Autore Francesco Erbani
Titolo L'Italia che non ci sta
SottotitoloViaggio in un paese diverso
EdizioneEinaudi, Torino, 2019, Passaggi , pag. 166, cop.fle., dim. 13,6x20,8x1,5 cm , Isbn 978-88-06-24008-0
LettoreElisabetta Cavalli, 2019
Classe paesi: Italia: 2010 , montagna , sociologia












 

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Indice


    I.  L'Italia che non ci sta

  3     1. Il racconto che manca
  5     2. Storie collettive
  9     3. Il territorio al centro
 12     4. Riempire i vuoti
 15     5. Le mappe di resistenza

    II. La resistenza dei luoghi

 20     1. Niente villette, meglio una vigna
 22     2. Le mani su Palladio e su una storia operaia
 26     3. Dai wagon Iits al co-working
 31     4. A Trezzano si lavora «senza padrone»
 35     5. Roma, la terra a chi la Iavora

    III. Una terrazza in montagna

 50     1. I muretti della Costiera
 57     2. L'agricoltura che salva Ia montagna
 65     3. «Ogni pietra è buona». I nuovi contadini di Valstagna
 77     4. La memoria della Resistenza

    IV. La forza generativa di un bene culturale

 81     1. Don Antonio e i ragazzi della Sanità
 96     2. NeI Cilento spopolato si riparte da una grotta
108     3. Il ritorno di Gioacchino da Fiore
122     4. Così' rinasce il monastero dei Viceré

    V.  Tutto il paese è comunità

135     1. Le patate di Pizzoferrato
140     2. Contro l'abbandono
143     3. Un bar a Succiso
145     4. Le mie pecore sono ad Anversa
151     5. La Linea Gustav e iI Progetto Abruzzo


160     Nota bibliografica


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

L'Italia che non ci sta




1. Il racconto che manca.


Sono tante le persone, tante le storie che mancano in questo libro. Sono molte di piú delle poche che invece ci sono. E il primo pensiero va a loro, alle persone, alle storie rimaste fuori e che invece avrebbero giustificati motivi per stare dentro. Succede sempre così ed è forse inevitabile che accada: vado a recuperare nella memoria che ogni cronista reca con sé alcuni dei precetti che puntellano questo mestiere, che il tempo ha assorbito e il lavoro quotidiano ha consentito di verificare. Si sanno molte piú cose di quante poi non si riesca a mettere sulla pagina: ecco un altro dei comandamenti che presidiano il lavoro del giornalista e ne arricchiscono il glossario e di cui, però, va tenuto a bada il cinismo che potrebbe inquinarlo.

Meriterebbero di essere raccontate molte storie di un'Italia che non ci sta, resiste, si dà da fare, e che va sperimentando nuove forme comunitarie, nuovi lavori, nuovi sistemi cooperativi, nuovi modi di abitare, nuove relazioni con il territorio, un nuovo ambientalismo, nuove virtú civiche, reagendo così alla crisi e al riproporsi, nonostante le smentite della storia, di smaglianti modelli economici, di comportamenti individuali e collettivi, di valori ispirati al consumo se non alla dissipazione.

Qui, invece, molte di quelle storie non sono raccontate. Ma un libro ha una sua finitezza o, detto altrimenti, ha dei limiti, deve proporsi un confine, lo può costantemente aggiornare, ma deve sempre prefigurarlo, darselo come obiettivo mobile e non solo rendersene conto a posteriori. E se un confine non ci fosse, non ci sarebbe possibilità di percezione.

È però importante che l'autore renda in vario modo visibile quel che nel libro non si vede. Che faccia riferimento a quel che c'è oltre il confine, a un bacino molto più capiente e di cui il libro contiene solo un parziale riflesso.

A margine di questo ragionamento spunta, per l'autore, persino un elemento di consolazione, dettato dalla consapevolezza di altri limiti: i suoi e quelli del proprio mestiere. Molte storie di un'Italia che non si rassegna e che però non si piega ai dettati del crescere tanto per crescere sintetizzati da Mauro Gallegati nella metafora dell'economia del criceto, un'Italia che sceglie di nuotare sfidando la corrente, che fa politica anche se si propone di determinare scelte politiche piú che porsi il problema di una propria rappresentanza, molte di queste storie, dicevo, sono in attesa di essere raccontate, messe insieme e sistemate. Ma anche se non godessero di questi trattamenti, qui o altrove, esse ci sono ugualmente. Vivono e agiscono, e questo è molto piú importante dell'essere raffigurate.

Non è la sua narrazione a fornire un diritto all'esistenza di un gruppo di persone il quale, individuato un bene culturale in condizioni precarie, decide di custodirlo, di rimetterlo in sesto, di affidare a esso un di più civico e simbolico e anche di farne il perno intorno al quale avviare iniziative che diano lavoro. Né il fatto che se ne parli assicura là possibilità che ciò accada a coloro che scegliessero di restare in un paese di montagna che va spopolandosi oppure che si propongano di ripopolarlo, non da turisti occasionali, tantomeno da speculatori, ma ripristinando e aggiornando antichi mestieri o inventandone di nuovi. La realtà che prescinde dalla propria immagine è un principio d'ordine concettuale, e nel nostro caso, quello di un osservatore, deve essere assunto come un cambio di paradigma.

Tante storie di resistenza, ognuna con il proprio grado di testardaggine, restano dunque su uno sfondo non inerte nel racconto che qui comincia. Ma la loro dimensione complessiva, molto ampia, giustifica il fatto che, seppur incompleto e, se si vuole, arbitrario, si sia intrapreso un viaggio in luoghi in cui è possibile osservare un'Italia in movimento, che applica precetti di sobrietà e di ostinazione, che crede nella dignità del lavoro, che si batte contro il suo sfruttamento e ritiene che esso, oltre a fornire compensi economici, induca un cambio di passo nella propria vita, apra inedite prospettive e poi svolga un servizio di cui beneficia una collettività piú vasta, di cui si avvantaggiano un luogo e un territorio. Che contenga un elevato tono di civismo.




2. Storie collettive.


Il punto di vista che anima il viaggio è essenzialmente dal basso. E ciò per diversi motivi. Il mestiere del cronista, già richiamato, detta numerose regole, alcune purtroppo tralasciate, fra le quali devono primeggiare l'andare a vedere, l'ascolto, il contatto diretto - irrinunciabili metodi di conoscenza, potenziati e non sostituiti dalla rete. Il viaggio si nutre delle storie concrete delle persone e degli spazi in cui esse agiscono, storie individuali, piú spesso collettive, di relazioni con l'ambiente, di interlocuzione e di conflitti. Queste generano osservazioni che riempiono il taccuino e si inscrivono in una cornice di riferimenti assai flessibili dal punto di vista sia politico sia culturale, ma non perché affetti da congenita vaghezza, bensí perché in via di aggiornamento e di espansione o addirittura di prima configurazione, di messa a punto sperimentale.

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Pagina 9

3. Il territorio al centro.


Dalle diverse indagini condotte in questi anni da economisti come Leonardo Becchetti, Luigino Bruni e Stefano Zamagni (e che qui provo a sintetizzare con molta approssimazione) emerge come la progressiva crescita di una tipologia imprenditoriale né solo pubblica né solo di mercato si sia incrementata a causa del ritirarsi dello Stato e dell'incapacità del mercato e delle ideologie neoliberiste di offrire soluzioni accettabili. È la crisi, insomma, uno dei fattori che stimola queste iniziative. Ma è evidente come non tutto si riduca a una crisi proveniente dalle bolle immobiliari o dalle instabilità finanziarie internazionali: a queste si sommano questioni di piú lunga durata, come lo spopolamento delle montagne o delle dorsali appenniniche, con le conseguenze ambientali che si scatenano; il malessere dell'abitare in una periferia trascurata e l'analogo disagio vissuto se un senso periferico domina in un centro storico; abitudini di vita e di lavoro impoverite di senso o votate al consumo immediato; l'incuria e persino il maltrattamento del patrimonio culturale e di paesaggio; il colpevole spreco di spazi dismessi da sottrarre a mire speculative che aggraverebbero l'affanno delle città; l'incidenza nefasta delle mafie.

[...]

Il territorio non è una piattaforma, il supporto inerte sul quale caricare indifferentemente qualunque oggetto, un piedistallo utilizzabile con ampia, insensibile discrezionalità. Le sue trasformazioni, prescrivono i buoni manuali d'urbanistica, vanno ancorate alle regole che sono incorporate nel territorio stesso, fra le quali anche quelle che hanno presieduto alle trasformazioni avvenute nella storia. Ecco: le pratiche che qui si tenta di raccontare non considerano il territorio in cui agiscono come una variabile indipendente, uno sfondo neutrale; e i progetti elaborati, le imprese avviate lo mettono anzi in una posizione di baricentro, sia per le sue valenze fisiche e morfologiche, sia per quelle storiche, simboliche e culturali. E parte da un territorio cosí inteso e da un trinomio fatto di conoscenza, tutela e messa a valore, ogni idea di sviluppo possibile.

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Pagina 18

Il movimento è tutto, si diceva un tempo. Nel nostro caso, e parafrasando, il realizzare prefigura qualcosa di possibile nel futuro, un diverso sistema di relazioni economiche e sociali, ma non si aggrappa a esso per esistere. Non risiede solo li la propria ragione fondativa. Inoltre queste esperienze, marcatamente caratterizzate in senso politico, maturano non aspirando a formare homines novi né ambiscono a distribuire patenti di purezza. Sono aperte al dialogo e al riconoscimento delle ragioni degli altri, vivono in un territorio senza calarvi dall'alto, intrecciando le proprie con altre vicende e senza assumere atteggiamenti demiurgici, si propongono piú per condividere che per imporre soluzioni. Al tempo stesso non è solo ai comportamenti individuali, solo alle scelte di consumatori sobri e responsabili che si ritiene possa essere affidata un'inversione di tendenza su tante materie - dai dissesti ambientali alle disuguaglianze crescenti -, inversione di tendenza che invece spetta al livello istituzionale in cui si prendono questo genere di decisioni, sollecitato o anche incalzato da iniziative politiche.

Il quadro che emerge è assai mosso, sia per il tipo di resistenza praticata, nella quale è presente anche una componente di volontariato, nel senso del gratuito, sia per le storie individuali e collettive. Sia che un supporto giunga da una fondazione privata o bancaria, sia che tutto abbia origine da un'occupazione. La resistenza, comunque, non ha nulla di passivo, ha poco di difensivo e molto invece si fonda sulla tenacia, sulle conoscenze, sulle visioni, sullo spirito di servizio nei confronti di una collettività. Sullo scambio di esperienze, sull'innesto di forze nuove o di ritorno in un ambiente che ha tradizioni vive e consolidate, ma che potrebbero fossilizzarsi. Come ogni resistenza (a cominciare da quella con la R maiuscola) assume anche il conflitto. Il contesto può non essere solidale, possono essere sordi gli interlocutori nelle istituzioni e allora è necessario forzare, alzare la voce, confidando che quel che si è fatto abbia ampliato il consenso. E il consenso serve, anche solo per sopravvivere. Sebbene non sia per sopravvivere che si resiste.

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Pagina 50

Capitolo terzo

Una terrazza in montagna




1. I muretti della Costiera.


Per imboccare la strada che porta a Tuoro devo quasi svoltare a «u» subito dopo la torre di Cetara. Manovra azzardata e rischiosa. Appena lasciato l'abitato di Cetara e la cupola maiolicata di San Pietro Apostolo, la statale della costiera amalfitana si restringe, e due macchine che procedono in senso contrario fanno fatica a passare senza strusciare la fiancata. Metto la freccia con molto anticipo e mi avventuro in una manovra in due tempi che blocca sia chi è diretto verso Salerno, sia chi va verso Amalfi e Positano. Splendori e improperi si rincorrono lungo la strada statale n. 163. «Faccio la Costiera», dice abbreviando la denominazione chi ne percorre i tornanti impiegando dai quaranta ai cinquanta minuti per coprire una ventina di chilometri, risparmiandone un paio appena a forza di sorpassi e di sgommate e sognando i tanti progetti, meglio, le tante chiacchiere spese per bucare montagne e infilarvici tunnel a vantaggio di un traffico più "fluidificato". Per fortuna tutti i progetti sono rimasti chiacchiere. E la strada statale n. 163 è rimasta cosí com'è, senza scempiare la Costiera.

[...]

I terrazzamenti non sono una sistemazione agraria come tutte le altre. Servono a scopi produttivi, perché recuperano suolo dove suolo utilizzabile non c'è a causa della forte pendenza. Realizzano favorevoli condizioni di microclima. Riparano flora e fauna e agevolano la biodiversità. Ma sono anche il simbolo più plastico dell'agricoltura in condizioni proibitive, praticata con le unghie e con i denti, a costo di spaccarsi la schiena e di riempire le mani di verruche. La montagna è il loro scenario di miseria. A essa strappano quanto piú spazio possibile, ma senza forzature, senza imposizioni, assecondando con la forza di volontà una sua vocazione. In cambio le promettono la stabilità che la pendenza le nega. E fanno in modo che l'acqua piovana abbia un'andatura piú controllata quando scorre verso valle, segua un percorso definito e non precipiti come se il versante fosse l'alveo di un ruscello lasciato libero di scaricare la propria irruenza. I terrazzamenti frenano il dissesto, attutiscono l'effetto franoso fisicamente proprio di un terreno acclive. Donano risorse a chi li realizza, un assetto meno precario alla montagna, maggiore sicurezza a chi vive a valle.

E fanno paesaggio. Sono il risultato eloquente della combinazione fra natura e attività dell'uomo, l'esempio di una loro relazione felice. Emilio Sereni , ancora insuperato storico del paesaggio agrario italiano, ne colloca la pratica almeno dall'età comunale, con un'accentuazione in quella rinascimentale, e riproduce una topografia in cui compaiono le costruzioni terrazzate della villa dei Gonzaga a Castiglione dello Stiviere. Una descrizione la fornisce anche Boccaccio nella Conclusione della VI giornata del Decameron. È un luogo vicino a quello in cui i dieci giovani si sono radunati fuggendo la peste e raccontando novelle. Si chiama Valle delle Donne e vi accedono solo le sette ragazze. In esso compaiono «sei montagnette di non troppa altezza». «Le piagge delle quali montagnette cosí digradando giuso verso il pian discendevano, come ne' teatri veggiamo dalla lor sommità i gradi infino all'infimo venire successivamente ordinati, sempre ristrignendo il cerchio loro. E erano queste piagge, quante alla piaga del mezzogiorno ne riguardavano, tutte di vigne, d'ulivi, di mandorli, di ciriegi, di fichi e d'altre maniere assai d'albori fruttiferi piene senza spanna perdersene».

Per Sereni uno dei motori di sviluppo dei terrazzamenti in Italia è dato dalla crescita demografica settecentesca e dalla difficoltà di trovare fonti di reddito in un'industria come quella che andava diffondendosi in Inghilterra o in Francia. Ciò avrebbe indotto a ricercare e a coltivare anche le pendici piú scoscese, essendo molte estensioni nelle zone di pianura controllate dalla grande proprietà fondiaria e dal clero.

Sereni descrive la sapienza di contadini e di agronomi, l'applicazione con la quale essi dissodano terreni collinari o montani ed estraggono pietre che servono a edificare i muri a secco. E cita il poemetto dell'abate veronese Bartolomeo Lorenzi, «eminente bonificatore della collina veneta», con proprietà in Valpolicella e autore, nel 1778, di Della coltivazione dei monti: «O saggio lui, che di frequenti mura | quasi panche alternate il suol distingue! | il declive s'allenta, e fa pianura; | l'acqua piú non depreda il terren pingue: | passa l'umor secreto, e ne l'arsura | cola, e la sete de le piante estingue: | il sasso in fronte le difende, e poco | temon di ria stagion pruina, o foco».

Regioni densamente terrazzate si trovano nei tratti andini di Bolivia e Perú, in Etiopia, nel bacino del Mediterraneo e in molte zone del Medio Oriente, nel Nord della penisola indiana e dell'Indocina, nel Sud della Cina, in Indonesia e nelle Filippine, racconta Luca Bonardi, anche lui geografo e insegnante a Milano: «In Italia abbiamo non meno di duecentomila ettari di terreni terrazzati, anche se si tratta di stime complicate dall'alta percentuale di spazi abbandonati, difficilmente censibili con sistemi di rilevamento orto-fotografico».

Una forte presenza di terrazzamenti caratterizza molti versanti in Lombardia, Trentino - Alto Adige, Valle d'Aosta, Liguria e Sicilia. Piú diradato, ma con concentrazioni rilevanti, il terrazzamento in Piemonte, Veneto, Toscana, Abruzzo, Campania e Calabria, mentre presenze solo puntuali e di limitata estensione si rintracciano in altre regioni. Nella sola provincia di Sondrio, continua Bonardi, «ecco le migliaia di ettari di terrazzamenti compatti in Valtellina e poi in Valchiavenna, tra Mese, Chiavenna e Piuro, e gli impianti locali della Val Malenco». E poi molto alta è la densità di terrazzamenti in costiera amalfitana, ad Amalfi, Atrani, Scala, Ravello, Minori, Maiori e Cetara, dove la coltivazione prediletta è quella del limone.

Dovunque i terrazzamenti recano i segni degli sforzi costruttivi e di manutenzione. Sono anche la traccia visibile di un impegno solidale, perché per allestirli anche in piccoli appezzamenti ci si accordava fra proprietari. Nei muri a secco si legge la fatica. È un testo scritto a mano e in esso si riversano l'intelligenza di un luogo e tanti saperi. Antonio Cavaliere cura con il fratello una piccola porzione di terreni terrazzati a Conca dei Marini, sempre in costiera amalfitana. Un'altra porzione la possiede appena fuori da Amalfi. Le ha ereditate dal padre e coltiva limoni, ulivi e ortaggi. Molti alberi di limoni sono andati persi a causa del mal secco, una malattia provocata da un fungo che si manifesta prima sul fogliame piú alto, poi attacca i rami grossi e quindi il tronco. Insieme al fratello, Antonio lavora d'estate in uno dei migliori alberghi della costiera. Ma non lascia i limoni. A fine agosto inizia la piegatura dei rami e a settembre si comincia a potare. Una volta abbassata l'altezza, sulle piante si stende una rete di nylon che le protegge dalla grandine e soprattutto dal vento, che d'inverno picchia forte. Un tempo le tettoie erano fatte con fascine di leccio.

I muri a secco sono una delle preoccupazioni. A Conca sono realizzati in due strati, uno interno l'altro esterno, una faccia arreto e una faccia annanzi. L'intercapedine è riempita con pietre piú piccole. Leggermente diversa è la tecnica a Cetara. I muri venivano costruiti partendo dal basso, racconta Antonio, riutilizzando le pietre che si trovavano nel terreno e che andavano eliminate per non intralciare le radici. Solo se queste erano insufficienti si correva a procurarne altre. Ma molte preoccupazioni sono riservate anche al pergolato in pali di castagno che avvolge il limoneto come in una gabbia protettiva e sul quale si stende il telo.

In costiera il turismo è una fonte di reddito insostituibile. Tende ad attirare tutte le energie, è l'orizzonte al quale si guarda da Vietri a Positano per non prepararsi a partire. Si studia per diventare cuochi e camerieri, per gestire un albergo. Ci si attrezza per trasformare due stanze in un bed and breakfast. Ma Antonio, che pure lavora con il turismo, sostiene che la costiera perderebbe turisti senza i suoi limoni, senza i terrazzamenti, senza i piennoli, i pomodori che raccoglie in estate e poi tiene appesi a grappolo in un locale ombreggiato per conservarli fino a tutto l'inverno. Antonio resta lí ostinatamente, nonostante il mal secco gli abbia ucciso tanti limoni, che lui ha sostituito con ulivi. Una parte dell'anno la dedica al turismo, una parte alle potature e a controllare che i terrazzamenti non s'inzuppino d'acqua. Un tempo andava in Svizzera d'inverno, a lavorare in un albergo vicino ai campi da sci. Ora non piú.

A Conca risiedono seicento persone e la popolazione è relativamente stabile. Ma ad Amalfi erano 7200 gli abitanti nel 1961 e oggi sono poco piú di cinquemila. Ad Atrani si è scesi da 1500 agli attuali 800. Il turismo non basta a scongiurare lo spopolamento. Anzi, insegnano l'opposto tante esperienze che in costiera si guardano con timore, giurando che mai abbandoneranno la pesca e la poca terra che hanno adattato e lavorato per secoli.

La superficie coltivata a limoni copre oggi quattrocento ettari, stando ai calcoli di Bonardi. Nelle parti basse si coltivano anche le viti, oltre ai limoni. In quelle alte si distendono i castagneti, che forniscono i pali per i pergolati. Riprendendo gli argomenti di Sereni, anche Bonardi ricostruisce la parabola storica dei terrazzamenti collocando l'apogeo nella seconda metà dell'Ottocento e mettendolo in relazione con l'incremento demografico e con la pressione dell'uomo sulla terra. Da quel momento, però, inizia anche la discesa della parabola. Il rallentamento, spiega, si manifesta nei primi decenni unitari e diventa débàcle nel secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta del Novecento. Le cause? Il passaggio a un'agricoltura industriale, l'aumento della resa produttiva, e l'introduzione di macchinari che sostituivano le pratiche manuali, fondamentali nei terrazzamenti, e che non si adattavano a pendenze e muri a secco; e poi l'esodo che in generale colpiva il «mondo dei vinti» e che affliggeva in particolare le zone collinari e montane.

Secondo l'agronomo francese Philippe Blanchemanche, citato da Bonardi, per la sistemazione di un terrazzamento erano richiesti dai duecento ai trecento giorni di lavoro per ettaro. E con essi tanti capitali e tanta manodopera capace. Alcuni dati raccolti da Bonardi: in Valtellina il terrazzamento viticolo è passato dai seimila ettari della metà del XIX secolo ai meno di mille odierni; in Valle d'Aosta, ai tremila ettari di vigneto di fine Ottocento ne corrispondono oggi solo poco piú di cinquecento, dei quali 135 su terrazzamento. In totale, solo poco piú del venti per cento di quei duecentomila ettari terrazzati è attivo e produttivo.

Il terrazzamento non è una pratica agricola come le altre solo se realizzato e manutenuto, anche quando è in abbandono. Se, funzionando, protegge il versante montano dal dissesto, al contrario, se in disuso, può essere fattore di maggior rischio. Inoltre alcune esperienze dimostrano che un terrazzamento diruto può favorire il diffondersi di un incendio. E poi ecco la sostituzione edilizia, che approfitta dei valori immobiliari espressi da un paesaggio pregiato. A proposito della costiera amalfitana, la racconta cosí Carmelo Formica, citato da Bonardi: «Si costruisce dapprima un muro di cemento dietro quello di contenimento; poi nel terrapieno svuotato si realizza l'abitazione; successivamente si aprono finestre e varchi nel muro di contenimento. Il risultato finale è una sorta di insediamento trogloditico, talvolta su piú livelli alti quanto i terrazzi, che magari non deturpa eccessivamente il paesaggio, ma incide fortemente sul dissesto idrogeologico».

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4. Cosí rinasce il monastero dei Viceré.


Dal balcone della stanza d'angolo, oltre i tetti e le cupole di Catania, si scorge il porto. La nave Diciotti era lí con il suo carico di migranti, proprio dove vedo ormeggiata una grande imbarcazione, mi dice Alfredo sporgendosi appena dalla ringhiera di ferro battuto. La nave restò ancorata per cinque giorni - era la fine di agosto del 2018 - a bordo i migranti rimasti erano 177. Dopo una mortificante trattativa fu sottoscritto un accordo, prevedeva che parte di loro sarebbero andati in Albania, parte in Irlanda, parte affidati al Vaticano. Da qui sembra ancora di vedere la nave, si confonde in una scenografia teatrale, è un vascello fantasma avvolto e sospeso nel grigio di una nuvola.

Nel porto di Catania i diritti umani vennero stracciati e restarono a lungo aperte le ferite di quel sequestro, come la magistratura ha ipotizzato. Con Alfredo restiamo in silenzio. Sta scendendo il buio e piove. Rientriamo. La visita al monastero sta per terminare, un altro gruppo è in arrivo. Alfredo Giacchetto, una laurea a Venezia in Economia e management culturale, è una delle guide di Officine culturali, una cooperativa di ragazzi che gestisce una serie di iniziative nel grande monastero di San Nicolò l'Arena, fra le quali, appunto, le visite. Pochi giorni prima che arrivassi avevano festeggiato quota dodici dipendenti, tutti con contratti regolari. Meno numerosi della Paranza, ma come La Paranza, i ragazzi di Officine culturali curano anche il bookshop e altre attività che girano intorno al monastero e al quartiere di Antico Corso, dove in età magnogreca era insediata l'acropoli della città.

L'ho sempre chiamato monastero, ma qui un monastero non risiede più dal 1866, quando il neonato Stato unitario allontanò i monaci benedettini che lo abitavano. Ora il monastero di San Nicolò ospita il dipartimento di Scienze umanistiche dell'Università catanese. E i ragazzi di Officine culturali sono in gran parte ex allievi del dipartimento. Qui hanno studiato per anni, hanno frequentato la biblioteca e hanno sciamato nei due chiostri e nei profondi corridoi dove un tempo si affacciavano le stanze dei monaci. Hanno amato questi spazi in cui si è fatta una parte della storia di Catania. E quando si sono laureati si sono proposti di renderli accessibili a tutti, per visitarli e anche per farne un luogo del quartiere e della città, come se dispensare cultura e formazione non fosse solo un servizio per chi s'immatricola.

Il monastero di San Nicolò, fondato nel 1558, è un immenso edificio di quarantamila metri quadrati e impone la sua mole sulla città rendendola però aggraziata con la fantasia barocca dei cornicioni e dei portali. Nel corso del Seicento patisce prima l'eruzione dell'Etna (1669), poi il tremendo terremoto che sconvolge la Sicilia orientale (1693). Nel Settecento viene ampliato, arricchito di elementi architettonici e decorativi. Qui studiano tutti i rampolli degli Uzeda di Francalanza e in particolare vi compie il noviziato Consalvo Uzeda, il protagonista dell'ultima generazione del casato di cui narra Federico De Roberto in I Viceré. E la loro presenza è indicativa del rango nobiliare al quale appartengono i benedettini catanesi. Il monastero è la scuola dell'élite cittadina, un arcigno monumento religioso e politico aperto solo ai membri delle grandi famiglie catanesi, ricchissimo di possedimenti, di donazioni e di rendite, tutore guardingo delle sue proprietà anche se attivissimo nelle opere di carità. Il monastero cambia pelle dopo l'Unità. L'ultimo suo abate, Giuseppe Benedetto Dusmet, nonostante abbia ospitato ufficiali dell'esercito piemontese e persino Giuseppe Garibaldi e un drappello di Camicie rosse, viene allontanato da San Nicolò ma promosso arcivescovo di Catania, poi cardinale e quindi beatificato.

«Scomparsi i corridoi che s'allungavano a perdita d'occhio chiusi da muri e cancelli, convertiti in sale e gabinetti scolastici; il refettorio trasformato in salone di disegno dell'Istituto tecnico, ingombro di cavalletti, ornato di stampe e di gessi, il Coro di notte pieno di attrezzi nautici; al posto dei grandi quadri, sugli usci delle camere, cartelli con l'iscrizione: Prima classe, Direzione, Presidenza». Così De Roberto: ciò nonostante, quando nel 1882 Consalvo Uzeda corre per un seggio elettorale, nobile virgulto nelle file della sinistra, è nel cortile del monastero di San Nicolò che tiene il discorso ai catanesi, simbolo della continuità fra vecchio e nuovo che De Roberto raccontò ben prima del Gattopardo.

[...]

Il patto stretto fra Giarrizzo e De Carlo era chiaro, nonostante la sintonia fra di loro sarebbe comunque transitata nei tortuosi sentieri di due personalità complesse. Il monastero restaurato doveva intrecciare il proprio destino con la città, tramite l'Antico Corso, il quartiere che l'ospitava e che ne avrebbe ricavato visibili e duraturi effetti. Non solo conservazione in sé, né sola aderenza a una rinnovata funzione: anche lievito sociale distribuito senza parsimonia. Nel progetto di De Carlo, aggiunge Mannino, erano inventati nuovi percorsi, nuove aperture per sostituire all'isolamento e al silenzio del vecchio monastero il dialogo e l'incontro. Mannino mi legge quello che scriveva Giarrizzo alla fine degli anni Ottanta, presentando il progetto di De Carlo. Giarrizzo scriveva cosí: «Le enclaves pubbliche, nel senso di spazi aperti al profano, all'esterno - si tratti di musei, di sale di lettura, di auditoria, o di fast food o di bar o di giardini - non sono violazioni liberatrici o trasgressioni nei secreta tradizionali dello studio, bensí luoghi deputati alla comunicazione sociale dei risultati del lavoro intellettuale o della ricerca scientifica e nei quali la dimensione collettiva libera dalle regole non scritte del discepolato». Dal canto suo, Claudia Cantale sottolinea come De Carlo abbia voluto restituire all'ingresso del monastero uno spazio che si era perso durante le continue manipolazioni postunitarie, uno spazio pubblico destinato non solo allo sciamare degli studenti, del personale universitario, dei viaggiatori e visitatori, ma anche alla socialità tra gli individui che possono sedere e riposare, godendosi semplicemente quello stesso spazio architettonico.

De Carlo è morto nel 2005, Giarrizzo dieci anni dopo. Officine culturali si è messa nella scia del progetto che entrambi avevano concepito. Qui nella collina di Montevergine, dove sorge il monastero c'è la storia di Catania, la cui stratigrafia sprofonda nel Neolitico medio (prima metà del quinto millennio a.C.), si assesta nella seconda metà dell'VIII secolo a.C., quando i calcidesi di Naxos fondarono la colonia greca di Katane, e risale verso l'età repubblicana nel IV secolo. Scavando nelle viscere del monastero sono emersi i resti di una domus romana arricchita da un pavimento in mosaico. Accompagnato da Alfredo, li osservo da una delicata pensilina in legno, bella quasi quanto la domus, una pensilina sostenuta da strutture metalliche che sfila sotto le volte della prima costruzione cinquecentesca. I camminatoi sono fra gli elementi portanti del progetto di De Carlo, sfiorano con grazia le murature antiche senza mai toccarle, penetrano in ogni angolo degli ambienti originari del monastero. Qui l'architetto ha sistemato la biblioteca. Dove un tempo era il refettorio si apre ora l'aula magna, intitolata a Santo Mazzarino, storico illustre dell'età romana.

Anche De Carlo, d'altronde, pensava che ristrutturare e conservare contribuisse a «rivitalizzare un'area importante del centro storico di Catania», scrive in una nota a un assessore catanese che poi gira a Leonardi. E allo stesso Leonardi, con una punta di enfasi, confida nel 1999 di ritenere quella ai Benedettini «la piú grande operazione mai compiuta per trasformare con puri mezzi di architettura un luogo religioso, greve e antico, in un luogo contemporaneo, lieve e laico. [...] Il luogo è diventato giovane e profumato di lavanda, pieno di luce, inadatto a intrighi e congiure, pronto a raccogliere verità ed energia di prima mano». Quel che il progettista genovese vorrebbe è un'inversione di senso dell'edificio, una salvaguardia del suo assetto e delle sue architetture, ma un capovolgimento di funzione. E la direzione di marcia che rende credibile e sorregge le intenzioni di De Carlo: da luogo chiuso, ostile e privato, a luogo aperto, diffusore di virtú civiche.

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