Copertina
Autore Vincenzo Ferrone
Titolo Una scienza per l'uomo
SottotitoloIlluminismo e Rivoluzione scientifica nell'Europa del Settecento
EdizioneUTET Libreria, Torino, 2007 , pag. 376, cop.fle., dim. 15x23x3 cm , Isbn 978-88-02-07780-2
LettoreCorrado Leonardo, 2008
Classe epistemologia , storia della scienza , storia moderna , storiografia
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Indice


VII Prefazione

  3 Capitolo 1 - La Rivoluzione scientifica

 41 Capitolo 2 - Illuminismo e Rivoluzione scientifica

 49 Capitolo 3 - Clio e Prometeo. La storia della scienza
                 tra illuministi e positivisti

 67 Capitolo 4 - Il dibattito su probabilità e scienze sociali
                 nel secolo XVIII

 96 Capitolo 5 - Galileo tra Paolo Sarpi e Federico Cesi

111 Capitolo 6 - Galileo, Newton e la «libertas philosophandi» nella
                 prima metà del XVIII secolo in Italia

136 Capitolo 7 - Celestino Galiani e la diffusione del newtonianesimo.
                 Appunti e documenti per una storia della cultura
                 scientifica italiana del primo Settecento

145 Appendice

161 Capitolo 8 - Alcune riflessioni sulla cultura illuministica
                 napoletana e l'eredità di Galilei

173 Capitolo 9 - Il problema dei selvaggi nell'Illuminismo italiano

193 Capitolo 10 - La nascita dell'uomo di scienza nell'Europa dei Lumi

225 Capitolo 11 - L'Accademia Reale delle Scienze. Sociabilità
                  culturale e identità del «letterato» nella Torino
                  dei Lumi di Vittorio Amedeo III

262 Capitolo 12 - Medicina naturale e mentalità rivoluzionaria.
                  Il caso di Franηois Amédée Doppet medico e
                  giacobino savoiardo

279 Note
331 Bibliografia
361 Indice dei nomi


 

 

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Pagina VII

Prefazione


La scienza è fatta per l'uomo o l'uomo è fatto per la scienza? Questa domanda apparentemente provocatoria e un po' bizzarra costituisce, in ultima analisi, il filo rosso che unisce un ventennio di ricerche raccolte nel presente volume. A ben vedere si tratta di un interrogativo di grande attualità in un momento di confusione in cui si scontrano visioni apocalittiche della scienza e della tecnica intese come strumenti di morte e di dominio e acritiche e ingenue apologie del sapere scientifico di matrice tardo-positivistica che rifiutano ogni idea di limite e ogni condizionamento morale all'opera degli scienziati. Riflettere su come l'Illuminismo – con il suo peculiare umanesimo, sostanziato dalla scoperta della libertà, ma anche della responsabilità dell'uomo – abbia interpretato originalmente e trasformato aspetti decisivi della Rivoluzione scientifica di Bacone, Cartesio e Galilei può forse davvero aiutare a comprendere la via migliore per individuare il giusto rapporto tra i saperi e il potere, tra le forme di conoscenza e la centralità dell'uomo come fine ultimo e indiscusso.

Dalle ricerche qui presentate credo si possa dire che emergono chiaramente le contraddizioni, le antinomie, gli aspetti positivi ma anche negativi di un nuovo sapere come quello scientifico che nel Settecento era ancora agli inizi della sua travolgente affermazione in Occidente. Se già Bacone nel 1609, interpretando il mito di Daedalus sive mechanicus mostrava di essere assolutamente consapevole che l'uso delle arti meccaniche poteva allo stesso tempo liberare l'uomo dalle fatiche, ma anche distruggerlo, gli illuministi andarono ben oltre nell'indagare la natura profonda, le prospettive che apriva la Rivoluzione scientifica, non a caso subito identificata e studiata come fatto umano, fenomeno storico di capitale importanza nella prospettiva dell'incivilimento (cfr. il capitolo 3). Attraverso i dibattiti di quello straordinario laboratorio della modernità rappresentato dalla cultura europea dell'Illuminismo che mirava a emancipare l'uomo attraverso l'uomo stesso, essi colsero, ad esempio, con immediatezza i conflitti politici, sociali e anche epistemologici impliciti nel processo di formazione della nuova figura professionale dello scienziato all'interno di una logica corporativa d'Antico Regime fondata sulle gerarchie e sulla diseguaglianza. Nel corso del XVIII secolo – il riferimento è in questo caso ai capitoli 10 e 11 – venne posto per la prima volta, con limpida chiarezza, il tema cruciale della cosiddetta «demarcazione» tra ciò che doveva ritenersi scienza e ciò che andava invece condannato come ciarlataneria; si contrapposero rappresentazioni e immagini della scienza connessi agli originari ideali utopici dell'eguaglianza delle intelligenze, in una mitica repubblica europea delle scienze, e il potente sistema delle accademie di Stato, dove l'assolutismo celebrava solennemente il matrimonio tra scienziati e principe, tra Veritas et Utilitas (è il motto scelto dalla Reale Accademia delle Scienze di Torino nel 1784); si gettarono le basi per una successiva ristrutturazione delle discipline sulla base di una rigida formazione professionale e corporativa. Se da un lato l' Encyclopédie sancì il trionfo definitivo della Rivoluzione scientifica, delle sue potenzialità emancipatrici e di progresso per cui nel nuovo albero delle conoscenze le scienze naturali furono finalmente collocate prima della teologia e accanto alle altre forme di sapere inventate dall'uomo, dall'altro lato i libri di Rousseau e di Alfieri posero coraggiosamente i primi interrogativi sul nesso esistente tra progresso scientifico e possibile amplificazione delle diseguaglianze e del male sociale, tra il moltiplicarsi inarrestabile delle scoperte e delle innovazioni e la creazione di nuove forme di dominio non più legittimate dal sangue, ma dal talento; indicando la necessità di far intervenire la morale e la politica per attenuare gli effetti talvolta negativi del progresso rispetto agli interessi collettivi.

Un aspetto specifico, meritevole di essere sottolineato, rimase tuttavia sempre a caratterizzare gli interventi e le meditazioni di Voltaire, di Diderot e di tanti altri philosophes europei a favore delle scienze di ogni tipo e cioè la consapevolezza della centralità dell'uomo e delle sue facoltà nei processi conoscitivi e quindi del limite, della finitezza del pensiero, della finalità ultima di tutte le indagini. Confondere – come troppe volte è stato fatto – l'umanesimo rinascimentale e quello dei philosophes, l'epistemologia e la rappresentazione della scienza della stagione positivista con quella ben più ricca e contraddittoria del mondo dei Lumi si è rivelato un grave errore storico ormai da evitare. La Rivoluzione scientifica e l'Illuminismo sono due grandiosi fenomeni storici che hanno segnato la storia dell'Occidente e che non vanno mai confusi tra di loro. Benché siano molteplici e tutti decisivi i loro punti di contatto e i reciproci condizionamenti, altrettanto significative restano infatti le loro fondamentali differenze di fondo. Ed è proprio per chiarire queste differenze e aiutare il lettore ad orientarsi nei saggi che seguono che vale la pena di fornire ulteriori spiegazioni e approfondimenti circa l'assoluto rilievo assunto negli ultimi decenni dalla storia della scienza, sia nell'orientare le conclusioni del rovente dibattito epistemologico degli anni Sessanta sulla natura e definizione di scienza, sia nel condizionare i risultati della storiografia internazionale in merito ai caratteri originali dell'umanesimo illuministico interpretato sempre più come uno stile di pensiero e un sistema culturale assai distante dagli schemi tradizionali riconducibili alla classica opera di Ernst Cassirer, Die Philosophie der Aufkδdrung, apparsa nel 1932.


Bisognerebbe riflettere di più sul fatto che oggi il nostro modo di concepire e definire la scienza è radicalmente cambiato rispetto al recente passato. A mutarne l'immagine, smascherando la cosiddetta epistemologia imaginabilis dei filosofi della scienza, sono stati, negli ultimi decenni, soprattutto gli storici con le loro ricerche. Ciò è avvenuto a conclusione di un secolare e travagliato processo a cui qui possiamo solo sommariamente accennare. Un lungo tratto di strada è stato infatti percorso da quando i successi straordinari di Keplero, Galilei, Cartesio e Newton hanno imposto di ripensare criticamente tutte le tradizionali forme di sapere alla luce della Rivoluzione scientifica. Da Hobbes a Leibniz, da Hume a Diderot la riflessione epistemologica sulla possibilità di estendere il metodo delle scienze naturali allo studio dei fatti umani ha coinvolto autorevoli studiosi. Come vedremo nel quarto capitolo, nel corso del XVIII secolo molte speranze sono state, ad esempio, riversate sull'uso del calcolo delle probabilità nelle scienze sociali. Nel suo Essai d'Arithmétique morale del 1777, Buffon teorizzò l'esistenza in natura di «vérités de différents genres, des certitudes de différens ordres, des probabilités de différents degrés» aprendo la strada alle matematiche sociali di Condorcet, nonostante i dubbi di Diderot contro l'imperialismo matematico di d'Alembert. Se attraverso l'opera di Kant il progetto di una conoscenza unitaria di tutti i saperi sulla base del metodo scientifico conobbe il punto più alto, non bisognerebbe mai dimenticare che già in avvio del Settecento, con la critica di Vico a Cartesio, Locke e Newton furono gettate le basi per una differente concezione epistemologica dei saperi fondata invece sulla distinzione tra le scienze dello spirito e le scienze della natura. Θ noto che la conoscenza storica dovette confrontarsi per tutto l'Ottocento con il prestigio del metodo scientifico. In tal senso non si contano gli interventi in ogni angolo d'Europa di quanti ponevano l'interrogativo se la storia fosse da considerarsi una «scienza» o una forma di «arte» imparentata con la retorica e la letteratura. In Italia, nel 1893, Benedetto Croce scrisse un breve saggio dal titolo emblematico, La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte, proprio per rilanciare il tema alla luce della crisi positivistica di fine secolo e per rispondere a un articolo di Pasquale Villari del 1891, tradotto in tedesco e in francese, che chiedeva seccamente: La storia è una scienza? Solo con la geniale sistemazione epistemologica di Droysen, nelle tre edizioni della Historik (l'ultima è del 1882) la questione pareva aver trovato una sistemazione definitiva e convincente prima che esplodesse in Germania il cosiddetto Methodenstreit con gli interventi di Simmel, Dilthey, Rickert e Weber destinato a proporre in termini inediti l'antico dualismo tra le forme di conoscenza.

Droysen aveva chiaramente ribadito nel suo celebre manuale il primato del Verstehen, cioè di una scienza storica intesa come forma di conoscenza che mirava a «comprendere indagando» (Droysen, 1966, p. 341) rispettosa delle specificità del mondo morale, della libertà e volontà dell'uomo come soggetto primario della storia, polemicamente contrapposta ai tentativi dei positivisti alla Buckle di estendere a essa i metodi e gli obiettivi propri delle scienze naturali. La vittoria del modello ermeneutico-interpretativo e la tradizionale separazione tra le scienze dello spirito e le scienze della natura parevano aver avuto definitivamente partita vinta anche sul piano dell'organizzazione degli studi universitari. In realtà basterebbe ripercorrere tutte le complesse vicende e gli echi europei del Methodenstreit per accorgersi del completo rimescolamento di posizioni e di interpretazioni cominciato con la crisi profonda del positivismo e l'avvio di un drammatico processo di revisione dei fondamenti epistemologici dell'immagine della scienza. Soprattutto in Francia dopo i lavori di Mach, di Avenarius, di Duhem, di Boutroux, con le corrosive polemiche di fine secolo di Bergson e di Le Roy contro Poincarè, la stessa tradizionale definizione di scienza venne definitivamente revocata in dubbio. Da insieme statico e normativo di leggi matematiche oggettive e definitive, capaci di spiegazione e di previsione secondo il rigoroso modello deterministico della meccanica razionale galileiana e newtoniana, si cominciò a pensarla come insieme storicamente determinato, di ipotesi e di teorie esplicative di natura convenzionale e probabilistica da verificare empiricamente e quindi eventualmente da «consumare» e sostituire in un lavorio incessante fatto di verità sempre parziali e sempre relative. Il mito positivistico ottocentesco della scienza come verità assoluta fatta di leggi universali, statiche, eterne, che pretendevano di descrivere la realtà come cosa in sé, oggettiva e autonoma dall'osservatore cominciò a vacillare e infine a sgretolarsi a favore di un'immagine della scienza, «umanizzata», definita, invece, a partire anzitutto dal metodo e dalla pratica, dal ruolo creativo del ricercatore che formulava ipotesi e verificava di volta in volte le nuove teorie.

Chi tra i grandi storici ha meglio compreso la rivoluzione intellettuale sviluppatasi soprattutto nel corso dei primi decenni del Novecento e gli esiti che un simile processo di trasformazione della concezione della scienza poteva avere nel ridefinire e rilanciare la stessa legittimità della conoscenza storica è stato certamente Marc Bloch. Il significato autentico e la vera originalità della sua celebre Apologie pour l'histoire ou métier d'historien, scritta durante gli anni terribili della seconda guerra mondiale, sta infatti tutto racchiuso nella difesa a oltranza della fondatezza della conoscenza storica proprio alla luce del rovente dibattito epistemologico degli anni Trenta sulla natura della scienza. Quel testo rappresenta, in tal senso, non solo una sorta di capitolo conclusivo dell'antico confronto degli storici con le scienze naturali, ma anche, e soprattutto, un affascinate manifesto a favore della funzione unitaria di tutte le scienze, di un loro legame metodologico ed epistemologico di fondo incentrato illuministicamente sull'uomo, contro il dogma tedesco del dualismo tra Geistwissenschaften e Naturwissenschaften. Quando, a distanza di mezzo secolo, si leggono quelle pagine acute e ricche di passione civile non bisognerebbe mai dimenticare la cosiddetta «crisi della ragione» al centro della vita intellettuale parigina dei primi decenni del Novecento; i grandi dibattiti organizzati dal Centre de synthèse, nel cui consiglio di amministrazione sedevano, a partire dal 1925, accanto a molti umanisti anche Rutherford, Einstein e Volterra; le settimane di conferenze e i seminari voluti, a partire dal 1929 sino al 1939, da Lucien Febvre, Paul Langevin, Abel Rey, Henri Berr, su temi come Evolution, Civilisation, La relativité, La théorie des quanta, Science et loi, La statistique (Bensaude-Vincent, 1997, pp. 220 ss.). Bloch fece tesoro di tutti quei confronti di altissimo livello, cui parteciparono molti premi Nobel, volti a ridefinire l'idea stessa di razionalità e di conoscenza in tutti i campi del sapere umano per superare definitivamente quella che lui riteneva la secolare predisposizione degli storici a «farsi piccini piccini dinanzi ai loro confratelli del laboratorio», protagonisti delle scienze sperimentali. Di lampeggiante chiarezza è al riguardo il suo programma di lavoro esplicitamente delineato in apertura del volume. Riferendosi all'egemonia esercitata dal vecchio modello positivistico delle scienze del XIX secolo, così egli scriveva:

Oggi la nostra atmosfera mentale non è più quella. La teoria cinetica dei gas, la meccanica einsteiniana, la teoria dei quanta hanno profondamente modificato l'idea che ciascuno, ancora ieri, si faceva della scienza. L'hanno, non impicciolita, ma resa più duttile. In molti punti, hanno sostituito al certo l'infinitamente probabile; al rigorosamente misurabile, il concetto dell'eterna relatività della misura [...]. Siamo dunque ormai molto meglio preparati ad ammettere che una conoscenza possa meritare il crisma di scienza anche se si dichiara incapace di dimostrazioni euclidee o di immutabili leggi di ripetizione. Siamo molto più disposti a concepire la certezza e l'universalità come un problema di gradi. Non avvertiamo più l'imperativo di cercare d'imporre a tutti gli oggetti del sapere un modello intellettuale uniforme, derivato dalle scienze del mondo fisico; poiché anche in queste ultime, tale modello non è più applicato interamente. Non sappiamo ancora con esattezza che cosa diverranno le scienze dell'uomo; sappiamo però che – pur continuando, è ovvio a obbedire alla leggi fondamentali della ragione – non avranno bisogno, per esistere, di rinunziare alla loro originalità, né di vergognarsene (Bloch, 1969, p. 33).

Di conseguenza tutta l' Apologie pour l'histoire è costruita attraverso il costante parallelo tra la scienza della storia e il nuovo modo di concepire le scienze della natura. L'obiettivo dichiarato era quello di sottolineare la comune matrice epistemologica e metodologica tra tutte le forme di conoscenza in grado comunque di costruire ipotesi e teorie destinate ad approdare, attraverso i loro specifici linguaggi e indipendentemente dagli oggetti trattati, «a nuove certezze (o a grandi probabilità) debitamente provate» (Bloch, 1969, p. 85). «La critica storica — precisava Bloch citando Augustin Cournot — non si distingue dalla maggior parte delle altre scienze del reale se non per uno scaglionamento di gradi senza dubbio più sfumato». Anch'essa operava infatti per cercare verità oggettive, formulando ipotesi e congetture a partire da specifici problemi, orientando le sue osservazioni sulla base di una teoria da provare, esaminando attraverso tracce e segni un fenomeno non afferrabile direttamente.

«Poco importa – ribadiva Bloch – che l'oggetto originale sia per sua natura inaccessibile alla sensazione, come l'atomo, la cui traiettoria è visibile nel tubo di Crookes; o che esso sia divenuto tale soltanto oggi, per effetto del tempo, come la felce, morta da millenni, la cui impronta rimane sul blocco di carbon fossile, o come le solennità cadute da lunghissimo tempo in disuso che si vedono istoriate e spiegate sui muri dei templi egizi. In ambedue i casi il processo di ricostruzione è lo stesso e tutte le scienze ne offrono molteplici esempi» (Bloch, 1969, p. 63).

Il mestiere dello storico, i suoi metodi di ricerca della verità, il linguaggio specifico usato andavano insomma ripensati criticamente alla luce delle nuove scoperte della fisica atomica e della meccanica quantistica, della scoperta del principio di indeterminazione, del superamento del concetto di causa, e soprattutto del rilievo dato al nuovo modo di concepire i meccanismi previsionali su basi probabilistiche che mandavano in soffitta la tradizionale concezione di legge e di legalità scientifica. Si potrebbero citare molti esempi in questa direzione presenti nel volumetto di Marc Bloch, incompiuto e apparso postumo nel 1949, dopo la drammatica fine dell'autore torturato a morte dai nazisti. E tuttavia ciò che soprattutto importa per noi non è tanto documentare l'originale difesa dello statuto conoscitivo della storia, quanto constatare che in quel testo risultava assolutamente evidente la precoce consapevolezza da parte di Bloch della rivoluzione epistemologica in atto in quegli anni di grandi scoperte e di innovazioni interpretative scioccanti. Una rivoluzione che stava ridefinendo l'idea stessa di cosa dovesse intendersi per scienza proprio a partire da quelle scoperte e dalla «crisi della ragione classica» di matrice kantiana e newtoniana che esse direttamente alimentavano.

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Pagina XIII

Nel 1934, a Parigi, appariva il libro di Gaston Bachelard, Le nouvel esprit scientifique, che sottolineava, attraverso analisi di tipo psicologico e filosofico, il rilievo dell'attività immaginativa dello scienziato nel fare scienza evidenziando come lo «spirito scientifico» si realizzasse da un punto di vista filosofico in forma discontinua, mediante il superamento di blocchi e ostacoli epistemologici creati continuamente dalle nuove ricerche. Nel testo ricorrevano frequentemente i riferimenti a Heisenberg, de Broglie, Bohr, alla «Schola quantorum», ad Einstein: «Con la relatività, lo spirito scientifico si erige a giudice del proprio passato spirituale», precisava Bachelard delineando la sua originale interpretazione filosofica dell'impresa scientifica (Bachelard, 1978, p. 49). Sempre nel 1934, a Vienna, Karl R. Popper pubblicava il celebre volume Logik der Forschung dove era posto chiaramente il tema cruciale di quegli anni, cioè la demarcazione: che cos'è la scienza? Egli definiva le scienze empiriche come un «sistema di teorie»; reti fatte di ipotesi e di asserzioni universali gettate per catturare il «mondo», per razionalizzarlo e dominarlo. La logica della conoscenza e della scoperta scientifica, intesa come «teoria delle teorie», aveva il suo criterio filosofico di demarcazione nella falsificabilità di queste teorie da tutti i possibili punti di vista, matematico, logico, tecnico: nel loro carattere autocorrettivo per cui tanto più era falsificabile una teoria tanto più cresceva il suo tasso di scientificità, in quanto voleva dire che spiegava di più, avvicinando maggiormente ξl nostro pensiero alla realtà. In forte polemica con le tesi convenzionaliste della scienza, allora molto forti in Francia e in Italia, e soprattutto contro le raffinate concezioni verificazioniste degli esponenti del Circolo di Vienna, fautori di un empirismo logico in cui la scienza si presentava sotto forma di un sistema di enunciati coerenti tra di loro, di asserzioni linguistiche assolutamente certe e irrevocabilmente vere, Popper rivendicava al criterio della falsificabilità il merito di aver superato il classico problema dell'induzione posto da Hume: «Il nostro ragionamento non procede mai da fatti a teorie, se non per confutazioni o "falsificazioni"» scrisse ancora nel 1970. Nei decenni successivi all'apparizione della prima edizione egli continuò implacabile nella sua polemica contro il neopositivismo logico e la riduzione delle scienze empiriche a protocolli enunciativi, a sistemi linguistici da verificare sul piano logico invitando a «smetterla di preoccuparci delle parole e dei loro significati, per preoccuparci invece delle teorie criticabili, dei ragionamenti e della loro validità». L'altro polo polemico del libro di Popper, e più in generale anche di larga parte delle sue opere successive, era certamente il Copenaghen Geist: l'attacco dei fautori della meccanica quantistica al determinismo scientifico, al principio di realtà oggettiva e di legalità scientifica difeso, invece, a oltranza da Einstein. La teoria metafisica di una realtà inconoscibile nel profondo implicita nel principio di complementarità di Bohr lo metteva in grande apprensione circa l'insorgere di una deriva irrazionalistica nel modo stesso di concepire le scienze empiriche. E tuttavia, a ben vedere, la sua opera, nonostante la ricchezza delle questioni trattate, appariva reticente, addirittura monca rispetto all'ampio dibattito in corso nell'Europa di quegli anni. Mancava infatti ogni riferimento al mutamento delle idee nella scienza, al rilievo del contesto storico della scoperta scientifica e alla sua ineludibile relazione con il contesto logico e filosofico della giustificazione; un tema cruciale che proprio allora cominciava ad affascinare storici della scienza, sociologi, filosofi e scienziati decisi ad andare oltre le conclusioni di quanti si richiamavano alle tesi dell'empirismo logico.

Nel 1935, a conferma di come i tempi fossero ormai maturi in questa direzione, apparve il capolavoro del medico-filosofo polacco di origine ebraica Ludwik Fleck, Entstehung und Entwicklung einer wissenschaftlichen Tatsache. Già il titolo suonava come una sfida. Come poteva un fatto scientifico avere una genesi e uno sviluppo? Un fatto era un fatto e nulla più. E invece, ricostruendo puntigliosamente la storia di come era nato il moderno concetto di sifilide dal primo Rinascimento a oggi, Fleck metteva in chiaro i cambiamenti intervenuti nei secoli nel modo di vedere e di interpretare il fenomeno attraverso l'elaborazione di nuove teorie: tutte condizionate di volta in volta dalle suggestioni astrologiche, dai convincimenti politici e religiosi, dai bisogni, dalla strumentazione tecnologica del tempo. Esaminando il succedersi delle teorie, dalle prime ipotesi che vedevano la sifilide come «punizione» fino alla scoperta della reazione Wassermann, Fleck delineava un nuovo modo di pensare alla scienza sulla base del rilievo del contesto storico della scoperta e non solo della sua giustificazione come volevano Popper o gli esponenti del Circolo di Vienna che privilegiavano un modello logico di analisi. Nella creazione di un sapere scientifico i dati non erano mai in alcun modo separabili dalle teorie; e queste ultime erano profondamente condizionate dallo «stile di pensiero» dell'epoca, dal «sistema di credenze» egemone. La scoperta era, in tal senso, innanzitutto il prodotto di un mutamento del «collettivo di pensiero» di una società. L'indagine dello sviluppo storico delle teorie rivelava, infatti, che la scienza, in ultima analisi, risultava essere il prodotto di una comunità intellettuale al lavoro, un fatto pubblico, mai un fatto privato, e che pertanto anche i criteri di razionalità erano figli del tempo e dell'orizzonte culturale degli scienziati. «Ogni conoscenza – scriveva Fleck – è socialmente condizionata». «Non vi è chimico del medioevo che possa intendere un principio della chimica così come lo intendiamo noi e vale, è evidente, anche l'inverso». E ancora, riferendosi all'idea che avevano del fosforo nel Settecento: «Non esiste nella scienza odierna, nessun termine con cui sia possibile rendere questo "fosforo"». Insomma, l'epistemologia elaborata dai fautori di un modello astrattamente logico e filosofico non reggeva assolutamente alla prova dei fatti e dell'analisi storica. Fleck non aveva dubbi in proposito: «La biologia mi ha insegnato ad esaminare sempre storicamente un settore soggetto allo sviluppo. Chi studia oggi l'anatomia senza studiare l'embriologia? Allo stesso modo ogni teoria della conoscenza resta, senza indagini storiche e comparative, un vuoto gioco di parole, una epistemologia imaginabilis». Alla base delle concezioni di Fleck stavano i lavori di Max Weber, Karl Mannheim, Lucien Lévy-Bruhl, Georg Simmel, Wilhelm Wundt; la fruizione delle tesi elaborate dalla Gestalpsychologie secondo cui non aveva alcun senso, dal punto di vista logico e psicologico, un'osservazione priva di presupposti culturali. E tuttavia quelle idee pionieristiche, che sintetizzavano mirabilmente la rivoluzione epistemologica in atto ormai da tempo, non ebbero allora una grande circolazione. Rimasero confinate tra pochi specialisti e bisognò attendere il secondo dopoguerra, e in particolare gli anni Sessanta per vederle affermarsi definitivamente nei dibattiti e nelle convinzioni generali. Solo con il volumetto di Thomas S. Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions del 1962 la rivoluzione epistemologica, destinata a mutare per sempre la nostra tradizionale immagine della scienza ereditata dal positivismo del secolo XIX, poteva dirsi davvero compiuta.

Kuhn poneva al centro della sua ricerca il tema dello sviluppo scientifico e del mutamento delle idee della scienza sulla base di un modello storico di analisi rispetto al classico modello logico e filosofico. Egli identificava, senza esitazioni, il contesto della scoperta con quello della giustificazione. L' Introduzione del libro si apriva, non a caso, con un titolo significativo, Un ruolo per la storia. Ed era infatti la storia della scienza e del conflitto tra le differenti teorie succedutesi nel tempo la protagonista assoluta delle sue riflessioni epistemologiche. Una convinzione profonda questa che verrà ulteriormente ribadita e approfondita anche nei lavori successivi. Allo sviluppo scientifico tutto immaginario dei filosofi, Kuhn contrapponeva una concezione della scienza che procedeva storicamente per rivoluzioni; per momenti di rottura, di forte discontinuità da intendere come autentiche trasformazioni culturali della concezione del mondo cui corrispondevano nuove immagini della scienza: «I segni sulla carta che dapprima erano visti come un uccello, sono ora visti come un antilope o viceversa» egli precisava, facendo indirettamente riferimento alle tesi del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche e alla Gestalpsychologie (Kuhn, 1969, p. 112). La scienza non era un fenomeno logico di tipo cumulativo e continuo, bensì un prodotto storico e sociale di natura discontinua e conflittuale, che dava luogo a teorie e immagini della scienza tra di loro diverse e «incommensurabili», continue approssimazioni umane a una idea relativa e non certo assoluta della verità. «La verità e la falsità sono unicamente ed inequivocabilmente determinate dal confronto delle affermazioni coi fatti» (Kuhn, 1969, p. 106) che sono esaminati. Dal punto di vista dello sviluppo, a fasi di scienza cosiddetta «normale», dominati da teorie vincenti trasformatesi in paradigmi conoscitivi fortemente pervasivi e condizionanti, si alternavano momenti di crisi e di rivoluzione causati da problemi esterni o interni alla comunità scientifica, o da fatti imprevisti come la scoperta dell'ossigeno che avviò la rivoluzione chimica di Lavoisier. Non era ad esempio possibile far derivare la dinamica relativista di Einstein dalla dinamica newtoniana o trovare nessi logici nel passaggio dal geocentrismo all'eliocentrismo, dal flogisto all'ossigeno, dai corpuscoli alle onde. Continuare a parlare di progresso scientifico in senso tradizionale presupponeva una evoluzione verso uno scopo finale. Ma la natura ha uno scopo? «Ogni concezione della natura compatibile con la crescita della scienza in virtù di prove è compatibile con la concezione evolutiva della scienza proposta in questo saggio» precisava Kuhn (1969, p. 208).

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Pagina XVI

Da queste considerazioni è nato un vivace dibattito intellettuale sui fondamenti della conoscenza ancora oggi aperto e impregiudicato che ha visto per protagonisti gli storici della scienza contro i filosofi della scienza. Schierato dalla parte dei primi, Kuhn è stato ingiustamente accusato di relativismo, di aver aperto la strada a derive irrazionalistiche, a forme di misticismo e di anarchia epistemologica avendo affidato il mutamento dei paradigmi e la stessa definizione di scienza soprattutto a ragioni storiche. In realtà il suo libro prendeva finalmente atto che non esiste più da tempo un criterio assoluto per la verificazione delle teorie scientifiche; che non aveva alcun senso continuare a cercare un mitico linguaggio neutro, universale, un linguaggio puramente descrittivo privo di interpretazione. Nell'opinione comune degli studiosi la scienza è infatti ormai concepita ovunque come un conflitto di teorie e di immagini della realtà che non sono certo riassumibili sotto forma di totalità logica delle proposizioni vere. Dopo Kuhn, l'antica tesi di matrice cartesiana riformulata e aggiornata da personaggi autorevoli come Marc Bloch circa l'unità vivente di tutte le scienze, al di là della differenza dei linguaggi specifici e sulla base di un comune metodo di ricerca fondato su ipotesi e prove, non ha più bisogno di essere difesa contro il vecchio schema della distinzione tra Geistwissenschaften e Naturwissenschaften. La tradizionale domanda ottocentesca se la storia sia una scienza o un'arte ha perso definitivamente di senso. Insomma, l'apologia della conoscenza storica – proprio come aveva previsto Bloch – è divenuta a partire dai primi decenni del Novecento più facile da argomentare nel confronto diretto con le altre discipline. Non esiste più una verità assoluta propria delle scienze naturali. Tutti i saperi sono stati ricondotti nell'ambito delle attività umane. Dopo la teologia anche la scienza è stata umanizzata.

Alla luce di queste considerazioni coloro che studiano la storia dell'Illuminismo dovrebbero guardare con maggiore attenzione al lavoro e ai risultati degli storici della scienza in questi ultimi anni. Non solo perché essi hanno eliminato le frontiere tra lo studio delle teorie scientifiche e degli altri fenomeni della cultura, o perché hanno contribuito a ridefinire lo stesso concetto di scienza, a partire da un concetto di verità adeguata agli obiettivi e alle possibilità umane, ma per il rinnovamento introdotto nello stesso studio dell'Illuminismo.

Θ infatti assai difficile condividere oggi le conclusioni riduzionistiche di Ernst Cassirer sull'identità tra la filosofia dell'Illuminismo e il «paradigma della fisica newtoniana» alla base del razionalismo kantiano. Gli studi storici sulla diffusione dell'universo-macchina di Newton in Europa hanno dimostrato il rilievo dei condizionamenti sociali, politici e religiosi nell'affermazione di quel paradigma, mettendo in luce l'esistenza di altre e differenti immagini della scienza (Cfr. M.C. Jacob,1980; Ferrone, 1982). L'analisi del fenomeno storico della rivoluzione scientifica in Occidente nei suoi sviluppi secolari ha rivelato punti di contatto, ma anche divergenze e scarti significativi rispetto agli obiettivi e ai percorsi del movimento dei Lumi. Nel corso del Settecento, come vedremo dettagliatamente nel decimo capitolo, la scienza moderna conobbe processi decisivi dal punto di vista della sua istituzionalizzazione, della definitiva legittimazione come nuova forma di sapere, dei meccanismi di formazione e di professionalizzazione dei suoi protagonisti sulla base di una logica corporativa d'antico regime che, paradossalmente, ne favorì il successo, nonostante esprimesse logiche sociali e istituzionali del passato. Il cambiamento del natural philosopher nel moderno scientist, secondo il modello privatistico della Royal Society, o dei primi dilettanti parigini trasformati nei prestigiosi e privilegiati esponenti dei corps savant, secondo il modello dell' Académie des Sciences, diedero vita alla prima vera comunità scientifica internazionale. Con la nascita di un imponente circuito accademico, per lo più finanziato dai governi, di un sistema di gazzette e di periodici scientifici che teneva informata l'opinione pubblica, con il consolidarsi di un linguaggio e di pratiche comuni e di una identità storica del mondo della scienza attraverso le memorie accademiche e la commemorazione degli scienziati celebri, si crearono le condizioni perché l'Europa potesse assistere a quello che è stato definito il «trionfo delle scienze». Grazie ai successi dei palloni aerostatici dei fratelli Montgolfier, alla rivoluzione chimica di Lavoisier e Priestley, all'elettricismo di Volta, alla nuova meccanica razionale di Lagrange, alle scoperte di Spallanzani, le scienze divennero ovunque un grande fenomeno à la mode. Si trattava tuttavia, come vedremo, di un trionfo pieno di luci e di ombre, segnato da conflitti e contrapposizioni furibonde destinato a mettere in crisi l'identità stessa del moderno scienziato e a porre per la prima volta il tema cruciale, — lo abbiamo già segnalato in avvio — dal punto di vista epistemologico, della demarcazione. Che cos'è la scienza? Chi stabilisce i criteri di verità? Chi è e come si forma lo scienziato? Come impedire che il sapere si trasformi in un insieme di meccanismi di potere e di esclusione attraverso il potente sistema delle accademie e dei suoi privilegi corporativi di antico regime? Brissot de Warville si pose, ad esempio, tutte queste domande nel pamphlet del 1782, intitolato non a caso De la vérité. E non fu certo il solo a farlo. Questi interrogativi, che arroventarono i dibattiti alimentati dalle gazzette e dai periodici dell'intero continente, accompagnati dalla eco di antiche contrapposizioni tra d'Alembert e Diderot, tra Voltaire e Rousseau, risuonarono forti nello scontro frenetico degli anni Ottanta tra Marat e Brissot, vicini alle tesi di Mesmer, e Condorcet e Vicq d'Azyr, fautori, viceversa, del paradigma galileiano e newtoniano, sintetizzabile nel rispetto della triade «numero, pondere et mensura». Lungi dal segnare la fine dell'Illuminismo come è stato scritto (Darnton, 2005)19, quel confronto tra modi diversi di concepire la professione dello scienziato a partire da una contrapposta concezione vitalistica e organicistica della natura di origine baconiana e il meccanicismo fisico-matematico del paradigma newtoniano, chiariva, invece, definitiamente l'errore di chi vorrebbe ancora oggi identificare l'Illuminismo con un solo paradigma scientifico e soprattutto con un solo criterio di razionalità e di demarcazione secondo schemi elaborati da Hegel e rilanciati, seppure con un giudizio diverso, da Cassirer e dai suoi epigoni.

Il fatto che il mondo dei Lumi si sia spaccato verticalmente su questi temi, arrivando a ipotizzare differenti immagini della scienza, dovrebbe far maggiormente riflettere storici e filosofi. Alla base di quel mondo stava infatti un modo del tutto nuovo di pensare alla conoscenza e comunque non certo riconducibile al solo razionalismo dei Principia newtoniani. Uno stile di pensiero originale fondato sulla centralità dell'uomo, sulla dimensione empirica della conoscenza, sulla autonomia dell'individuo, naturalmente libero e responsabile. Il progetto epistemologico e filosofico di quella straordinaria macchina da guerra intellettuale che fu l' Encyclopédie nacque come espressione diretta di questo nuovo stile di pensiero. Diderot e d'Alembert delinearono consapevolmente, e in linea con convinzioni allora assai diffuse, un albero dei saperi che non mirava affatto a rintracciare la mano di Dio nel mondo, come si era sempre fatto nelle precedenti enciclopedie a cominciare da Bacone e dal suo progetto della instauratio magna, ma piuttosto a studiare gli uomini all'opera, intenti a costruirsi la propria felicità. La conoscenza era infatti raggiunta non già attraverso la Rivelazione o la religione, bensì attraverso i sensi e la riflessione. All'origine di tutti i saperi stava l'uomo. Alla ragione era assegnato il compito di agente ordinatore, in grado di combinare i dati empirici prodotti dalle facoltà sorelle, memoria e immaginazione. La rappresentazione grafica dell'albero non lasciava dubbi al riguardo. Se la filosofia formava il tronco principale, divenendo lo strumento conoscitivo per eccellenza, la teologia era invece impietosamente detronizzata e relegata in un piccolo ramo periferico, addirittura accanto alla magia nera (Darnton, 1988, pp. 233 ss). Il risultato finale costituiva una vera e propria rivoluzione epistemologica: la pubblica consacrazione di una nuova concezione del mondo e della conoscenza umana. Nel quinto tomo, apparso nel 1755, Diderot dava onestamente conto delle difficoltà incontrate nel trovare una sintesi plausibile tra differenti immagini della scienza come la sua, fondata su una idea vitalistica e trasformistica della natura, rispetto e quella costruita sul fenomenismo matematico del newtoniano e meccanicista d'Alembert. La speranza di pervenire a un metodo definitivo e sicuro nel sistema della conoscenze era ben presto svanita alla prova concreta dei fatti. Quella che noi oggi chiamiamo modernità si stava infatti rivelando anzitutto come un cantiere aperto, un laboratorio affascinante, ma privo di certezze assolute. Tutte le classificazioni possibili celavano comunque un tratto evidente di arbitrarietà: l'universo – come ammetteva Diderot – poteva essere «rappresentato sotto una infinità di punti di vista». Come negare l'incompatibilità evidente tra ordine storico e ordine filosofico dei procedimenti intellettuali se anche il «positivista» d'Alembert ormai lo ammetteva apertamente? La constatazione che ogni classificazione enciclopedica era filia temporis divenne ben presto un luogo comune tra gli illuministi che s'ingegnarono a studiare storicamente i nessi evidenti tra la nascita e lo sviluppo delle scienze e l'ordine sociale e politico delle civiltà (cfr. capitolo 3). Da qui il fatto nuovo e decisivo rispetto al modo con cui era stata sino ad allora interpretata la Rivoluzione scientifica: e cioè l'assunzione dell'assoluta centralità dell'individuo come criterio di costruzione e definizione dei saperi, associato al principio dell'utilità delle scienze per l'emancipazione. «L'uomo è il termine unico dal quale occorre partire e al qual occorre far capo», spiegava con toni appassionati Diderot proprio nella voce enciclopedia:

Se si bandisce l'uomo – essere pensante e contemplante – dalla superficie della terra, lo spettacolo sublime e patetico della natura non è più che una scena triste e muta; l'universo tace, è invaso dal silenzio e dalla notte. Tutto si muta in gran solitudine, ove i fenomeni, inosservati, si susseguono in modo oscuro e sordo. Soltanto la presenza dell'uomo rende interessante l'esistenza degli esseri: qual proposito può essere migliore, per chi voglia far la storia di questi esseri, che l'accettare siffatta considerazione? Perché non introdurre l'uomo nell'opera nostra, allo stesso posto che occupa nell'universo? Perché non farne un centro comune? V'è forse nell'infinito spazio qualche altro punto dal quale si possono tracciare, con maggior profitto, le linee immense che ci proponiamo di estendere a tutti gli altri punti? Qual viva e dolce reazione ne scaturirà da parte degli esseri verso l'uomo e da parte dell'uomo verso gli esseri! Questo, appunto, ci ha indotto a fondare sulle principali facoltà dell'uomo la partizione generale sulla quale abbiamo modellato l'opera nostra.

Meglio non si sarebbe forse potuto sintetizzare, dal punto di vista epistemologico, il trionfo dell'individuo, la nascita dell'umanesimo illuministico dei moderni e la sua originale interpretazione della Rivoluzione scientifica per cui le scienze erano tutte definite e valutate in funzione dell'uomo e non viceversa, come avvenne poi nella successiva stagione positivista quando l'accelerarsi dei processi di professionalizzazione mutò ogni cosa trasformando la scienza in una sorta di religione secolarizzata dedita al culto del mito del progresso. A tal proposito si dimentica troppo spesso che solo nel corso del XVIII secolo apparvero e divennero di uso comune espressioni nuove e ricche di significato come scienze dell'uomo, civiltà, opinione pubblica. In merito alla prima, ancora troppo poco studiata, aveva cominciato David Hume nel suo Treatise of Human Nature del 1739 a invocare l'estensione del metodo sperimentale a una futura «science of man», poi era venuto il turno di Mandeville, di Montesquieu, di Rousseau e di tanti altri come Genovesi e Beccaria a chiedere di approfondire la conoscenza scientifica dell'essere umano come individuo e nella sua dimensione sociale con lo scopo di ridefinire la morale e la politica. E il fenomeno non era solo un fatto linguistico. Rispetto al secolo precedente dominato dalla scienze naturali, dal primato del linguaggio fisico-matematico, il Settecento e la cultura dei Lumi allargarono il dominio operativo della Rivoluzione scientifica a mondi inesplorati: diedero in effetti vita a discipline originali come l'economia politica; gettarono le basi moderne e razionali della sociologia e dell'antropologia: trasformarono profondamente la storia e il diritto, ripensando le fondamenta teoriche di ambedue a partire dal soggetto. La stessa dirompente invenzione dei diritti dell'uomo appartiene agli sviluppi storici di questo inedito sistema culturale. L'umanizzazione dei saperi comportò inevitabilmente la riflessione sui limiti e la finitudine dell'individuo. Un grande dibattito intellettuale si sviluppò sull'argomento nel corso del XVIII secolo in tutto il continente europeo. Il tenace e poderoso tentativo di dar vita a un grande processo di riforme e di cambiamento dell'Antico Regime anche quando appariva dominato dall'utopia, si accompagnò sempre alla consapevolezza dei limiti umani. Valga come esempio il caso di Voltaire. Non si contano in questa direzione le pagine in cui l'autore di Candide ribadiva ostinatamente il tema della limitatezza del pensiero e dello spirito umano invocando l'appoggio dell'amatissimo Montaigne e della riscoperta moderna dello scetticismo degli antichi: «Θ impossibile — scriveva nella voce anima del suo celebre Dizionario filosofico — a noi esseri limitati, sapere se il nostro intelletto è sostanza o facoltà. Noi non possiamo conoscere a fondo né l'essere esteso, né l'essere pensante, né il meccanismo stesso del pensiero», né, più di tutto, le cause ultime del nostro destino. In quanto alla presunta ideologia acritica del progresso inarrestabile dell'uomo che avrebbe contraddistinto la cultura dei Lumi, va ricordato che esso non venne quasi mai concepito nel corso del Settecento come motore onnipresente della storia, destino dell'umanità, deterministica legge dell'universo, ma solo come una possibilità: una grande opportunità concessa dalla natura all'uomo. Condorcet e Kant sono delle eccezioni con la loro fede sul miglioramento inevitabile dell'umanità. Ancora una volta fu lo stesso Voltaire a dare voce a un comune sentire molto diffuso tra gli illuministi ribadendo che «a secoli di civiltà seguono secoli di barbarie. Barbarie che poi viene vinta, ma può sempre ricomparire: e come l'alternarsi continuo del giorno e della notte». Stava quindi all'uomo libero assumersi la parte di responsabilità del suo destino investendo sulla perfettibilità naturale dell'essere. C'è, infine — ultimo mito da sfatare di una immagine datata e falsa dei Lumi —, assai poco eudemonismo nelle parole di chi, come Voltaire, non esitò mai a definire gli uomini, ridicoli, stravaganti, sanguinari, abominevoli, addirittura «fango di questo mondo», «deboli creature perdute nell'immensità e impercettibili al resto dell'universo»: arrivando persino a parlare della vita come «esistenza penosa e passeggera».

E tuttavia sta forse proprio in questa immagine dell'umanità inattesa, realistica e dolente, il senso ultimo dell'umanesimo illuministico. Uno stile di pensiero e un sistema culturale che ha trasformato la civiltà europea da molti punti di vista avviando una riflessione tuttora attuale sulle straordinarie potenzialità e gli enormi rischi della scienza; cominciando a meditare sulle conseguenze ultime e dirompenti della drammatica presa di coscienza della finitudine dell'uomo, del suo ineludibile e contraddittorio oscillare tra promesse di felicità e fatalità del male.

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