato in nuovi magici tracciati: gli Assiomi di Peano per l'aritmetica, il Teorema dei numeri primi, Sistemi aperti e chiusi, Assiomi, Euclide, Eulero, Cantor, Zenone, Gödel... Paradossalmente, la conferenza sui "Fondamenti delle teorie matematiche secondo la logica formale" operò la sua insidiosa magia sulla mia anima adolescente proprio perché non svelò nessuno dei segreti che aveva presentato - non so se avrebbe avuto lo stesso effetto se ne avesse dato spiegazioni dettagliate. Capii finalmente il significato dell'insegna all'ingresso dell'Accademia di Platone: "Oudeis ageometretos eiseto». "Non entri nessuno ignaro di geometria'. La morale della serata emerse con chiarezza cristallina: la matematica era qualcosa d'infinitamente più interessante della soluzione delle equazioni di secondo grado o del calcolo del volume dei solidi, i compiti meschini sui quali sgobbavamo a scuola. Coloro che l'esercitavano abitavano un autentico paradiso concettuale, un maestoso reame poetico assolutamente inaccessibile al volgo ignaro di quella scienza. La serata alla Società Matematica Ellenica segnò una svolta. Fu lì e allora che decisi per la prima volta di diventare un matematico. | << | < | > | >> |Pagina 56Gli era da poco arrivata - proprio al momento giusto - l'offerta della cattedra di analisi all'Università di Monaco. Era un posto ideale. Il titolo di professore ordinario, ricompensa indiretta per l'applicazione militare del Metodo Papachristos fatta dall'esercito del Kaiser, avrebbe sgravato Petros di un eccessivo carico didattico e gli avrebbe garantito l'indipendenza finanziaria dal padre, caso mai a questi fosse venuto in mente di richiamarlo in Grecia e nell'azienda di famiglia. A Monaco avrebbe praticamente potuto evitare ogni incombenza non pertinente ai suoi studi. Le poche ore di lezione non avrebbero occupato troppo il suo tempo, e anzi avrebbero potuto fornirgli un vivo e costante legame con le tecniche analitiche da utilizzare nella ricerca.Ciò che meno desiderava era che altri s'intromettessero nel suo problema. Lasciando Cambridge, aveva deliberatamente fatto sparire le proprie tracce sotto una nuvola di fumo. Non soltanto non aveva confidato a Hardy e a Littlewood che d'ora innanzi avrebbe lavorato sulla Congettura di Goldbach, ma aveva fatto credere che intendeva continuare a occuparsi della loro amata Ipotesi di Riemann. E anche per questo Monaco poteva dirsi il luogo ideale: la sua facoltà di matematica non era particolarmente famosa - non come quella di Berlino o quella quasi leggendaria di Gottinga - ed era quindi ben lontana dai grandi centri del pettegolezzo e della curiosità.
Nell'estate del 1919, Petros si stabilì in un buio
appartamento al secondo piano (era convinto che la troppa
luce impedisse una totale concentrazione) di un edificio
poco distante dall'università. Conobbe i nuovi colleghi
della facoltà di matematica e si accordò sul programma
didattico con i suoi assistenti, in maggioranza più anziani
di lui. Poi si creò un ambiente di lavoro a casa propria,
dove le distrazioni potevano essere ridotte al minimo. La
padrona di casa, una tranquilla ebrea di mezza età rimasta
vedova durante l'ultima guerra, si sentì dire in termini
inequivocabili che, una volta entrato nel suo studio, non
doveva essere più disturbato, per nessuna ragione al mondo.
Dopo più di quarant'anni, mio zio ricordava ancora con estrema chiarezza il giorno in cui aveva cominciato la sua ricerca. Il sole non era ancora sorto quando si sedette alla scrivania, prese la sua grossa stilografica e scrisse su un frusciante foglio bianco: ENUNCIATO: Ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi. DIMOSTRAZIONE: Supponiamo che il suddetto enunciato sia falso. Esisterebbe in tal caso un numero intero n tale che 2n non possa essere espresso come la somma di due numeri primi, vale a dire che per ogni numero primo p<2n, 2n-p è composto... Dopo qualche mese di duro lavoro, cominciò a farsi un'idea della vera portata del problema e individuò i vicoli ciechi più evidenti. A questo punto, era in grado di delineare una strategia per la sua impresa e di identificare alcuni dei risultati intermedi che avrebbe dovuto obbligatoriamente dimostrare. Valendosi di una metafora militare, li chiamava "colline d'importanza strategica che dovevano essere espugnate prima di sferrare l'attacco finale contro la Congettura vera e propria".
Naturalmente, tutto il suo ragionamento si basava sul
metodo analitico.
Nella versione algebrica, come in quella analitica, la Teoria dei numeri ha per oggetto lo studio delle proprietà degli interi, i numeri positivi 1, 2, 3, 4, 5 ecc., nonché delle loro interrelazioni. Come in fisica la ricerca consiste spesso nello studio di particelle materiche elementari, così molti dei problemi fondamentali dell'aritmetica superiore si riducono a quelli dei numeri primi (cioè degli interi che non hanno altri divisori che 1 e se stessi, come 2, 3, 5, 7, 11 ecc.), gli irriducibili quanti dei sistema numerico. Gli antichi greci - e poi i grandi matematici dell'illuminismo europeo, come Pierre de Fermat, Leonard Eulero e Karl Friedrich Gauss - avevano individuato una quantità di interessanti problemi riguardanti i numeri primi (abbiamo già citato la dimostrazione euclidea della loro infinità). Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento, le principali verità che li riguardano erano ancora fuori della portata dei matematici. Due erano le domande principali: la loro distribuzione (cioè la quantità di numeri primi minori di un dato numero intero n) e lo schema della loro successione, la formula sfuggente che permetteva di determinare, dato un certo numero p(n) il successivo p(n)+l. Spesso (forse infinitamente spesso, secondo un'ipotesi) essi sono separati da due soli interi, in coppie quali 5 e 7, 11 e 13, 41 e 43 o 9857 e 9859. In altri casi, invece, due numeri primi consecutivi possono essere separati da centinaia o migliaia o milioni di interi non primi - in effetti, è semplicissimo dimostrare che per ogni intero k dato, si può trovare una successione di interi k che non comprende neppure un numero primo. L'apparente assenza di principio organizzativo accertato nella distribuzione o nella successione dei numeri primi aveva tormentato i matematici per secoli, e da essa la Teoria dei numeri derivava gran parte del suo fascino. Era infatti un grande mistero, degno dell'intelligenza più elevata. Essendo i numeri primi le componenti costitutive degli interi, e gli interi la base della nostra comprensione logica del cosmo, com'è possibile che la loro forma non sia determinata da una legge? Perché nel loro caso non appare evidente una "divina geometria"? La Teoria analitica dei numeri nacque nel 1837, quando Dirichlet diede la sensazionale dimostrazione dell'infinità dei numeri primi in progressioni aritmetiche. Ma raggiunse il suo apogeo solo alla fine del secolo. Qualche anno prima di Dirichlet, Karl Friedrich Gauss era arrivato a intuire una formula "asintotica" (cioè a un'approssimazione sempre maggiore quanto più cresce n) del numero dei primi inferiori a un dato intero n. Tuttavia né lui né i suoi successori aveva saputo darne la minima prova. Poi, nel 1859, Bernhard Riemann introdusse una somma infinita nel piano dei numeri complessi, chiamata da allora la "Funzione z di Riemann", che si annunciava come un nuovo strumento di estrema utilità. Per poter servirsene con efficacia, i teorici dei numeri dovettero rinunciare alle tradizionali tecniche algebriche (dette "elementari") e ricorrere ai metodi dell'analisi complessa, cioè all'applicazione del calcolo infinitesimale al piano dei numeri complessi. Qualche decennio dopo, quando Hadamard e de la Vallée-Poussin riuscirono a dimostrare la formula asintotica di Gauss utilizzando la Funzione z di Riemann (un risultato noto da allora come Teorema dei numeri primi), il metodo analitico sembrò all'improvviso la chiave magica per arrivare ai segreti più riposti della Teoria dei numeri. | << | < | > | >> |Pagina 66Più o meno in quel periodo, gli arrivò un'iniezione d'ottimismo del tutto inaspettata nelle improbabili sembianze di un sogno. Nonostante non credesse in alcun modo nel sovrannaturale, zio Petros lo giudicò profetico: un chiaro presagio venuto direttamente dal Paradiso dei matematici.Non è insolito che uno scienziato totalmente assorto in un difficile problema si porti appresso le proprie preoccupazioni nel sonno. E anche zio Petros, pur non essendo mai stato onorato da visite notturne di Ramanujan-Nakamiri o di qualche altra divinità rivelatrice (cosa che non dovrebbe sorprenderci, considerando il suo radicato agnosticismo), dopo un anno d'immersione nella Congettura, cominciò a fare sogni matematici. Di fatto, le precedenti evasioni di beatitudine amorosa fra le braccia della "carissima Isolde" divennero col tempo meno frequenti, cedendo il posto a sogni dei Numeri Pari, che apparivano impersonati da coppie di gemelli perfettamente identici. Erano coinvolti in intricate pantomime sovrannaturali e facevano da coro ai Numeri Primi, che erano bizzarre creature ermafrodite semiumane. A differenza dei muti Numeri Pari, i Primi chiacchieravano spesso fra loro, in genere in un linguaggio incomprensibile, eseguendo nel contempo strani passi di danza. (Per sua stessa ammissione, la coreografia di questo sogno gli era stata suggerita - con ogni probabilità - da un allestimento della Sagra della primavera di Stravinskij, cui aveva assistito nei suoi primi anni a Monaco, quando ancora aveva tempo per simili futilità.) In qualche rara occasione, queste creature parlavano, ma solo in greco antico - forse un omaggio a Euclide, che aveva dato loro l'infinità. Ma anche quando le loro frasi avevano linguisticamente un senso, dal punto di vista matematico il contenuto era banale o assurdo. Petros ne ricordava specificamente una: "Hapantes protoi perittoi", che significa: "Tutti i numeri primi sono pari", affermazione palesemente falsa. (Secondo una lettura differente della parola perittoi, poteva anche significare: "Tutti i numeri primi sono inutili", un'interpretazione che - particolare interessante - sfuggì completamente all'attenzione di zio Petros.) Eppure, in qualche raro caso, nei suoi sogni c'erano aspetti di estrema importanza. Dalle parole dei protagonisti, poteva dedurre indicazioni preziose che indirizzavano la sua ricerca verso interessanti cammini inesplorati. Fece il sogno che gli sollevò il morale pochi giorni dopo il suo secondo risultato importante. Non era propriamente matematico, ma laudatorio, e consisteva in un'unica immagine, uno sfavillante tableau vivant d'incredibile bellezza! Da una parte, c'era Leonard Eulero e, dall'altra, Christian Goldbach (non ne aveva mai visto un ritratto, ma lo riconobbe immediatamente). I due reggevano insieme una corona dorata sulla testa della figura centrale, vale a dire su di lui, Petros Papachristos. Il terzetto era avvolto in un alone di luce abbagliante. Il messaggio del sogno non poteva essere più chiaro: alla lunga, lui sarebbe riuscito a dimostrare la Congettura di Goldbach. | << | < | > | >> |Pagina 76A questo punto dei racconto, mio zio si fermò. Aveva parlato per ore. Stava facendo buio, e il canto degli uccelli nel frutteto era a poco a poco scemato, fino a un silenzio rotto soltanto dal ritmico stridio di un grillo solitario. Zio Petros si alzò per andare con passi stanchi ad accendere una lampada, una nuda lampadina che gettava una luce fioca su dove eravamo seduti. Quando tornò verso di me, muovendosi lentamente fra la pallida luce gialla e l'oscurità violetta, sembrava quasi un fantasma."Allora è questa la spiegazione," mormorai, mentre si rimetteva a sedere. "Di che cosa?" domandò distrattamente. Gli raccontai di Sammy Epstein, del fatto che non aveva trovato il nome di Petros Papachristos nell'indice bibliografico riguardante la Teoria dei numeri, se non per le giovanili pubblicazioni congiunte con Hardy e Littlewood sulla Funzione z di Riemann. Gli esposi la "teoria dell'esaurimento" suggerita al mio amico da un "illustre professore" della nostra università: il suo presunto concentrarsi sulla Congettura di Goldbach sarebbe stato soltanto un'invenzione per camuffare la propria inattività. Zio Petros rise amaramente. "Oh, no! Tutto era abbastanza vero, nipote mio prediletto! Puoi dire al tuo amico e al suo 'illustre professore' che io ho realmente lavorato per dimostrare la Congettura di Goldbach - e quanto e quanto a lungo! Sì, e ottenni realmente risultati intermedi - risultati importanti, meravigliosi -, solo che non li pubblicai quando avrei dovuto e altri mi precedettero. Purtroppo in matematica non esistono medaglie d'argento. La gloria è tutta per il primo che annuncia e che pubblica. Per gli altri non rimane nulla." Fece una pausa. "Come dice il proverbio: 'Meglio un uovo oggi che una gallina domani.' Ma io, inseguendo la gallina, ho finito per perdere anche l'uovo." Non so perché, ma la serena rassegnazione con la quale enunciò la sua conclusione non mi parve sincera. "Ma, zio Petros," gli chiesi, "non eri orribilmente sconvolto quando ti arrivò la lettera di Hardy?" "Naturale che lo ero - e 'orribilmente' è la parola giusta. Ero disperato. Sopraffatto dalla rabbia, dalla frustrazione, dal dolore. Per un po', pensai addirittura al suicidio. Ma questo successe allora, in un altro tempo, a un'altra persona. Oggi, valutando a posteriori la mia vita, non rimpiango niente di ciò che ho fatto o non ho fatto." "Veramente? Vuoi dire che non rimpiangi di aver perso l'occasione di diventare famoso, di essere riconosciuto come un grande matematico?" Alzò un dito ammonitore. "Un ottimo matematico, forse, non un grande! Avevo scoperto due buoni teoremi, tutto qui." "Non è un'impresa da poco!" Zio Petros scosse il capo. "Nella vita, il successo si misura sulla base degli obiettivi che ci poniamo. Ogni anno nel mondo si pubblicano decine di migliaia di nuovi teoremi, ma quelli che fanno storia non sono che una manciata per secoli." "Ma zio, tu stesso hai detto che i tuoi teoremi erano importanti." "Guarda quel giovane," ribatté. "Quell'austriaco che ha pubblicato prima di me il mio Teorema sulle partizioni - perché lo considero ancora mio. È stato forse messo sul piedistallo di un Hilbert o di un Poincaré? No di certo! È riuscito forse ad assicurarsi una piccola nicchia con il suo ritratto, in qualche stanzetta sul retro del Palazzo della Matematica... E con questo? Oppure prendi Hardy e Litdewood, due matematici di prim'ordine. Magari saranno entrati nel Salone dei Famosi - un salone molto grande bada -, ma neanche le loro statue stanno nel Grande Atrio, accanto a quelle di Euclide, Archimede, Newton, Eulero, Gauss. Era questa la mia sola ambizione, e niente di meno clamoroso della dimostrazione della Congettura di Goldbach, che mi avrebbe anche consentito di risolvere il più grande mistero dei numeri primi, avrebbe potuto permettermi di soddisfarla..." C'era un brillio nei suoi occhi, una profonda e intensa concentrazione, quando concluse: "Io, Petros Papachristos, non avendo mai pubblicato nulla di rilevante, passerò alla storia della matematica - o meglio non ci passerò - come uno che non ha realizzato niente. Per me, va bene. Non ho rimpianti. La mediocrità non mi avrebbe mai soddisfatto. A un surrogato d'immortalità, genere nota a piè di pagina, preferisco i miei fiori, il mio frutteto, la mia scacchiera, la nostra conversazione di oggi. L'oscurità totale!" Con queste parole, si riaccese la mia ammirazione d'adolescente per lui come eroe romantico ideale. Ma adesso era segnata da forti dosi di realismo. "Insomma, zio, era una questione di tutto o niente?" Annuì, lentamente. "Sì, puoi metterla in questi termini." "E fu quella la fine della tua vita creativa? Non lavorasti più alla Congettura di Goldbach?" Mi guardò sorpreso. "Ma certo che lavorai ancora! Anzi, fu proprio a partire da quel momento che raggiunsi i risultati più importanti." Sorrise. "Ci arriveremo a poco a poco, ragazzo mio. Non preoccuparti. Nella mia storia non ci saranno ignorabimus!" Rise fragorosamente della sua stessa battuta, troppo per non mettermi a disagio. Poi si protese verso di me e mi domandò sottovoce: "Hai poi imparato il Teorema d'incompletezza di Gódel?" "Sì," risposi, "ma non vedo cosa c'entri con..." M'interruppe, alzando bruscamente una mano. "'Wir müssen wissen, wir werden wissen! In der Mathematik gibt es kein ignorabimus,'" declamò in tono stridulo, ma talmente forte che la sua voce risonò attraverso i pini, prima di tornare indietro a minacciarmi e a tormentarmi. Immediatamente mi balenò nella mente la teoria di Sammy sulla follia. Non era possibile che quell'abbandonarsi ai propri ricordi avesse aggravato le sue condizioni, che mio zio fosse definitivamente uscito di senno? Mi sentii sollevato quando continuò, con voce più normale: "'Noi dobbiamo sapere, noi sapremo; in matematica non esistono ignorabimus!': così parlò il grande David Hilbert al Congresso internazionale dei 1900. Un'esaltazione della matematica come paradiso della verità assoluta. La visione di Euclide, la visione della completezza e della coerenza... | << | < | > | >> |Pagina 90"Professor Papachristos?"Comparve una testa bionda. Petros, che aveva una straordinaria memoria visiva, riconobbe subito il giovane corridore. Il quale non faceva che scusarsi. "La prego di perdonare il disturbo, professore," disse, "ma ho un bisogno disperato dei suo aiuto." Petros era sorpreso - aveva creduto che la sua presenza a Cambridge fosse passata del tutto inosservata. Non era famoso, e neanche particolarmente noto, e se non si fosse recato quasi ogni sera al club scacchistico dell'università, in tutto il suo soggiorno non avrebbe scambiato una parola con nessuno, tranne che con Hardy e Littlewood. "Il mio aiuto per che cosa?" "Oh, per decifrare un testo tedesco difficile - un testo di matematica." Il giovane si scusò di nuovo per aver osato fargli perdere del tempo per un problema cosi modesto. Ma, per lui, questo articolo era talmente importante che, quando aveva saputo che al Trinity c'era un matematico venuto dalla Germania, non aveva resistito alla tentazione di interpellarlo perché lo aiutasse nella traduzione. Nel suo atteggiamento c'era un tale ardore giovanile che Petros non seppe resistere. "Sarei lieto di darle una mano. A quale campo appartiene questo articolo?" "Alla logica formale. Alle Grundlagen, i fondamenti della matematica." Per Petros fu un sollievo il fatto che non riguardasse la Teoria dei numeri - per un attimo, aveva temuto che il giovane visitatore volesse spremergli informazioni sulla sua ricerca intorno alla Congettura, usando come scusa le proprie difficoltà col tedesco. Avendo più o meno concluso la giornata di lavoro, lo invitò a sedersi. "Come ha detto che si chiama?" "Alan Turing, professore. Sono uno studente." E gli porse la rivista che conteneva l'articolo, aperta alla pagina giusta. "Ah, i Monatshefte für Mathematik und Physik," disse Petros, "la 'Rivista mensile di matematica e fisica', una pubblicazione di grande prestigio. Vedo che il titolo dell'articolo è Über formal unentscheidbare Sätze der Principia Mathematica und verwandter Systeme. Lo si potrebbe tradurre... Vediamo... 'Sulle proposizioni formalmente indecidibili in Principia Mathematica e in sistemi analoghi'. L'autore è un certo Kurt Gödel di Vienna. E noto in questo campo?" Turing lo guardò, sorpreso. "Non mi dirà, professore, di non aver mai sentito parlare di questo articolo?" Petros sorrise. "Mio caro giovane, anche la matematica è stata contagiata da quella moderna piaga che è l'eccesso di specializzazione. Temo di non avere idea di quello che si è fatto nella logica formale, o in altri campi. Al di fuori della Teoria dei numeri, purtroppo sono uno sprovveduto." "Ma, professore," protestò Turing, "il Teorema di Gödel interessa tutti i matematici, e i teorici dei numeri in particolare! Innanzitutto si applica alla base stessa dell'aritmetica, al sistema assiomatico di Peano-Dedekind." Con grande meraviglia di Turing, Petros non aveva idee molto chiare neanche sul sistema assiomatico di Peano-Dedekind. Come quasi tutti i matematici operanti, considerava la logica formale, il campo il cui soggetto è principalmente la matematica in quanto tale, una teoria decisamente troppo eccentrica, e forse del tutto superflua. Considerava i tentativi indefessi di trovare fondamenti rigorosi e l'esame sempre più approfondito dei principi basilari soltanto una perdita di tempo. Il detto popolare: "Se non è rotto, non ripararlo", poteva essere una buona definizione di questo atteggiamento: il compito di un matematico era cercare di dimostrare dei teoremi, non di meditare all'infinito sullo status delle loro sottese e incontestate basi. Ciononostante, la passione con cui il giovane visitatore aveva parlato stuzzicò la sua curiosità. "E allora, cos'ha dimostrato di particolarmente interessante per i teorici dei numeri il giovane signor Gödel?" "Ha risolto il problema della completezza," annunciò Turing, con gli occhi che gli brillavano. Petros sorrise. Il "problema della completezza' non era che la ricerca di una prova formale del fatto che ogni enunciato veritiero è alla lunga dimostrabile. "Oh, bene," disse cortesemente Petros. "Devo però dirle - senza offesa per il signor Gödel, naturalmente - che, per coloro che si occupano attivamente di ricerca, la completezza della matematica è sempre stata ovvia. Tuttavia è bello sapere che qualcuno si sia finalmente deciso a dimostrarlo." Ma Turing stava scuotendo la testa con veemenza, con il viso rosso per l'eccitazione. "È proprio questo il punto, professar Papachristos: Gödel non l'ha dimostrata!" Petros era sconcertato. "Non capisco, signor Turing... Non ha appena detto che questo giovane ha risolto il problema della completezza?" "Sì, professore. Ma contrariamente a ciò che tutti - compresi Hilbert e Russell - si aspettavano, l'ha risolto in modo negativo! Ha dimostrato che l'aritmetica e tutte le teorie matematiche non sono complete!" Petros non aveva abbastanza familiarità con i concetti della logica formale per rendersi subito conto delle innumerevoli implicazioni di queste parole. "Come ha detto?" Turing s'inginocchiò accanto alla sua poltrona, indicando eccitato i simboli arcani che costellavano l'articolo di Gödel. "Ecco: quel genio ha dimostrato - conclusivamente dimostrato! - che quali che siano gli assiomi che uno accetta, una Teoria dei numeri comprenderà necessariamente delle proposizioni indimostrabili!" "Naturalmente alluderà alle proposizioni false?" "No, alludo alle vere - vere, ma indimostrabili!" Petros balzò in piedi. "Non è Dossibile!" "Oh sì, e la prova eccola qui, in queste quindici pagine: 'La verità non è sempre dimostrabile!'" Mio zio ebbe un improvviso capogiro. "Ma... Ma non può essere..." Sfogliò frettolosamente le pagine, sforzandosi di assimilare in un momento l'intricato ragionamento dell'articolo e continuando a borbottare, indifferente alla presenza del giovane. "È osceno... abnorme... aberrante..." Turing sorrideva, compiaciuto. "È stata questa la prima reazione di tutti i matematici... Ma Russell e Whitehead hanno esaminato la dimostrazione di Gödel e l'hanno definita impeccabile. Hanno usato addirittura il termine 'squisita'." Petros fece una smorfia. "'Squisita?' Ma ciò che dimostra - se davvero lo dimostra, cosa che io mi rifiuto di credere - è la fine della matematica!"
Meditò per ore su questo testo, breve ma estremamente
denso. Lo tradusse con Turing che gli spiegava i concetti
base della logica formale, a lui non familiari. Quando
ebbero finito, lo ripresero da capo, esaminando passo dopo
passo l'intera dimostrazione, con Petros che cercava
disperatamente di trovare un passaggio falso nelle
deduzioni.
Fu il principio della fine.
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